Month: aprile 2016

Nuit debout

segnalato da Barbara G.

Proteste, indignati e riforma del lavoro: che succede nella Francia della Nuit Debout?

Continua a Parigi la protesta degli indignati francesi contro la riforma del lavoro all’Italiana

di Michele Azzu – fanpage.it, 28/04/2016

È ormai un mese che la Francia si sveglia di notte. Dal 31 marzo, infatti, le piazze di Parigi – e inizialmente anche di Tolosa, Lione, Nantes, Marsiglia e perfino Bruxelles – vengono occupate la sera dai manifestanti della “Nuit debout”, un movimento popolare di protesta nato a seguito della manifestazione del 31 marzo scorso, contro la riforma del lavoro voluta del premier francese Manuel Valls.

Quella manifestazione, che portò nelle piazze di Parigi tra le 400mila e il milione di persone era stata organizzata da sindacati e studenti, più qualche movimento di estrema sinistra. Finito il corteo, qualche centinaio di dimostranti decise di rimanere in piazza, con tende e sacchi a pelo. Per continuare a parlare e fare assemblea, alla stessa maniera degli “indignados” spagnoli del 2011 e delle manifestazioni americane di “Occupy Wall Street”.

La protesta ancora oggi continua. Nonostante i numerosi sgomberi effettuati dalle forze dell’ordine francesi, i manifestanti continuano a ritrovarsi in Place de la République a Parigi, ogni sera, e spesso si contano anche 3.000 presenze. Ci sono concerti e assemble – dove si ascolta con la disciplina dei movimenti indignati, senza applaudire – laboratori di arte e di solidarietà ed accoglienza per i rifugiati. Senza leader, gerarchie, né etichette. Ma con curati account su Twitter, Facebook e Snapchat, a raccontare in diretta.

Le ragioni? Inizialmente, bloccare la riforma del lavoro sui “licenziamenti facili”, simile a quella approvata in Italia un anno fa da Matteo Renzi. Ma col passare dei giorni sono sorte altre tematiche. Dall’opposizione alla finanza e alla corruzione, al welfare, alle case popolari alla democrazia partecipata. Insomma, quelle rivendicazioni che negli anni recenti hanno portato, pur in forme diverse, alla nascita dei movimenti “Podemos” in Spagna e “Syriza” in Grecia.

LA RIFORMA DEL LAVORO FRANCESE. Si diceva, la manifestazione del 31 marzo scorso è partita dai sindacati, storicamente forti in Francia, capaci anche in tempi recenti di organizzare proteste importanti come quella dei lavoratori della Renault o alla Goodyear, in cui gli operai diedero fuoco ai copertoni dei trattori. E come dimenticare, lo scorso ottobre, le foto dei dirigenti di Air France che fuggivano sulle cancellate, strappandosi la camicia, per non farsi prendere dalla furia dei lavoratori?

In questo contesto è chiaro che una riforma del lavoro come quella del governo Valls ha suscitato forti reazioni. La “Legge Kohmri”, che porta il nome dell’attuale ministro del lavoro francese, interviene principalmente su 3 punti:

• I licenziamenti economici. Si vogliono rendere più facili rispetto alla normativa attuale che prevede casi ristretti e l’intervento del giudice. Con questa riforma, invece, un’azienda che dichiara la riduzione del suo giro d’affari per quattro trimestri di seguito può licenziare i dipendenti per motivi economici, e senza giudici. E questo dà praticamente mano libera alle aziende (anche se il governo dice che aumenteranno i controlli).

• Le indennità. Con la normativa attuale un giudice può decidere il reintegro di un lavoratore licenziato ingiustamente, oppure un risarcimento a sua discrezione senza alcun tetto. Ora il governo propone dei tetti, che però a seguito delle proteste sono diventati solo “indicativi” e non obbligatori: si va dalle 12 mensilità di risarcimento per chi ha un’anzianità lavoro di 10-20 anni, 9 mesi per 5-10 anni e via a diminuire.

• Le 35 ore di lavoro settimanali. È il limite attuale di lavoro in Francia, oltre cui le ore successive vengono pagate di più (anche se esistono già delle deroghe). Con la riforma di Valls, invece, le ore aumenterebbero, e gli straordinari verrebbero pagati molto meno: mentre adesso le prime 8 ore dopo le 35 vengono pagate il 25% in più, e a seguire il 50% in più, con la riforma l’aumento sarebbe solo del 10%.

LE DIFFERENZE COL “JOBS ACT” ITALIANO. Anche se molti hanno parlato di un “Jobs Act alla francese” in realtà le differenze con la riforma di Matteo Renzi sono numerose. Anzitutto sul metodo: il governo francese ha vagliato gli interventi per mesi coi sindacati, e ha affermato che la riforma si farà unicamente con la loro firma. In Italia, questi sono stati totalmente esclusi dalla riforma. Inoltre, con le recenti manifestazioni della Fiom, si denuncia una situazione in cui la contrattazione sindacale in Italia è in completo stallo.

Sulla riforma, poi, la Francia ha inserito anche punti a favore dei lavoratori, come la formazione continua. E il diritto alla “disconnessione”, per cui fuori dall’orario di lavoro i dipendenti possono rifiutarsi di rispondere a telefonate o email. In Italia, al contrario, si è permesso all’azienda il controllo a distanza dei propri dipendenti sui dispositivi elettronici. Il governo francese introduce, inoltre, un “conto personale di attività”, che permette a chi perde il lavoro di mantenere i diritti assistenziali, previdenziali e sanitari. Nel Jobs act italiano questo non c’è.

Anche se la ratio è simile – rendere i licenziamenti più facili e spostare l’equilibrio dei rapporti a favore dell’azienda – in Francia manca tutta la parte sul precariato. Già, perché in Italia il Jobs Act oltre a rendere più facili i licenziamenti cancellando l’articolo 18, ha anche liberalizzato i contratti a tempo estendendoli a 3 anni, e ha allargato erga omnes i voucher, in assoluto la forma più precaria di lavoro – poco più di un buono pasto – perché prescinde da ogni contratto. Di tutta questa parte sul precariato selvaggio, nella riforma francese, non c’è l’ombra.

LA PROTESTA CONTINUA E CRESCE. La protesta della “Nuit Debout” continua ancora oggi e i partecipanti aumentano, nonostante sui media se ne parli molto poco (sia per la difficoltà di seguire eventi in lingua francese, sia per un chiaro disinteresse di molti media ed establishment). Ci sono stati alcuni arresti per vandalismo e per gli scontri dei primi giorni – 130 persone fermate a Parigi – ma da allora la protesta continua pacifica.

È difficile per ora capire se la Nuit Debout potrà crescere ulteriormente, spegnersi col tempo, o dare vita ad un progetto politico come in Spagna con Podemos. Anche perché, per quanto nuovo, questo movimento parte anche da collettivi già noti di estrema sinistra, come “Convergence des luttes” del giornalista François Ruffin – autore del noto documentario contro il capitalismo “Merci Patron” – e dell’economista Frédéric Lordon.

