Month: gennaio 2017

Per Trump la dittatura è una via obbligata (?)

Il dado è tratto: perché Trump non può far altro che tentare la dittatura

di Jim Sleeper (23 gennaio 2017) – traduzione di Nammgiuseppe

Mentre Donald Trump infuriava nelle primarie Repubblicane lo scorso marzo, ho sostenuto qui e nel programma di Brian Lehrer sulla New York National Public Radio che i Democratici neoliberisti e i Repubblicani del libero mercato stavano lasciando a Trump ciò che il suo Discorso d’Insediamento non gli ha lasciato altra scelta di fare: diventare il dittatore del regime nazionalista, plutocratico che sta installando sotto la bandiera di quello che ha definito “un movimento storico di cui il mondo non ha mai visto l’uguale”.

Ha promesso di difendere gli statunitensi dimenticati e, attraverso loro, la grandezza degli Stati Uniti: “Il 20 gennaio 2017 sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato a essere il sovrano di questa nazione. Gli uomini e le donne dimenticati del nostro paese non saranno più dimenticati … Non vi deluderò mai. Gli Stati Uniti ricominceranno a vincere, a vincere come non hanno mai fatto prima”.

Mai? Come mai prima? Mentre Trump mette al lavoro i suoi statunitensi dimenticati cancellando il pagamento degli straordinari, le indennità e i diritti di organizzarsi in sindacato e mentre protegge quelli che si sono già arricchiti e canalizza il risentimento contro solo certe élite neoliberiste che sono state complici del furto, il termine “dittatore” non è più un eufemismo. Fatemi spiegare perché, nei giorni che abbiamo davanti, saremo lasciati senza fiato dai passi (o sbandamenti) rapidi e aggressivi verso un presidenzialismo autoritario distorsore della Costituzione.

Le denunce di Trump, in occasione dell’insediamento, di “politici che hanno prosperato mentre sparivano i posti di lavoro e le fabbriche chiudevano” – assieme alla sua promessa che “il massacro statunitense” causato dall’assunzione e dall’acquisto di persone e prodotti non statunitensi e dall’aggravamento del crimine, delle bande e delle droghe “finisce qui, finisce ora” – non gli lascia altra scelta che umiliare o distruggere tutti i “politici” che gli si oppongono.

Non importerà se si tratta di conservatori onorevoli che difendono la Costituzione o di Democratici neoliberisti che molto tempo addietro hanno tradito il New Deal che hanno abbigliato di un sottile drappo di “diversità” un elitarismo egoistico e, sì, a volte compiaciuto.

Violenza

Abbiamo già visto Trump minacciare violenza e l’incarcerazione dei suoi avversari politici e dei suoi critici feroci. E abbiamo visto alcuni di loro, da Chris Christie e Mitt Romney, strisciare ai suoi piedi sulle mani e le ginocchia ed essere umiliati pubblicamente. Abbiamo osservato Trump afferrare il capo della maggioranza al Senato, Mitch McConnell, per qualche altra parte della sua anatomia facendo di sua moglie Elaine Chao un membro del gabinetto che può licenziare in un batter d’occhio.

Abbiamo sentito Trump affermare che potrebbe mettersi in mezzo alla Quinta Avenue e sparare a qualcuno senza perdere i suoi sostenitori. Lo abbiamo osservato chiamare il “Popolo del Secondo Emendamento” [il diritto di possedere armi – n.d.t.] a fare i conti con Hillary Clinton, che ha anche promesso di incriminare e “rinchiudere”, solo per dichiarare, ancor più spaventosamente, dopo averla sconfitta, che “non voglio vederla toccata”, come se fosse una sua prerogativa sovrana, e non materia di una magistratura indipendente.

Ciò che possiamo non aver notato è che questo corso spaventoso è divenuto dipendente dalla rotta e storicamente molto familiare. Innanzitutto egli è meno un contestatore e più un aspirante salvatore del “regime” statunitense (e globale) della finanza d’azzardo, dei prestiti predatori e di un marketing degradante e intrusivo dei consumatori che ha fatto di questo finanziere di casinò e predace venditore di sé stesso il suo presidente.

Regimi del passato

Parte della sinistra e dei liberali, tra cui il giornalista di sinistra Corey Robin e il docente di diritto costituzionale Jack Balkin, hanno indagato la possibilità che Trump si possa adattare in qualche misura normalmente all’illuminante paradigma del politologo Stephen Skowronek, in The Politics Presidents Make, di presidenti statunitensi di cambiamento di regime o di sostegno al regime. Robin pare a volte quasi ottimista che Trump sia mettendo il bastone tra le ruote al consenso neoliberista/mercatista. Balkin arriva più vicino a riconoscere la possibilità di una dittatura.

Molti presidenti si sono dati da fare per contrapporre alle mobilitazioni pubbliche modalità di governo efficaci e pragmatiche, il tutto facendo contemporaneamente i conti con i particolari gruppi d’interessi del loro momento storico (“regimi”, come li chiama Skowronek), quali il New Deal o la Reaganomics. Alcuni salgono alla carica, come Franklin Delano Roosevelt e Reagan, da campioni di “regimi” in ascesa. Altri devono puntellare i vacillanti regimi da loro ereditati perché nessuna chiara alternativa pare percorribile.

Oggi né il regime reaganiano né quello del New Deal sembrano realizzabili in un mondo in rapido cambiamento, globalmente interdipendente e democraticamente in frammentazione. Obama è stato preso in mezzo tra, da un lato, il gruppo di reaganiani e neoliberisti il cui vacillante, ma ancora potente, regime del market uber alles ha contribuito a salvare e stabilizzare e, dall’altro, la sua base di ricercatore di un nuovo New Deal il cui tempo non era ancora arrivato.

Trump ha fatto irruzione in quella paralisi dell’immaginazione e del discorso pubblico con una mobilitazione puramente elettorale, vendendo odio, inganno e illusioni: un trionfo del marketing, non dell’arte di governo. Va benissimo attribuire la colpa (come ho spesso fatto) a neoliberisti spavaldi che hanno tradito il New Deal drappeggiando di una sottile vena di “diversità” un elitarismo egoista e farisaico che ha separato i neri delle “azioni positive”  [affirmative action – v. qui) dalla maggior parte dei neri e le donne “impegnate”, manageriali, dalla maggior parte delle altre donne, il tutto dimenticando contemporaneamente e persino ignorando apertamente i “dimenticati” (e “deplorevoli”) statunitensi di Trump.

Attizzare quei legittimi risentimenti degli statunitensi non può produrre un regime migliore e Balkin riconosce che Trump può abbandonarsi a misure sempre più dittatoriali per canalizzare la delusione popolare. Trump abbraccia gli elementi della fallimentare ortodossia Repubblicana del mercato che lo hanno avvantaggiato personalmente, ma quando affronta gli statunitensi che sono stati torchiati da quegli stessi elementi, fa marcia indietro ai vecchi risarcimenti nazionalisti, protezionisti e statalisti simulati, ma fiaccati, dal reaganismo.

Grandezza nazionale

L’enfasi di Trump sulla grandezza nazionale (come quella di David Brooks e William Kristol che pubblicizzarono il “Conservatorismo della grandezza nazionale” un decennio fa) era plausibile per gli Stati Uniti quando la seconda guerra mondiale aveva raso al suolo la maggior parte delle altre economie nazionali. Prospera oggi solo nel negazionismo populista delle nuove realtà.

