segnalato da barbarasiberiana
Di Laura Zangarini – 27esimaora.corriere.it, 24/11/2014
Damiano Rizzi dopo la morte della sorella Tiziana, uccisa dal marito nel 2013, ha fondato Tiziana vive, rete di cui fanno parte Soleterre, Pangea, Amici dei Bambini, l’Isola che non c’è e Altreconomia attive da diversi anni con progetti concreti e attività culturali per prevenire e contrastare la violenza nei confronti di donne e bambini in Italia e in diverse aree del mondo.
Per 36 anni ho avuto una sorella. Si chiamava Tiziana, è morta il 9 luglio 2013. L’ha uccisa suo marito, il padre di suo figlio, con un coltello.
Nel 2001 Damiano Rizzi ha fondato con altre cinque persone l’associazione Soleterre-Strategie di pace Onlus, di cui è presidente. Ha lavorato e coordinato progetti di sviluppo umano in Bosnia Herzegovina, Kosovo, Costa d’Avorio, Albania, Romania, Marocco, Moldavia. Per le iniziative a favore di bambini poveri e malati di cancro in Ucraina ha ottenuto con l’associazione la targa d’argento della Presidenza della Repubblica Italiana.
Ma la guerra non guarda in faccia nessuno. Ed è entrata anche in casa sua.
Il 9 luglio 2013, alle 4.55 del mattino, lo chiama sua madre. «Non abbiamo più Tiziana» gli dice. La prima reazione? «È stata fredda, di grande distacco, quasi di rifiuto. È l’unica opzione per staccarsi da qualcosa di talmente doloroso da non permettere di sopravvivere». È Damiano, con il padre, a fare il riconoscimento del cadavere di Tiziana all’obitorio. «Me la fanno vedere con il collo coperto. L’esame autoptico dirà che l’assassino ha tentato ripetutamente di decapitarla».
Per parlare di femminicidio e di violenza sulle donne ancora oggi si usano termini come “delitti d’impeto”, “momento di follia”, “raptus”. Ma il loro vero nome è “delitti annunciati”, figli di una cultura patriarcale che nel nostro Paese stenta a morire. Un Paese in cui il “delitto d’onore” è stato cancellato dal codice penale solo nel 1981, la riforma del diritto di famiglia risale al 1975, e lo stupro, fino al 1996, era classificato tra i “reati contro la morale”
«Il diritto alla vita è prima di ogni altra cosa, prima delle norme degli Stati, dei precetti della Chiesa, dei commi della Legge – prosegue Damiano –. Al funerale di Tiziana il prete mi ha detto che la strada da percorrere è lunga. Che i laici devono collaborare. Gli ho risposto che la Chiesa e la sua idea di famiglia, svuotata delle parole di Cristo che parla di amore tra individui, rischia di creare dolore e morte. La Chiesa ha grandi responsabilità e ignora la laicità dello Stato italiano. Un’ingerenza che nasconde un altro grande tabù da abbattere: l’idea di una famiglia in cui la donna deve sottostare all’uomo».
Cosa prova una famiglia che si trova nella sua situazione? «Il dramma più grande è la mancanza totale di empatia umana – risponde –. Il “sistema” e la sua falsa “umanità” finiscono per renderti vittima più volte. Il medico legale che ha assistito, per la nostra famiglia, all’autopsia, prima ancora di dirmi come era morta Tiziana, se aveva sofferto, quali erano le conclusioni, mi ha chiesto i dati per emettere la fattura. In quel momento, per la prima volta, ho pianto».
Nella nostra cultura è normale uccidere in tempo di guerra. Se il femminicidio è normale, allora è una guerra. In Italia ogni tre giorni viene uccisa una donna. Ci si chiede, come accadde per i delitti di mafia, se non siano necessarie leggi speciali
Non va meglio nell’aula di giustizia. «Alla prima udienza davanti al giudice – racconta Damiano – l’assassino e le vittime, noi, la famiglia di Tiziana, eravamo seduti a pochi passi, in una piccola stanza. L’assistente del giudice non sapeva nemmeno chi fossi: mi ha chiesto la carta di identità. Io stesso non sono mai stato interrogato. È giusto mettere vittime e carnefice nella stessa stanza? È giusto ritenere che io e la mia famiglia non avessimo nulla di rilevante da dire su mia sorella e sul suo assassino? Magistrati a cui ho chiesto che contributo avrei potuto dare, mi hanno risposto che questi processi – i processi per femminicidio – sono ormai atti d’ufficio. Atti d’ufficio? Uccidere barbaramente la propria moglie è un reato che non può essere trattato senza l’eccezionale attenzione che merita. Altrimenti il messaggio che passa è che la vita di una donna vale quanto un atto d’ufficio.Un avvocato, uno dei nostri, una volta mi ha detto: “Non faccia la vittima”. Ma io sono la vittima! Mia sorella è morta, non c’è più. È vittima anche chi rimane».