I manifestanti hanno lanciato online una petizione che ha quasi raggiunto 100mila firme per poter tenere gli accampamenti a Place de la République, mentre si continua con le manifestazioni e si attende qualcosa di importante per il 1 maggio, festa dei lavoratori. Intanto, qualcosa i giovani l’hanno già ottenuta dal governo (la cui popolarità è in caduta libera). 500 milioni di euro per studenti e i giovani lavoratori. Poca cosa per fare la rivoluzione. Ma forse basterà per far passare la riforma del lavoro e i licenziamenti facili.

 

Io voglio la donna giusta

Susan Sarandon

Susan Sarandon: “La mia Hollywood ha il cuore che batte solo per Sanders”

L’attrice e icona liberal racconta il suo impegno nella sfida democratica: “Dobbiamo tutti dire no al potere delle lobby incarnato da Hillary”.

di Silvia Bizio – Repubblica.it, 24 aprile 2016

Susan Sarandon è da sempre la pasionaria di Hollywood, lo spirito della sinistra americana fatto persona. Per questo da anni – insieme a star come Tim Robbins, suo ex compagno, e Sean Penn – si batte sia per i diritti civili che contro il militarismo di Washington, contro guerre come quella in Iraq. In questi ultimi mesi, però, la sua battaglia è tutta per il più progressista, tra i candidati alla presidenza: il democratico Bernie Sanders. L’abbiamo incontrata al Four Seasons Hotel di Los Angeles, per parlare del suo impegno elettorale e del perché non bisogna arrendersi: non solo davanti a una cinepresa, ma anche nel provare a cambiare le cose.

Susan, è lei la vera portavoce di Sanders…
“Cerco di fargli avere maggiore visibilità, visto che rispetto a Donald Trump e a Hillary Clinton è meno seguito dai media. In tutta la vita, non ho mai visto un candidato attivo in politica da tanto tempo che non abbia mai accettato soldi dall’industria farmaceutica, pertrolifera o da Wall Street. Quando si è candidato per le primarie, l’ho chiamato e gli ho detto, “Bernie, faccio tutto quello che vuoi!”. E sono subito andata in Iowa per i caucus”.

Clooney si è “pentito” del sostegno a Hillary: perché non piace più alle star liberal?
“Per quanto mi riguarda per la guerra, soprattutto. Sanders ha sempre parlato contro i nostri troppo facili interventi bellici. Ed è per il motivo uguale e contrario che ho smesso di credere in Hillary Clinton. Sanders è uno che non si mette a difendere i diritti dei gay quando è comodo: lo ha sempre fatto. Affronta i problemi quando non sono di moda, non esita ad affermare che i ricchi devono pagare più tasse, si batte per alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora. Ne parlava quando si diceva fosse impossibile, e ora sta succedendo. Hillary è andata ad appoggiare la proposta di aumentare il salario minimo a 15 dollari a New York accanto al governatore, prendendosi il merito”.

E sull’ambiente, che sta tanto a cuore anche ad altre star (Leonardo di Caprio, ad esempio), chi la convince?
“Ora Hillary dice di appoggiare nello stato di New York la legislazione anti fracking, la trivellazione idraulica, pericolosissima per l’ambiente. Ma in realtà ha incoraggiato il fracking in tutto il mondo”.

Sanders, nonostante la sua età, ha risvegliato la coscienza politica di tanti giovani: secondo lei perché?
“Non parla come un politico, dice le cose come stanno e offre spiragli di un idealismo perduto su temi come la vera eguaglianza, la solidarietà sociale e il rigetto delle lobby e dei poteri forti. I giovani elettori sentono fortemente il suo messaggio”.

E Obama?
“Credo che il suo errore sia stato lasciare il movimento spontaneo, che noi chiamiamo “grass-root”, sul prato della Casa Bianca: ha smesso di coinvolgere il popolo nel suo modo di amministrare il paese. Molti giovani si sono disaffezionati”.

E se la Clinton dovesse vincere la candidatura?
“Gli ambientalisti e i verdi non la sosterranno. E piuttosto di votare per lei i giovani non andranno a votare”.

Ma come donna ha mai sentito la contraddizione di non appoggiare una donna “for President”?
“Io voglio la donna giusta. Hillary non rappresenta niente di quello che a me sta a cuore. Penso che a un certo punto avremo una donna, ma quella donna non dovrà essere incredibilmente ricca e non dovrà essere sposata a un ex presidente per diventare presidente. Ci sono tanti paesi che hanno donne leader, il nostro non sarebbe il primo paese nella storia del mondo: ma è più importante avere la persona migliore”.

Lei ha dichiarato che tra Hillary e Trump, sarebbe quasi meglio Trump. Era una provocazione. Ma se Trump diventasse davvero presidente?
“Impossibile. Cruz almeno ha qualche idea, Trump è solo un finto politico che vuole vincere e che riduce tutto a sport e spettacolo”.

Un altro fronte su cui alcune star di Hollywood, come Angelina Jolie, si stanno impegnando, è quello dei profughi che arrivano in Europa.
“Sono stata in Grecia lo scorso Natale per 10 giorni. Rispetto agli altri posti in cui sono stata dopo i disastri, dal Nepal ad Haiti, dove sapevi già arrivando quanti erano i morti e cosa andava fatto, quello che ho visto in Grecia mi ha angosciato di più: un costante flusso imprevedibile di disperazione. Bisogna che tutti noi facciamo di più”.

Il nucleare francese travolto dai debiti

segnalato da Barbara G.

Il nucleare francese travolto dai debiti. «La probabilità di un incidente non è mai stata così elevata»

Realacci: «Lo stop al nucleare ha salvato Enel. Il futuro: innovazione risparmio energetico e rinnovabili»

greenreport.it, 26/04/2016

Secondo i no-nuke francesi di Réseau “Sortir du nucléaire“  e l’Autorité de sûreté nucléaire, a 30 anni dal disastro nucleare di Chernobyl, «Un grosso incidente nucleare è possibile in Francia e la sua probabilità non è mai stata così elevata», anche perché EDF sta crollando sotto il peso dei suoi debiti atomici. Per evitare questo scenario da incubo il governo francese è corso in aiuto della compagnia elettrica – della quale detiene l’85% – con un finanziamento che copre i tre quarti della ricapitalizzazione da 4 miliardi del gigante nucleare. Liberation dice che questo «permetterà all’impresa di evitare il peggio e di assicurare le fini del mese per due o tre mesi a venire. Ma dopo? Questo piano di emergenza non risponde evidentemente a tutti gli interrogativi sullo stato di salute reale dell’impresa EDF».  E infatti EDF è crolla in Borsa a Parigi, perdendo l’11,1%,nella prima seduta dopo l’annuncio dell’aumento di capitale e il mercato ha quindi bocciato la politica del governo francese per salvare quella che ormai sembra un’industria decotta, pericolosa e costosissima da dismettere. Il gruppo guidato da Jean-Bernard Levy, che in Italia controlla Edison, è in grandi difficoltà dopo la decisione di rilevare, per circa 2,5 miliardi, le attività di progettazione e costruzione dell’altro colosso del nucleare statale Areva, anche lui nei guai per investimenti sbagliati nelle miniere di uranio.

