Month: aprile 2018

Le ragazze del ’43 e la bicicletta

segnalato da Barbara G.

uisp.it, 13/05/2015

Le ragazze del ’43 e la bicicletta” è il documentario realizzato da Uisp e Udi in occasione del 70° della Liberazione. Il video racconta il contributo decisivo delle donne alla Resistenza e in modo particolare quello dei Gruppi di difesa della donna e delle staffette partigiane. L’Uisp sceglie la bicicletta come simbolo della Liberazione per celebrare il ruolo fondamentale giocato dalle Staffette partigiane durante la Resistenza. La bici è, inoltre, un esempio di Liberazione da un modello di mobilità urbana insostenibile.

Le donne nella Resistenza erano in gran parte giovani e giovanissime e per il loro impegno hanno usato i mezzi semplici e poveri che avevano a disposizione, come la bicicletta. Questa, proibita come pericolosa dai nazisti, rimane il simbolo dell’impegno di una nuova generazione di uomini e di donne per la libertà del nostro paese e aiuta a comprendere il coraggio e la generosità di quella storia.

Il documentario, della durata di 30′, racconta, attraverso immagini e le testimonianze di Marisa Rodano, Lidia Menapace, Luciana Romoli e Tina Costa, quelle straordinarie pagine della Resistenza italiana, scritte anche con l’uso della bicicletta. Il video è stato ideato da Vittoria Tola e Raffaella Chiodo, che hanno curato e realizzato le interviste, mentre la regia e il montaggio sono firmati da Francesca Spanò.

Ecco alcuni stralci delle interviste alle quattro partigiane: “La bicicletta in quegli anni serviva per scappare, per questo i nazisti la vietarono a Roma durante l’occupazione, con un editto del 1943. La stessa cosa avvenne in altre città italiane, ha detto Marisa Rodano, classe 1921, parlamentare italiana ed europea che ebbe un ruolo attivo nella lotta partigiana a Roma.

“La maestra un giorno ci disse che saremmo dovuti andare tutti vestiti da figli della lupa e piccole italiane e a me l’idea piaceva molto. Mia madre quel giorno mi disse: ‘qui c’è poco da mangiare, vai a cercare la lupa e fatti dare da mangiare, perché anche per lei non ne abbiamo’. Credo di aver fatto la mia scelta quel momento, anche guidata da una famiglia di antifascisti”. Queste le parole di Tina Costa.

Luciana Romoli, ci ha raccontato il suo primo atto di ribellione, nel 1938: “Appartenevo ad una famiglia di antifascisti, mia madre addormentava le mie sorelle con canzoni sovversive. Nel 1938 quando facevo la terza elementare sono stata espulsa da tutte le scuole del regno perché ho difeso la mia compagna di banco ebrea”.

“Dopo l’8 settembre mio padre viene preso e portato in un campo di concentramento, noi siamo sfollati ma mia sorella e io in bicicletta tutte le mattine scendiamo a Torino per andare a scuola. Una volta mentre scendiamo due ragazzi in borghese ma col moschetto ci fermano e ci chiedono ‘Da che parte state?’ Io rispondo che sto contro quelli che hanno portato via mio padre, allora ci propongono di aiutarli a portare messaggi a Novara. Così sono diventata staffetta, usando la bici che era il mezzo di comunicazione più popolare”, così Lidia Menapace racconta il suo ingresso tra le staffette partigiane.

Libertà di ribellarsi

segnalato da Sundance

Proteste studentesche in Francia: se ribellarsi è giusto

L’occupazione dei centri universitari francesi continua da tre settimane per le proteste contro la legge che riforma l’università

it.blastingnews.com, 11/04/2018

Dopo gli eventi della facoltà di diritto di Montpellier, lo scorso 22 marzo, la #protesta degli studenti contro la legge Vidal, più nota come legge ORE, (Orientation et Réussite des étudiants) si è estesa in tutta #FranciaParigi, uno dei principali campus dell’università Sorbonne è occupato da ormai tre settimane. La legge ORE, promulgata l’8 marzo dal presidente Emmanuel Macron[VIDEO]prevede nuovi criteri di selezione all’università e di fatto chiuderà ermeticamente l’accesso secondo criteri arbitrari alle università pubbliche più rinomate. Inoltre, il numero di posti di ogni facoltà verrà scelto in base alle possibilità di sbocchi lavorativi in seguito al diploma.

E la legge prevede infine un re-orientamento automatico nel caso in cui uno studente faccia richiesta per un’università non considerata alla sua portata.