E getta un’ombra molto tenebrosa sull’osservazione di Skowronek che “i leader politici più forti della presidenza statunitense, quelli che hanno avuto l’impatto politico più duraturo, sono stati quelli, come Lincoln, che sono arrivati più prossimi a cambiare le cose alle proprie condizioni … Il solo modo per un presidente statunitense di mantenere il controllo sul significato delle sue azioni in carica e di stampare tale significato sulla nazione consiste nel ricostruire il governo e la politica dalle fondamenta, in effetti emarginando quelli che hanno una visione alternativa e forzando la loro deferenza.”

Ho citato alcuni esempi di tale deferenza forzata, ma molta della deferenza nei confronti di Trump è più pateticamente bavosa di quanto non sia forzata. Dobbiamo capire perché e forse la guida migliore a ciò che ci aspetta è nel Capitolo III del Volume I del “Declino e caduta dell’impero romano”, di Edward Gibbon. Le analogie storiche possono essere superficiali e a volte pericolose, e Gibbons coltivava pregiudizi, aveva nemici e programmi specifici della sua Inghilterra del diciottesimo secolo. Ma quando i suoi volumi uscirono dalle stampe negli anni 70 del 1700, i fondatori della repubblica statunitense leggevano con attenzione il suo racconto di come Augusto aveva sventrato ciò che restava dei fondamenti e delle libertà della Repubblica Romana persino mentre persuadeva i romani che stava ripristinando tali libertà, usando sia scaltrezza sia brutalità per schiavizzarli sotto una “monarchia assoluta mascherata dalle forme di un benessere comune”.

Lo scetticismo profetico di James Madison, Alexander Hamilton e John Adams a proposito della loro nuova repubblica era notevolmente influenzato dalla sorprendente preveggenza di Gibbon in passaggi come il seguente:

“Augusto era consapevole che l’umanità è governata dalle parole; né fu tradito nella sua aspettativa che il senato e il popolo si sarebbero sottomessi alla schiavitù a condizione che fosse loro assicurato che continuavano a godere della loro antica libertà. Un senato debole e un popolo fiaccato accettarono gioiosamente tale piacevole illusione…”

Gibbon abbozza i diversi motivi dei romani per cedere una cittadinanza robusta in cambio del servilismo. Potete essere in grado di identificare alcuni statunitensi sostenitori di Trump, e persino voi stessi, in quanto segue:

“Le province, a lungo oppresse dai ministri della repubblica, agognavano al governo di una singola persona che sarebbe stata il padrone, non il complice, di quei piccoli tiranni. Il popolo di Roma osservando, con segreto piacere, l’umiliazione dell’aristocrazia [da parte di Augusto] chiedeva solo pane e spettacoli pubblici, offerti entrambi dalla mano generosa di Augusto. Gli italiani ricchi e beneducati [i lettori odierni del New Yorker?] che avevano quasi universalmente abbracciato la filosofia di Epicuro, godevano delle benedizioni presenti dell’agio e della tranquillità e non sopportavano che il piacevole sogno fosse interrotto dal ricordo della loro antica libertà tumultuosa”.

Particolarmente raggelante è il racconto di Gibbon di come Augusto “riformò” il Senato. Nonostante tutte le differenze tra il Senato dell’antica Roma e il nostro, e tra la loro Costituzione e la nostra, vi si rizzeranno i capelli in testa nel leggere il racconto di Gibbon di come Augusto ricattò e brutalizzò determinati senatori, terrorizzando gli altri in misura tale che approvarono leggi che trasferirono prerogativa dopo prerogativa dal popolo e dal Senato a lui:

“La riforma del senato fu uno dei primi passi in cui Augusto mise da parte il tiranno e si professò il padre del suo paese. Egli … espulse alcuni membri, i cui vizi o la cui ostinazione richiedevano un pubblico esempio, persuase [altri] a prevenire la vergona di un’espulsione ritirandosi volontariamente… Ma mentre ripristinava in tal modo la dignità, egli distrusse l’indipendenza del senato. I principi di una libera costituzione vanno irrevocabilmente persi quando il potere legislativo è nominato dall’esecutivo.

Davanti a un’assemblea così modellata e preparata, Augusto pronunciò un’orazione studiata, che esibì il suo patriottismo e mascherò la sua ambizione … [Disse che] l’umanità per sua stessa natura aveva a volte ceduto il passo alle severe leggi della necessità … Egli era a quel punto libero di adempiere il suo dovere e la sua inclinazione. Egli ripristinava solennemente il senato e il popolo in tutti i suoi antichi diritti; e desiderava solo mischiarsi tra la folla dei suoi concittadini e condividere le benedizioni che aveva ottenuto per il suo paese.

Era pericoloso fidarsi della sincerità di Augusto; era ancor più pericoloso apparire diffidenti. I vantaggi rispettivi di monarchia e repubblica hanno spesso diviso ricercatori speculativi; la … grandezza dello stato romano, la corruzione dei modi, e la licenza dei soldati, fornivano nuovi argomenti ai sostenitori della monarchia; e queste visioni generali del governo erano a loro volta distorte dalle speranze e dalle paure di ciascun individuo”.

Potete aver notato notizie di stampa che Trump stava valutando la creazione di una propria forza di sicurezza, indipendente dai servizi segreti, una mossa che The American Prospect ha giustamente definito “una decisione che viola i precedenti” e che “fa sorgere inquietanti domande sulla trasparenza e la rispondenza”.

Quando la squadra della transizione di Trump ha scoperto che il presidente ha anche il comando completo dell’unità della Guardia Nazionale del Distretto di Columbia, ha informato il comandante di tale unità, Errol Schwartz, che il suo congedo sarebbe stato effettivo precisamente a mezzogiorno del giorno dell’insediamento, nel mezzo della cerimonia, cosicché non sarebbe stato in grado di accogliere al ritorno i soldati che aveva fatto uscire quella mattina. (Due giorni prima dell’insediamento tale decisione è stata riconsiderata e a Schwartz è stato concesso tempo sufficiente per completare la cerimonia e impacchettare le sue cose).

Questo è sinistramente simile al racconto di Gibbon della creazione della guardia pretoriana di Augusto dopo che il Senato gli aveva concesso “un importante privilegio: … con una pericolosa eccezione alle antiche massime, egli era autorizzato a mantenere il suo comando militare, appoggiato da una numerosa guardia del corpo, anche in tempo di pace, e nel cuore della capitale”.

