Month: settembre 2016

Il capo e la folla

segnalato da Barbara G.

Di democrazia recitativa ne avevamo già parlato QUI.

Così i capi rendono le folle stupide e servili. Parla lo storico Emilio Gentile

di Donatella Coccoli – left.it, 12/08/2016 (da Left n°22)

Si  parla di democrazia recitativa quando «la politica diventa l’arte di governo del capo, che in nome del popolo muta i cittadini in una folla apatica, beota o servile». Scrive così Emilio Gentile nel libro Il capo e la folla (Laterza) un viaggio nella storia sul rapporto tumultuoso tra i governati e i governanti a partire dalla repubblica di Atene per finire al ventesimo secolo. Tra i massimi studiosi internazionali di fascismo e delle religioni della politica, Gentile nel suo libro non tocca l’oggi. «Mi fermo a Kennedy. Per mia natura e per il lavoro che faccio non insegno agli altri come giudicare il tempo contemporaneo. Cerco però di fornire gli strumenti per capire come si è giunti al tempo contemporaneo», dice. Ecco quindi la repulsione di Platone per la democrazia “dei molti”, il concetto di democrazia come stile di vita di Pericle, la res publica romana che prima dell’avvento di Cesare aveva garantito un sistema di controllo dei poteri dello Stato, la codificazione del panem et circenses per tenere buoni gli ex cittadini ormai sudditi imperiali, i “sacri recinti” degli Stati guidati da capi “unti” dal Signore, fino ad arrivare alle rivoluzioni americana e francese e ai movimenti rivoluzionari dell’Ottocento. È del 1895 Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, psicologo, antropologo e sociologo. «Mi dicono che nella classifica di Amazon è al secondo posto. Un po’ ho contribuito anch’io perché ne avevo parlato in una trasmissione televisiva», dice sorridendo Gentile. Con Le Bon la democrazia recitativa – che secondo Gentile inizia con Napoleone – trova il suo massimo teorico, perché lo studioso francese nel suo libro diventato ben presto cult, spiega tra l’altro anche “come governare le folle” con la suggestione e l’uso delle parole.

Professor Gentile, lei scrive che «conoscere il comportamento dei capi e delle folle del passato può aiutare a comprendere i capi e le folle della politica di massa che stiamo vivendo». Come trova oggi la democrazia intesa come la migliore forma di rapporto tra governati e governanti?

Mi sembra avviata – se non ci saranno dei correttivi – sempre più verso una forma di democrazia recitativa. Nel senso che i governati potranno scegliere e revocare sempre meno i propri governanti. Lo dimostra anche il fatto generalizzato dell’astensione. Un fenomeno che deriva non dalla fiducia nella democrazia – come accade nel mondo anglosassone – ma dalla profonda sfiducia nella classe politica e nella classe dirigente. Oggi in Italia ricorrono i 70 anni del referendum che ha istituito la Repubblica. Tutti nel 1946 rimasero colpiti dal fatto che una popolazione uscita da un ventennio di dittatura, nonostante i timori di un salto nel buio, partecipasse così in massa, circa il 90 per cento. Calamandrei addirittura gridò al miracolo. Ecco, oggi questa astensione crescente mi sembra una forma di protesta che purtroppo non si concretizza in una vera e propria alternativa.

La democrazia recitativa che avanza può portare alle derive della democrazia di cui lei parla nel suo libro?

È imprevedibile quello che può accadere. Questo è un fenomeno in gran parte nuovo, dovuto a tre fattori che sono stati riscontrati in tutte le democrazie occidentali. Il primo dipende dalla complessità sempre crescente dei problemi sui quali i cittadini vengono chiamati a decidere, poi bisogna considerare l’elevato costo della competizione politica, per cui soprattutto persone facoltose possono partecipare effettivamente, con speranza di vittoria. Infine il terzo fattore è, appunto, la minore partecipazione al processo democratico di cittadini consapevoli.

Sempre a proposito del presente, che cosa pensa della democrazia diretta, quella dei referendum dei radicali di Marco Pannella o della Rete del Movimento Cinque stelle?

Come sostenevano Rousseau e i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, io penso che la democrazia diretta sia possibile solo in piccole repubbliche. Quando queste assumono vaste dimensioni territoriali, con milioni di cittadini, è inevitabile la democrazia rappresentativa. La democrazia diretta poi non è di per sé sana e buona, perché una democrazia diretta può scegliere capi non democratici. Vede, la democrazia è soltanto un metodo. Noi possiamo anche definirla come un valore attribuendole significati etici, perché attraverso la democrazia si può emancipare un individuo e la collettività, rendendoli sempre più padroni del proprio destino. Ma questo è un ideale, di fatto la democrazia è un metodo che può servire sia a favorire l’emancipazione che a impedirla. Se democraticamente vincono i reazionari, i conformisti, i fanatici, gli intolleranti, i razzisti o gli xenofobi, come possiamo negare che il loro governo sia una genuina democrazia?