Réseau “Sortir du nucléaire“ evidenzia: «Benché i due terzi dei reattori francesi abbiano superato i  30 anni di funzionamento e che numerose attrezzature diano dei segni di affaticamento, EDF, con l’appoggio del governo, vuole prolungare la loro durata di sfruttamento fino a 60 anni. Mentre è esploso il ricorso ai sub-appalti, la compagnia non è più nemmeno in grado di assicurare una manutenzione corretta dei suoi impianti, come ha dimostrato recentemente la caduta di un generatore di vapore di 465 tonnellate nella centrale nucleare di Paluel. Quasi in fallimento, EDF pretende pertanto di continuare la sua fuga in avanti!»

Liberation ricorda che «Appena un anno fa, EDF era ancora presentata come un’impresa tra le più solide. Sufficiente in ogni caso per essere chiamata a svolgere il ruolo di “pompiere del nucleare francese”».  Nel 2015 aveva già perdite per 5 miliardi di euro e sta soffrendo per il calo del prezzo dell’energia dovuto al crollo di quello del petrolio. Ora EDF «E’  un gruppo tra i più indebitati», come ha ammesso lo stesso Jean-Bernard Lévy.

Il problema è che il gruppo nucleare di Stato dovrebbe investire più di 100 miliardi di euro per  le sue centrali nucleari, 50 miliardi dei quali destinati al “grand carénage”, i lavori indispensabili pèer prolungare la vita delle vecchie centrali nucleari francesi entrate in servizio negli anni ’80 e che arriveranno a fine vita tra il 2019 e il 2025.  EDF deve anche trovare 23 miliardi di euro per smantella re I reattori nucleari ancora piùà vecchi, un ammontare stratosferico che però la Corte dei Conti francese ha giudicato insufficiente, stimando che il solo prolungamento della vita delle centrali costerà fino a 100 miliardi di euro, mentre la Commissione europea dice che per lo smantellamento potrebbero volerci 74 miliardi di euro, compreso lo smaltimento delle scorie radioattive.

Mentre i debiti soffocano il nucleare francese, EDF sta finanziando, per almeno 15 miliardi di euro, due nuovi reattori EPR per la centrale nucleare britannica di Hinkley Point  e i partner cinesi dell’impresa si sono impegnati a coprire solo un terzo dei 23 miliardi di un progetto e di un cantiere che potrebbe subire i ritardi e i sovra-costi dell’EPR francese di Flamanville, dove i costi sono raddoppiati a 8 miliardi di euro e il termine dei lavori previsto nel 2012 è slittato almeno 2018.

Nel 2019 EDF dovrà risparmiare un miliardo di euro rispetto al 2015, e ridurrà i suoi investimenti di 2 miliardi di euro e cederà azioni per 10 miliardi. Intanto ha già annunciato che entro il 2018 licenzierà 3.500 lavoratori su 67.000, ma i sindacati dicono che la situazione potrebbe peggiorare nei prossimi mesi, mentre i consumatori pensano che i debiti del gigante nucleare se li ritroveranno in bolletta, con aumenti del 2 – 3 % all’anno. Quella che era definita orgogliosamente “l’équipe de France du nucléaire” è diventata un grosso problema per la Francia e per i francesi.

Ha più che ragione il presidente della Commissione ambiente e lavori pubblici della Camera, Ermete Realacci, quando, ricordando il trentennale di Chernobyl, sottolinea che «Saggiamente da allora l’Italia ha fermato il nucleare, il futuro dell’energia infatti non è nell’atomo ma nel risparmio energetico, nella ricerca, nell’innovazione, nelle fonti rinnovabili.  Questo anniversario è un momento per ricordare le vittime, le persone che hanno sviluppato neoplasie in seguito all’incidente e quelle che ancora oggi vivono nelle zone contaminate. Il 26 aprile rappresenta inoltre uno spartiacque: quel giorno l’energia nucleare ha mostrato tutta la sua pericolosità per l’ambiente, la sicurezza e la salute dei cittadini. Una pericolosità purtroppo confermata nel 2011 dall’incidente di Fukushima che, oltre a morte e distruzione, ha paralizzato per mesi una delle economie più importanti del pianeta come quella giapponese. Vanno ringraziati ancora una volta gli italiani, che con lungimiranza hanno fermato il ritorno del nucleare in Italia con il referendum del giugno 2011, che hanno evitato ancora una volta che il Paese prendesse una strada vecchia, sbagliata e antieconomica – come dimostrano i ritardi e i costi esorbitanti accumulati delle centrali nucleari in costruzione in Europa, da Flamanville a Olkiluoto».

Realacci evidenzia anche che grazie ai referendum antinucleari italiani ed al boom delle rinnovabili non ci siamo trovati nelle stesse situazioni dei francesi con EDF: «Anche l’Enel fortunatamente non zavorrata dal nucleare ha potuto scegliere il futuro, rinunciando al carbone a Porto Tolle, annunciando la chiusura di altre 22 centrali, le più vecchie, più costose e inquinanti e intraprendendo la strada del risparmio energetico, dell’innovazione, delle rinnovabili. Se oggi fosse impegnata nella costruzione di nuove centrali nucleari nel Paese correrebbe il rischio di essere una bad company. All’epoca della tragedia di Chernobyl  la reazione dell’Italia fu molto forte e tempestiva: sebbene sul nostro territorio fossero attive poche centrali nucleari, avevamo già un forte movimento di ambientalismo scientifico. Nel 1986 ero segretario generale di Legambiente, che promosse per il 10 maggio una grande manifestazione a Roma con lo slogan  ‘Stop al nucleare’ alla quale parteciparono oltre 150 mila persone e il 10 ottobre organizzò una giornata di blocco pacifico dei cantieri delle centrali nucleari in costruzione. Fummo l’unico Paese a farlo, così come fummo l’unico Paese a dire no al nucleare con il referendum del 1987  e quello che negli anni successivi, grazie anche all’impegno di Legambiente, ha accolto più bambini provenienti dalle zone contaminate. È un’Italia che ci rende orgogliosi, che non si occupa solo di se stessa ma che pensa al futuro preoccupandosi anche del benessere degli altri. I 30 anni di Chernobyl siano anche un’occasione per guardare avanti e preparare il futuro del settore energetico investendo sulla ricerca, sul risparmio energetico, sull’efficienza, sulle fonti rinnovabili. Tutti campi in cui l’Italia può dare molto e che possono rappresentare il vero futuro per il nostro Paese».

Bancocrazia

di John Weeks , Eric Toussaint , Stavros Tombazos , Pritam Singh , Benjamin Selwyn , Alfredo Saad Filho , Patrick Saurin , Sabri Öncü , Susan Pashkoff , Ozlem Onaran , Thomas Marois , Philippe Marlière , Francisco Louça , Stathis Kouvelakis , Andy Kilmister , Michel Husson , Michael Hudson , David Harvey , Pete Green , Giorgos Galanis , Alan Freeman , Gilbert Achar, Costas Lapavitsas 22 aprile 2016

Nove anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria che continua a causare dannosi effetti sociali attraverso le misure d’austerità imposte a popolazioni vittime, è ora di dare un altro sguardo agli impegni che erano stati presi all’epoca da banchieri, finanzieri, politici e organismi di regolazione. Questi quattro attori hanno mancato in misura fondamentale di mantenere le promesse fatte sulla scia della crisi: di moralizzare il sistema bancario, di separare le banche commerciali dalle banche d’investimento, di por fine agli stipendi e ai premi esorbitanti e, infine, di finanziare l’economia reale. All’epoca non abbiamo creduto a tali promesse, e per buoni motivi. Invece che a una moralizzazione del sistema bancario, tutto ciò cui abbiamo assistito è stata una lunga lista di appropriazioni indebite, portate alla luce da una serie di fallimenti bancari a partire da quello della Lehman Brothers il 15 settembre 2008.

