Month: agosto 2017

Studiare da premier

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premier

Nessun partito riuscirà a mandare a Palazzo Chigi il suo leader alle prossime elezioni. Così fioriscono le diverse ipotesi di mediazione tra i partiti. Ma alla fine a scegliere sarà Mattarella.

di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 23 agosto 2017

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premierNon c’erano i migranti nel Mediterraneo, ma i boat-people del Vietnam. Non c’era la ripresina, ma l’inflazione al 14,5 per cento. E quell’anno fu inaugurata l’ottava legislatura repubblicana, mentre nel 2018 sarà eletta la diciottesima.

Ma per il resto tutto riporta la politica italiana a somigliare incredibilmente al 1979, con un salto all’indietro di quasi quarant’anni. Quando “L’Espresso”, il 15 luglio, per la penna di Guido Quaranta, pronosticava l’avvento di «capi di governo entranti, balneari, in pectore, recidivi», avvertendo che «la rosa di Palazzo Chigi è sempre più spinosa». Faceva i nomi dei candidati alla presidenza del Consiglio: Andreotti, Piccoli, Saragat, Forlani, Pandolfi, Visentini. E si domandava sconsolato: «Da quale di questi uomini comprereste un’auto usata?».

Sarà meglio cominciare ad abituarsi: cambiati i nomi, sembra un retroscena dell’estate 2017. Stagione di roventi battaglie sotto il pelo dell’acqua per la politica italiana, in vista di una campagna elettorale con pochissime certezze.

La prima: senza una nuova legge nessuno vincerà nelle urne e nessun partito avrà da solo la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Non succede da un quarto di secolo: nel 2013 la coalizione Italia bene comune guidata dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani aveva la maggioranza dei seggi alla Camera per effetto del premio garantito dal Porcellum, ma non al Senato. La seconda certezza: in assenza di vincitore toccherà a Sergio Mattarella individuare il nome del prescelto per Palazzo Chigi sulla base di due valutazioni, la capacità di formare un governo di coalizione con partiti che in campagna elettorale si sono dichiarati alternativi e la possibilità di garantire un periodo di stabilità non solo politica ma anche istituzionale, come stanno chiedendo in queste settimane i settori più esposti sui fronti caldi, da quello mediterraneo in politica estera a quello europeo in politica economica. Per questo le lobby si sono messe già in movimento, sponsorizzando sotto traccia, ma neppure più di tanto, questo o quel nome.

Nel 2018, a complicare la situazione, arriveranno a scadenza tutti i vertici degli apparati di sicurezza e ordine pubblico, al centro in questi mesi di tutte le vicende più delicate, dall’inchiesta Consip in cui è indagato il comandante generale uscente dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette al caso Regeni in cui è impegnata da due anni l’intelligence italiana, per non parlare dello scacchiere libico.

Scadono tutti insieme il capo della Polizia Franco Gabrielli (nominato dal governo Renzi con un mandato di soli due anni), il capo del Dis Alessandro Pansa, i numero uno dell’Aisi Mario Parente e dell’Aise Alberto Manenti, i vertici della Guardia di Finanza Giorgio Toschi, della Marina Valter Girardelli, dell’Aeronautica Enzo Vecciarelli, oltre al capo di Stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano e dell’Esercito Danilo Errico.

Un risiko senza precedenti. E nel Palazzo, in modo sotterraneo, si discute se sia opportuno che un governo in scadenza, e per di più nato come provvisorio e a termine, come quello di Paolo Gentiloni, metta mano a una simile tornata di nomine, dopo aver già indicato gli amministratori degli enti partecipati (Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna), il direttore generale della Rai Mario Orfeo e, nelle prossime settimane, il governatore di Banca d’Italia (favorito per il secondo mandato l’uscente Ignazio Visco).

Paolo Gentiloni

In rari casi un governo ha avuto un potere così grande per incidere con le nomine sugli equilibri futuri. C’è chi fa notare che si tratta di pura apparenza, perché in realtà Palazzo Chigi non fa altro che ratificare, e in molti casi prorogare, decisioni giù prese, avvicendamenti scontati, filiere che si auto-riproducono in base alle logiche interne a ciascuna arma o apparato.

E infatti anche in questo caso girano i nomi dei successori, quasi sempre i numeri due che salgono a numero uno. Anche in questo caso, quindi, il governo Gentiloni si comporterebbe da facilitatore, come si definì il premier durante la presentazione alle Camere del suo programma, più che da decisionista, come è stato nel caso del predecessore Matteo Renzi. Ma è un’osservazione che conferma l’ipotesi di partenza: nei prossimi mesi le due partite, per le nomine in arrivo e per la poltronissima di Palazzo Chigi, finiranno per incrociarsi. E ogni candidato sta chiamando a raccolta i suoi sponsor: in passato servivano le tessere, il peso della corrente nel partito di maggioranza relativa, l’eterna Dc. Oggi, finita la fase del nome indicato sulla scheda elettorale, la corsa per Palazzo Chigi somiglia a quella per il Quirinale: il candidato viene selezionato sulla base dei suoi appoggi istituzionali e sulla trasversalità, il consenso che arriva fuori dal partito di appartenenza.

Giuliano Amato

Ecco perché torna a girare il nome di Giuliano Amato: bocciato nel 2015 da Renzi per il Quirinale perché portato da Berlusconi e da Massimo D’Alema, potrebbe tornare utile per Palazzo Chigi. Ecco perché si stanno muovendo per tempo a caccia di alleanze i ministri in carica. Ognuno attento a costruire la sua candidatura tassello per tassello.

Per Marco Minniti, per esempio, il Viminale è stato il coronamento di una carriera politica, come fu per Francesco Cossiga, che dell’attuale ministro dell’Interno è stato amico: toccava a Minniti, sottosegretario a Palazzo Chigi, tenere i rapporti con l’ex presidente per conto di Massimo D’Alema presidente del Consiglio, le telefonate dal condominio di via Ennio Quirino Visconti arrivavano puntuali alle prime ore dell’alba.

Nel già citato 1979 Cossiga fu incaricato dal presidente della Repubblica Sandro Pertini di risolvere una crisi inestricabile, la più lunga della storia repubblicana, e in quel momento sembrava avviato al tramonto, un anno prima si era dimesso da ministro dell’Interno per non essere riuscito a salvare Aldo Moro. Invece quelle dimissioni furono il suo trampolino di lancio: divenne presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica nel giro di sei anni, senza poter contare su truppe e correnti, ma con il vistoso supporto di apparati interni e internazionali.

Marco Minniti

Minniti non vive una stagione di tramonto, anzi, è in continua ascesa. Celebrato dal “New York Times” e dai giornali berlusconiani, piace perfino al “Fatto quotidiano”, le polemiche sulle Ong nel Mediterraneo non sembrano fermarlo, «posso fare errori e cazzate, ma non per inconsapevolezza, so benissimo quello che faccio», ripete con tutti gli interlocutori, è il suo slogan. Nei tavoli di gestione dell’ordine pubblico si muove a suo agio, come un tecnico che però è dotato di sensibilità politica e di rapporti (mai sbandierati ma solidissimi) con la stampa. Gli apparati di sicurezza vedono in lui il vero capo, la sua parola sarà decisiva nella partita delle nomine. E qualcuno a questo punto si chiede se si fermerà qui: l’apprezzamento ricevuto da Quirinale, Palazzo Chigi e Vaticano fanno di lui uno tra i pochissimi ministri certo della riconferma (a meno che non ci sia un governo del Movimento 5 Stelle), ma non è detto che la sua scalata si fermi al Viminale.

Graziano Delrio

A sospettarlo, più di tutti, è stato Renzi che ha dato il via libera alla polemica ferragostana del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio contro Minniti in difesa del trasbordo nei porti italiani dei migranti a bordo delle navi delle Ong. Delrio, nel governo Gentiloni, rappresenta il renziano di rito ulivista. Reggiano, amico di Romano Prodi e di Arturo Parisi, sostiene la necessità di un’alleanza larga che va dai centristi di Angelino Alfano a Giuliano Pisapia, con cui ha lavorato all’epoca della presidenza dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani.

In caso di governo di coalizione sarebbe l’ipotesi della premiership di un renziano aperto alle altre forze del centrosinistra, compresi gli ex Pd di Bersani (sono ottimi i suoi rapporti con Vasco Errani). Un altro candidato in pectore, il ministro della Cultura Dario Franceschini, pensa di andare oltre e già da tempo manda segnali nel campo berlusconiano. «Bisogna separare i moderati dai populisti», è il suo mantra, ovvero accelerare il divorzio tra Berlusconi e Matteo Salvini. Anche se con Renzi i rapporti sono ai minimi termini, può contare su un antico rapporto con Mattarella. Il suo nome potrebbe uscire come punto di equilibrio in caso di sconfitta di Renzi.

Finito? No, perché nella lista dei ministri in carica che si muovono da candidati premier vanno inseriti almeno altri due nomi. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è molto attivo nel rivendicare alle politiche del governo, a sé più che a Renzi, l’imprevista crescita in arrivo: sarebbe il nome più gradito a Bruxelles e a Francoforte. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda è sostenuto da ambienti confindustriali, Luca Cordero di Montezemolo ne ha rivendicato la scoperta nella lunga intervista al “Giornale” berlusconiano per i suoi settant’anni («Carlo sta facendo un gran lavoro al governo. È cresciuto con me in Ferrari e nella mia Confindustria, arrivò a Maranello che era un ragazzino»): il suo sarebbe un governo di larghe intese tecnico-politico.

C’è infine un’altra candidatura per ora coperta che potrebbe rappresentare la carta a sorpresa di Renzi. «Non saranno altri a escludermi da Palazzo Chigi, deciderò io», dice infatti l’ex premier. E se dovesse scegliere di fare il passo indietro di fronte ai veti incrociati potrebbe estrarre il nome della fedelissima. La sottosegretaria Maria Elena Boschi ha lavorato in questi mesi sottotraccia per rafforzare il suo potere nei ministeri e nel circuito dell’alta dirigenza statale, il club esclusivo dei commis di Stato che sorvegliano, promuovono o ostacolano le carriere dei politici. La Boschi può contare su una rete di protezione istituzionale, costruita attraverso gli uomini a lei più vicini, il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti, il suo braccio destro Cristiano Ceresani, capo dell’ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri.