Ma per rendere effettivo il metodo della democrazia nel senso dell’emancipazione, che cosa occorre?

La democrazia non può prescindere dalla divisione dei poteri che si limitano e si controllano reciprocamente, così come non può prescindere dalla libertà dell’informazione. E occorrono anche dei limiti all’uso del potere della maggioranza nei confronti della minoranza. Inoltre, se si perde l’idea originaria di democrazia che deve favorire l’emancipazione di ogni cittadino attraverso l’informazione, l’istruzione, la conoscenza, accadrà che si lascerà sempre agli esperti, ai tecnici, scelte decisive ignorando gli altri.

Ci parli quindi della folla, definita da filosofi o da uomini di Chiesa ora “gregge” ora “bestia feroce e selvaggia”, come sosteneva Lutero.

Il concetto di fondo è quello più comune, e cioè che la folla sia manipolabile. Ma non è sempre così, la folla deve essere riscattata dalla cattiva nomea che l’accompagna dalla democrazia greca. La folla infatti è quella stessa che compie atti di eroismi. Lo sosteneva anche Gustave Le Bon: non c’è solo la “folla bestia” c’è anche la “folla eroe”, diceva. La rivoluzione francese, come opera più importante per la libertà e l’uguaglianza, fu opera della folla che spinse a prendere l’iniziativa. Così come la rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917: non fu guidata da un partito o da uomini politici, fu una rivoluzione spontanea delle folle di S.Pietroburgo che fecero crollare il sistema zarista dando vita a una democrazia che fu poi stroncata dal partito bolscevico con un regime che pretendeva di essere più democratico perché imposto come dittatura del proletariato. Questo fenomeno delle folle che si muovono spontaneamente si è ripetuto, sia pure con esiti diversi, in altre situazioni, come in Ungheria nel 1956, in Polonia nel 1981, e nelle “primavere arabe” del 2011.

Nel libro parla di folle a proposito della nascita degli Stati Uniti d’America. Nel senso che all’inizio fu una rivolta collettiva conclusa poi dai capi. Qual è la caratteristica di quella democrazia che secondo Abraham Lincoln era il “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”?

Nella storia umana gli Stati Uniti d’America furono il primo stato democratico moderno, dopo la democrazia greca. La democrazia greca era oligarchica, e la scelta dei governanti era riservata solo ai cittadini maschi di nascita ateniese, invece la democrazia americana almeno idealmente e teoricamente si proclama per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani sulla base di diritti dati dal creatore, pur essendo una società razzista e fortemente condizionata da pregiudizi religiosi protestanti. È una democrazia che in oltre duecento anni si è modificata superando sia i monopoli religiosi sia, ai giorni nostri, superando il monopolio bianco alla Casa bianca, con Obama al potere. E forse con le prossime elezioni presidenziali sarà superato anche il monopolio maschile se verrà eletta Hillary Clinton. Ma ancora non è finita perché rimane una minoranza che sembra ancora esclusa, almeno nel prossimo futuro.

Quale minoranza è esclusa dalla presidenza Usa?

I sondaggi dicono che gli americani sono disposti ad avere un presidente nero, in prospettiva una donna e un omosessuale, ma non ad avere un presidente ateo. Gli atei sono una minoranza del 20 per cento discriminati dal punto di vista politico, nonostante la Costituzione vieti qualsiasi presupposto religioso per le candidature. L’80 per cento degli americani non accetterebbe un presidente che non professi una fede in Dio, qualunque essa sia. Gli Stati Uniti sono il primo stato democratico nella storia dell’umanità che ha separato con la Costituzione lo Stato dalla Chiesa, ma rimane profondamente ispirato dalla religione. Non ci dimentichiamo che “In God we trust”, noi confidiamo in Dio, è il motto nazionale.

A proposito della religione lei scrive che nei primi secoli dopo Cristo «si inabissò nell’oblìo il potere dei cittadini basato sull’uguaglianza davanti alla legge». I governati lo erano per volontà di Dio, il cambiamento era previsto solo nell’Aldilà e la massa diventa massa salvationis. Un tale rapporto tra governo e religione quanto ha inciso nella storia dell’umanità non solo a livello politico, ma anche culturale e di pensiero?

Per gran parte dei millenni della storia umana, la religione e lo Stato si sono identificati nella persona del sovrano, delegato della divinità, se non dio egli stesso. L’avvento del Cristianesimo è stato uno straordinario fatto epocale, con enormi conseguenze. Soprattutto, fu decisivo il trionfo del monoteismo. A differenza di quello greco – la democrazia ateniese aveva un fondamento religioso e chi metteva in discussione gli dei della città poteva finire condannato a morte, come accadde a Socrate – il politeismo romano aveva stabilito una sorta di tolleranza dei culti. Invece l’avvento del monoteismo, per sua stessa origine – un popolo o una comunità riceve direttamente da Dio la rivelazione – porta all’intolleranza verso tutti coloro che non si convertono. Quindi c’è una potenziale incompatibilità fra monoteismo religioso e pluralismo democratico. E questo è durato nel mondo occidentale fino alla rivoluzione francese e americana. Millequattrocento anni in cui la massa è stata assoggettata alla credenza che esiste il pastore, il capo, unto da Dio sostenuto dalla Chiesa, al quale la massa dei governati deve obbedienza incondizionata. Quando qualcuno osava uscire dal sacro recinto, io lo chiamo così, o era massacrato – e pensiamo a quanti atei, eretici o pagani lo furono – o finiva per creare altri sacri recinti dove il capo benedetto da Dio rimaneva comunque il sovrano assoluto.