Dimostratemi che sbaglio

Non vedo nulla nei precedenti, nel carattere, nelle situazioni di “regime” di Trump che scoraggi o che limiti tali tendenze. Cosa più importante, molti statunitensi, dopo decenni di intrappolamento come mosche nella ragnatela di macchine di sorveglianza appiccicose, svuotatasche e di numeri verdi, mi ricordano che i romani di Gibbon furono lenti nello scoprire “le cause più recenti della decadenza e della corruzione”, la subdola introduzione di “un veleno lento e segreto negli organi vitali dell’impero” fino a quando i cittadini di Roma “non ebbero più quel coraggio civile che è alimentato dall’amore per l’indipendenza, dal senso dell’onore nazionale, dalla presenza del pericolo e dall’abitudine del controllo. Ricevettero leggi e governanti dalla volontà del loro sovrano e si affidarono per la loro difesa a un esercito mercenario …”

Quanto più sottilmente impoveriti e imprigionati noi statunitensi diveniamo nel regime che ci ha dato Donald Trump, tanto più ricorriamo anche a palliativi in pillole, fiale, siringhe e spettacoli vuoti che ci lasciano, come disse Cicerone dei suoi concittadini romani “troppo malati per sopportare le nostre malattie o le loro cure”, capaci solo di occasionali esplosioni da folla e di richieste di un uomo forte che vanti che, avendo già comprato i politici i cui eccessi deregolatori e i cui versamenti di assistenza all’industria hanno stupefatto e imprigionato gli Stati Uniti, egli è in grado di “licenziarli”.

Io spero che noi statunitensi troveremo modi per fare il possibile per dimostrare che ho torto. Ai principianti raccomando Six Principles for Resisting the Presidency of Resist Trump.

Jim Sleeper, lettore di scienze politiche alla Yale, è autore di “Liberal Racism” (1997) e di “The Closest of Strangers: Liberalism and the Politics of Race in New York” (1990).

Fonte: http://znetitaly.altervista.org/art/21624

Il nuovo che avanza (speriamo che non sia un’Alba Dorata)

di Yanis Varoufakis- 11 novembre 2016 – The Conversation

L’elezione di Donald Trump simbolizza la fine di una straordinaria era. È stato un tempo in cui abbiamo visto il curioso spettacolo di una superpotenza, gli USA, che diventavano più forti grazie a – piuttosto che nonostante – il suo proliferante deficit. È stato straordinario anche a causa dell’improvviso afflusso di due miliardi di lavoratori – da Cina ed Europa Orientale – nella catena di distribuzione internazionale del capitalismo. Questa combinazione ha dato al capitalismo globale uno storico slancio, mentre al contempo sopprimeva le quote di reddito e prospettive del lavoro in Occidente.

Il successo di Trump arriva nel momento in cui questa dinamica si esaurisce. La sua presidenza rappresenta una sconfitta per i democratici liberal dappertutto, ma contiene importanti lezioni – e altrettanza speranza – per i progressisti.

Dalla metà degli anni ’70 fino al 2008, l’economia USA ha mantenuto il capitalismo globale in un equilibrio instabile, ma finemente bilanciato. Ha risucchiato nel suo territorio le esportazioni nette di economie come quelle di Germania, Giappone e più tardi Cina, fornendo alle fabbriche più efficienti del mondo la domanda necessaria. Come è stato pagato questo crescente deficit commerciale? Con il ritorno a Wall Street di circa il 70 per cento dei profitti fatti dalle multinazionali straniere, che venivano investiti nei mercati finanziari americani.

Per far funzionare questo meccanismo di riciclaggio, Wall Street doveva essere liberate da tutti i vincoli; rimasugli del New Deal del presidente Roosevelt e l’accordo post guerra di Bretton Woods che cercava di regolare i mercati finanziari. Questo è il motivo per cui i funzionari di Washington erano così desiderosi di deregolare la finanza: Wall Street procurava il canale attraverso cui crescenti influssi di capitale dal resto del mondo equilibravano i deficit USA i quali, a loro volta, fornivano al resto del mondo la domanda aggregata che stabilizzava il processo di globalizzazione. E così via.

Il risultato

Tragicamente, ma anche molto prevedibilmente, Wall Street ha proceduto a costruire impenetrabili piramidi di denaro privato (altrimenti note come derivati strutturati) sopra ai flussi di capitale in entrata. Quel che è accaduto nel 2008 è qualcosa che i bambini piccoli che hanno cercato di costruire un castello di sabbia infinitamente alto sanno bene: le piramidi di Wall Street sono collassate sotto il loro stesso peso.

È stato il “momento 1929” della nostra generazione. Le banche centrali, guidate dal capo della Fed Ben Bernanke, uno studioso della Grande Depressione degli anni ’30, si sono precipitate per prevenire una ripetizione degli anni ’30 rimpiazzando il denaro privato evaporato con credito pubblico facile. La loro mossa ha evitato una seconda Grande Depressione (eccetto per i punti più deboli come la Grecia e il Portogallo) ma non non hanno avuto la capacità di risolvere la crisi. Le banche sono state rimesse a galla e il deficit commerciale USA è ritornato ai suoi livello pre-2008. Ma la capacità dell’economia americana di equilibrare il capitalismo mondiale era scomparsa.

Il risultato è la Grande Deflazione Occidentale, segnata da tassi di interesse ultra bassi o negativi, prezzi in caduta e lavoro svalutato dappertutto. Come percentuale del reddito globale, i risparmi totali del pianeta sono ad un livello record mentre gli investimenti aggregati sono al livello più basso.

Mentre si accumulano così tanti risparmi inutilizzati, il prezzo del denaro (cioè il tasso di interesse) e in effetti di ogni cosa, tendono a cadere. Questo sopprime gli investimenti e il mondo finisce in un equilibrio di di bassi investimenti, bassa domanda, bassi ritorni. Proprio come nei primi anni ’30, questo ambiente produce xenofobia, populismi razzisti e forze centrifughe che stanno facendo a pezzi istituzioni che erano la gioia e l’orgoglio dell’Establishment Globale. Date un’occhiata all’Unione Europea o al TTIP.

Pessimo affare

Prima del 2008 i lavoratori negli USA, in Gran Bretagna e nella periferia d’Europa erano placati con la promessa dei “guadagni da capitale” e del credito facile. Le loro case, gli era stato detto, potevano solo incrementare il loro valore, sostituendo la crescita della retribuzione. Contemporaneamente il loro consumismo poteva essere finanziato attraverso secondi mutui, carte di credito e il resto. Il prezzo era il loro consenso ad un graduale arretramento del processo democratico e la sua sostituzione con una “tecnocrazia” intenta a servire fedelmente, e senza scrupoli, l’interesse dell’1%. Ora, otto anni dopo il 2008, queste persone sono arrabbiate e lo sono sempre più.

Il trionfo di Trump completa la ferita mortale che questa era ha sofferto nel 2008. Ma la nuova era che la presidenza Trump inaugura, prefigurata dalla Brexit, non è per niente nuova. È, in effetti, una variante post-moderna degli anni ’30, completa di deflazione, xenofobia e politiche di divide et impera. La vittoria di trump non è isolata. Rafforzerà indubbiamente le politiche tossiche scatenate dalla Brexit, l’evidente fanatismo di Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen in Francia, la crescita di Alternative für Deutschland, le “democrazie illiberali” emergenti nell’Europa dell’Est, Alba Dorata in Grecia.

Fortunatamente Trump non è Hitler e la storia non ripete mai se stessa fedelmente. Grazie al cielo il grande business non sta finanziando Trump e i suoi amichetti europei allo stesso modo in cui aveva finanziato Hitler e Mussolini. Ma Trump e le sue controparti europee sono riflessi di una emergente Internazionale Nazionalista che il mondo non ha visto più dagli anni ’30.