La prima causa degli omicidi di donne tra i 16 e i 44 anni nasce da una violenza subita da parte di persone con cui hanno relazioni affettive e di intimità
Cosa accomuna secondo lei le storie di femminicidio? «La disumanizzazione. Che nella relazione uomo-donna passa attraverso l’idea che quest’ultima sia un oggetto. La donna è roba, è possesso dell’uomo. Senza parità di condizioni non ci sarà mai giustizia. Nella civiltà occidentale gli uomini scrivono la storia e dettano l’ideologia. Il linguaggio maschile è il genere considerato universale. Il genere ci definisce rispetto a identità sociale e sessualità, i ruoli e le rappresentazioni di genere indicano i comportamenti che le diverse culture ritengono appropriati per maschi e femmine. È arrivato il momento di costruire un nuovo modello di uomo che sappia mantenere relazioni paritarie non dominanti e aggressive nei confronti delle donne. Se vogliamo essere veri uomini dobbiamo cambiare».
Secondo il “Gender Gap”, curato dal World Economic Forum, del miliardo e 300 milioni di persone che vivono in povertà il 70% è costituito da donne, che rappresentano i due terzi di analfabeti nel mondo. Nei Paesi in via di sviluppo è da tempo in atto il cosiddetto fenomeno della “femminilizzazione della povertà”, che ha determinato in pochi anni un aumento del 50% la popolazione femminile che vive sotto la soglia di povertà, un fenomeno dovuto anche all’ingiusto trattamento riservato alle donne nel mercato del lavoro (cosa che accade anche nel mondo occidentale). Le donne sono soggette a violenze che si declinano in maniera differente a seconda del Paese in cui vivono, ma sono tutte riconducibili ad un’unica parola: femminicidio.
Perché ha deciso di parlare? Perché ha scritto “La guerra a casa” (ed. Altraeconomia)?«Perché la nostra realtà culturale vorrebbe il silenzio, magari anche uno sconto di pena per chi ha ucciso. Vorrebbe il silenzio dei familiari. Io invece voglio parlare. Perché il Paese in cui sono nato continua a essere duramente rimproverato dalla comunità internazionale per scarsa legiferazione in materia di femminicidio. L’idea che la vittima debba tacere è quello che vuole chi ha ucciso». Le istituzioni tendono a sminuire il problema. Non c’è un ministero per le Pari Opportunità: la delega oggi ce l’ha Matteo Renzi. «Non si tratta di un’omissione simbolica: ci sono in gioco provvedimenti concreti, programmi da finanziare. La violenza contro le donne non è tra le priorità dell’agenda nazionale: eppure lo Stato italiano dovrebbe considerarla un problema “politico”, non una questione privata e di cronaca nera; un fenomeno sociale strutturato e non un’emergenza occasionale».
Il comitato CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) dell’Onu, nel 2011, ha “bacchettato” l’Italia preoccupato “per l’elevato numero di donne uccise da partner ed ex partner (femminicidi), che può indicare un fallimento delle autorità dello Stato a proteggere adeguatamente le vittime”
Da dove si comincia? Come ci si salva? «Ci si salva non facendo finta di niente. Ci si salva cominciando dalla scuola e dalla prevenzione. Ci si salva finanziando in mondo continuativo i centri antiviolenza, realtà eroiche che spesso operano in assoluta precarietà: l’attuale situazione politica ed economica del nostro Paese non può essere utilizzata per giustificare il calo di attenzione e di risorse destinate alla lotta contro la violenza su donne e bambine. Nei paesi e nei luoghi dove si sono messe in pratica con continuità queste linee guida le cose sono davvero migliorate. Lo dimostrano i numeri. Ci si salva formando avvocati, magistrati, giudici. Dietro alle norme e alle procedure deve esserci un trattamento speciale per i casi di violenza e per i femminicidi. Altrimenti altre donne moriranno e ne saremo tutti responsabili, nessuno escluso. Ci si salva parlando, anche con gli esperti di “Tiziana Vive” (tizianavive.org), la rete che dopo la morte di mia sorella ho fondato con i suoi amici. Come molte altre donne, Tiziana non aveva la piena consapevolezza della propria situazione. Non aveva mai denunciato violenze. Grazie all’associazione a lei intitolata, in un anno tre ragazze hanno trovato la forza di lasciare un compagno violento. 3-1 per noi».
Leggi anche:
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Bel post.
Brave, brave!
ti andrebbe una cena così, mon tresor?