Quanto è chiara oggi questa eredità del passato?

Oggi addirittura si tende a confondere il significato storico della parabola di Cristo “date a Cesare quel che è di Cesare”, interpretandola come segno di laicità. In realtà la laicità come concezione fondamentale dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro fede, nasce dal pensiero laico, non da quello religioso. Solo molto faticosamente poi è stato accettato dalle Chiese.

Marx ed Engels avevano l’idea del cambiamento, l’immagine della massa dunque era positiva?

Sì, ma fino a un certo punto. Fin dalla rivoluzione francese anche i capi che hanno sostenuto teorie e pratiche di governo emancipatrici, non sempre le “sentivano” in pratica. Marx ed Engels teorizzavano che non sono gli individui e i capi a fare la storia ma sono le masse, in realtà però loro alla fine si allontanarono dal partito operaio.
Allo stesso modo Lenin diffidava delle masse organizzate nei sindacati e nei partiti socialisti, perché le considerava propense solo a conquistare benefici salariali invece di essere preparate alla rivoluzione. Perciò fin dal 1902 teorizzò il partito di minoranza dei rivoluzionari di professione, un’avanguardia formata anche da borghesi, per realizzare la conquista violenta del potere in nome del proletariato. Poi, nel 1917 concepì la partecipazione diretta delle masse al governo, come sostenne nel libro Stato e rivoluzione, ma quando conquista il potere e si trova ad agire con le masse reali comincia a preoccuparsi. Vede che la massa russa è bruta e inerte e riprende quindi il concetto di partito d’avanguardia. Babeuf, ancora prima, all’epoca della rivoluzione francese, e poi Blanqui, avevano già sostenuto la necessità di una minoranza attiva che indichi alle masse quali sono i loro veri interessi altrimenti queste, assoggettate per secoli alla monarchia o alla religione, non riescono a formarsi una propria coscienza rivoluzionaria. L’asserzione di Marx: «L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera di loro medesimi», in realtà viene negata da tutti coloro che sostengono il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie.

«Considerare l’uomo naturalmente incline al bene o naturalmente incline al male, considerare gli esseri umani per natura eguali o diseguali» sono i presupposti, lei scrive, delle concezioni della politica e del potere. Quindi il timore per la folla è perché si pensa ad una cattiveria innata?

Io direi così, in maniera propriamente laica: la differenza è tra una concezione dell’uomo come essere razionale che può acquistare la consapevolezza di ciò che è il suo destino e vuole sceglierlo senza dipendere da altri, e quella che considera l’uomo irrimediabilmente irrazionale e incapace di governarsi e scegliere da sé e quindi ha bisogno sempre di essere guidato come un gregge . È chiaro che se le religioni partono dal presupposto che l’essere umano dipende dalla volontà di Dio o da chi la interpreta, non riusciranno mai a concepire che l’essere umano possa governarsi da solo.

Quanto è attuale oggi l’insegnamento di Le Bon?

Oggi c’è un rapporto diretto, sempre più accentuato tra la folla, elettorale, chiamiamola così, e i candidati. E sempre di più si personalizza la politica e il potere, ma i candidati al governo si rivolgono alle masse con metodi, modi e espressioni che sembrano mutuati dagli aspetti più demagogici dell’insegnamento di Le Bon.
Non si parla più delle visioni e programmi politici, ma tutto si riduce a espressioni come “metterci la faccia”, “parlare alla pancia”, “intercettare i bisogni”. Si assiste, insomma, ad una sorta di corporizzazione fisica della politica incarnata nella persona del capo, addirittura nella sua immagine, che si sovrappone e persino esaurisce in sé il significato delle proposte politiche.

In Europa i populismi avanzano, dall’Ungheria alla Francia, dall’Austria alla Polonia. C’è il rischio che la folla diventi “apatica, beota o servile”?

I successi elettorali dei movimenti populisti, i governi formati da questi movimenti, sono spesso il prodotto di elezioni col metodo democratico e godono del consenso della maggioranza, prima di essere imposti con un atto autoritario. Oggi tutti si proclamano democratici. Ma forse proprio in questo senso Le Bon può essere una lettura utile, può aiutarci non a diventare una folla apatica, beota e servile, ma a diventare e rimanere individui consapevoli e cittadini responsabili.
Le Bon era un conservatore che non amava la democrazia, temeva egualmente i “Cesari”, come lui li chiamava, che impongono un regime personale fondato sul plebiscito. Non voleva revocare il suffragio universale e sosteneva che il parlamento, pur con tutti i difetti, era una istituzione che poteva impedire il monopolio del potere nelle mani di un capo. Combatteva lo statalismo, sosteneva la libertà di stampa, e paventava il potere delle oligarchie economiche operanti su una dimensione globale alle spalle dei governi democratici. Le Bon insegnava ai capi come conquistare le folle, ma la sua lezione può essere utile anche per resistere alla seduzione dei capi che predicano la democrazia mentre praticano l’autocrazia mascherandola con la demagogia.