Esattamente come negli anni ’30, così anche ora un periodo di “crescita Ponzi” alimentata dal debito, progetti monetari difettosi e la finanziarizzazione hanno portato a crisi bancarie che hanno generato forze deflazionarie le quali hanno creato un mix di nazionalismo razzista e di populismo. Esattamente come nei primi anni ’30, così anche ora un establishment incompetente punta i fucili contro i progressisti come Bernie Sanders e il nostro primo governo Syriza del 2015, ma finisce messo sottosopra da bellicosi razzisti nazionalisti.

Risposta globale

Lo spettro di questa Internazionale Nazionalista può essere assorbito o sconfitto dall’Establishment Globale? Ci vuole un bel po’ di fede per pensare che possa farlo, visto lo stato di profonda negazione e persistente mancanza di coordinazione dell’Establishment. C’è un’alternativa? Io penso di sì: una Internazionale Progressista che resista alla narrativa dell’isolazionismo e promuova un internazionalismo umanista inclusivo al posto della difesa fatta dall’Establishment neoliberista dei diritti del capitale di globalizzare.

In Europa questo movimento esiste già. Fondato a Berlino lo scorso febbraio, il Movimento per la Democrazia in Europa (DiEM25) sta tentando di ottenere ciò che una precedente generazione di europei non è riuscita a fare negli anni ’30. Vogliamo rivolgerci ai democratici attraverso i confini e le linee di partito chiedendo loro di unirci per mantenere i confini e i cuori aperti mentre pianifichiamo politiche economiche sensate che consentano all’Occidente di imbracciare di nuovo la nozione di prosperità condivisa, senza la “crescita” distruttiva del passato.

Ma l’Europa chiaramente non è abbastanza. DiEM25 incoraggia i progressisti negli USA, che hanno sostenuto Bernie Sanders e Jill Stein, in Canada e in America Latina ad unire le forze in un Movimento per la Democrazia nelle Americhe. Stiamo anche cercando progressisti nel Medio Oriente, specialmente coloro che stanno spargendo il loro sangue contro l’ISIS, contro la tirannia e contro i regimi fantoccio dell’Occidente, per costruire un Movimento per la Democrazia nel Medio Oriente.

Il trionfo di Trump arriva con dei risvolti positivi. Dimostra che siamo ad un bivio in cui il cambiamento è inevitabile, non solo possibile. Ma per assicurare che non sia il tipo di cambiamento che l’umanità ha sofferto negli anni ’30, abbiamo bisogno di movimenti che saltino fuori e forgino una Internazionale Progressista per spingere passione e ragione di nuovo al servizio dell’umanismo.

fonte: https://theconversation.com/trump-victory-comes-with-a-silver-lining-for-the-worlds-progressives-68523

traduttore Lame

“Negando il genocidio degli altri, stiamo tradendo quello ebraico”

segnalato da Barbara G.

Yair Auron: “Negando il genocidio degli altri, stiamo tradendo quello ebraico”

di Stefano Jesurum – glistatigenerali.com, 17/01/2017

Yair ovvero, in ebraico, “che dà la luce”. E le parole del professor Yair Auron certamente illuminano, anche se ciò che riflettono porta con sé la cupezza e l’oscurità del pessimismo più assoluto. Auron è a Milano per intervenire oggi alla bella iniziativa che Gabriele Nissim e la sua Gariwo (La Foresta dei Giusti) organizza al Teatro Parenti con lo scopo di creare le premesse per l’elaborazione di una Carta dei valori intorno ad alcune tematiche morali del nostro tempo. Ieri sera Yair ha incontrato Sinistra per Israele per raccontare ciò che secondo lui è la realtà attuale del suo paese e del Conflitto con la C maiuscola, vale a dire quello con i palestinesi.

Cominciamo col dire chi è: storico e accademico specializzato in studi su Shoah, genocidi, razzismo, ha insegnato in università israeliane e statunitensi ed è stato negli anni Settanta direttore dell’Education Department di Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme. Un uomo che – alla vista – rispecchia appieno le più romantiche reminiscenze dei pionieri. Viso segnato dal sole e dalle battaglie, abbigliamento e portamento rozzamente raffinati, eloquio appassionato, duro, molto duro, forse troppo per le nostre orecchie. Storia personale da manuale sionista d’altri tempi. «Sono cresciuto in una famiglia sionista socialista polacca legata all’Hashomer Hatzair. Mio padre emigrò in Palestina negli anni Trenta e l’intera sua famiglia fu sterminata dai nazisti… di questo non mi parlò mai, ricordo che andavamo a visitare lo Yad Vashem e lui non mi diceva nulla. Ho vissuto in kibbutz, sono stato nell’esercito, paracadutista, ho combattuto, ho partecipato alla conquista di Gerusalemme. Ho sofferto di un trauma post bellico perché il mio amico del cuore, il mio amico d’infanzia, è morto in battaglia». Non c’è dunque da stupirsi se Yair e famiglia abitano da tempo a Nevé Shalom / Wahat al-Salam (Oasi di Pace), un villaggio cooperativo dove convivono ebrei e palestinesi israeliani, una settantina di famiglie e una discreta richiesta di nuove entrate che per ora sono ferme per mancanza di terra.

Il tema principale dei suoi studi, l’ossessione di Auron è il genocidio, o meglio i genocidi. Da anni infatti si batte per il riconoscimento da parte di Israele e del mondo del genocidio armeno. Ed è dal genocidio che parte per (quasi) ogni sua riflessione. Iniziando dalla constatazione che troppo a lungo è durato il silenzio su quello e che a tutt’oggi solamente ventisei nazioni lo riconoscono. Continuando con la constatazione che il genocidio curdo, per esempio, così come altri hanno avuto la medesima sorte.

Ma che cosa c’entra con lo Stato di Israele oggi? «C’entra. La catastrofe israeliana consiste nel fatto che è in corso una tragedia. Una tragedia per gli ebrei, per i palestinesi, per l’umanità». E spiega che «se neghiamo il genocidio armeno noi tradiamo il genocidio ebraico». Continua: «In Israele, purtroppo, non studiamo i genocidi da un punto di vista comparativo, ma insegniamo soltanto il genocidio ebraico, la Shoah. Non insegniamo gli altri genocidi, né nei licei, né nelle università. Una situazione inaccettabile sia dal punto di vista morale che da quello accademico. Per molti anni abbiamo sviluppato la filosofia dell’unicità ed esclusività della Shoah. Io non lo accetto. La Shoah non è una categoria unica, come se ci fosse un concetto chiamato Olocausto e un altro concetto chiamato genocidio. Penso invece che la Shoah debba essere studiata nel quadro degli studi comparati sui genocidi. In questo quadro dobbiamo esaminare gli elementi comuni tra gli atti di genocidio e comprendere che cosa distingue l’Olocausto dagli altri. Certo, ci sono caratteristiche uniche come le camere a gas, tuttavia le teorie razziste sono molteplici, e in ogni atto di genocidio si sono sviluppate in vari gradi di sofisticazione. Le teorie razziste contro gli ebrei erano molto ben sviluppate e scientifiche. Un’altra caratteristica unica dell’Olocausto è il fatto che i tedeschi volevano uccidere gli ebrei ovunque ne avessero potuti trovare. La loro missione era uccidere tutti gli ebrei in Europa. Avevano nel mirino anche gli ebrei del Nord Africa e del Medio Oriente».