 

Un circuito pronto a sorreggere l’ascesa al gradino superiore nel 2018: la presidenza della Camera, al posto di Laura Boldrini, o addirittura il grande salto, l’ambizione mai nascosta dalla Boschi di diventare la prima donna premier della storia nazionale.

Bisognerà vedere cosa ne pensa Renzi, che assiste al valzer delle candidature e auto-candidature con un misto di inquietudine e di compiacimento, nella speranza che alla fine portino alla conclusione che l’unico ad avere le carte in regola per guidare il governo resta lui, anche se non è ancora chiaro con quale maggioranza. Bisognerà seguire le mosse di Gentiloni, che nonostante la debolezza politica e il limite di leadership continua a essere il principale candidato alla successione di se stesso. E poi certo, più di tutto, bisognerà capire cosa ne pensa il signore che vive nel palazzo sul Colle più alto, da cui passa la scelta dell’incaricato per la guida del governo. Domani più di oggi.

Stuprate quella donna

segnalato da Barbara G.

Lo stupro come metodo per umiliare popoli in guerra, per fare pulizia etnica.

Lo stupro come modo per affermare il potere su una donna (ma anche su trans, gay…), per umiliare, per rappresentare il senso del possesso.

Lo stupro come punizione.

I commenti deliranti che si leggono in questi giorni non sono, purtroppo, una novità, nemmeno da noi. Ma se scaviamo un pochino nel nostro passato, scopriamo che non ci si è limitati al solo parlare, minacciare. Si è anche passati all’azione. E con responsabilità anche fra le istituzioni.

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“I Carabinieri ci dissero: stuprate Franca Rame”

temi.repubblica.it/micromega-online, 13/05/2013

Nel 1988 Biagio Pitarresi, fascista di una certa notorietà, racconta che l’ordine di stuprare Franca Rame arrivò dai carabinieri. Bisognava “punire” quella donna che andava a ficcare il naso dappertutto, anche nelle carceri e nella strage di stato.

di Girolamo De Michele, da carmillaonline.com

Il 9 marzo 1973 Franca Rame fu sequestrata da cinque uomini, costretta a salire su un furgone all’interno della quale fu torturata e violentata. Come si sa, Franca è riuscita a raccontare la violenza subita in un monologo intitolato appunto “Lo stupro”, che inserì nello spettacolo “Tutta casa, letto e chiesa”. Per molto tempo, Franca raccontò di essersi ispirata ad un episodio di cronaca, non rivelando di essere stata lei stessa la vittima dello stupro.

La sera del 9 marzo 1973, alla notizia dell’avvenuto stupro, qualcuno a Milano gioì: era il generale Palumbo, comandante della divisione Pastrengo. «La notizia dello stupro della Rame in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio. Anzi, di più…», secondo la testimonianza di Nicolò Bozzo, che sarebbe diventato stretto collaboratore di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e che all’epoca era in servizio alla Pastrengo:

«Arrivò la notizia del sequestro e dello stupro di Franca Rame. Per me fu un colpo, lo vissi come una sconfitta della giustizia. Ma tra i miei superiori ci fu chi reagì in modo esattamente opposto. Era tutto contento. “Era ora”, diceva. […] Era il più alto in grado: il comandante della “Pastrengo”, il generale Giovanni Battista Palumbo. […] Allora io vissi quella reazione di Palumbo solo come una manifestazione di cattivo gusto. Credevo che il generale fosse piacevolmente sorpreso della notizia, nulla di più. D’altronde Palumbo era un personaggio particolare, era stato nella Repubblica Sociale, poi era passato con i partigiani appena prima della Liberazione. Non faceva mistero delle sue idee di destra. E alla “Pastrengo”, sotto il suo comando, circolavano personaggi dell’estrema destra, erano di casa quelli della “maggioranza silenziosa” come l’avvocato Degli Occhi» [qui].

Nel 1981, il nome del generale Palumbo fu trovato all’interno dell’elenco degli iscritti alla Loggia P2, assieme a due alti ufficiali dell’Arma. Secondo Bozzo, «il comandante generale [dell’Arma dei carabinieri] era il generale Mino. Basta leggere la relazione di maggioranza della commissione d’inchiesta sulla P2 per capire perché non si accorgesse di nulla. Lui non era negli elenchi, ma la commissione lo dava come organico».

Nel 1987-88 due fascisti, Angelo Izzo e Biagio Pitaresi, rivelano al giudice Salvini che a compiere lo stupro fu una squadraccia neofascista, e soprattutto che l’ordine di “punire” Franca Rame con lo stupro venne dall’Arma dei Carabinieri. Si legge nell’ordinanza di rinvio a giudizio dell’inchiesta sull’eversione neofascista degli anni Settanta:

«Pitarresi ha fatto il nome dei camerati stupratori: Angelo Angeli e, con lui, “un certo Muller” e “un certo Patrizio”. Neofascisti coinvolti in traffici d’armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s’incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo. Ha detto Pitarresi: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell’Arma» [qui].

A supportare la testimonianza dei due “pentiti”, un appunto dell’ex dirigente dei Servizi Gianadelio Maletti che racconta di un violento alterco tra il generale Giovanni Battista Palumbo e Vito Miceli, futuro capo del servizio segreto: «Il primo, si leggeva nella nota di Maletti, durante la lite aveva rinfacciato al secondo “l’azione contro Franca Rame”».

F_rame Commenta il giudice Salvini: «Il probabile coinvolgimento come suggeritori di alcuni ufficiali della divisione Pastrengo non deve stupire […] il comando della Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, negli Anni 70, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura di traffici d’ armi, la soppressione di fonti informative che avrebbero potuto portare a scoprire le responsabilità nelle stragi dei neofascisti Freda e Ventura» [qui].

Ma secondo Nicolò Bozzo lo stesso generale Palumbo non sarebbe il responsabile primo dell’ordine di stuprare Franca Rame, quanto l’esecutore di «una volontà molto superiore»:

«A parte le sue convinzioni politiche io ricordo che Palumbo riceveva spesso telefonate dal ministero, dal ministro. So che parlava con il ministro della Difesa e degli Interni. È norma che un ministro della Difesa chiami un comandante di divisione. Ma secondo me un crimine del genere non nasce a livello locale. È vero che alla notizia dello stupro ci furono manifestazioni di contentezza nella caserma, però personalmente non me lo vedo il generale Palumbo chiamare i terroristi e ordinargli o chiedergli di fare questo» [qui].

Nel 1973 il capo del governo in carica era Giulio Andreotti, con una maggioranza di centro-destra il cui scopo, secondo quanto si legge nel Memoriale Moro, era di «deviare, per sempre, le forze popolari nell’accesso alla vita dello Stato». Il ministro della Difesa era Mario Tanassi, quello dell’Interno Mariano Rumor.

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“I carabinieri ci dissero: stuprate Franca Rame”. E il giudice accusa cinque neofascisti

di Giovanni Maria Bellu, da Repubblica, 10 febbraio 1998

ROMA – Furono alcuni ufficiali dei carabinieri a ordinare lo stupro di Franca Rame. L’aveva detto dieci anni fa l’ex neofascista Angelo Izzo, l’ha confermato al giudice istruttore Guido Salvini un esponente di spicco della destra milanese, Biagio Pitarresi. Il suo racconto occupa due delle 450 pagine della sentenza di rinvio a giudizio sull’eversione nera degli Anni 70.
La sentenza è stata depositata pochi giorni fa, il 3 di questo mese. Lo stupro avvenne il 9 marzo del 1973, venticinque anni orsono. Un tempo che fa scattare la prescrizione e che garantisce l’impunità alle persone chiamate in causa.
Pitarresi ha fatto il nome dei camerati stupratori: Angelo Angeli e, con lui, “un certo Muller” e “un certo Patrizio”. Neofascisti coinvolti in traffici d’armi, doppiogiochisti che agivano come agenti provocatori negli ambienti di sinistra e informavano i carabinieri, balordi in contatto con la mala. Fu proprio in quella terra di nessuno dove negli Anni 70 s’incontravano apparati dello Stato e terroristi che nacque la decisione di colpire la compagna di Dario Fo.
Ha detto Pitarresi: “L’azione contro Franca Rame fu ispirata da alcuni carabinieri della Divisione Pastrengo. Angeli ed io eravamo da tempo in contatto col comando dell’Arma”. Commenta il giudice Guido Salvini nella sua sentenza di rinvio a giudizio: “Il probabile coinvolgimento come suggeritori di alcuni ufficiali della divisione Pastrengo non deve stupire… il comando della Pastrengo era stato pesantemente coinvolto, negli Anni 70, in attività di collusione con strutture eversive e di depistaggio delle indagini in corso, quali la copertura di traffici d’armi, la soppressione di fonti informative che avrebbero potuto portare a scoprire le responsabilità nelle stragi dei neofascisti Freda e Ventura”.
Quando, nel 1987, Angelo Izzo parlò per la prima volta di un coinvolgimento dei carabinieri nell’aggressione a Franca Rame, molti non ci credettero: la storia sembrava assurda, e Izzo era considerato, in generale, un personaggio poco attendibile, uno psicopatico sadico: era in carcere per lo stupro-omicidio del Circeo, una delle vicende più atroci della cronaca nera degli Anni 70.
Poi i sospetti si erano rafforzati, ma senza determinare l’avvio di una apposita indagine, durante l’inchiesta sulla strage di Bologna quando era stato trovato un appunto dell’ex dirigente dei Servizi Gianadelio Maletti. Raccontava di un violento alterco tra due generali: Giovanni Battista Palumbo (un iscritto alla loggia P2 che poi sarebbe andato a comandare proprio la “Pastrengo”) e Vito Miceli (futuro capo del servizio segreto). Il primo, si leggeva nella nota di Maletti, durante la lite aveva rinfacciato al secondo “l’azione contro Franca Rame”.
Era stata una delle più spregevoli, tra le tante ignobili, commesse dai neofascisti negli Anni 70. La sera del 9 marzo del 1973, nella via Nirone, a Milano, Franca Rame era stata affiancata da un furgone. C’erano cinque uomini che l’avevano obbligata a salire. La violentarono a turno. Gridavano: “Muoviti puttana, devi farmi godere”. Le spegnevano sigarette sui seni, le tagliavano la pelle con delle lamette. Una sequenza allucinante, che la Rame avrebbe inserito in un suo spettacolo, “Tutta casa, letto e chiesa”.
Fu subito chiaro che la violenza contro la compagna di Dario Fo veniva dagli ambienti neofascisti. E infatti, come in quasi tutti i crimini compiuti in quegli anni dai neofascisti, i responsabili non furono scoperti”.