La sinistra, la comunicazione, l’esserci

Triskel182

Paola Natalicchio e Marco Furfaro, di Sinistra Italiana, mi hanno gentilmente invitato, sabato, a un incontro che hanno organizzato a Roma. Mi hanno detto che potevo dire assolutamente tutto quello che volevo e io ne ho biecamente approfittato. Nonostante ciò, alla fine nessuno mi ha tirato ortaggi, anzi alcuni hanno perfino applaudito, cosa di cui li ringrazio. Qui di seguito, per chi è interessato, la scaletta in sintesi delle tre brevi sciocchezze che ho detto un po’ più a braccio.

Paola e Marco, nell’invitarmi gentilmente qui oggi, mi hanno chiesto di fare una “recensione alla sinistra che non c’è”, il che mi suggerisce due cose: la prima è che io mi sono fatto la fama di rompiscatole; la seconda è che l’obiettivo della sinistra oggi non è cambiare il mondo ma semplicemente esserci.

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Capitalism kills Love

«La vita? Non è solo lavoro»: a Berlino nasce il centro per il rifiuto della carriera

di Gianpaolo Pepe – berlinocacioepepemagazine.com, 21 settembre 2016

Perché lavoriamo? Produciamo beni e servizi perché ne abbiamo realmente bisogno o solo perché possano tramutarsi in profitto? Ma soprattutto: chi ha stabilito che l’attuale mondo del lavoro debba fondarsi sull’ossessione per la carriera e sulla costante tensione verso l’automiglioramento? Queste e altre domande affollavano la mente di Alix Faßmann quando, circa due anni fa, decise di abbandonare il suo lavoro di giornalista e addetta stampa per la SPD (il partito socialdemocratico tedesco) e di intraprendere un viaggio chiarificatore in Sicilia. Ed è stato lì che ha incontrato Anselm Lenz, autore teatrale presso l’Hamburger Spielhaus (uno dei teatri più prestigiosi di Germania) che, stanco a sua volta di sacrificare amicizie, passioni e tempo libero sull’altare della carriera, si era licenziato ed era partito alla volta dell’Italia. Lenz, affascinato dalle idee dell’allora 33enne Faßmann, la convinse a raccoglierle in un libro: fu così che, nella primavera del 2014, vide la luce Arbeit ist nicht unser Leben: Anleitung zur Karriereverweigerung (Il lavoro non è la nostra vita: guida al rifiuto della carriera). Il libro fu una sorta di manifesto programmatico per Haus Bartlebythink tank che i due fondarono pochi mesi dopo a Berlino intendendolo come un Zentrum für Karriereverweigerung, “centro per il rifiuto della carriera”. Ma, soprattutto, come pensatoio che, pur non disponendo di teorie e modelli per il mondo di domani, ritiene indispensabile elaborare spunti critici verso la società tardocapitalistica e le sue modalità di lavoro.

© Facebook – Haus Bartleby

© Facebook – Haus Bartleby

Il centro. Haus Bartleby, che ha sede a Neukölln, deve il suo nome a un romanzo di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, il cui protagonista lavora come copista presso uno studio legale di Wall Street ma ad un tratto, dopo un periodo di attività intensissima, si rifiuta di continuare la sua ottundente mansione pronunciando la celebre frase I would prefer not to, che è appunto lo slogan del Zentrum berlinese. Haus Bartleby raccoglie professionisti dei settori più disparati, tutti accomunati dalla volontà di decostruire l’assunto in base al quale carriera e successo debbano determinare il valore di una persona. Un progetto culturale che ha evidentemente intercettato un nervo scoperto della società tedesca: gli abbonamenti alla rivista del centro sono infatti in crescita costante, mentre diversi importanti quotidiani (tra cui Die Welt, Die Zeit, Huffington Post) si sono interessati alla creatura di Faßmann e Lenz, che nel frattempo ha continuato a sfornare pubblicazioni, a incassare l’appoggio di istituti importanti come il Club of Rome e la Rosa-Luxemburg Stiftung e a organizzare una serie di conferenze con filosofi ed economisti sul futuro del lavoro. Tra i simpatizzanti dell’associazione, che ormai conta una decina di membri fissi e più di quaranta collaboratori esterni, ci sono anche Dirk von Lowtzow della celebre rock band amburghese Tocotronic e l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, entrambi autori di un saggio nell’antologia Sag alles ab!, pubblicata nel 2015.