Yair segue un suo demone che palesemente lo divora. «Dico questo perché sono un essere umano e un ebreo, e inoltre perché il genocidio ebraico ha una rilevanza per l’umanità e non solo per il popolo ebraico. Noi siamo portati a sminuire l’importanza della Shoah guardando a essa in maniera particolaristica. Invece noi in quanto vittime – ebrei, armeni, tutsi e purtroppo altri – abbiamo molto in comune. Gli atti di genocidio ai quali siamo sopravvissuti ci rendono fratelli, nel senso più profondo del termine».

Ed ecco che una platea come quella di Sinistra per Israele, pur preparata e assai critica nei confronti delle politiche della destra israeliana al governo, ammutolisce… «Sì, noi tradiamo il genocidio ebraico», quasi urla Yair Auron, «il nostro è un fallimento morale, lo stesso fallimento morale che riguarda anche i palestinesi». Perché, secondo l’uomo del kibbutz e di  Nevé Shalom / Wahat al-Salam, il genocidio non è passato, ma presente e futuro. È dal 2012 che noi sappiamo del Darfur e non facciamo niente. Noi non facciamo nulla contro i crimini di guerra e i delitti contro l’umanità di cui siamo testimoni quotidianamente. «Noi israeliani e voi italiani vendiamo armi alle fazioni in guerra nel Sud Sudan…».

Ecco che il fantasma viene evocato. «La nostra occupazione di territori palestinesi dura da cinquant’anni, è la più lunga occupazione da parte di una società democratica. Noi siamo malati. È malata la leadership politica, però lo è anche la società civile. Noi siamo malati perché occupiamo, i palestinesi sono malati perché sono occupati. Per questo un uomo con la mia storia adesso si dice a-sionista. Abbiamo il nostro Stato, uno Stato forte. Nessuno può distruggere Israele, però possiamo essere sconfitti dal terrorismo. Loro e noi ci stiamo distruggendo. E la responsabilità maggiore è di chi è più forte, cioè noi. Siamo noi che dobbiamo impegnarci per arrivare all’unica soluzione possibile, due Stati per due popoli». Lo dice uno che fece la propria tesi di laurea sulla possibilità di uno Stato binazionale, la posizione che molti anni fa aveva il sionismo socialista. Adesso Yair accusa di fascismo alcuni ministri del governo Netanyahu, pare non avere speranze, appare catastrofista e – diciamolo – un po’ accecato dalla propria esperienza. Ma alla fine si addolcisce un pochino. «Voi guardate il nostro conflitto come se foste al cinema… mi scuso di aver detto cose che forse vi hanno fatto male… è quello che sento, che penso. Io dico sempre ai miei figli di andare a vivere dove pensano di trovare un po’ di felicità… a Tel Aviv, a Milano, a Parigi… o di rimanere a  Nevé Shalom / Wahat al-Salam. Io lì rimarrò per sempre, anche perché c’è uno dei cimiteri più belli del paese». E finalmente sorride. Yair, “che dà la luce”. La luce della speranza non si spegne nei suoi occhi azzurri. Anche se è una luce che illumina tragedie, errori, paure, fantasmi, orrori.

A German Life

«Era così gentile, così elegante. Un gentiluomo». Che di nome faceva Joseph Goebbels, il ministro per la propaganda del nazismo, il numero due dopo Hitler. Ma per Brunhilde Pomsel lui era solo il suo capo: «Un bell’uomo, un po’ vanesio, aveva le mani curatissime», ricorda. Dettagli che a una segretaria perfetta come lei non sfuggivano.

Dal ’42 al ’45 al suo fianco, pronta ad eseguire ogni ordine, mai sfiorata dal dubbio se quel che faceva fosse giusto o no. «Era un lavoro come un altro, di quel che accadeva dietro la porta non sapevo nulla», è la tesi ribadita oggi da questa vecchia sorprendente per lucidità e memoria, che a 104 anni si è raccontata in A German Life , film-intervista di Christian Krönes, Olaf Müller, Roland Schrotthofer e Florian Weigensamer, in programma il 24 al Trieste Film Festival, e poi il 27 nelle sale per la Giornata della Memoria.

Due ore di filmato in bianco e nero con tante sfumature di grigio nascoste nel volto di Frau Pomsel. Spietata, la cinepresa indugia su quel paesaggio di rughe, sulle pupille scure di quella testimone oculare del male e della sua banalità. Tutto ciò che ha visto, sentito e negato affiora lì, in quel volto inguardabile da cui non si può staccare lo sguardo. «È un male se chi ricopre un certo ruolo cerca di fare qualcosa per sé, anche se danneggia altri?», si chiede. Certo che no, perché mettersi contro il potere, rischiare il posto e anche di più?

Lei era stata cresciuta alla prussiana: «Obbedire, mentire, imbrogliare», parole d’ordine della generazione ‘Nastro bianco’ di Haneke. Piccoli nazisti crescono. «Mi sono iscritta al partito nazista. Per la tessera ho pagato 10 marchi». Ben spesi. Prima il posto alla Radio, poi al Ministero di Goebbels, dove ogni giorno si spedivano nei campi ebrei, gay e ribelli. «Non sapevo nulla, io battevo a macchina». Tra le sue mani passano fascicoli scottanti. Come quello di Sophie Scholl della «Rosa bianca». «Morta per un volantino antinazista. Se avesse taciuto sarebbe ancora viva».

Certo, quando Goebbels si scatena dal palco incitando alla «guerra totale» anche lei resta sgomenta. «Un attore fenomenale, da persona civile si trasformava in un nano delirante». Lo seguirà anche nel bunker di Hitler. «Era la fine, si beveva per stordirsi. Poi i suicidi: il Führer, Goebbels e la moglie dopo aver avvelenato i bambini». Lei, Pomsel, se la cava con 5 anni di prigionia in Russia.

Poi torna in Germania, riprende il posto alla Radio, si sposa. «Nessun senso di colpa. Se sono colpevole io lo è anche il popolo tedesco». Nella sua casa in Baviera ha appena compiuto 106 anni.

 (testo di Giuseppina Manin – Corsera, 20 gennaio 2017 )

Inconsulto

La mossa politica della Consulta

Legge elettorale. “Dopo la sentenza la legge corretta è immediatamente applicabile”, scrivono i giudici costituzionali. Ma non è una legge omogenea con quella del senato. Salvate le pluricandidature (però con il sorteggio), affondato il cuore dell’Italicum: il ballottaggio

di Andrea Fabozzi – ilmanifesto.info, 26/01/2017

«Il punto chiave della mia riforma elettorale è il ballottaggio», ha detto e ripetuto Matteo Renzi; la Corte costituzionale ha cancellato il ballottaggio. Come da previsioni, l’Italicum passando attraverso il giudizio della Consulta perde il cuore («senza casca tutto, è un’altra legge», ha sempre avvertito il suo autore, D’Alimonte), salvando il premio di maggioranza ma solo al primo turno. Andrebbe a un partito capace di raggiungere da solo il 40%, eventualità che oggi i sondaggi escludono. Bisognerà pensare ad alleanze travestite da listoni unici. O spostare il premio alle coalizioni, in questo caso però riportando la legge elettorale in parlamento.