E il generale gioì per lo stupro. “Avete violentato Franca Rame? Era ora…”

di Luca Fazzo, da Repubblica, 11 febbraio 1998

MILANO – “La notizia dello stupro della Rame in caserma fu accolta con euforia, il comandante era festante come se avesse fatto una bella operazione di servizio. Anzi, di più…”. Sono passati venticinque anni, ma l’ uomo è di quelli che hanno la memoria buona. Nicolò Bozzo oggi è un generale dei carabinieri che si gode la pensione nella sua Genova, dopo una carriera ad altissimo livello: soprattutto nella fase più lunga e più dura, quella al fianco di Carlo Alberto Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo. Ma quel 9 marzo 1973 il giovane Bozzo era un capitano in servizio a Milano, all’Ufficio Operazioni del comando della Divisione Pastrengo, il reparto più importante dell’Arma nell’Italia del nord-ovest. Quel giorno l’attrice Franca Rame – moglie di Dario Fo, una delle voci più in vista della “nuova sinistra” – venne sequestrata e stuprata da un gruppo di neofascisti. Dai verbali dell’inchiesta su quegli anni condotta dal giudice Salvini, ora si scopre che la banda degli stupratori aveva agito – secondo un testimone – su indicazioni di “alcuni carabinieri della divisione Pastrengo”. Ma i ricordi di Bozzo rendono quel che sta venendo a galla ancora più sconvolgente.

Generale, lei quel giorno era lì, al comando della Pastrengo. Cosa ricorda?
“Io lavoravo all’ufficio operazioni, al piano inferiore. Ma quando il mio superiore era in licenza salivo di sopra, dove c’erano lo stato maggiore e il comando di divisione. Quello era uno di quei giorni. Arrivò la notizia del sequestro e dello stupro di Franca Rame. Per me fu un colpo, lo vissi come una sconfitta della giustizia. Ma tra i miei superiori ci fu chi reagì in modo esattamente opposto. Era tutto contento. “Era ora”, diceva”.

Può fare il nome di quell’ufficiale?
“Certo. Era il più alto in grado: il comandante della “Pastrengo”, il generale Giovanni Battista Palumbo”.

Lei racconta un fatto di una gravità eccezionale. Perché lo fa ora, dopo venticinque anni?
“Perché allora io vissi quella reazione di Palumbo solo come una manifestazione di cattivo gusto. Credevo che il generale fosse piacevolmente sorpreso della notizia, nulla di più. D’altronde Palumbo era un personaggio particolare, era stato nella Repubblica Sociale, poi era passato con i partigiani appena prima della Liberazione. Non faceva mistero delle sue idee di destra. E alla “Pastrengo”, sotto il suo comando, circolavano personaggi dell’estrema destra, erano di casa quelli della “maggioranza silenziosa” come l’avvocato Degli Occhi”.

Poi il nome di Palumbo saltò fuori negli elenchi della P2.
“Lui, e altri due ufficiali importanti dell’Arma a Milano. E io il 24 aprile 1981 mi presentai dai giudici Colombo e Turone per raccontare cosa avevo capito dei disegni di quella gente. Una testimonianza che ho pagato con procedimenti disciplinari, trasferimenti, ritardi nella carriera. Ma del fatto di Franca Rame ai giudici non parlai, perché mai avrei pensato che fosse qualcosa di più di una manifestazione di gioia, del tutto in linea con il modo di pensare del mio comandante. Ma ieri ho letto quello che ha scoperto il giudice Salvini, ed è stato un po’ come se tutto andasse a posto”.

È possibile che a Milano l’ Arma fosse comandata da gente simile, e a Roma i vertici non sapessero nulla?
“Il comandante generale era il generale Mino. Basta leggere la relazione di maggioranza della commissione d’inchiesta sulla P2 per capire perché non si accorgesse di nulla. Lui non era negli elenchi, ma la commissione lo dava come organico”

NazItalia

Il vento fascista dalle periferie al Parlamento

Gli squadristi sono tornati in strada. Soffiano sul fuoco delle migrazioni e della crisi economica. Mentre crescono i consensi, i loro slogan tracimano nelle istituzioni.

di Giovanni Tizian – Foto di Espen Rasmussen – espresso.repubblica.it, 1 agosto 2017
Il vento fascista dalle periferie al Parlamento
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Braccia tese dietro le barricate. Ombre nere sulle periferie, strette nella morsa del degrado. Scontri con le forze dell’ordine per difendere «il diritto alla casa degli italiani» nelle borgate, sempre più distanti dai centri storici, da Palazzo Chigi, dal Parlamento, dal Campidoglio.

I fascisti sono tornati. Eredi dei “Boia chi molla”, fomentano e guidano le proteste. I loro consensi crescono, e sono entrati anche in diversi consigli comunali. I loro linguaggi e le loro parole d’ordine tracimano dai gruppi minoritari alle forze politiche più grosse, anche in Parlamento. Ostentano saluti romani sul web e nelle strade, organizzano ronde per la “sicurezza urbana” o contro gli ambulanti stranieri sulle spiagge, e perfino navi per bloccare gli sbarchi dei migranti.

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Mussolini? Un grande urbanista. Ma anche Hitler ha fatto cose giuste. Gli elogi al Duce e a volte anche al dittatore nazista da parte dei rappresentanti delle istituzioni davvero non mancano. In tutto l’arco costituzionale.

Periferie, la prima linea 
“Prima gli italiani”, è il grido dei guerrieri urbani del neofascismo romano. L’avanguardia che ha alzato il livello dello scontro sociale. Soffiano, i militanti neri, sulla miccia della guerra tra poveri delle periferie. «Resistenza etnica», la definisce Giuliano Castellino, ultras della Roma, leader del movimento “Roma ai Romani”, vicino a Forza Nuova. Castellino ha nel suo curriculum anche un apparizione nella Destra di Storace. “Roma ai romani”, insieme a Forza Nuova e CasaPound, si batte per «il diritto alla casa delle sole famiglie italiane».

Il 23 gennaio scorso, al Trullo, quartiere popolare di Roma, il gruppo si è mobilitato per difendere dallo sfratto una giovane coppia di romani abusivi, lei 17 anni e incinta, lui 20 anni e precario: a pagarne le conseguenze una famiglia egiziana, padre, madre e cinque figli, a cui la casa era stata assegnata. Dalla protesta all’azione, con i capi della destra radicale al fianco degli emarginati. A distanza di poco tempo si sono verificati altri due episodi simili. A San Basilio, periferia romana al centro di forti interessi criminali, a una famiglia di origine marocchina è stato impedito di entrare nell’alloggio assegnatole dal Comune: l’azione ha ricevuto la solidarietà di Forza Nuova e di “Roma ai Romani”. Tre settimane fa a Tor Bella Monaca, altro sobborgo dilaniato da spaccio e mafie varie, Howlader Dulal, 52 anni, cittadino italiano ma originario del Bangladesh, è stato aggredito. Aveva finalmente ottenuto l’appartamento popolare, ma il colore della pelle ha fatto la differenza: «Negro, qui non c’è posto per te. Le case sono tutte occupate», gli hanno urlato, ignoti, mentre lo picchiavano.

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Pugni, insulti e cinghiate: i fascisti sono tornati a far paura. Negli ultimi mesi sono aumentate esponenzialmente violenze, blitz, pestaggi. I responsabili, il più delle volte, appartengono a gruppi di estrema destra. I bersagli: migranti, Ong, militanti di sinistra.

Basta un soffio e il focolaio divampa. I movimenti neofascisti hanno trovato il loro campo di battaglia. Ecco cosa scriveva Castellino sulla sua pagina Facebook qualche giorno fa: «Il popolo di Tor Bella Monaca ha dimostrato con i fatti che Roma e i Romani sono sempre più con i fascisti». In un altro post del 15 giugno dettava la linea: «La patria si difende a calci e pugni». Nella foto pubblicata c’è anche il camerata Maurizio Boccacci, 60 anni, capo dell’organizzazione Militia Italia, storico leader dell’estrema destra dei Castelli Romani, già animatore di presidi di solidarietà a favore dell’ex capo delle SS naziste Erich Priebke, tra gli esecutori dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.

 

Negli ultimi mesi Boccacci non ha perso un’udienza del processo Mafia Capitale: maglia verde militare, ascoltava in silenzio le accuse rivolte al suo amico Massimo Carminati, il “Cecato” dei Nuclei armati rivoluzionari. Boccacci e Castellino hanno anche un nemico comune: Emanuele Fiano, il parlamentare del Pd riferimento della comunità ebraica. «Fiano delle tue leggi ce ne freghiamo, eccoti il saluto romano», recitava uno striscione sequestrato dalla Digos di Roma al gruppo di Castellino. Dello stesso tenore le esternazioni social di Boccacci: «Fiano, pezzo di … Siamo fascisti e tanto basta».

Skinhead nelle istituzioni 
I gruppi della destra estrema si sentono forti. Sospinti dal vento che spira nel Paese e in Europa, hanno alzato il livello dello scontro. Legittimati dalle campagne xenofobe alimentate da leader dal grande seguito come Matteo Salvini. I flirt tra Lega e forze neofasciste – per quanto Salvini si sforzi di negarlo – non sono, del resto, un mistero.

Un esempio di joint venture politica con queste sembianze ha preso forma a Monza. La nuova giunta di centrodestra, Lega inclusa, ha nominato assessore allo Sport Andrea Arbizzoni. Eletto con Fratelli d’Italia, la comunità ideale da cui proviene è però Lealtà – Azione, gruppo d’area skinhead radicato in Lombardia. Arbizzoni tra il 2009 e il 2012 aveva ricoperto il medesimo ruolo ai tempi del sindaco leghista Mariani. Ma l’assessore – ultras nel tempo libero – non è l’unico ad avere avuto accesso ai palazzi delle istituzioni. Stefano Pavesi, pure lui di Lealtà – Azione, è stato eletto con la Lega Nord nel municipio 8 di Milano. Si è fatto notare fin da subito nel giorno della commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, secondo lui «una logica conseguenza del vile attentato dei partigiani». Il 26 gennaio scorso, invece, all’incontro organizzato da una costola di Lealtà – Azione, dal titolo “Come il gender vuol sostituirsi all’uomo e alla donna”, ha partecipato Jari Colla, consigliere regionale del Carroccio. Matteo Salvini ripete spesso che fascismo e antifascismo sono ormai concetti del secolo scorso, che gli italiani vogliono guardare avanti. Salvo, poi, esprimere solidarietà al nostalgico del Duce titolare del lido di Chioggia. E non sembrano guardare oltre i movimenti di estrema destra che hanno trovato una sponda nella Lega. Come i militanti di Lealtà – Azione, appunto, che ogni anno salutano con il braccio teso i caduti della Repubblica sociale italiana nel cimitero Maggiore di Milano.