© Facebook – Haus Bartleby

© Facebook – Haus Bartleby

La filosofia di Haus Bartleby. «Il lavoro, così come si dà oggi, è una malattia. La proprietà, nelle forme attuali, un crimine di dimensioni storiche», si legge sul sito del centro. Il j’accuse di Haus Bartleby è radicale, e si rifà chiaramente a un filone di pensiero da sempre molto vivo in Germania, che abbraccia analisi marxiana, anticapitalismo, teoria critica. Ma queste riflessioni provengono in primis dalle concrete esperienze di vita e di lavoro dei suoi fondatori. Che, prima di mollare tutto, non erano manager stressati o precari sottopagati, ma professionisti con mansioni stimolanti, almeno in apparenza. Tra di essi, c’è anche Hendrik Sodenkamp, 27enne ex assistente personale di Carl Hegemann (affermato drammaturgo del Berliner Volksbühne) e studente di letteratura tedesca prima di imbattersi in Haus Bartleby. Anche lui, come Faßmann e Lenz, sentiva che qualcosa non funzionava: ne aveva abbastanza di lavorare 60 ore alla settimana, di sacrificare amicizie e tempo libero, di piegarsi a logiche improntate alla competizione, al continuo self improvement, al mantra anni ’80 del “lavoratore imprenditore di se stesso”, così come ai meccanismi di un’università strutturata soltanto su crediti, voti e «attenzione alle richieste del mercato». E tutto questo per cosa? Per inseguire il mito della carriera, un’ambizione che costringe a vivere «costantemente proiettati nel futuro, nel prossimo step funzionale al successo, mentre nel “qui e ora” non facciamo mai quello che sarebbe giusto per noi», spiega Sodenkamp Die Zeit. Ma, suona la domanda posta da Haus Bartleby, a chi serviamo quando ci dedichiamo alla promessa della carriera? Non a noi stessi, se il nostro lavoro è determinato soltanto dalla necessità economica di portare a casa uno stipendio o dalla pressione sociale che ci impone di raggiungere una posizione adeguata alle aspettative nostre o di chi ci circonda. Ma nemmeno agli altri e al mondo, se il risultato di tanti processi produttivi – materiali o intellettuali – è soltanto «aria fritta» – così definisce Alix Faßmann le sue mansioni alla SPD – o spesso addirittura nocivo.

Rifiuto della carriera, non elogio dell’ozio. Ma questi “negatori della carriera”, in realtà, non rifiutano il lavoro in sé, come potrebbe a prima vista sembrare, bensì soltanto quello eterodiretto (un tempo si sarebbe detto alienato), non incentrato sulla realizzazione delle proprie passioni e dei propri bisogni. «Da quando ci siamo licenziati lavoriamo in realtà molto di più», ride Sodenkamp, «ma per qualcosa che riteniamo davvero utile, riflettere sulle disfunzioni del nostro modello sociale. Insomma, il lavoro è qualcosa di positivo, purché sia autodeterminato. Ma se lo si svolge solo sotto la pressione di imperativi economici e sociali, allora una vita buona diventa impossibile». Certo, qualcosa bisogna pur mangiare, e così Faßmann, Lenz e tutti i collaboratori a tempo pieno si arrangiano con lavori part-time di vario genere per arrivare alla fine del mese. Ma, anche se i soldi sono pochi e la fatica tanta, sono soddisfatti perché riescono a non perdere il senso di quello che fanno: contribuire a immaginare un nuovo mondo del lavoro.

Il “tribunale del capitalismo”. E in quest’ottica rientra anche il nuovo progetto di Haus Bartleby, il “tribunale del capitalismo”. Si tratta di una piattaforma online su cui ogni cittadino può indicare gli aspetti dell’attuale sistema economico che ritiene maggiormente patogeni e da superare. In breve tempo sono arrivati sul sito già quattrocento “capi d’accusa” che toccano questioni molto diverse tra loro come l’austerity e il potere delle multinazionali, la distribuzione della ricchezza e la ripartizione sociale del lavoro. L’anno prossimo i temi più sentiti saranno presentati e dibattuti alla Haus der Kulturen der Welt. I Karriereverweigerer dicono di fare sul serio, di non proporre soltanto una provocazione estetica o un’utopia in stile paese di cuccagna, con benessere per tutti e lavoro soltanto per chi lo desidera. Certo, dopo la pars destruens, manca loro un progetto politico preciso. Ma, come mostrano le proteste di Nuit Debout (che Sodenkamp ha seguito da vicino), il malessere causato dal modello sociale vigente è forte. E qualcosa, prima o poi, dovrà cambiare. Chissà che i progressi nel campo dell’automazione e i dibattiti sul reddito di base non segnino la strada da seguire per una società libera dai feticci neoliberisti della carriera e della produttività a ogni costo.

Foto di copertina © Jeremy hunsinger

Il lato oscuro della carta

segnalato da Barbara G.