Smentendo invece le previsioni originarie, ma confermando le sensazioni dell’udienza di martedì e gli indizi contenuti nella relazione del giudice Zanon, la Corte costituzionale ha salvato le pluricandidature. E bocciato solo la possibilità per i capilista eletti in più collegi di scegliere discrezionalmente per quale seggio optare, successivamente alla proclamazione dei risultati. È questo un punto molto delicato della decisione di ieri, quello che verosimilmente ha impegnato di più la discussione dei giudici e ritardato la decisione (attesa per le 13, è arrivata alle 17). Sul ballottaggio invece la discussione si è concentrata sugli argomenti da inserire nelle motivazioni, che scriverà Zanon entro un mese: la bocciatura sarà spiegata con l’aggiramento del criterio della soglia minima per assegnare il premio.

SALVARE I CAPILISTA bloccati (quelli cioè che non devono guadagnarsi le preferenze) e salvare anche il diritto del capolista di «pluri candidarsi» (fino a dieci collegi diversi, dice l’Italicum) – secondo le aspettative e le speranze di Renzi, condivise dagli altri partiti maggiori – ha richiesto ai giudici l’individuazione di un criterio per la selezione del collegio, diverso dalla discrezionalità dell’eletto. Non lo avessero fatto avrebbero dovuto affidare al parlamento questo lavoro, e dunque non avrebbero potuto scrivere (come hanno fatto, nell’ultima fondamentale riga del comunicato) che «all’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione». Questo criterio è il sorteggio, residuato nell’originale articolo del testo unico sulle leggi elettorali dov’è previsto come norma di chiusura: se l’eletto non sceglie entro otto giorni il collegio, allora decide il destino. Il che impedisce ai partiti di fare calcoli sui candidati arrivati secondi da promuovere o seppellire (in genere in base alla loro fedeltà al leader), ma continua a privare gli elettori del loro diritto di scelta – quello che invece era il presupposto della richiesta di incostituzionalità. Tant’è vero che c’è già l’ipotesi di nuove obiezioni di costituzionalità contro la legge appena nata.

I PROBLEMI NON FINISCONO qui, perché il collegio – proprio per effetto del ritaglio delle norme incostituzionali (in questo caso il comma 27 dell’articolo 2) – nell’Italicum corretto diventa la circoscrizione, il che significa che ci si potrà candidare più volte ma solo in regioni diverse. O quasi, perché un altro comma dell’Italicum che invece è sopravvissuto (la lettera b dell’articolo 1, l’originale emendamento riassuntivo Esposito) continua a parlare di collegi. È un altra incertezza che andrebbe risolta in parlamento.
Al contrario chi spinge per le elezioni anticipate (i renziani) enfatizza il passaggio finale del comunicato della Consulta. Effettivamente clamoroso. Non perché sia smentibile che la legge elettorale uscita dalla sentenza «è suscettibile di immediata applicazione»; questa al contrario è un’ovvietà per le sentenze di questo tipo. La legge elettorale, lo ha spiegato proprio la Consulta, è «costituzionalmente necessaria», dunque dev’essere sempre pronta all’uso. Ma questo Italicum corretto varrà solo per metà parlamento, ed è una legge assai diversa da quella in vigore per il senato (il Consultellum, scritto peraltro dagli stessi giudici). Le soglie di sbarramento sono diverse (più alte: 8% per i partiti che corrono da soli e 3% per quelli in alleanze), sono possibili le coalizioni (con uno sbarramento al 20%) e non c’è il premio di maggioranza. Tutt’altro che due sistemi «omogenei, non inconciliabili e pienamente operativi», come da precisa richiesta del presidente della Repubblica.

LE DUE RIGHE CONCLUSIVE dei giudici guardano solo alla situazione della camera e raccontano una mezza verità; sono più politiche che giuridiche. Non a caso nulla del genere era contenuto nel comunicato che annunciava la sentenza «gemella» del 2013 sul Porcellum. Al contrario, allora si riconosceva al parlamento la facoltà di intervenire sulla legge. E fu nelle motivazioni che i giudici spiegarono di aver prodotto una legge «complessivamente» applicabile, anche se precisando, come si deve a maggior ragione dire oggi, che «non rientra tra i compiti di questa Corte valutare l’opportunità e/o l’efficacia di tale meccanismo».
I giudici della Consulta hanno così accolto solo due richieste di incostituzionalità su undici. Può essere poco ma è tanto per il pool di avvocati che ha promosso i ricorsi. «È stato confermato il principio che leggi elettorali possono essere sottoposte alla Corte costituzionale anche prima del loro utilizzo a partire dai diritti dei cittadini elettori – dice il coordinatore del pool, Felice Besostri -. Il risultato dipende anche dall’atteggiamento dell’Avvocatura dello stato e dunque del governo, che ha chiesto l’inammissibilità totale dei ricorsi. Su questo abbiamo avuto ragione noi. Ne viene fuori una legge autoapplicativa sì, ma non omogenea con quella del senato. Il fatto che il Pd dica che la Corte ha salvato l’impianto dell’Italicum – conclude Besostri – conferma che quel partito ha perso ogni contatto con la realtà».

Uno vale uno (che sia quercia o che sia pruno)

di Nammgiuseppe – 19 gennaio 2017

Il principio “uno vale uno” è di qualche attualità quasi prevalentemente per denunciare l’incoerenza, supposta o reale, del M5S al riguardo.

Tuttavia il principio meriterebbe di essere dibattuto quanto

a) alla sua validità

b) alla sua attuazione (nel caso sia ritenuto valido).

In effetti il principio è largamente affermato, almeno in teoria, nella nostra e in altre società “avanzate”:

1) nella delega dei cittadini ai propri rappresentanti politici

2) nelle decisioni politiche dei rappresentanti

3) nel voto referendario

4) nelle deleghe e ratifiche dei lavoratori ai propri rappresentanti sindacali

5) nelle assemblee dei soci di cooperative e di altre associazioni

6) (più o meno) nei gruppi di pressione della “società civile”

7) forse da qualche altra parte che dimentico.

E tuttavia l’esperienza ci dice che nella pratica il principio si traduce in deleghe e decisioni discutibili, quando non aberranti (almeno dal mio punto di vista: si veda, ad esempio, l’avanzata delle destre in larga parte dell’Europa).

È sbagliato il principio o la sua attuazione?

Ci sarebbe molto da dire, e molto è stato detto, sul fatto che è inaccettabile che l’opinione di un Leonardo da Vinci dei giorni nostri abbia lo stesso valore di quella di un odierno Cacasenno.

In realtà, io credo, in questa discussione si confondono due piani: quello della competenza tecnica (anche giuridico-legislativa) con quello delle aspettative riguardanti le regole del vivere sociale e la qualità della vita che l’applicazione di tali regole dovrebbero garantire.

Il desiderio di uguaglianza (o, quanto a questo, di sudditanza) di un cittadino può avere lo stesso valore di quello di un altro. Per l’applicazione pratica della volontà della maggioranza, e per fornire alla cittadinanza elementi per farsi opinioni ragionate, ci sono, appunto, i tecnici, quelli che la sanno più lunga, presupponendo un grado medio di istruzione uguale negli elettori e mezzi d’informazione capaci e desiderosi di contribuire alla formazione delle opinioni.