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Marco Tarchi: «L’estrema destra è sempre più forte per colpa dei partiti». «Il neofascismo è un frutto avvelenato della globalizzazione ed è sempre più forte in Italia e in Europa» dice il politologo, che avverte: «L’estremismo non è il populismo, hanno programmi completamente differenti».

Pugni e cinghiate 
Anche le squadracce sono tornate. E a volte usano le cinghie per punire i detrattori. Il 12 febbraio scorso a Vignanello, in provincia di Viterbo, Paolo, poco più che ventenne, viene aggredito da una quindicina di militanti di CasaPound. Colpevole secondo il branco di aver commentato sui social una vignetta sul movimento: “Chi mette il parmigiano sulla pasta al tonno non merita rispetto”. Versione ironica dello slogan reale con cui CasaPound ha tappezzato alcune città: “Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, mogli e figli non merita rispetto”.

«Fermati», gli hanno intimato mentre una mano lo trascinava a terra. «Non devi più prendere in giro CasaPound». E giù botte. Sulla scena anche Jacopo Polidori, leader locale del movimento. «Con fare minaccioso batteva la cintura sul palmo della mano e poi sferrava quattro o cinque colpi sulla schiena di Paolo, non desistendo alle sue suppliche», hanno scritto i magistrati. A Paolo hanno fratturato il naso, rotto un dente e le cinghiate gli hanno lasciato delle escoriazioni sul dorso. «La prossima volta ti fai i cazzi tuoi», gli ha detto uno dei picchiatori prima di andarsene. Il 20 ottobre ci sarà il processo a carico di Polidori. Il leader nazionale di CasaPound, Gianluca Iannone, non ha condannato il gesto.

 

Ostia patria nostra 
Nel decimo municipio della Capitale, a Ostia, fra tre mesi si andrà alle urne per scegliere il nuovo presidente. Sarà il primo voto post scioglimento per mafia. Un anno fa alle ultime comunali CasaPound ha ottenuto il due per cento, e in alcuni seggi ha toccato punte del 10. In particolare a Nuova Ostia, zona popolare e con un alto tasso di criminalità. Un risultato che se venisse confermato a ottobre garantirebbe a Casa Pound un consigliere municipale. Nella stessa area di massimo consenso per il movimento, secondo i detective e la procura di Roma comanda il clan Spada. Un gruppo criminale, al centro di molti sospetti e di varie retate, l’ultima il 12 aprile scorso.

A Ostia CasaPound ha organizzato ronde su richiesta per cacciare i venditori abusivi stranieri dalla spiaggia. Sostiene le famiglie italiane che hanno occupato le case popolari a rischio sfratto. Accusa il Pd e commissario prefettizio del degrado in cui versa il municipio. Tra le figure del movimento che hanno riscosso più successo c’è Carlotta Chiaraluce, alter ego del responsabile del litorale romano, Luca Marsella. Candidata alle ultime comunali, ha raccolto più di 1.300 voti. Entrambi non hanno speso una parola sul potere locale del clan Spada. Forse perché in sintonia con i militanti di CasaPound c’è Roberto Spada, fratello di Carmine detto “Romoletto”, ritenuto dall’antimafia di Roma il capo del clan. I contatti con CasaPound risalgono all’anno scorso, titolo dell’iniziativa “Giovinezza in piazza”, promossa dal movimento di Iannone e dalla scuola di danza della moglie del fratello del boss.

Le foto che ritraevano Spada con i referenti locali di CasaPound innescarono polemiche politiche, ma a distanza di tempo i rapporti non si sono interrotti. Anzi, stando ai commenti pubblicati su Facebook, pare l’amicizia sia reciproca. L’ultimo contatto a fine giugno, quando Carlotta Chiaraluce sulla pagina di Roberto Spada ha scritto: «Ro’ più tardi passiamo», riferendosi a una grigliata in spiaggia organizzata da Spada, che vanta tra gli amici anche altri militanti dell’organizzazione di Iannone. Non deve stupire. È lo stesso Roberto Spada che sui social si schiera sulle posizioni del movimento dell’estrema destra. È contrario allo Ius soli, vorrebbe chiudere le frontiere. E condivide lo slogan “Prima gli italiani”. Tolleranza zero. Anche se, per paradosso, la sua famiglia ha origini nomadi.

Raggi e miraggi

dal profilo fb di Virginia Raggi

Raggi e miraggi

di Marco Travaglio – ilfattoquotidiano.it, 26 agosto 2017

L’arrivo a Roma del quarto assessore al Bilancio in un anno, senza contare i valzer all’Ambiente, all’Urbanistica, all’Ama (rifiuti) e all’Atac (trasporti) è l’ennesima prova del dilettantismo, del pressappochismo, dell’improvvisazione e dell’inesperienza con cui non solo Virginia Raggi, ma tutto il M5S hanno affrontato un’impresa già di per sé disperata: governare Roma. E questo lo sappiamo, ma repetita iuvant, visto che i 5Stelle si candidano nientepopodimenoché a governare l’Italia. Ciò che pochi notano, in un panorama informativo a senso unico, è che ai fallimenti grillini nella Capitale s’aggiungono quelli della “società civile” che avevano coinvolto nell’avventura romana. Fra i tanti errori, la Raggi ne aveva evitato almeno uno: quello di chiudersi nel recinto grillino con un monocolore pentastellato. A parte un paio di nomi, aveva pescato il grosso degli assessori, collaboratori e manager all’esterno, tra figure indipendenti “di area”, alcune brave e titolate. Ed è proprio da queste – tranne il vicesindaco e assessore alla Cultura Luca Bergamo e pochi altri – che ha subìto le più cocenti delusioni.

Paola Muraro, fra i massimi esperti di compostaggio-rifiuti, ha pagato suo malgrado un’inchiesta della Procura poi finita quasi nel nulla (a parte un’infrazione al Testo Ambientale oblabile con pochi euro) e un massacro mediatico mai visto per così poco, che infatti s’è interrotto il giorno delle dimissioni. L’urbanista Paolo Berdini, icona della sinistra ambientalista, aveva collaborato col M5S negli anni dell’opposizione in Campidoglio e aveva finalmente l’occasione di fare ottime cose: purtroppo l’ha persa, con pochi fatti e troppe parole, dalle continue giravolte sullo stadio della Roma e persino sulle Olimpiadi all’intervista-harakiri sugli amori (peraltro inventati) della sindaca. All’Atac, dopo vari sommovimenti, era giunto per concorso un fuoriclasse come Bruno Rota, risanatore dell’Atm milanese: la Raggi gli aveva dato carta bianca sul concordato preventivo, ma un po’ la paura di finire nei guai con la giustizia per qualche firma di troppo in quel verminaio, un po’ le resistenze dell’assessore Mazzillo, l’hanno indotto a fuggire dopo pochi mesi. Il primo assessore al Bilancio era Marcello Minenna, tecnico Consob di indiscusso prestigio, che però se ne andò in due mesi perché la sindaca aveva seguito il parere Anac sull’illegittimità del contratto d’ingaggio della giudice Carla Raineri come capo-gabinetto. Minenna fu sostituito con Raffaele De Dominicis, ex Pg della Corte dei Conti, che però era indagato e non aveva avvertito la sindaca.

Fu così che la Raggi optò per un grillino doc, Andrea Mazzillo. Che ha lavorato benino, ha superato i rilievi dei revisori su un bilancio che tutti giuravano impossibile far quadrare. Poi, ai primi caldi, ha sbroccato: interviste a raffica per attaccare la sindaca, Grillo e Casaleggio sui “manager dal Nord Italia” (manco portassero la peste), lanciare bizzarri “allarmi sui conti” (e a chi, se l’assessore era lui?), sparare sul concordato preventivo di Atac e addirittura sposare il referendum radicale per privatizzare la municipalizzata. Una bestemmia per un Movimento nato nel 2009 proprio per difendere i servizi pubblici (una delle cinque Stelle era proprio il trasporto comunale) e in prima linea per il referendum 2011 sui beni comuni. Se voleva farsi cacciare, Mazzillo non poteva scegliere parole migliori, infatti era noto a tutti che dopo le ferie sarebbe stato sostituito con uno che condividesse il programma M5S. Cosa che, mentre Mazzillo bloccava alcuni pagamenti ad Atac mettendo a rischio gli stipendi, è avvenuta l’altroieri con l’ingaggio di Gianni Lemmetti, l’assessore uscente della giunta Nogarin che in tre anni ha risanato i conti di Livorno e gestito il concordato preventivo della municipalizzata dei rifiuti Aamps. Quest’operazione gli ha procurato, in tandem col sindaco, un avviso di garanzia per concorso in bancarotta fraudolenta, abuso d’ufficio e falso in bilancio tuttora pendente dopo due anni e probabilmente destinato all’archiviazione: non solo l’Aamps non ha fatto bancarotta, ma non è neppure fallita. Se la Raggi e i vertici M5S pensano che Lemmetti replicherà a Roma il piccolo miracolo livornese, possono pure assumersi il rischio di arruolare un indagato. Ma devono spiegare perché ciò che valeva per Muraro e De Dominicis non vale per Lemmetti. Ne va della trasparenza: spetta ai partiti valutare il merito di un “avviso” e deciderne le conseguenze politiche; ma se poi, anziché l’archiviazione, arrivasse il rinvio a giudizio, bisognerebbe cercare il quinto assessore. E supererebbe il ridicolo.