Dal solo 2012 la lista di salvataggi include: Dexia in Belgio e in Francia (2012, il terzo salvataggio), Bankia in Spagna (2012), Espirito Santo (2014) e Banif (2015) in Portogallo, Laiki e Bank of Cyprus a Cipro (2013), Monte dei Paschi, Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Carifer in Italia (2014-2015), NKBM in Slovenia (2012), SNS Reaal in Olanda (2013) e Hypo Alpe Adria in Austria (2014-2015) e questi sono solo alcuni esempi. La cosa più intollerabile è che le autorità pubbliche hanno deciso di pagare il riscatto a queste banche facendo sopportare ai cittadini le conseguenze degli affari immorali dei loro amministratori e azionisti. Una separazione o “erezione di uno steccato” tra le banche commerciali e le banche d’investimento resta null’altro che una pia illusione. La cosiddetta riforma delle banche intrapresa in Francia nel 2012 da Pierre Moscovici, il ministro francese delle finanze e dell’economia, si è rivelata una finta. Quanto alle remunerazioni dei banchieri, il tetto ai compensi variabili adottato dal Parlamento Europeo il 16 aprile 2013 ha avuto la sua conseguenza immediata: un aumento dei compensi fissi e il ricorso a una clausola di immunità prevista per legge.

Nessuna misura intesa a evitare altre crisi è stata imposta al sistema finanziario privato. Governi e varie autorità che dovrebbero garantire che le norme siano rispettate e migliorate hanno o accantonato o considerevolmente attenuato le trascurabili misure annunciate nel 2008-2009. La concentrazione delle banche è rimasta immutata, così come le loro attività ad alto rischio. Ci sono stati altri scandali che hanno coinvolto tra quindici e venti più grandi banche private d’Europa e degli Stati Uniti, implicanti prestiti tossici, mutui ipotecari fraudolenti, manipolazioni del mercato delle divise, di quello dei tassi d’interesse (il particolare del LIBOR) e dei mercati dell’energia, enormi evasioni fiscali, riciclaggio di denaro sporco del crimine organizzato, e via dicendo. Lo scandalo dei Panama Papers dimostra come le banche stiano utilizzando i paradisi fiscali. Il Financial Times ha scritto che il primo ministro britannico, David Cameron, è intervenuto di persona per impedire che fondi fiduciari all’estero fossero trascinati nel giro di vite a livello UE contro l’elusione fiscale.

Le autorità si sono limitate a imporre multe, normalmente risibili quando paragonate ai reati commessi. Tali reati hanno impatto negativo non solo sulla finanza pubblica ma anche sul tenore di vita di milioni di persone in tutto il mondo. Responsabili degli organi di disciplina, come Martin Wheatley, ex direttore della Financial Conduct Authority di Londra,  sono stati licenziati per aver tentato di svolgere correttamente il loro lavoro e per essere stati troppo critici del comportamento delle banche. George Osborne, il Cancelliere dello Scacchiere, ha licenziato Martin Wheatley nel luglio del 2015, nove mesi prima della scadenza del suo contratto quinquennale.

Anche se ovviamente da incolpare, nessun dirigente di banca negli Stati Uniti o in Europa (con l’eccezione dell’Islanda) è stato condannato, mentre gli operatori, che sono meri sottoposti, sono processati e condannati a da cinque a quattordici anni di carcere.

Come nel caso della Royal Bank of Scotland nel 2015, banche sono state nazionalizzate con grande spesa pubblica per proteggere gli interessi di grandi azionisti privati e sono state rivendute al settore privato per una frazione del loro valore. Salvare la RBS è costato 45 miliardi di sterline di fondi pubblici, mentre la sua ri-privatizzazione probabilmente si tradurrà in una perdita di altri 14 miliardi.

Infine, quanto a se le banche stiano oggi finanziando l’economia reale, i tentativi attuati dalle banche centrali non sono riusciti ad avviare, a oggi, nemmeno l’inizio di una reale ripresa dell’economia.

Poiché sentiamo, in particolare alla luce dell’esperienza della Grecia, che le banche siano un elemento essenziale di qualsiasi progetto di cambiamento sociale, proponiamo che siano prese misure immediate per conseguire i seguenti sei obiettivi:

  1. Ristrutturare il settore bancario
  2. Sradicare la speculazione
  3. Cancellare il segreto bancario
  4. Disciplinare il settore bancario
  5. Trovare modi alternativi di finanziare la spesa pubblica
  6. Rafforzare le banche pubbliche

In una seconda parte svilupperemo i nostri argomenti a favore della socializzazione del settore bancario.

  1. MISURE IMMEDIATE
  2. Ristrutturazione del settore bancario

Ridurre radicalmente la dimensione delle banche al fine di eliminare il rischio rappresentato dalle banche sistemiche [1] “troppo grandi per fallire”.

Separare le banche commerciali dalle banche d’investimento. Le banche commerciali saranno le sole istituzioni finanziarie autorizzare a ricevere depositi dei risparmiatori e sostegno pubblico (sottoscrizione di depositi a risparmio e accesso a contante dalla banca centrale). Queste banche commerciali saranno autorizzate a concedere prestiti solo a persone fisiche e ad aziende locali e nazionali private e a entità pubbliche. Sarà loro vietato di condurre attività sui mercati finanziari. Ciò che questo significa è che non sarà consentito loro di coinvolgersi in cartolarizzazioni; i prestiti non potranno essere trasformati in titoli negoziabili e le banche commerciali dovranno conservare i prestiti sui propri libri fino ad avvenuto rimborso. La banca che ha concesso un prestito deve sopportarne il rischio.

Le banche d’investimento non avranno titolo a sottoscrizioni pubbliche;  in caso di fallimento di una banca tutte le perdite saranno subite dal settore privato, a partire dagli azionisti (sulla totalità del loro attivo; vedere oltre).

Vietare i rapporti creditizi tra banche commerciali e banche d’investimento. Seguendo il principio di Fredéric Lordon di imporre un vero e proprio “apartheid” tra banche commerciali e banche d’investimento, in nessun caso alle banche commerciali sarà consentito di intrattenere un rapporto creditizio con una banca d’investimento. [2]

  1. Sradicare la speculazione

Vietare la speculazione. Come propone Paul Jorion, la speculazione deve essere vietata. “In Francia la speculazione è stata autorizzata nel 1885 e in Belgio nel 1867. Di fatto la speculazione è stata definita molto chiaramente dalla legge mirata a ‘vietare le scommesse sui movimenti al rialzo e al ribasso di titoli finanziari’.’ Con un simile divieto chiunque pratichi la speculazione sarebbe colpevole di una violazione; che si tratti della banca X o della banca Y non fa alcuna differenza” [3]. Ciò potrebbe includere sanzioni a banche che speculino per conto proprio o nell’interesse di propri clienti.