Quanto affermo è discutibile. Per tagliare la testa al toro, mi appello alla famosa affermazione “la democrazia è piena di difetti, ma è il meno peggio che sinora ci è dato”. Le altre forme di organizzazione della società hanno dato prova di essere peggiori della democrazia rappresentativa parlamentare. Per superare, eventualmente, quest’ultima occorrerà immaginare un sistema diverso, ma ancora non mi pare ci siano proposte credibili e praticabili.

Perché, allora, il principio “uno vale uno” funziona così male?

Le risposte sono grosso modo due (con variazioni):

a) la maggioranza dei cittadini è ignorante e/o menefreghista e/o opportunista e/o emotiva

b) si è andata storicamente formando una classe politica, sindacale, manageriale autoreferenziale che si è appropriata del sistema specializzandosi nell’arte della propaganda e mettendosi al servizio del sistema economico dominante.

Non sono a favore dell’autoflagellazione del “ogni popolo ha il governo che si merita”. Ma qualcosa di vero nell’affermazione a) esiste. Il problema è se sia causa o effetto di b) e perché b) si sia andato affermando.

E, naturalmente, una volta essendo giunti a una conclusione su quanto precede, l’altro, e più grosso problema, è come rimediare ai difetti dell’ ”uno vale uno”, ammesso che dei rimedi siano possibili.

Avrei alcune mie ipotesi, ma preferirei discuterne sul blog, se il tema interessa. Non ho speciali remore a far brutta figura dicendo, eventualmente, delle stupidaggini, ma preferisco dirle in un dialogo.

So, ad esempio, che la spiegazione di tutto, per alcuni, sta nell’economia capitalista. Tuttavia, per quel che mi riguarda, l’economia capitalista è tutt’altro che “la fine della storia”. Anzi, mi pare che stia arrivando a grandi passi alla fine di sé stessa. E se ciò dovesse accadere, si riproporrà il problema di come far sì che “l’uno vale uno” non ripeta gli errori commessi sin qui, in Italia e nel mondo “democratico”.

 

Tempeste, inondazioni, uragani…siccità

Una ricerca di Munich Re, la più grande assicurazione al mondo, rivela un drastico incremento di piene improvvise e afferma che l’aumento è in linea col cambiamento climatico.
di Arthur Neslen da Bruxelles – 19 gennaio 2017 – the Guardian

Cars swept into a pile by torrential rain in Genoa, Italy Saturday.

Conseguenze di una pioggia torrenziale a Genova. Foto Antonio Calanni/AP

Il numero di alluvioni devastanti che scatenano i rimborsi assicurativi è più che raddoppiato in Europe dal 1980, secondo una nuova ricerca della Munich Re, la più grande società mondiale di riassicurazione.

I dati più recenti della società mostrano che ci sono state trenta alluvioni che hanno richiesto rimborsi assicurativi in Europa lo scorso anno – contro i dodici del 1980 – e il trend è in accelerazione in quanto l’aumento delle temperature fanno aumentare i livelli di umidità dell’atmosfera.

Globalmente il 2016 ha visto 384 alluvioni devastanti, comparate con 58 nel 1980, benché il maggiore incremento proporzionale probabilmente rifletta protezioni contro le alluvioni di scadente qualità e standard costruttivi più bassi nel mondo in via di sviluppo.

Ernst Rauch, il capo del centro climatico societario di Munich Re, afferma: “Alluvioni assieme a tempeste di vento sono i due tipi di rischio dove noi abbiamo il maggior incremento di frequenza a livello mondiale. In Europa abbiamo visto un aumento drastico di alluvioni collegate a forti tempeste con tuoni e lampi. La frequenza delle onde di piena improvvise è aumentata molto più delle piene dei fiumi dal 1980”.

Anche l’intensità delle tempeste è aumentata in Europa e fuori, aggiunge.

Solo nell’ultimo mese, diciotto persone sono state uccise da precipitazioni di pioggia inusualmente intense in Thailandia, mentre i consulenti del governo britannico hanno avvertito che alluvioni del tipo che hanno devastato ampie parti del Regno Unito lo scorso inverno stanno diventando la norma.

La Munich Re mette in guardia che il trend è non lineare e segue un modello che sarà significativamente determinato dalle emissioni di gas serra provocate dall’uomo. “Sfortunatamente questo è in linea con il cambiamento climatico” dice Rauch. “È sorprendente quanto strettamente questi sviluppi si accordino con i risultati dei modelli climatici”.

I dati della Munich Re dicono che otto su dieci delle catastrofi naturali più letali in Europa dal 1980 hanno avuto luogo nei passati 13 anni. E uno dei due rimanenti non era di tipo climatico.

Fenomeni come i terremoti sono inclusi nei dati della società, ma più del 90 per cento delle catastrofi naturali registrate dal 1980 sono legate al clima.

Ancor più preoccupante è che il tasso di eventi atmosferici estremi sembra essere in aumento nel mondo, con 750 catstrofi naturali lo scorso anno, comparato con una media annua di 590 nell’ultimo decennio. Il dato medio dei 30 anni era di 470 disastri per anno.

Dagli anni ’50, le precipitazioni annuali sono aumentate nell’Europa del nord e sono diminuite nel Mediterraneo, un trend che gli scienziati climatici dell’Onu si aspettano che aumenti.

Il quinto rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico prevede inoltre con “alta probabilità che l’Europa settentrionale vedrà una crescita di pioggie estreme nei decenni a venire.

“Abbiamo chiare prove che le piogge estreme stanno aumentando da qualunque parte le si guardi” dice Peter Stott, capo del monitoraggio climatico del Servizio Metereologico britannico. “Questo è semplicemente il risultato di come lavora la fisica dell’atmosfera”

Per ogni grado di riscaldamento globale l’atmosfera può trattenere circa il 6 per cento in più di umidità, incrementando l’energia che si rende disponibile per nutrire le tempeste, dice Stott.

Anche la circolazione del sistema atmosferico ne risente, con aria più calda che è cresciuta nei tropici e poi scende a latitudini più a nord. Per l’Europa settentrionale il risultato è inverni più bagnati. Nel sud, il Mediterraneo affronta potenzialmente condizioni aride, simili a quelle del Nord Africa.

“L’aumento delle precipitazioni che superano ogni record può essere spiegato solo da temperature in aumento causate dal cambiamento climatico” dice Fred Hattermann, ingegnere idrogeologico ed esperto sugli impatti regionali del clima al Potsdam Institute for Climate Impact Research.

Peter Höppe, il capo dell’unità di ricerca sui geo-rischi di Munich Re, dice che c’erano “molte indicazioni” che l’incidenza di tempeste e sistemi atmosferici persistenti stava aumentando a causa del cambiamento climatico.

Malgrado questo, la ricerca di Hattermann ha trovato che l’umidità del suolo in Germania – una zona di confine climatica – è diminuita fino a 25 litri per metro quadro nei passati 50 anni, a causa di un’altra conseguenza del riscaldamento globale: estati più secche. “Nell’Europa centrale la vegetazione sta cambiando” dice. “Le piante cominciano a crescere e fiorire molto prima nell’anno. Cominciano a succhiare acqua e a traspirarla”.