Intanto Mazzillo, come tutti gli ex della giunta Raggi, è stato prontamente adottato dai giornaloni, Repubblica in testa, come mascotte. Era già accaduto a Raineri, Minenna, Muraro e Rota: quando la Raggi li nominava, erano dei deficienti o dei delinquenti; quando se ne andavano o venivano cacciati, diventavano dei geni e dei gigli di campo da usare contro la putribonda sindaca. Quando Rota arrivò a Roma, i giornaloni gli diedero il benvenuto spacciandolo per un arraffa-poltrone imposto da Casaleggio (mai conosciuto) e superpagato dalla Raggi. Poi, quando se ne andò, ne magnificarono il sacrosanto concordato Atac ostacolato dal pessimo Mazzillo. Ora che l’ex incompetente Mazzillo si fa cacciare, diventa il competentissimo martire che vuole salvare l’Atac dall’assurdo concordato dell’ex incompetente ed ex genio Rota. Ora, la Raggi ha commesso un’infinità di errori. Ma è improbabile che sbagli sia quando sostiene il concordato, sia quando caccia Mazzillo perché si oppone al concordato. A meno che il vero errore della Raggi non sia quello di esistere.

Meglio perdere in Sicilia (?)

Per il futuro di PD e 5 Stelle, meglio perdere in Sicilia

di Paolo Natale – glistatigenerali.com, 20 agosto 2017

Sappiamo ormai tutti che alle legislative del 2018 non vincerà nessuno, e il governo che si formerà sarà sostanzialmente frutto di difficili accordi di legislatura, per poter avere almeno una parvenza di maggioranza stabile, in grado di affrontare i mille problemi che attanagliano il paese. Se questo è l’orizzonte più prossimo, cerchiamo di immaginare la situazione ideale per le più importanti forze politiche, in grado di permettere a ciascuna di loro un vantaggio competitivo nel futuro, che forse diverrà più aperto a possibili vittorie di più ampio respiro.

Al Movimento 5 stelle non si può certo augurare – per il suo bene – una vittoria nelle elezioni siciliane di novembre. Con tutti i problemi che la regione si porta appresso, da decenni, il rischio per il movimento di Grillo è quello di dover fronteggiare una situazione così aggrovigliata che, al confronto, il governo della Capitale sembrerà una bazzecola. Per aumentare i propri consensi, molto meglio che ottengano un buon successo, così come nelle consultazioni politiche, ma senza essere costretti a governare. Dai banchi di opposizione avranno mano libera per denunciare le malefatte altrui, incrementando in tal modo le proprie fila di simpatizzanti.

Per il centro-destra, e in particolare per Forza Italia, una vittoria in Sicilia sarebbe al contrario di buon auspicio, un buon viatico per poter ben figurare anche nelle successive legislative, dove soprattutto la Lega darebbe un ottimo contributo di voti. È probabilmente questa l’occasione migliore per la coalizione di Berlusconi-Salvini-Meloni (se riuscirà a presentarsi abbastanza coesa) di riconquistare la fiducia degli italiani, perché le sue parole d’ordine, in un mondo pieno di paure e di incertezze, sarebbero ben accolte da molti elettori. Le ricette del centro-destra, condivisibili o meno, ridarebbero una qualche speranza di riuscire a fronteggiare i problemi dell’immigrazione crescente, della sicurezza in pericolo e della difficile ripresa economico-occupazionale. Che poi riescano realmente a cambiare le cose, è una cosa tutta da verificare, ma lo spazio per la loro proposta sicuramente esiste.

Per il Partito Democratico, infine, la situazione migliore sarebbe quella di perdere nettamente in Sicilia e di non essere costretto a governare (con qualche partner) alle successive politiche. Ci sarebbe in questo modo la possibilità, per il Pd, di iniziare una decisa ristrutturazione interna, di ripensare definitivamente ad una proposta programmatica precisa, con uno sguardo non soltanto contingente ma almeno di medio periodo, di fare chiarezza su quale idea della società hanno in mente per il nostro paese. Un periodo dunque di grandi confronti e discussioni interne, che questa volta deve risultare scevro da ripicche e conflittualità personalistiche. Inutile sottolinearlo di nuovo ma, a mio parere, per il bene della sinistra e del centro-sinistra, tutto questo non può avvenire senza le dimissioni di Renzi dalla guida del partito. O, almeno, senza un deciso ridimensionamento della sua figura e della sua supremazia nel Pd.

 

Sgomberare gli sgomberati

segnalato da Barbara G.

Sgomberare gli sgomberati, il fallimento dell’accoglienza a Roma

Durante lo sgombero a piazza Indipendenza, Roma, 23 agosto 2017

di Annalisa Camilli – internazionale.it, 24/08/2017

Con le prime luci dell’alba, giovedì mattina, la polizia in assetto antisommossa è arrivata di nuovo a piazza Indipendenza, a Roma, per disperdere i rifugiati eritrei che dormivano sulle aiuole da cinque giorni, dopo lo sgombero del palazzo in cui vivevano a via Curtatone, vicino alla stazione Termini. Poco dopo le sei di mattina, gli agenti si sono fatti strada con gli idranti e hanno caricato le persone che dormivano sulle aiuole e i marciapiedi.

Come fanno da giorni, i rifugiati eritrei hanno cercato di opporre resistenza: dal primo piano del palazzo di via Curtatone hanno lanciato oggetti e barattoli di vernice. Questa volta la polizia ha usato la violenza. I poliziotti si sono messi a rincorrere chi scappava. Secondo Medici senza frontiere, nelle cariche sono state ferite 13 persone e due sono state portate in ospedale. “Hanno picchiato diverse persone, anche delle donne”, racconta Simon, un rifugiato eritreo che al momento dello sgombero si trovava al primo piano del palazzo di via Curtatone insieme a una cinquantina di persone, tra cui venti bambini.

Dopo aver sgomberato la piazza, gli agenti sono entrati nel palazzo occupato. I bambini dal balcone dello stabile gridavano: “Vogliamo giocare, vogliamo giocare”. I poliziotti hanno costretto le persone all’interno dell’edificio a seguirli in questura. “Ci siamo nascosti, ma quando ci hanno trovato ci hanno manganellato per costringerci a uscire, due donne sono state picchiate”, racconta Simon. Nella piazza sono rimaste le valigie e gli oggetti delle famiglie sgomberate, e la polizia ha detto ai pochi ancora sulla piazza di recuperare le loro cose. “Non sappiamo che succederà ora, in questura siamo una cinquantina di persone, non sappiamo dove ci vogliono portare”, afferma Simon, mentre aspetta di sapere che ne sarà della sua vita.

Dopo lo sgombero di sabato, mercoledì c’era stato un primo tentativo di dispersione degli occupanti della piazza da parte della polizia. Mussie Zerai, il prete candidato al premio Nobel per la pace, che da anni è un punto di riferimento per la comunità eritrea italiana, alle 7.51 aveva mandato un messaggio a tutti i suoi contatti: un appello al ministro dell’interno Marco Minniti. “La prego d’intervenire, la polizia sta usando la forza per sgomberare le persone anche dalla piazza, ma queste persone non hanno dove andare”, era scritto nel messaggio che poi è stato ripreso da diverse agenzie di stampa. “Vi prego di trattarli come esseri umani”, concludeva.

Due ore dopo l’appello di Mussie Zerai, un gruppo nutrito di giornalisti, attivisti e operatori umanitari si era raccolto sulla piazza, a pochi passi dalla stazione Termini di Roma, senza che gli fosse concesso di avvicinarsi al palazzo o agli occupanti. Ma di politici o rappresentanti delle istituzioni nemmeno l’ombra. L’assessora ai servizi sociali di Roma, Laura Baldassarre, non è stata raggiungibile al telefono per tutta la mattina. La prefetta Paola Basilione ha convocato una riunione d’emergenza in prefettura.

Dopo una lunga negoziazione, la sala operativa sociale del comune di Roma ha proposto agli sgomberati 80 posti in un centro d’accoglienza del servizio Sprar a Torre Maura e un’altra ottantina di posti a Rieti per sei mesi, messi a disposizione dalla proprietà dell’edificio di via Curtatone. Le organizzazioni non governative, le associazioni e alcuni sacerdoti hanno fatto da mediatori, ma gli eritrei di piazza Indipendenza hanno rifiutato la proposta. C’è da considerare che molti degli occupanti non possono comunque beneficiare dei posti nei centri Sprar perché hanno ottenuto l’asilo da più di sei mesi.

Per sistemare tutte le famiglie dell’edificio sgomberato, inoltre, sarebbero necessari almeno altri trecento posti. Infine chi ha figli piccoli teme che un trasferimento possa impedire il regolare rientro a scuola dei minori tra qualche settimana. La verità è che la resistenza degli occupanti eritrei nessuno se l’aspettava. “Abbiamo fatto la guerra d’indipendenza, siamo scappati da una dittatura, abbiamo attraversato il Mediterraneo, resistiamo e andiamo avanti”, dice Simon.

L’intervento della polizia a piazza Indipendenza, Roma, 24 agosto 2017. (Stefania Mascetti, Internazionale)

Soluzioni improvvisate
Nella mattinata di mercoledì sui social network c’è stata un’esplosione di domande: “C’è un piano?”, “Dove li portano?, “Come si fa a sgomberare gli sgomberati?”, “Li sgomberano dalle aiuole per portarli in altre aiuole?”. Queste domande sono state rivolte ai giornalisti, che a loro volta le hanno rivolte ai politici, senza ricevere risposta per ore. “Quando si arriva allo sgombero si tratta di un problema di ordine pubblico”, ha dichiarato il sottosegretario del ministero dell’interno Domenico Manzione, intervistato da Daniele Biella di Vita.

“Come ministero, possiamo e stiamo cercando di mettere a disposizione strutture di accoglienza temporanee”, ha aggiunto. La sindaca Virginia Raggi per ora non ha commentato l’accaduto. Lo sgombero di piazza Indipendenza, tuttavia, è stato l’ultimo di una serie di provvedimenti, che negli ultimi anni ha affidato a soluzioni improvvisate la gestione dell’accoglienza nella capitale.

Questa tendenza può essere riassunta in tre punti: l’assenza strutturale di politiche di lungo corso su un tema così complesso come quello dell’integrazione dei richiedenti asilo e dei rifugiati a Roma, la mobilitazione autorganizzata degli stessi richiedenti asilo e rifugiati – sostenuti da organizzazioni umanitarie e associazioni – per difendere i loro diritti nella città in cui vivono e lavorano da anni, e infine il ruolo decisivo, ma spesso ambivalente, dei mezzi d’informazione.

Tre anni fa raccontai la storia di tre ragazzi eritrei minorenni – Robiel, Bilal e Mengis – scappati dall’Eritrea per sottrarsi alla leva obbligatoria che nel paese si trasforma spesso in servizio militare a vita. Nella primavera del 2015 Robiel, Bilal e Mengis avevano trovato rifugio a Roma nel borghetto occupato di Ponte Mammolo, sgomberato l’11 maggio 2015 dalla giunta di Ignazio Marino senza una soluzione alternativa per gli occupanti di quella baraccopoli che sorgeva a pochi passi dalla stazione della metropolitana.