L’acquisizione di proprietà tangibili (materie prime, merci, terreni, edifici, ecc.) o titoli (azioni, obbligazioni o qualsiasi altro titolo) da parte di una banca o di altra istituzione finanziaria con l’intenzione di speculare sul loro prezzo sarà vietata.

Vietare i derivati. Questo significa che le banche e le altre istituzioni finanziarie che vogliono coprirsi da vari tipi di rischi (associati a rapporti di cambio, tassi d’interesse, insolvenze, ecc.) dovranno tornare a utilizzare i contratti tradizionali di assicurazione.

Prescrivere alle banche di richiedere l’autorizzazione prima di mettere sul mercato prodotti finanziari. Le banche d’investimento dovranno sottoporre qualsiasi nuovo strumento finanziario alle autorità di controllo (ciò non si applica ai derivati, poiché saranno messi fuorilegge) a fini di autorizzazione prima dell’immissione sul mercato.

Separare le attività di consulenza da quelle di mercato. Siamo anche d’accordo con l’economista belga Eric de Keuleneer che propone di separare le attività di consulenza da quelle di mercato. “Non è giusto che le banche assumano debiti rischiosi consigliando contemporaneamente i clienti sulla qualità di tali debiti o che siano attualmente in grado di speculare sull’oro e contemporaneamente di consigliare ‘disinteressatamente’ i loro clienti ad acquistare oro.” Per questo egli propone di creare attività di intermediazione.

Vietare le transazioni ad alta frequenza e il settore bancario ombra. Limitare rigidamente che cosa può essere iscritto in contabilità fuori bilancio [4]. Vietare le vendite allo scoperto con e senza prestito dei titoli relativi.

  1. Cancellazione del segreto bancario

Vietare i mercati finanziari non regolamentati [over the counter]. Tutte le transazioni sui mercati finanziari devono essere registrate, tracciabili, regolate e controllate. Fino a oggi i principali mercati finanziari sono stati non regolamentati, cioè non sono soggetti a nessun controllo di alcun genere. Questo vale per il mercato FOREZ (5.300 miliardi di dollari al giorno) [5], per il mercato dei derivati, per i mercati delle materie prime e dei prodotti agricoli [6], eccetera.

Cancellazione del segreto bancario. Alle banche deve essere prescritto di comunicare tutte le informazioni riguardanti i loro amministratori, le loro varie entità, i loro clienti, le attività che conducono e le transazioni che attuano per conto dei propri clienti e in nome proprio. Analogamente la contabilità bancaria deve anche essere leggibile e comprensibile. L’abbandono del segreto bancario deve divenire un fondamentale imperativo democratico per tutti i paesi. Concretamente questo significa che le banche devono rendere disponibili alle autorità fiscali: una lista dei nomi dei beneficiari di interessi, dividendi, utili di capitale e altre entrate finanziarie; informazioni sull’apertura, modifica e chiusura di conti bancari al fine di creare un archivio nazionale dei conti bancari; tutte le informazioni sui movimenti di capitale all’interno e fuori dal paese, inclusa in particolare l’identificazione di chi impartisce l’ordine.

Vietare le transazioni con paradisi fiscali. Alle banche deve essere vietato di attuare qualsiasi transazione con un paradiso fiscale.  Il mancato rispetto del divieto deve comportare sanzioni molto aspre (compresa la possibile revoca della licenza) e multe pesanti.

  1. Disciplinare il settore bancario

Prescrivere alle banche di aumentare radicalmente il volume dei fondi propri (capitale) in rapporto con i loro attivi totali [7]. Mentre il capitale è generalmente inferiore al 5% degli attivi bancari, noi crediamo che il minimo legale dovrebbe essere portato al 20%.

Vietare la socializzazione delle perdite delle banche e di altre istituzioni finanziarie. Significa vietare che autorità pubbliche garantiscano debiti privati con fondi pubblici.

Ripristinare la responsabilità illimitata dei maggiori azionisti in caso di fallimento bancario. Il costo di un fallimento deve essere recuperabile dal patrimonio totale degli azionisti principali (che si tratti di persone fisiche o di società).

Nel caso di fallimento di una banca i depositi dei clienti delle banche commerciali devono continuare a essere garantiti dallo stato fino al limite di un importo ragionevole per una famiglia di classe medio-alta (stimato oggi in 150.000 euro e soggetto a dibattito democratico).

Tassare pesantemente le banche. Gli utili delle banche devono essere strettamente assoggettati a prescrizioni legali riguardanti la tassazione delle imprese. Di fatto le aliquote che le banche attualmente pagano sono molto considerevolmente inferiori al tasso legale, che esso stesso e troppo basso. Le transazioni bancarie in divise [8] e in titoli finanziari devono essere tassate. Deve essere tassato il debito a breve termine delle banche al fine di promuovere il finanziamento a lungo termine.

Perseguire sistematicamente gli amministratori bancari colpevoli di reati e infrazioni finanziarie e revocare la licenza bancaria a istituzioni che non rispettino i divieti e siano colpevoli di appropriazioni indebite.

Trovare un altro modo per salvare le banche. In aggiunta alle misure di cui sopra – responsabilità illimitata dei maggiori azionisti (con riferimento al loro intero patrimonio), garanzia dei depositi sino a 150.000 euro e divieto di garantire il debito privato con fondi pubblici – deve essere creato un meccanismo per il fallimento ordinato delle banche, consistente in due strutture. Una bad bank privata (di proprietà di azionisti privati senza alcun costo per le autorità pubbliche) e una banca pubblica cui siano trasferiti i depositi e gli attivi certi. Certi esperimenti recenti possono servire da ispirazione, in particolare le misure assunte dall’Islanda a partire dal 2008 [9].

  1. Trovare altri modi per finanziare il debito pubblico

Prescrivere alle banche di detenere una quota dei titoli del debito pubblico.

Le banche centrali dovrebbero concedere di nuovo prestiti senza interessi alle autorità pubbliche. Diversamente dalla prassi attuale della BCE, conseguenza dei trattati europei, la banca centrale sarebbe in grado di offrire finanziamenti senza interessi allo stato e a tutti gli enti pubblici (città, ospedali, organismi di edilizia popolare, eccetera) al fine di condurre politiche socialmente eque nel contesto della transizione ambientale.