Referendum costituzionale, la “legge oscura” che può diventare la nuova Carta: rigonfia di parole e di frasi infinite

La Costituente, prima di approvare il testo, lo fece rileggere a scrittori e letterati per renderlo più semplice e chiaro a tutti, con periodi lunghi in media 20 parole. Per De Mauro è l’unico testo comprensibile alla stragrande maggioranza degli italiani. Il testo della riforma Renzi-Boschi ha articoli di oltre 300 e 400 parole. In un caso si è passati da 9 a 439 e il punto arriva dopo oltre 170 vocaboli

di Diego Pretini – ilfattoquotidiano.it, 26/07/2016

Articolo 1l’Italia è Repubblica democratica, fondata sul lavoro. I 556 della Costituente l’avevano scritto così, forse solenne ma bruttino. Una, mancava una, una Repubblica. A mettere un colpetto di matita dopo la quarta parola della bozza di Costituzione uscita nel 1947 non fu un giurista né un funzionario del ministero né unsmall_110220-232300_to141207sto_0065parlamentare. Fu uno scrittore, si chiamava Pietro Pancrazi, scriveva anche sul Corriere della Sera, era di Cortona, non lontano da Laterina. Fu il presidente dell’Assemblea, Umberto Terracini, a chiamarlo a rivedere la legge fondamentale dello Stato che stava nascendo. A qualcuno dei costituenti il testo non piaceva, in qualche parte era troppo rigido, troppo tecnico, aulico. Insieme a Pancrazi, prima dell’approvazione finale, la Costituzione fu rivista anche dal latinista Concetto Marchesi (amico di Togliatti) e dal saggista Antonio Baldini. E’ così che diventò la più bella del mondo. “Un monumento in termini di sobrietà, di essenzialità, di economia e anche di eleganza del linguaggio” ha definito la Costituzione Michele Ainis.

Nel 2011 – molto prima che Matteo Renzi diventasse presidente del Consiglio e molto dopo la bocciatura delle riforme di Berlusconi – il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, suggerì che i primi due articoli di ogni legge costituzionale dovrebbero essere sempre: “Articolo 1: ogni norma legislativa deve essere formulata in maniera completa, comprensibile e senza rimandi. Articolo 2: l’inosservanza dell’articolo precedente comporta la incostituzionalità della norma”. Ancora prima, nel 2008, il linguista Tullio De Mauro – invitato al Senato a parlare della Costituzione più bella – spiegò che “l’ideale sarebbe scrivere frasi conSenato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio sul prossimo Consiglio europeomeno di 25 parole, se si vuole essere capiti”. Secondo De Mauro la Costituzione vigente ha “una media esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase”. Per il 93 per cento è scritta con un vocabolario di base, “che già nelle scuole elementari, per chi le fa, può essere noto”. I costituenti “non solo scelgono le parole più trasparenti, per il possibile, ma scelgono di scrivere frasi esemplarmente brevi”. La Costituzione è uno dei pochissimi testi italiani, secondo De Mauro, comprensibile dalla stragrande maggioranza della popolazione. Come la Costituzione, forse, c’è solo Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani. Poi se “uno vuole abbandonarsi all’estro dell’arte fa quello che vuole come Joyce”.

Come fosse il Monologo di Molly Bloom, la parte della Costituzione che aspetta di essere confermata o bocciata nel referendum di autunno, ha articoli di 323, 438, 439 parole. Quasi l’equivalente dell’intero testo della Carta attuale, che contiene 1357 vocaboli. L’articolo 70 – che parla del funzionamento del Parlamento ed è l’applicazione dell’abolizione del bicameralismo perfetto – oggi è composto da 9 parole: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. La riforma istituzionale che porta il nome del ministro Maria Elena Boschi ne aggiunge 430. Quell’articolo riesce a citare, tutti in fila, 9 tra commi di altri articoli della Carta, senza dire di cosa parlano. In un caso non si trova un solo punto per la lunghezza di 173 parole. Per leggere la possibile nuova Costituzione, insomma, non basterebbe un professore di diritto: servirebbe anche uno pneumologo per leggerla fino in fondo. “Di solito chi ha idee chiare le esprime in maniera chiara” ha già spiegato nei mesi scorsi Ainis, consigliando ai riformatori di rileggere i classici. Dell’articolo 70, messa da parte la complessità formale, a un certo punto sfugge il senso per colpa dell’italiano.

Quella sottoposta a referendum – a prescindere dal merito – è una Carta rimpinzata di roba. L’articolo 55 – che parla della composizione del Parlamento – attualmente si sviluppa in due frasi per un totale di 31 parole, soggetto-verbo-complemento, soggetto-verbo-complemento. Quello nuovo ha 5 commi per un totale di 8 frasi187 vocaboli. L’articolo 57 – che si occupa del Senato – dovrebbe essere uno dei passaggi-chiave, perché è alla base del superamento del bicameralismo perfetto. Ma al taglio di un ramo del Parlamento corrisponde una moltiplicazione di parole. Un’aggiunta all’articolo 85 – che regola elezioni, mandato e poteri del presidente della Repubblica – complica tutto: “Quando il presidente della Camera esercita le funzioni del presidente della Repubblica nel caso in cui questi non possa adempierle, il presidente del Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune”.