Scienziati della UE ritengono che almeno mezzo milione di europei subiranno le conseguenze delle alluvioni ogni anno nel 2050, in uno scenario massimo del riscaldamento globale che è spaventosamente vicino ai trend correnti. Nel 2080 quasi un milione di europei potrebbero subire le conseguenze delle alluvioni ogni anno se questa proiezione si realizza.

Lo scorso anno la Munich Re aveva stimato una perdita di 175 miliardi di dollari come risultato di disastri naturali, tra questi 50 miliardi erano coperti da polizze assicurative.

https://www.theguardian.com/environment/2017/jan/19/flood-disasters-more-than-double-across-europe-in-35-years

(trad. Lame)

Primo quarto (parte 2)

di Boka

“Dimmi, come capirò che abbiamo raggiunto la nostra meta?” (Un cieco)

“Quando sarai tu a tenermi per mano!”

La Germania è stata in grado, nel contesto di questa costruzione europea, di affermare la propria egemonia. La sovranità tedesca (borghese/capitalistica) è stata eretta come sostituto di una sovranità europea inesistente. I partner europei sono stati invitati/costretti  ad allinearsi con le esigenze di questa sovranità superiore a quella degli altri. L’Europa è diventata un’Europa tedesca, in particolare nella zona euro dove Berlino gestisce le finanze in accordo con le esigenze dei Konzerns tedeschi e politici importanti come il ministro delle finanze Schäuble fanno leva sul ricatto permanente minacciando (in maniera esplicita e non) i partner europei con un “exit tedesco” (Gexit) nel caso in cui l’egemonia di Berlino venga messa in discussione.

La conclusione che possiamo trarre dai fatti è evidente: il modello tedesco avvelena l’Europa, Germania compresa. L’ordo-liberismo è la fonte della persistente stagnazione del continente in congiunzione alle politiche di austerità in corso. L’ordo-liberismo è un sistema irrazionale visto dal punto di vista della tutela degli interessi delle maggioranze popolari in tutti i paesi dell’Unione europea, tra cui la Germania. Esso conduce ad un ulteriore peggioramento delle  disuguaglianze tra i partner; è l’origine delle eccedenze commerciali della Germania e dei deficit simmetrici degli altri paesi. Ma l’ordo-liberismo è una scelta perfettamente razionale dal punto di vista dei monopoli finanziari a cui assicura la continua crescita delle loro rendite di monopolio. Questa è la vera contraddizione interna di questo sistema economico: la crescita della rendita dei monopoli impone la stagnazione e l’incessante deterioramento di partner fragili (come la Grecia ed altri).

L’azione e l’analisi politica sembrano essersi ridotte solo alla questione: “Restare nell’Unione Europea (e come?) o uscire (per andare dove?). I critici (tralasciamo gli esegeti del sistema con i loro chierici le cui ragioni per continuare lungo la stessa strada sono evidenti) del sistema europeo sono dibattuti tra due opzioni: la prima, continuare lungo la strada della costruzione europea ma in nuove direzioni che tengano conto degli interessi (e delle necessità) dei popoli europei nonostante storia passata e recente dimostrino le continue sconfitte di questa posizione; la seconda, lasciare l’Europa, ma per cosa? Un intero sistema di disinformazione manovrato (o almeno indirizzato ad arte) dal sistema ordo-liberista contribuisce a rendere la questione perlomeno confusa. Tutte le possibili forme di “ritorno” alla “sovranità nazionale” si sovrappongono e tutte sono presentate come demagogiche, populiste, scioviniste o non adeguate ai tempi e condizioni mutati della società europea. L’opinione pubblica viene accentrata sulla questione della sicurezza interna e dell’immigrazione mentre le responsabilità ordo-liberali per il peggioramento delle condizioni dei lavoratori sono lasciate in silenzio. Purtroppo, buona parte della sinistra europea è entrata in questo gioco in cui non ci sono vincitori ad esclusione del “banco”.

Credo che non ci sia più nulla da aspettarsi dal progetto europeo, che non può essere trasformato dal di dentro; dobbiamo decostruire per ricostruire eventualmente in un secondo momento su basi diverse. Molti si rifiutano di arrivare a questa conclusione nonostante siano in conflitto (per gli interessi rappresentati e per per progettualità politiche), purtroppo i dubbi riguardano gli obiettivi strategici: lasciare l’Europa o rimanere in essa (ed ancora con o senza euro?). In queste circostanze gli argomenti sollevati da entrambe le parti sono estremi, spesso su questioni banali, a volte su reali e drammatici problemi orchestrati dai media (sicurezza, immigrati), con conseguenti scelte demagogiche. Resta  il fatto che la marea montante che si esprime nel rifiuto dell’Europa (come in Brexit) riflette la distruzione delle illusioni sulla possibilità di una riforma.

Questa confusione, assenza di proposte chiare e quando chiare basate su pulsioni primitive (paura del diverso, paura di perdere completamente l’innegabile benessere  conquistato – comparato a situazioni sociali al di fuori del ristretto mondo occidentale. Tuttavia, la confusione spaventa le persone. La Gran Bretagna non ha certo intenzione di esercitare la propria sovranità per intraprendere un percorso che si discosti dall’ordo-liberismo. Piuttosto, Londra vuole maggiore apertura ed integrazione con gli Stati Uniti (infatti la la Gran Bretagna non condivide la diffidenza verso il TTIP di altri paesi europei). Questo è l’obiettivo di Brexit e certamente non un migliore (o almeno diverso) programma sociale.

Le destre europee (ed in molti casi, direi semplicemente, i fascisti europei) proclamano la loro ostilità verso l’Europa e l’euro, ma, il loro concetto di sovranità è quella della borghesia capitalistica, il loro progetto è la ricerca della competitività nazionale nel sistema ordo-liberale. Di certo non sono sostenitori o difensori  della democrazia elettorale (se non per opportunismo), per non parlare di una democrazia più avanzata. Di fronte a questa sfida delle destre, la classe dirigente (il famoso 1%) non esiterà: sarà dalla parte dell’ uscita dalla crisi di tipo fascista. Abbiamo già degli esempi: l’Ucraina.

Le destre, i fascisti sono diventati lo strumento per tenere a bada qualsiasi forma di rivolta o anche solo, timidamente, di rifiuto dell’ordo-liberismo. L’argomento spesso invocato è: come possiamo fare una causa comune contro l’Europa con i fascisti? Ora, in una sorta di circolo vizioso, il successo dei fascisti è proprio il prodotto della timidezza della sinistra radicale. Se quest’ultima avesse coraggiosamente difeso un progetto di sovranità, popolare e democratica, accompagnata dalla denuncia del progetto fasullo e demagogico dei fascisti, forse avrebbe guadagnato i voti che oggi vanno ai fascisti. La difesa della illusione di una possibile riforma dell’Europa non impedisce la sua implosione. Il progetto europeo sembra dipanarsi intorno ad una trama che, in maniera sinistra, sembra ricordare l’Europa degli anni 1930 e 1940: un’Europa tedesca – la Gran Bretagna e la Russia al di fuori di essa, una Francia esitante tra Vichy e De Gaulle, la Spagna e l’Italia sulla scia di Londra o Berlino, etc.

(continua…)