  1. Rafforzare le banche pubbliche esistenti

e ricrearle nei paesi in cui sono state privatizzate (sarebbero, ovviamente, sottoposte come tutte le altre banche alle misure concrete discusse più sopra). In Francia, nel 2012, un collettivo ha rivolto un appello “Pour un Pôle Public Financier au service des Droits !” (Per un polo finanziario pubblico al servizio dei diritti) [10] che appoggi la creazione di una struttura bancaria pubblica. Il grande svantaggio di questo progetto è che non arriva alla radice del problema poiché accanto a un settore bancario pubblico insignificante continuerebbero a esistere banche private e un settore cooperativo che è cooperativo solo nel nome. In Belgio, dove il governo ha privatizzato le ultime banche pubbliche negli anni ’90, nel 2011 lo stato ha riacquistato la “parte” bancaria di Dexia, di cui è proprietario al 100%. La Dexia Bank è divenuta Belfius e ha ancora uno status privato. La Belfius deve diventare una vera banca pubblica e devono essere applicate le misure concrete formulate più sopra. Lo stato ha pagato 4 miliardi di euro, un importo che la stessa Commissione Europea ha considerato del tutto irragionevole. Ciò che avrebbe dovuto fare è questo: la Belfius avrebbe dovuto essere creata senza costi per le finanze pubbliche come istituzione bancaria finanziata dai depositi dei clienti e da tutti gli attivi certi della Dexia Bank. La banca avrebbe dovuto essere posta sotto il controllo dei cittadini. Le condizioni di lavoro, i posti e il reddito del personale avrebbero dovuto essere garantiti, mentre la remunerazione versata agli amministratori avrebbe dovuto essere radicalmente ridotta. Ai membri del consiglio e ai dirigenti avrebbe dovuto essere vietato di avere posizioni in un’istituzione privata. Avrebbero dovuto essere presentate denunce contro gli amministratori della Dexia a cura del ministero per le malefatte penali da essi commesse. Il Rapporto No.58 depositato dal senato francese sulla Société de financement local (SFIL) stima il costo del fallimento della Dexia in circa 20 miliardi di euro (13 miliardi per la Francia, compresi 6 miliardi stanziati per la ricapitalizzazione e il resto per coprire parte delle penalità per il rimborso anticipato di prestiti tossici; 6,9 miliardi di euro per il Belgio, corrispondenti alla nazionalizzazione della Dexia Bank Belgium e alla ricapitalizzazione di Dexia) alla data del rapporto. Il 1 febbraio 2013 la Francia ha creato una struttura al 100% pubblica (con lo stato che detiene il 75%, la CDC il 20% e la Banque Postale il 5%) al fine di acquisire il 100% della Dexia Municipal Agency (una sussidiaria della Dexia Credit Local) che è divenuta la Caisse Francaise de Financement Local (CAFFIL).

  1. SOCIALIZZARE IL SETTORE BANCARIO

Mettere in pratica le misure concrete che abbiamo menzionato sopra costituirebbe un progresso nella risoluzione della crisi del settore bancario, ma il settore privato continuerebbe a occupare una posizione dominante.

Sono anche necessarie misure permanenti di lungo termine

Se l’esperienza di questi ultimi anni dimostra qualcosa è che le banche non devono essere lasciate nelle mani di capitalisti. Se, attraverso la mobilitazione popolare, possiamo far sì che le misure discusse in precedenza (che sono aperte a ulteriore dibattito al fine di migliorarle e completarle) siano applicate, il capitale farà tutto il possibile per recuperare parte del terreno che avrà perduto, individuando molteplici modi per aggirare le norme, utilizzando le proprie potenti risorse finanziarie per comprare il sostegno di legislatori e leader governativi al fine di liberalizzare, ancora una volta, e accrescere i profitti al massimo, senza riguardo per gli interessi della maggioranza della popolazione.

E’ necessario socializzare il settore bancario sotto il controllo dei cittadini

Poichè i capitalisti hanno dimostrato esattamente quanto in là sono disposti a spingersi, assumendo rischi (rischi delle cui conseguenze si rifiutano di essere chiamati a rispondere) e commettendo reati al solo fine di accrescere i loro profitti, poiché le loro attività si traducono regolarmente in pesanti costi subiti dalla società nel suo complesso, poiché la società che vogliamo costruire deve essere guidata dal perseguimento del bene comune, della giustizia sociale e della ricostituzione di relazioni equilibrate tra gli esseri umani e le altre componenti della natura, il settore bancario deve essere socializzato. Come propone Frédéric Lordon, deve essere attuata una “de-privatizzazione totale del settore bancario” [11]. La socializzazione del settore bancario nella sua interezza è raccomandata dalla federazione sindacale Sud BPCE in Francia [12].

Socializzare il sistema bancario significa:

  • esproprio, senza risarcimento (o con il risarcimento simbolico di un euro) dei grandi azionisti (i piccoli azionisti saranno risarciti per intero);
  • concessione di un monopolio delle attività bancarie al settore pubblico, con un’unica eccezione: l’esistenza di un piccolo settore bancario cooperativo (sottoposto alle stesse norme fondamentali del settore pubblico);
  • creazione di un servizio pubblico per risparmi, credito e investimenti, con una struttura duplice: una rete di piccole filiali “al dettaglio”, da un lato, e dall’altro di agenzie specializzate responsabili della gestione dei fondi e del finanziamento degli investimenti non gestiti dai ministeri responsabili della sanità, dell’istruzione, dell’energia, dei trasporti, delle pensioni, della transizione ambientali pubbliche, eccetera. A questi ministeri sarà fornito lo stanziamento necessario per assicurare i loro investimenti e un funzionamento efficiente. Le agenzie specializzate interverranno in aree e attività che esorbitino la competenza e le sfere d’azione dei ministeri, al fine di garantire che siano coperti tutti i bisogni;
  • Definizione, con la partecipazione dei cittadini, di una Carta relativa agli obiettivi da conseguire e alle missioni da attuare e che ponga i risparmi pubblici, il credito e le entità di investimento al servizio delle priorità definite da un processo democratico di pianificazione;
  • Trasparenza delle comunicazioni finanziarie che devono essere presentate al pubblico in forma comprensibile;

 

E’ usato il termine “socializzazione”, preferendolo a “nazionalizzazione” o a “proprietà statale” per rendere chiaro il ruolo essenziale del controllo da parte dei cittadini, con un processo decisionale condiviso tra amministratori, rappresentanti del personale, clienti, associazioni non a fini di lucro, dirigenti locali e rappresentanti delle entità bancarie pubbliche regionali e nazionali. Perciò il modo in cui sarà esercitato il controllo attivo dei cittadini dovrà essere definito con mezzi democratici. Analogamente devono essere incoraggiati il controllo sull’attività delle banche da parte dei dipendenti del settore bancario e la loro partecipazione attiva all’organizzazione del lavoro. Gli amministratori delle banche devono distribuire un rapporto pubblico annuale sulla loro gestione. La preferenza va attribuita a servizi locali di qualità rompendo con le politiche di esternalizzazione perseguite attualmente. Il personale degli stabilimenti finanziari dovrebbe essere incoraggiato a offrire una consulenza autentica alla clientela e a rompere con le attuali politiche aggressive di vendita.

Socializzare il settore bancario e renderlo un servizio pubblico rendere possibile:

  • per i cittadini e le autorità pubbliche sottrarsi all’influenza dei mercati finanziari;
  • finanziare progetti dei cittadini e delle autorità pubbliche;
  • dedicare l’attività delle banche al bene comune, comprendendo tra le loro missioni quella di agevolare la transizione da un’economia capitalista a produzione intensa a un’economia sociale e ambientalista.