L’espansione della Carta è dovuta anche al fatto che – forse per paura di poca chiarezza – ripete due volte le stesse cose. Il giudizio preventivo della Corte costituzionali sulle leggi elettorali compare sia all’articolo 73 sui poteri di promulgazione del presidente della Repubblica (per il momento spiegato con tre frasi) sia all’articolo 134 dedicato alla Consulta. L’articolo 70 – sulla formazione delle leggi – non solo si espande, ma si intreccia:

Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione

Lo Statuto Albertino, 1848, 168 anni fa, regolava la legislazione così: “Ogni proposta di legge debb’essere dapprima esaminata dalle Giunte che saranno da ciascuna Camera nominate per i lavori preparatorii. Discussa ed approvata da una Camera, la proposta sarà trasmessa all’altra per la discussione ed approvazione; e poi presentata alla sanzione del Re. Le discussioni si faranno articolo per articolo”.

Joyce non c’entra, dunque. I partiti che si propongono di riformare le istituzioni hanno scritto la nuova Costituzione come se fosse una legge come le altre. E le altre leggi, tendenzialmente, sono scritte male. Zagrebelsky non si stanca mai di ricordare l’articolo 111, riformato nel 1999, cosiddetto del “giusto processo”. Lì ci sono “retorica, linguaggi cifrati e il contemporaneo svuotamento dei contenuti normativi”. Ma anche un vero e proprio errore lessicale. Il 111 dice che “La giurisdizione si attua attraverso il giusto processo”. “Ma la giurisdizione si esercita, non si attua – dice l’ex presidente della Consulta – Perché altrimenti diventa un concetto metafisico. Di sicuro, però, gli artefici non pensavano ad Aristotele o a San Tommaso. Pensavano forse a qualche amico degli amici”.

La linguista Bice Mortara Garavelli, parlando di testi di giustizia, l’ha definita “complicazione indiscreta”: “Indebita complessità sintattica e profonda oscurità semantica”. Il referendum, per Zagrebelsky, è su “un testo scritto malissimo. In certe parti contraddittorio e incomprensibile. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia”.

Costituzione: Landini, si dovrà rispondere a questa piazzaLa legge oscura è un libro dello stesso Ainis in cui si elencavano tutte le mostruosità dei testi di legge. Anzi il giurista ritiene incostituzionali le disposizioni “oscure” perché violano vari articoli tra cui il 54 che prevede il dovere dei cittadini di osservare le leggi, cosa impossibile quando le leggi sono incomprensibili. “Leggi oscuramente scritte – ha scritto Gianrico Carofiglio, magistrato ed ex senatore, in Con parole precise – non solo richiedono l’intermediazione sapienziale degli esperti, ma consentono anche a quegli esperti una più ampia – e soggettiva – interpretazione”. L’ex presidente del Consiglio e ora giudice costituzionale Giuliano Amato è solito fare l’esempio di Vincenzo Scotti, ministro del Lavoro di un governo Fanfani: “Il lodo Scotti non si riuscì mai a capire se aveva abolito o prorogato la “scala mobile”, ma il suo scopo era quello di ottenere su di esso il consenso sia degli uni che degli altri. Scotti era bravissimo nell’ottenere questo risultato”. “Se tu arrivi ad una efficace e concisa messa a fuoco di ciò che hai nella testa – spiegava l’ex capo del governo – trovi le parole che corrispondono a questa messa a fuoco”, mentre il legislatore non chiaro è il legislatore “che vuole nascondere un difficile compromesso che ha raggiunto tra le varie parti politiche e questo compromesso può esprimersi solo con nozioni che si prestano a più letture. È dunque un lessico che sta tra l’oscuro e l’ambivalente”.

Un linguaggio che ha bisogno dell’interprete, qualcuno che sciolga il dubbio. “La parola formulare e magica del giurista sacerdote e stregone dell’antico diritto romano sopravvive ancora oggi – scriveva sempre Carofiglio – E’ lo strumento attraverso il quale i giuristi poco consapevoli della responsabilità democratica del loro lavoro (o troppo consapevoli del loro potere e dell’aspirazione a conservarlo) s’identificano in casta“. E le leggi da interpretare sono sempre pericolose: “Le nostre leggi oscure – aveva anticipato tuttiCesare Beccaria oltre tre secoli fa – finiscono con l’essere benevolmente interpretate se alla porta bussa un amico e viceversa applicate in modo rigido ai nemici e ai forestieri”. Perché le leggi scritte “in una lingua straniera al popolo” lo pongono “nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà”. La differenza tra cittadini e sudditi.

Anche per questo i costituenti – classe dirigente e non casta – non accettarono tutte le modifica del professor Pancrazi. All’articolo 3 (“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”) sostituì “compito” con “ufficio”. I 556 ringraziarono e lasciarono che quell’articolo, quello sull’uguaglianza dei cittadini, fosse il più chiaro possibile a tutti.