I tre ragazzi, dopo aver dormito qualche giorno al centro Baobab di via Cupa e poi in un convento di suore nel rione Monti, decisero di raggiungere illegalmente la Germania e la Svizzera dove avevano conoscenti e familiari e dove sapevano che avrebbero potuto lavorare con più facilità. Robiel e Mengis, che oggi sono maggiorenni, vivono ad Amburgo, in Germania, dove hanno ottenuto asilo politico. Il governo locale gli ha trovato una sistemazione in un appartamento vicino al centro della città e gli ha concesso un piccolo contributo mensile. In questi tre anni hanno frequentato corsi di tedesco e scuole professionali, che gli stanno permettendo di gettare le basi per trovare un lavoro e integrarsi nella società tedesca, versare le tasse e diventare cittadini. Bilal vive a Zurigo, in Svizzera, in condizioni simili.

La vita dei tre ragazzi eritrei è migliorata radicalmente da quella notte di giugno in cui salirono su un treno per Bolzano alla stazione Termini di Roma. Invece il sistema di accoglienza per i migranti e i richiedenti asilo nella capitale italiana è decisamente peggiorato. “Mai più situazioni come Ponte Mammolo, senza un piano alternativo prima di uno sgombero”, aveva detto ai volontari della Baobab experience e agli operatori di Medici per i diritti umani (Medu) all’indomani del suo insediamento l’assessora ai servizi sociali Laura Baldassare, che prima di assumere l’incarico nell’amministrazione cinquestelle ha maturato una lunga esperienza nell’Unicef.

Eppure i tavoli istituzionali sull’immigrazione aperti dalla giunta guidata da Virginia Raggi sono tutti naufragati e nel corso del tempo non è stata elaborata nessuna strategia a lungo termine per l’accoglienza, nessuna alternativa agli sgomberi, che creano allarme sociale e rafforzano nel senso comune l’idea che la migrazione sia legata all’ordine pubblico, alle misure contro il terrorismo e a un’ipotetica invasione fuori controllo. “Siamo rifugiati, non terroristi”, era scritto in uno degli striscioni appesi al palazzo sgomberato di via Curtatone.

Piazza Indipendenza, Roma, 24 agosto 2017. (Rosy Santella, Internazionale)

Numeri sotto controllo
Secondo i dati della prefettura di Roma, nella capitale risiedono meno richiedenti asilo di quelli previsti dall’accordo tra stato e regioni. Nei centri di accoglienza romani ci sono circa ottomila richiedenti asilo (5.581 nei centri di accoglienza straordinaria e 3.028 nei centri Sprar), una cifra molto al di sotto degli undicimila previsti dall’Anci. A questi si devono aggiungere i circa novemila richiedenti asilo e rifugiati che vivono in emergenza abitativa, cioè in stabili occupati, in situazioni di fortuna o per strada. Inoltre ogni giorni arrivano a Roma decine di transitanti: cioè migranti di passaggio che vogliono raggiungere i paesi del Nordeuropa. Ma nella capitale non esistono centri per accogliere questo tipo di migranti, anche se erano stati progettati già dall’ex assessora ai servizi sociali Francesca Danese nel giugno del 2015.

A tre anni dallo sgombero di Ponte Mammolo, i migranti che transitano dalla capitale dormono per strada o si rivolgono ai volontari dell’associazione Baobab experience, che hanno organizzato un presidio a loro spese e senza l’autorizzazione delle autorità, insieme ad altre associazioni come Medici per i diritti umani (Medu), il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), Intersos, Action, Radicali Roma e A buon diritto. Il presidio si trova in un parcheggio dietro alla stazione Tiburtina, chiamato dai volontari piazzale Maslax (in ricordo di un richiedente asilo somalo di 19 anni che si è suicidato dopo essere stato rimandato in Italia dal Belgio a causa del regolamento di Dublino). Ma è stato costretto a cambiare varie sedi ed è stato sgomberato venti volte in tre anni.

Nell’ultimo sgombero di piazzale Maslax, l’ingresso del parcheggio è stato chiuso con dei blocchi di cemento per impedire ai volontari di entrare con l’auto a scaricare il cibo, l’acqua e i vestiti per i migranti. Oggi nel presidio dormono circa cento persone, affermano i volontari. La promessa, che era stata fatta dall’amministrazione capitolina, di istituire un centro informazioni vicino alla stazione Tiburtina per l’orientamento logistico e legale dei migranti non è stata mai mantenuta. Infine c’è una struttura d’emergenza gestita dalla Croce rossa a via del Frantoio che dà ospitalità a un’ottantina di persone, di solito i casi più vulnerabili come le donne e le famiglie con bambini che sono segnalati dai volontari della Baobab experience. Ma per sua stessa natura la struttura è temporanea e la convenzione che la istituisce viene rinnovata ogni sei mesi.

Un dibattito tossico
Qualche giorno fa in un bellissimo articolo sulle condizioni dei campi di detenzione per i migranti in Libia, Domenico Quirico sulla Stampa ha scritto: “Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto”. Con le dovute differenze, penso che lo stesso ragionamento possa valere per qualunque politica dell’immigrazione anche al livello locale.

Perché nessun rappresentante delle istituzioni si è affacciato a piazza Indipendenza in questi giorni? Perché Roma da anni non riesce a varare un piano per l’accoglienza? La risposta è semplice nella sua brutalità: i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati che vivono nelle nostre città non sono considerati parte delle nostre comunità, anche se sono al nostro fianco e nelle nostre vite da anni.

Negli ultimi mesi il dibattito pubblico sui migranti in Italia ha assunto toni ancora più foschi, perché abbiamo cominciato a desiderare o ad augurarci che si facciano da parte, che spariscano. Mi ha colpito la conclusione del messaggio di Mussie Zerai al ministro Minniti: una supplica a considerare “esseri umani” gli occupanti eritrei di piazza Indipendenza. Evidentemente abbiamo dimenticato che lo sono.

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La nota UNHCR

Eritrei ed etiopi mandati via senza avere un piano B – Il Manifesto

Das Duell

La Germania ad un mese dal voto

di Andrea M. Jarach – glistatigenerali.com, 20 agosto 2017

I sondaggi
A poco più di un mese dalle elezioni, la campagna elettorale tedesca si dipana senza grossi scossoni. Anche se i sondaggi registrano sempre un’alta percentuale di indecisi, la tendenza costante è di una netta vittoria per la CDU di Angela Merkel che in più o meno tutte le proiezioni più recenti naviga su un 39/40% delle preferenze. La SPD di Martin Schulz arranca al 24%, ma c’è anche chi la dà solo al 22%, e poi i post comunisti dei Linke a seconda dei sondaggi stimati tra l’8 ed il 9% così come i liberali della FDP che sfiorano una crescita del 4%, la maggiore di tutti i partiti, i Verdi più o meno fissi all’8% ed i populisti della AfD tra il 7 e l’8% (vedasi http://www.wahlrecht.de/umfragen/). L’unica sorpresa è forse il rafforzamento dei liberali con Christian Lindner che in veste di candidato di punta in Nord Reno-Vestfalia nel maggio di quest’anno ha convinto il 12,6% degli elettori pur consci che ambiva cambiare al Bundestag a votare FDP. Ciò nonostante la Wirtschaftswoche nel 2013 avesse rimarcato che molte correzioni sul profilo Wikipedia di Lindner fossero riconducibili direttamente a lui stesso o ad indirizzi IP di suoi collaboratori e che questi ultimi, così come uno studio legale, sarebbero stati incaricati di cancellare o modificare articoli su internet perché non fungessero più da fonte per Wikipedia. Gli elettori evidentemente non hanno trovato fosse una mancanza tale da penalizzare il 38enne Lindner che ha anche il primato di essere, secondo solo ad Alice Weidel della AfD, il capolista più giovane a concorrere per il Parlamento.

Situazione di stallo
A spostare sostanzialmente gli equilibri non paiono dunque per ora aver influito né lo scandalo delle uova al Fipronil; né quello degli imbrogli sui valori dei gas di scarico dei motori diesel; neppure la sospensione dell’immunità su richiesta della Procura di Dresda alla presidente della AfD Frauke Petry per dare via libera ad un giudizio per spergiuro nei suo confronti; od ancora le indagini della Procura di Tubinga per i sospetti di rituali neonazisti durante una festa di addio per un capo della compagnia delle truppe di élite dell’esercito KSK il 27 aprile 2017 dove, da quanto emerso da un’inchiesta dei media funkradio Brema e NDR, diversi partecipanti avrebbero fatto il saluto hitleriano, ascoltato musica di estrema destra e partecipato ad una gara di lancio di teste di maiale. Non sembra neppure più determinante che tanto del calo della SPD, il fatto che il Parlamento Europeo abbia imputato a Martin Schulz, suo ex presidente nel quinquennio 2012-2017, irregolarità nella retribuzione del proprio portavoce stampa ed attuale capo della campagna elettorale Markus Engels, che sarebbe apparso falsamente in permanente missione di viaggio a Berlino pur risiedendovi normalmente, finendo per percepire oltre 16.600 euro in più a costo dei contribuenti europei. Neppure grossi sbalzi hanno creato le censure, invero trasversali, alla candidatura dell’ex Cancelliere Gerhard Schröder per entrare nel collegio sindacale dell’ente statale russo Rosneft a partire dal 29 settembre, il più grande produttore di gas metano sottoposto a sanzioni dall’Unione Europea dopo l’annessione della Penisola della Crimea. Pure passato quasi senza scossoni l’appello del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan -riferito comunque da Stern il 18 agosto- ai cittadini tedeschi di origine turca di non votare né CDU, né SPD, né Verdi perché hanno attaccato la sua politica; non menzionando peraltro espressamente i Linke, FDP e la AfD che pure hanno criticato il suo regime. Circa 1,25 milioni di turco-tedeschi votano in Germania -nota il periodico- due terzi si stima siano elettori della SPD ma al contempo la maggior parte dei cittadini di origini turche appoggiano il partito conservatore del Premier Erdogan AKP che in occasione di consultazioni in Germania ottiene risultati in percentuale migliori che in Turchia.