Poiché risparmi, credito, sicurezza dei depositi e preservazione dell’integrità del sistema dei pagamenti sono questioni d’interesse generale, raccomandiamo che sia creato un servizio bancario pubblico socializzando la totalità delle società nei settori bancario e assicurativo.

Poiché le banche sono oggi uno strumento essenziale del sistema capitalista e di un modo di produzione che sta devastando il nostro pianeta e arraffandone le risorse, creando guerre e impoverimento, erodendo, un po’ alla volta, i diritti sociali e attaccando le istituzioni e le pratiche democratiche, è essenziale assumere il loro controllo in modo che divengano strumenti posti al servizio del maggior numero di persone.

La socializzazione del settore bancario non può essere concepita come un mero slogan o una mera rivendicazione, sufficienti a sé stessi e che i decisori della politica metterebbero in pratica per il solo fatto di comprendere che la cosa ha senso. Deve essere considerata come un obiettivo politico da raggiungere attraverso un processo guidato da un movimento di cittadini. Non solo è necessario per i movimenti sociali organizzati esistenti (compresi i sindacati) farne una priorità del proprio programma e per i diversi settori (organi delle amministrazioni locali, piccole e medie imprese, associazioni di consumatori, eccetera) adottare tale posizione, ma anche – e soprattutto – per i dipendenti delle banche essere condotti a una consapevolezza del ruolo svolto dalla loro professione e del fatto che sarebbe loro interesse che le banche fossero socializzate, e per gli utenti delle banche essere informati nel punto di utilizzo (ad esempio attraverso occupazioni di filiali bancarie dovunque, lo stesso giorno) in modo da poter partecipare direttamente a definire esattamente che cosa dovrebbe essere una banca.

Solo una mobilitazione su larga scala può garantire che la socializzazione del sistema bancario possa essere realizzata nella pratica, poiché è una misura che colpisce al cuore stesso del sistema capitalista. Se un governo di sinistra non assume una tale misura, la sua azione non sarà in grado di realizzare realmente il cambiamento radicale necessario per rompere con la logica del sistema e per realizzare un nuovo processo di emancipazione.

Socializzare il sistema bancario e assicurativo deve far parte di un programma molto più vasto di altre misure che avvierebbero l’adozione di una transizione a un nuovo modello post-capitalista e post-produttivo. Un tale programma, che deve essere di portata europea ma che può inizialmente essere messo in atto in una o più nazioni, includerebbe l’abbandono delle politiche di austerità, la cancellazione del debito illegittimo, la messa in atto di una riforma fiscale generale con una forte tassazione del capitale, una riduzione generale degli orari di lavoro con assunzioni compensative e con il mantenimento dei livelli di salario, la socializzazione del settore energetico, misure che garantire la parità di genere, lo sviluppo di servizi pubblici e di sussidi sociali e l’attuazione di una politica di transizione ambientale fortemente determinata.

In questo momento della storia la socializzazione dell’intero sistema bancario è una necessità politica, economica, sociale e democratica urgente.

Autori:

  • Gilbert Achcar – Professore di Studi sullo Sviluppo, SOAS, Università di Londra
  • Alan Freeman economista presso la Greater London Authority dal 2000 al 2011, co-direttore del Gruppo di Ricerca sull’Economia Geopolitica, Università di Manitoba, Canada
  • Giorgios Galanis – Professore, Goldsmiths, Università di Londra
  • Pete Green – co-promotore della Commissione di Economia Politica dell’Unità della Sinistra
  • David Harvey – Distinguished Professor al Centro di Laurea dell’Università della Città di New York (CUNY)
  • Michael Hudson Distinguished Professor di ricerca presso l’Università del Missouri, Kansas City e professore presso l’Università di Pechino
  • Michel Husson – Economista, autore di Le capitalisme en 10 leçons, La Dècouverte, Parigi, 2012, Francia
  • Andy Kilmister – Docente senior di economia presso l’Università di Oxford Brookes e direttore del Journal of Contemporary Central and Eastern Europe
  • Stathis Kouvelakis – Lettore presso la King’s College University di Londra, membro di Unità Popolare (Grecia)
  • Costas Lapavitsas – Professore di economia, SOAS, Università di Londra
  • Francisco Louça – Professore di economia presso l’Instituto Superior de Economia e Gestao di Lisbona
  • Philippe Marlière – Professore di scienze politiche, University College di Londra
  • Thomas Marois – Lettore senior, Studi sullo sviluppo, SOAS, Università di Londra
  • Ozlem Onaran – Professore di economia, direttore del Centro Ricerche di Economia Politica di Greenwich, Università di Greenwich
  • Sabri Őncű – Economista, SoS Economics, Istanbul, Turchia
  • Susan Pashkoff – Economista, Unità della Sinistra, Commissione Politica Economica, Gran Bretagna
  • Alfredo Saad Filho – Professore di Economia Politica, SOAS, Università di Londra
  • Patrick Saurin – Portavoce della federazione sindacale dei dipendenti bancari Sud Solidaires de la Banque Populaire – Caisse d’Epargne (BPCE) – Francia
  • Benjamin Selwyn – Lettore senior in Sviluppo Internazionale, Università del Sussex, Regno Unito
  • Pritam Singh – Professore di economia, Facoltà di scienze aziendali, Oxford Brookes University
  • Stavros Tombazos – Professore di economia politica presso l’Università di Cipro
  • Eric Toussaint – Portavoce del CADTM, autore di Bancocracy, Resistance Books/IIRE/CADTM, 2015
  • John Weeks – Professore emerito, SOAS, Università di Londra

 

NOTE

[1] Philippe Lamberts, parlamentare europeo dei Verdi, propone un massimo di 100 miliardi di dollari di patrimonio. “A titolo di confronto, gli attivi totali di BNP Paribas e Deutsche Bank, rispettivamente, nel 2011 erano di 2.164 miliardi di euro e di 1.965 miliardi di euro” http://www.philippelamberts.eu/les-7-peches-capitaux-des-banques. Noi sentiamo che la dimensione massima dovrebbe essere considerevolmente inferiore, in particolare in paesi piccoli. Cento miliardi di euro sono un multiplo del PIL di Cipro e più di un quarto di quello del Belgio.

[2] http://blog.mondediplo.net/2013-02-18-La-regulation-bancaire-au-pistolet-a-bouchon (in francese)

[3] Paul Jorion in Financité, novembre 2013 (in francese)

[4] Limitare, ad esempio, le voci fuori bilancio a garanzie e impegni sottoscritti. Necessario discuterne.