Il territorio insicuro e i vincoli europei

“Per l’Europa, impiegare risorse pubbliche per mettere in sicurezza una scuola costituisce un atto ‘sospetto’ e il motivo discende dal fatto che, a differenza della spesa corrente, la spesa per investimenti può essere finanziata aumentando il debito pubblico, ritenuto il peggiore dei mali”. Il commento del professor Alessandro Volpi, dell’Università di Pisa.

di Alessandro Volpi – altreconomia.it, 30/08/2016

Amatrice

Il drammatico terremoto che ha sconvolto l’Italia centrale costituisce l’ennesima conferma che il Paese ha bisogno di imponenti piani di prevenzione e di interventi strutturali in grado di ridurre i grandi rischi ambientali da cui è afflitta la nostra fragile penisola.

In quest’ottica sono fondamentali regole e norme che non solo impediscano un ulteriore deperimento del territorio ma che siano orientate in maniera chiara anche a migliorare la qualità dell’esistente, a cominciare dagli edifici spesso costruiti senza alcuna attenzione ai pericoli naturali e concepiti secondo una pianificazione guidata solo dalla confusa volontà di occupare suolo; norme urbanistiche, regole fiscali, bonus ed altri strumenti che trasformino un patrimonio abitativo di scarsa qualità e infrastrutture non di rado fatiscenti in realtà finalmente “rigenerate”.

Servono però soprattutto gigantesche risorse che nessun bilancio ordinario sarà mai capace di reperire e, d’altra parte, l’assenza di opere preventive impone, subito dopo i disastri, spese colossali per affrontare le emergenze da rintracciare necessariamente, e in breve tempo, proprio in quei medesimi, incerti bilanci ordinari. Secondo stime recenti occorrerebbe un piano straordinario che dovrebbe destinare 4 miliardi di euro l’anno per i prossimi vent’anni per dare corpo alle opere antisismiche e idrogeologiche indispensabili al fine di sanare i mali dei territori. Se poi sono vere le valutazioni secondo cui oltre la metà degli edifici pubblici ha bisogno di interventi strutturali, il conto complessivo potrebbe salire a 100 miliardi di euro necessari nello stesso periodo. A tali cifre andrebbero aggiunti, sempre in termini di recupero ambientale, i costi delle bonifiche dei siti inquinati che occupano in Italia significative porzioni di territorio; prendendo in esame solo i cosiddetti siti di interesse nazionale (SIN), sono stati ritenuti necessari circa 3 miliardi di euro per restituire simili aree agli usi legittimi.

Si tratta, nell’insieme, di risorse in buona misura pubbliche –sia sotto forma di finanziamenti che di sgravi fiscali– non rintracciate e, per molti versi, non rintracciabili neppure modificando radicalmente l’ordine di priorità di spesa pubblica senza un drastico cambiamento di impostazione della contabilità pubblica, a partire ancora una volta dalle regole europee. Solo per rendere più chiara questa sostanziale e contraddittoria “impotenza” può essere utile citare qualche numero ulteriore. Nell’arco di tempo compreso fra il 1991 e il 2008 il totale degli investimenti pubblici destinati alla mitigazione del rischio idrogeologico è stato pari a 7,3 miliardi di euro, una cifra, come è evidente, del tutto insufficiente per conseguire risultati decorosi. Nel periodo 1994-2005 solo per le emergenze e gli indennizzi a seguito di eventi critici nel bacino del Po sono stati spesi invece 12,5 miliardi di euro con l’obiettivo di lenire le ferite che non erano state prevenute.

I dati non sono certo migliori nell’ambito dei finanziamenti destinati al rischio sismico. Il fondo per la prevenzione antisismica, approvato nel pieno della tragedia del terremoto che ha sconvolto l’Aquila è stato programmato su sette anni, dal 2010 al 2016, per un importo complessivo di 965 milioni di euro, subendo per di più ulteriori riduzioni fino ai 44 milioni proprio di quest’anno. Di nuovo, per fare un crudo raffronto è sufficiente citare la stima del costo dei danni del sisma emiliano del 2102 che superano i 13 miliardi. Il perché di questa discrasia fra le risorse destinate alla prevenzione e quelle riservate all’emergenza non è però riconducibile solo alla “disattenzione” della politica ma ha a che fare, appunto, anche, se non soprattutto, con le già citate regole di contabilità, figlie dei vincoli europei, secondo cui proprio gli investimenti, più ancora della spesa corrente, sottostanno alle censure dei parametri “inventati” a Maastricht. Per l’Europa, impiegare risorse pubbliche per mettere in sicurezza una scuola costituisce un atto “sospetto” e il motivo discende dal fatto che, a differenza della spesa corrente, la spesa per investimenti può essere finanziata aumentando il debito pubblico, ritenuto nella visione germanocentrica il peggiore dei mali. È sempre più evidente che una simile visione non è in grado di risolvere nessuno dei grandi problemi strutturali del Vecchio Continente, tra cui quello della sicurezza ambientale è certamente uno dei primi.