Coalizioni possibili
I sondaggi lasciano dunque emergere per ora solo due le alleanze di governo possibili. Una nuova grande coalizione CDU/CSU + SPD, che godrebbe secondo le proiezioni del sito https://bundestagswahl-2017.com/prognose/ di 395 su 598 seggi. A giudicare però come la SPD si è separata dall’Unione CDU/CSU forzando l’approvazione del matrimonio omosessuale nell’ultima seduta del parlamento uscente, forse non decollerebbe con buoni auspici. In alternativa emergerebbe una coalizione CDU/CSU + FDP + Verdi anche detta giamaica dai colori degli stemmi dei partiti. Sarebbe un novum a livello federale, ma avrebbe una maggioranza più risicata con 345 su 598 seggi, appena il 55,3%. A prescindere dal calcolo effettivo dei seggi che nel sistema elettorale tedesco è variabile in base a calcoli basati sulle cosiddette seconde preferenze ed i resti, tutto dunque farebbe intravvedere comunque un nuovo governo guidato dalla 62enne Cancelliera Angela Merkel che dopo la metà della legislatura paradossalmente raggiungerebbe l’età pensionabile, come nota il già citato sito https://bundestagswahl-2017.com/prognose/ . Peraltro anche Alexander Gauland della AfD, che con i sui 76 anni è il candidato più anziano si sarebbe potuto ritirare già da 11 anni. Angela Merkel ha già guidato tre coalizioni di governo: dopo il 2005 una grande coalizione con la SPD che godeva di 448 seggi su 614; dopo il 2009 un’alleanza con i liberali della FDP con solo 332 seggi su 622, quindi nel 2013 nuovamente un governo con la SPD con 504 su 631 seggi.

Tra lotterie e spie 
A movimentare un po’ le cronache elettorali giunge la novità che taluni comuni stanno puntando su lotterie e concorsi a premi, biglietti per il cinema e voli panoramici in palio, per attirare scrutatori volontari e non essere costretti a precettare i propri dipendenti. Oltre a questo emergono anche un paio di storie di spie.

Della prima in effetti si è già parlato, ma è tornata in auge per essere sfociata l’8 agosto nella richiesta di rinvio a giudizio innanzi alla Corte di Appello di Francoforte sul Meno. Il cittadino elvetico 54enne Daniel M. su incarico dei servizi segreti svizzeri avrebbe spiato dal luglio 2011 al febbraio 2015 l’Amministrazione finanziaria del Nord Reno-Vestfalia ed i suoi incaricati con lo scopo di individuare come procedessero all’acquisto di cd con dati di contribuenti tedeschi che avevano depositi in Svizzera senza informarne il fisco. In primo luogo doveva completare i dati anagrafici e l’indirizzo privato e la reperibilità di tre esattori del Ministero coinvolti nell’operazione. Cosa che gli riuscì attraverso un’impresa di investigazioni private dell’Assia. Le informazioni permisero alla Svizzera nella primavera 2012 di emettere ordinanze di custodia nei confronti dei tre funzionari coinvolti nell’acquisizione dei cd. Daniel M. avrebbe avuto 13.000 euro, 10.000 sarebbero stati l’appannaggio dell’agenzia privata. Dopo questo successo nel dicembre 2012 avrebbe avuto l’incarico di infiltrare una spia direttamente nel Ministero. Gli furono promessi 90.000 euro ed in effetti ne avrebbe percepiti 60.000. Sia lui che l’agenzia già collaudata avrebbero tenuto per sé 10.000 euro, il resto sarebbe stato invece devoluto alla talpa. Per la Procura Generale tedesca Daniel M. per un periodo tra i 5 ed i 6 mesi avrebbe ricevuto anche una diaria di 3.000 euro mensili dai servizi segreti svizzeri. Gli investigatori tuttavia hanno indicato che non è ancora noto chi sarebbe l’infiltrato nel Ministero, né hanno fatto il nome dell’agenzia privata dell’Assia che avrebbe coadiuvato la spia rossocrociata.

La seconda storia di spionaggio -denunciata dal network di giornalismo investigativo di SZ, NDR e WDR– costituirebbe invece la prima prova di un tentativo russo di influenzare la campagna elettorale tedesca. Per le testate in questione diversi membri e fiduciari del partito Alternative für Deutschland partecipando come osservatori a consultazioni referendarie in regioni dell’est europeo avrebbero stretto contatti con una spia del FSB russo, il politico polacco Mateusz Piskorski, che la Procura Generale di Varsavia ha fatto arrestare dal 18 maggio dell’anno scorso. Dal 2016 il “Centro tedesco per gli studi Eurasiatici” presieduto dal giornalista Manuel Ochsenreiter, caporedattore del settimanale vicino al partito populista AfD Zuerst, con Piskorski come vice, e tra i fondatori altre due personalità di spicco della AfD, Markus Frohnmaier (incaricato stampa della candidata di punta del partito Alice Weidel) e Thomas Rudy (deputato della AfD nel parlamento della Turingia) ha inviato osservatori a votazioni nei Paesi sotto influenza Russa, come il referendum sulla divisione della Crimea dall’Ucraina rilasciando rapporti assolutori per Mosca. Interrogato dai giornalisti Becker, Heil, Pitelkow e Riedel che hanno condotto l’inchiesta, Ochsenreiter ha affermato che ci sono stati solo rimborsi per coprire le spese di viaggio e che comunque l’associazione tedesca dall’arresto di Piskorski sarebbe di fatto inattiva. Per contro il cofondatore Thomas Rudy avrebbe indicato che l’associazione è finanziata da offerte senza peraltro voler loro fare i nomi dei benefattori. Le accuse sono che Piskorski avrebbe invece ricevuto denaro dallo FSB per organizzare i viaggi di osservatori ai referendum e dare consulenze. Per i suoi legali -riferisce l’inchiesta tedesca- non si sarebbe in realtà trattato di spionaggio, ma semmai di propaganda non punibile. I giornalisti riferiscono però che anche per i servizi segreti tedeschi Mosca da tempo si sforza in tutta Europa di finanziare partiti e personalità di spicco che hanno un approccio positivo verso la Russia, come la AfD, e Piskorski in occasione del referendum sulla Crimea del 2014 avrebbe organizzato un viaggio per una trentina di funzionari di estrema destra o populisti di dieci Paesi dell’Unione Europea per cui la Russia avrebbe versato 270.000 euro.

L’ombra degli hacker
Un’altra grossa incognita sulle elezioni sono i rischi dell’intervento di hackers. Allo spoglio in ogni singolo seggio le schede di regola vengono divise in 4 pile: prima e seconda preferenza allo stesso partito, prima e seconda preferenza a partiti diversi, voti dubbi e bianchi. Quindi il presidente del seggio comunica due volte per telefono i risultati al centro elettorale locale e compila i verbali. Da qui però poi si passa all’impiego delle reti elettroniche. Raccolti i dati infatti il centro elettorale locale comunica per via informatica i risultati al suo omologo regionale e da qui, sempre per via digitale, poi tutti i dati sono trasmessi all’ufficio federale, che la notte stessa delle elezioni effettua un primo controllo di plausibilità paragonando i totali tra voti, elettori e preferenze ai partiti. Gli hacker potrebbero quindi intervenire in più modi: con un classico lancio massiccio di pacchetti di dati per fare saltare un server, rallentando conseguentemente lo scambio di informazioni; oppure colpendo il firmware fornito con l’hardware di aziende private quali elaboratori e router; od infine attraverso un software pirata scaricato da qualcuno che inserisca una chiavetta USB in un punto qualsiasi della rete. Questo, secondo quanto ha riportato la tedesca ZdF. in effetti avvenne nell’inverno del 2014 quando fu colpito un elaboratore del Cancellierato.

Gli indecisi
L’incertezza maggiore però è costituita dall’ampia fascia di persone ancora indecise o che non sanno se andranno a votare che le proiezioni sul voto del gruppo Stern/RTL il 16 agosto stimavano al 26%. Per questa fascia e soprattutto per i primi elettori la Centrale federale per la formazione politica (bpb) d’altronde mette in campo fin dal 2002 il Wahl O Mat, che dice essere già stato usato 50 milioni di volte. È un questionario concepito come materiale didattico, che paragonando i partiti e le loro proposte attraverso 38 tesi alle quali si può rispondere alternativamente se si è d’accordo o meno, o neutrali, o saltare, può aiutare l’elettore a decidere quello più vicino alle sue opinioni e non disertare le urne. Per il 19mo parlamento tedesco sono chiamati a votare circa 60 milioni di tedeschi. Alle elezioni concorrono 42 partiti; 34 in liste regionali, 8 in singole circoscrizioni. In effetti erano stati ammessi 48 partiti, ma 6 non hanno poi presentato candidati. Per entrare in Parlamento occorre superare una soglia di sbarramento del 5%.

*In copertina riproduzione di pubblicità del fascicolo speciale dedicato alle elezioni del periodico politico Cicero.

De Luca, colpo di Ferragosto

Nel pieno dell’estate esce la delibera che alza gli stipendi di 20-30 mila euro lordi annui ai dirigenti di cui ha preteso la nomina fiduciaria. “L’istruttoria è stata lunga” ma nessuno lo sapeva.
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De Luca, colpo di Ferragosto: aumenti ai manager delle Asl

Sei mesi di braccio di ferro, vinto, con il governo Gentiloni e il ministro Beatrice Lorenzin per ottenere a luglio l’agognata nomina a commissario della sanità in Campania e il governatore Pd Vincenzo De Luca che fa? Reinterpreta a suo modo lo slogan “mai più ultimi” con il quale vinse le elezioni: non lo applica sulla qualità dei servizi sanitari, ma sulle retribuzioni dei dirigenti. Mai più ultimi in termini di stipendio. Come primo atto da commissario, infatti, De Luca ha firmato il 1° agosto una delibera di giunta che incrementa le remunerazioni dei manager di Asl e aziende ospedaliere campane. A tutti. Si va dai 155mila euro lordi per i direttori generali dell’Asl di SalernoNapoli 1 e degli ospedali Ruggi di SalernoCardarelli di Napoli e Colli di Napoli, ai 150.000 euro riservati ai manager di tre Asl e quattro ospedali, fino ai 145.000 euro per i direttori di due Asl e due ospedali.