[5] Vedere Eric Toussaint “Comment les grandes banques manipulent le marché des devises” (Come le grandi banche manipolano il mercato dei cambi), pubblicato su Le Monde il 13 aprile 2014 e disponibile in inglese come capitolo 18 di Bankocracy (disponibile in formato pdf all’indirizzo http://cadtm.org/IMG/pdf/Bankocracy_web.pdf; disponibile anche a stampa presso CADTM)

[6] Eric Toussaint “Banks Speculate on Raw Materials and Food”  [Le banche speculano su materie prime e cibo], 10 febbraio 2014, http://cadtm.org/Banks-speculate-on-raw-materials

[7] Questo significherebbe abbandonare il sistema di calibrare gli attivi in funzione del rischio, il che è particolarmente inaffidabile poiché la quantificazione è lasciata alle banche stesse. Per una spiegazione della valutazione degli attivi basata sui rischi vedere http://cadtm.org/Banks-bluff-in-a-completely-legal

[8] Eric Toussaint, “Il faut imposer une véritable taxe Tobin au lobby bancaire” (Va imposta una vera imposta Tobin alla lobby dei banchieri), un editoriale pubblicato dal quotidiano L’Humanité il 25 febbraio 2014 e anche su http://cadtm.org/Il-faut-imposer-une-veritable-taxe (in francese).

[9] Intervista a Eva Joly di Renaud Vivien, “L’Islanda rifiuta transazioni stragiudiziali ai banchieri accusati” – http://cadtm.org/Iceland-refuses-its-accused

[10] Vedere il loro sito (in francese) ): http://pourunpolepublicfinancier.org/. L’entità bancaria  pubblica promossa dal collettivo includerebbe istituzioni finanziarie pubbliche (Banque de France, Caisse dei Dépots e le sue sussidiarie finanziarie, OSEO, Société des Partecipations de l’Etat, Banque Postale, UbiFrance, Agence Française de Developpment, Institut d’émission des Départments d’Outre-Mer, CNP Assurance) o quelle le cui attività costituiscono un servizio pubblico (Crédit Foncier, Coface). Ogni azienda bancaria o assicurativa in cui lo stato acquisisce una quota azionaria di maggioranza o cui possono essere assegnate missioni di servizio pubblico ne farebbe parte. In Belgio un sito creato dal PTB è dedicato a promuovere la necessità di una banca pubblica (in francese o fiammingo): http://www.banquepublique.be/

[11] Frédéric Lordon, “L’effarante passivité de la ‘re-régulation financière’” (La spaventosa passività della disciplina della finanza), in Changer d’èconomie, les économistes atterés. Les liens qui libérent, 2011, pag. 242 (in francese)

[11] Vedere in particolare questi link (in francese): http://www.sudbpce.com/files/2013/01/2012-projet-bancaire-alternatif-definitif.pdf;

http://cadtm.org/IMG/pdf/PLAQUETTE_BANQUES_SUD_BPCE.pdf ; http://cadtm.org/Socialiser-le-systeme-bancaire

Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/what-is-to-be-done-with-the-banks-radical-proposals-for-radical-changes/

Originale: CADTM

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2016 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

La Resistenza fu un atto di sovranità popolare

segnalato da Barbara G.

di Enzo Collotti – ilmanifesto.info, 24/04/2016

Chi si ricorda più del 25 aprile? A settantuno anni dal giorno della Liberazione è lecito porsi questo interrogativo. Beninteso, non alludiamo al fatto in sé della conclusione della lotta di liberazione anche se nella memoria della mia generazione quello fu comunque un giorno di festa e sarebbe anche opportuno che molti o pochi di noi ne rievocassimo le atmosfere e gli accadimenti -, ma più in generale al senso di quella conclusione, in una parola allo spirito del ‘45.

A guardare a ritroso i settanta e più anni trascorsi sembrano una distanza di tempo ultrasecolare se consideriamo la lontananza della realtà di oggi da quell’evento.

Contro la registrazione burocratica del 25 aprile come festa nazionale ci piacerebbe evocarlo come un momento sempre presente di esercizio della sovranità popolare. Perché la scelta che seguì all’8 settembre del 1943 di chi andò in montagna o di chi si diede alla macchia negli ambiti urbani per tessere le reti della Resistenza fu un atto di sovranità popolare, non comandato da nessun potere o da nessuna autorità superiore. Questa riflessione ci è suggerita dalle vicende di questa nostra democrazia repubblicana che, seguendo un processo peraltro non soltanto italiano, ma generalizzabile a livello europeo (se non mondiale), tende a restringere sempre più lo spazio di autonomia e di sovranità degli individui e dei corpi sociali e con ciò anche la consapevolezza che essi potessero avere del loro ruolo in una società democratica. Complici la minaccia del terrorismo islamico, i problemi immani che derivano dalle migrazioni dell’ultimo decennio, le persistenti crisi economiche legate a un modello di sviluppo destinate a perpetuare diseguaglianze e ingiustizie, si riaffacciano dappertutto le tentazioni a rafforzare il potere esecutivo e a rigettare al margine le istanze di democratizzazione e di partecipazione.

Il processo di svilimento dei partiti politici e di svigorimento degli stessi sindacati, che avrebbero dovuto rappresentare la palestra della democrazia nella società e nei luoghi di lavoro, ha aperto un vuoto e fa da sfondo a questa invasione del potere esecutivo. Nella cultura politica del nostro Paese lo spirito del ’45 non si è mai riflesso interamente, è penetrato a intermittenza, con qualche fiammata che non è riuscita a interrompere la continuità di un mediocre barcamenarsi in una perpetua navigazione a vista. Anche per questo alla classe dirigente dell’antifascismo storico, che rimane pur sempre quanto di meglio il Paese ha espresso, non ha fatto seguito la formazione di una classe dirigente degna di questo nome. La sua mediocrità è sotto gli occhi di tutti e, a differenza che in altri contesti europei, le sue insufficienze non sono state e non sono compensate neppure da un ceto amministrativo di provata capacità tecnico-gestionale e di assoluta probità. La corruzione in cui affonda il Paese non è l’ultimo dei fattori che espropria i cittadini della possibilità della partecipazione alla cosa pubblica come contributo a livello individuale dell’esercizio della sovranità.

Le utopie del ’45, il rinnovamento politico e morale all’interno e il sogno degli Stati Uniti d’Europa sul piano internazionale, si scontrano oggi con il rozzo empirismo di mestieranti della politica e il riemergere di anacronistici quanto feroci e aggressivi egoismi nazionali.

Le aspettative del ’45 hanno avuto breve durata. Nello spazio di due anni lo spirito di conservazione, la nostalgia del quieto vivere, e l’eterna paura del salto nel buio hanno frenato e affossato sul nascere le speranze e le istanze del rinnovamento. Il 18 aprile del 1948 non è stato soltanto la sconfitta elettorale della sinistra, è stato il rifiuto a lungo termine delle aperture del ’45.

Non è certamente un caso che nel momento in cui si pone mano ad una pur necessaria revisione della Costituzione, che di per sé rimane l’espressione della stagione di rinnovamento aperta dalla Liberazione, non si è trovata strada migliore che proporre il pasticcio di una riforma costituzionale che, unita a un sistema elettorale truffaldino, intacca seriamente il principio della rappresentanza e di fatto limita il ruolo stesso del Parlamento.

Richiamare lo spirito del ’45 non vuole essere espressione di una improbabile nostalgia; vorrebbe essere un incoraggiamento a tornare a pensare fuori dalla contingenza immediata con una visuale di tempi lunghi, recuperando un patrimonio ideale che non è affatto spento. Contro la retorica della memoria ci piacerebbe che questa memoria fosse rivissuta nella pratica.