Aumenti tra i 20.000 e i 30.000 euro lordi che hanno il sapore del blitz ferragostano – la pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione è avvenuta a metà agosto – e che inevitabilmente scatenano critiche. Per i tempi, i modi e le spiegazioni. Una, citata nel corpo della delibera, è che se non si guadagna abbastanza non si lavora bene: “La sanità campana, per le rilevanti sfide future e gli impegnativi processi riorganizzativi in corso, deve poter contare su una classe dirigenziale qualificata, motivata e adeguatamente remunerata, ove ne ricorrano le condizioni. A tal fine occorre adeguare il trattamento economico dei direttori generali agli obiettivi e alle responsabilità connesse all’espletamento delle funzioni”.

Il ragionamento ha una falla: i manager non hanno vinto un concorso ma sono stati nominati direttamente da De Luca senza attingere a graduatorie o terne – abrogate durante questa legislatura regionale – e sulla base di un rapporto fiduciario che poteva presupporre patti chiari e amicizia lunga sulla retribuzione e sulle “motivazioni” a svolgere il compito. Oppure i tecnici della sanità hanno accettato di andare a guidare Asl e ospedali solo perché lusingati dalla promessa di un aumento?

La delibera della giunta De Luca cancella il 20% di risparmio imposto da una legge nazionale del 2008 e ripristina il tetto del 2001, fissato per l’appunto a circa 155.000 euro. I tagli di nove anni fa furono dettati da una legge nazionale per il rientro dal disavanzo. Oggi i conti sono in miglioramento ma sempre in sofferenza. La delibera però chiarisce che gli aumenti di stipendio saranno coperti “da forme di partecipazione alternativa alla spesa sanitaria, attualmente applicate in Regione Campania”. In pratica, dai prelievi sui cittadini campani. Nelle intenzioni di De Luca, così si dovrebbe risolvere alla radice una incongruenza: i manager, si legge, “ricevono un compenso annuo inferiore a quello delle apicalità mediche che coordinano. La situazione ha generato nel corso degli anni numerosi contenziosi legali ancora in corso di definizione non solo per l’aspetto meramente economico, ma anche di immagine legata al prestigio del ruolo”. Mai più dietro ai primari, insomma.

A scoprire la delibera è stato il capogruppo di Forza ItaliaArmando Cesaro: “De Luca non ha compiuto un atto dovuto, ma voluto: ha premiato i suoi fedelissimi”. Replica il consigliere per la sanità del presidente, Enrico Coscioni: “Legittima richiesta dei manager, che avevano stipendi tra i più bassi d’Italia. E non è stato un blitz di Ferragosto: l’istruttoria è durata due mesi”. Intanto, come documenta il sito Stylo24, tre giorni fa sono riapparse le barelle nei corridoi del Cardarelli. A maggio De Luca aveva garantito che “queste situazioni da quarto mondo” non si sarebbero viste mai più.

#CasaItalia non basta

Terremoto, Casa Italia non basta: per la messa in sicurezza mancano (almeno) 20 miliardi. E il fascicolo del fabbricato

Terremoto, Casa Italia non basta: per la messa in sicurezza mancano (almeno) 20 miliardi. E il fascicolo del fabbricato

Secondo un rapporto della struttura voluta da Renzi servono 25 miliardi solo per la riqualificazione antisismica dei 648 Comuni a maggior rischio. Ma per finanziare il sisma bonus previsto dalla legge di Bilancio ci saranno, di qui al 2030, non più di 5 miliardi. Ancora da trovare. Il presidente del Consiglio degli ingegneri: “Servono più soldi e gli interventi devono essere obbligatori. Ma la priorità è imporre un documento con tutte le informazioni sull’immobile”.

Almeno 20 miliardi in più da trovare, rispetto a quelli previsti nell’ultima legge di Bilancio del governo Renzi, solo per mettere in sicurezza gli edifici a maggior rischio sismico nei Comuni più esposti. E un grande assente, il fascicolo del fabbricato: una sorta di “cartella clinica” con tutte le informazioni su come è stato costruito l’immobile, quali modifiche ha subìto e quanto, di conseguenza, è in grado di resistere a un sisma. Secondo architettigeologi e ingegneri è indispensabile per un serio progetto di prevenzione. Ma per i proprietari avrebbe un costo e, visto che l’80% degli italiani ha una casa di proprietà, renderlo obbligatorio sarebbe impopolare. Dunque non se n’è fatto nulla. A un anno dal terremoto di Amatrice e a poche ore da quello di Ischia, tutti i nodi del piano Casa Italia per la messa in sicurezza del territorio, lanciato dall’ex premier Matteo Renzi il 25 agosto 2016, vengono al pettine. Forse per questo il segretario Pd, in un tweet sull’ultimo sisma, ha scritto che bisogna “correre di più su #CasaItalia”.

Il rapporto di Casa Italia: per mettere in sicurezza 648 Comuni servono 25 miliardi – Per quanto riguarda i soldi messi sul piatto, a certificare che i conti non tornano è la stessa struttura di missione creata dal precedente governo, che all’inizio di agosto è diventata un nuovo dipartimento di Palazzo Chigi. A giugno i 17 esperti guidati dal rettore del Politecnico Giovanni Azzone, chiamato a guidare Casa Italia fino alla nascita del dipartimento, hanno presentato al premier Paolo Gentiloni un corposo “Rapporto sulla promozione della sicurezza dai rischi naturali del patrimonio abitativo”. Che quantifica in 25 miliardi lo stanziamento necessario solo per finanziare la riqualificazione antisismica degli edifici in muratura dei 648 Comuni a maggior rischio attraverso il sisma bonus per i lavori di adeguamento antisismico introdotto dall’ultima legge di Bilancio (50% di sgravio che sale al 70 o 80% se l’intervento riduce il rischio di una o due “classi”).

Ma la cifra stanziata dalla manovra è ben più bassa: a coprire i mancati introiti fiscali sarà il Fondo per finanziamento degli investimenti e lo sviluppo infrastrutturale del Paese, ribattezzato “fondo Renzi“. Che sulla carta vale 47 miliardi, di cui però solo 1,9 effettivamente stanziati e gli altri tutti da trovare di qui al 2030. E Gentiloni, che a maggio ha firmato un primo decreto di riparto, ha anticipato che alla “messa in sicurezza” andranno “un totale di 8 miliardi“. Solo che quel capitolo comprende anche la sicurezza degli edifici pubblici e delle scuole nonché i fondi per polizia e vigili del fuoco. Anche se più della metà, 5 miliardi, fosse destinato a finanziare gli sgravi fiscali, mancherebbero all’appello 20 miliardi. Cifra comunque sottostimata: sempre stando al rapporto di Casa Italia, se si volesse intervenire su tutti gli edifici in calcestruzzo armato costruiti prima dell’entrata in vigore delle norme antisismiche servirebbero 46,4 miliardi. Mettere in sicurezza le case di tutti i Comuni italiani, infine, costerebbe addirittura 850 miliardi.

Il presidente degli ingegneri: “La priorità è il fascicolo del fabbricato. Ma ai proprietari non conviene” – “Che le risorse non siano sufficienti è evidente. Soprattutto se si pensa che ogni anno l’Italia spende in media 3 miliardi per far fronte alle conseguenze dei terremoti”, commenta Armando Zambrano, presidente del Consiglio nazionale degli ingegneri e coordinatore della Rete delle professioni tecniche (nove consigli nazionali tra cui quello degli architetti, dei geologi e degli ingegneri). “Ma per noi la priorità è il fascicolo del fabbricato, che non è stato reso obbligatorio nonostante lo chiediamo da tempo. Le associazioni dei grandi proprietari immobiliari (come Confedilizia, ndr) si oppongono perché non vogliono far emergere la situazione di sicurezza statica dei fabbricati”. E imporre ai proprietari di pagare per questa ulteriore certificazione sarebbe politicamente controproducente… “Ma parliamo di poche migliaia di euro per abitazione”, ribatte Zambrano. “Per un documento con informazioni che ti possono salvare la vita, dicendoti se è opportuno fare subito un intervento, e di quale portata, o si può aspettare”. Il fascicolo sarebbe infatti il punto di partenza per mappare la vulnerabilità del patrimonio edilizio e stabilire, su un arco di 20-30 anni, gli interventi prioritari. “Che a quel punto andrebbero resi obbligatori“.

Per i cantieri sperimentali 25 milioni. Nuove norme sulle costruzioni al palo -Il governo Renzi, esattamente come i precedenti, non ha voluto mettere la faccia sull’obbligo del fascicolo: anzi, nel 2014 ha impugnato con successo davanti alla Consulta la legge regionale della Puglia che lo imponeva. In compenso Casa Italia, racconta Zambrano, ha recepito la richiesta di avviare “almeno un’analisi speditiva, una forma di fascicolo del fabbricato semplificato, che con costi ridotti consenta di conoscere la pericolosità del fabbricato e programmare gli interventi a partire da dove c’è maggior rischio”. Riguarderà però solo 550mila edifici costruiti in muratura portante o in calcestruzzo armato prima del 1980. Quanto alla mappatura del territorio, insieme all’Istat è stato messo a punto un sito con la “mappa del rischio dei comuni italiani”, che però attualmente non dà informazioni sui singoli edifici. Quanto ai “cantieri sperimentali” di Casa Italia, che saranno avviati a Catania, Feltre, Foligno, Gorizia, Isernia, Piedimonte Matese, Potenza, Reggio Calabria, Sora e Sulmona, per tutti e 10 sono stati stanziati 25 milioni totali. Intanto, come ha ricordato martedì l’Ordine degli Ingegneri di Milano, da tre anni si attende la pubblicazione in Gazzetta ufficiale delle nuove Norme tecniche delle costruzioni civili, aggiornamento di quelle del 2008.

E gli incapienti non possono sfruttare il sisma bonus – L’ultimo nodo da risolvere, per gli ingegneri, è quello della concreta applicabilità del sisma bonus. Che finora è un’arma spuntata. “Ci sono diversi ostacoli”, spiega il presidente del Consiglio nazionale. “Per esempio gli incapienti (i 10 milioni di italiani che hanno un reddito talmente basso da non pagare l’Irpef, ndr) possono cedere il credito fiscale solo alle imprese a cui affidano i lavori, non alle banche. Ma se le imprese vengono subissate di cessioni di credito non hanno la liquidità per eseguire i lavori, per cui potranno accettarlo in pochi casi”. Così se in un condominio c’è una famiglia incapiente il rischio è che diventi impossibile deliberare l’intervento. E 14 milioni di nuclei familiari italiani, sui 20 milioni che hanno casa di proprietà, vivono nei condomini.