Il ‘maggio francese’, 50 anni dopo

Gli occupanti del centro Pierre Mendes France, o centro PMF, sono circa duecento studenti, professori e impiegati amministrativi. Dallo scorso 26 marzo abitano il centro, impedendo il regolare svolgimento delle lezioni e di tutte le funzioni amministrative che il centro ricopre normalmente ed organizzano conferenze e manifestazioni. Sono circa diecimila gli studenti che non possono più seguire i corsi. Gli occupanti chiedono l’abrogazione della legge, le dimissioni di Macron e un voto comune di 10/20 agli esami finali che si dovrebbero tenere a maggio. Hanno votato in assemblea generale l’occupazione ad oltranza, dichiarato il campus “università aperta’’, e si augurano che il maggio 2018 possa prendere ispirazione da quello del ’68.

L’occupazione

L’occupazione del centro ha diviso gli studenti. Da una parte, chi sta lottando contro la legge si sente l’erede della tradizione rivoluzionaria che da sempre incita i giovani a scendere in piazza per difendere i loro diritti. La manifestazione è fondamentale per chi si sente coinvolto a livello politico, sopratutto in uno stato come la Francia. Dall’altro lato, gli studenti che vorrebbero seguire le lezioni e che non possono si sentono ingiustamente messi in difficoltà dai loro stessi compagni. Questo ha fatto sì che altre assemblee studentesche – in particolare, quella degli studenti della facoltà di filosofia – si siano riunite per cercare una linea d’azione comune. Inoltre, hanno intenzione di presentare una controproposta di legge.

Il presidente dell’università non ha preso posizione fino a stamattina, quando in uncomunicato ufficiale ha deciso di ricorrere all’intervento delle forze dell’ordine per sgomberare il centro PMF dopo tre settimane di occupazione.

Ribellione e repressione

In un articolo pubblicato recentemente sul quotidiano Libération, il filosofo spagnolo Paul Breciado analizza la diffusione della democrazia in occidente e sostiene che “attorno a noi ci sono le condizioni istituzionali che permettono l’affermazione di quella che potremmo chiamare democrazia repressiva”. Con“democrazia repressiva”, Breciado intende quel neoliberismo spietato che sta letteralmente soffocando l’Europa. Stermini, espulsioni [VIDEO], umiliazioni, saccheggi e repressioni. Sopratutto per quanto riguarda l’espressione del dissenso, si può parlare di una democrazia sovrana che giustifica la restrizione dei diritti di ogni opposizione.

Pierre Rosanvallon, storico e sociologo francese, sottolinea che questo tipo di democrazia non fa che portare a compimento la visione di un governo che unisce un’estremizzazione della legittimazione tramite l’elezione ad un’esaltazione della responsabilità politica. Ma se il voto maggioritario è il principio incontestabile per la scelta dei governanti, non è assolutamente un principio di giustificazione permanente delle loro azioni una volta eletti.

Breciado Inoltre nell’articolo denuncia la condanna del rapper spangolo Valtònyca due anni e sei mesi di prigione per vilipendio della corona spagnola e incitamento al terrorismo. Questo a causa delle seguenti parole : “Ho il diritto alla ribellione, non importa se non è legale. Questa costituzione non lo prevede. Che il tribunale mi processi e mi chiuda in carcere, come farebbe l’inquisizione, come se fossi un eretico. Resistere significa vincere“. L’idea della resistenza è quella che ha animato gli studenti occupanti fino ad adesso. Sebbene si possano contestare la legittimità e la giustizia dell’occupazione e più in generale del fatto di impedire di seguire le lezioni e di dare esami ad altri studenti non necessariamente schierati, allo stesso tempo è difficile criticare gli studenti che hanno preso una posizione chiara opponendosi fattualmente alla legge. Resistere fa parte delle loro libertà, e nella contestazione della resistenza bisogna fare le giuste differenze: non è un diritto, la ribellione, ma è una libertà. Già il filosofo Thomas Hobbes, conosciuto per le teorie di stampo assolutista descritte nell’opera il Leviatano, ammetteva che i cittadini avessero la libertà – e non il diritto – di disobbedire ed eventualmente ribellarsi.

L’uomo e le circostanze

La storia è stata distrutta e il terrore è tornato in superficie, scrive ancora Breciado. Potrebbe essere la risposta al perché molti studenti francesi hanno sentito il bisogno di schierarsi nettamente da un lato o dall’altro: al posto di lasciar cadere come tutto il resto l’eredità storica che sentono, hanno deciso di raccoglierla. Non passa inosservato il fatto che siano passati cinquant’anni dal maggio del 1968. Ma non si tratta della ricerca di una forma di legittimazione,quanto piuttosto una forma di ispirazione nostalgica che permette agli studenti e professori schierati un senso di appartenenza e, appunto, di libertà. Appartenenza, per esempio, ad una categoria che si sente minacciata dalle azioni del governo – legittime, ma non sempre giustificabili – e che è giusto che difenda le circostanze che la caratterizzano come tale. Perché circostanze? Con circostanza si intende una situazione che si accompagna ad un fatto, determinandone la natura e dandogli un particolare significato o importanza. Senza questa, l’importanza della cosa si perde. La libertà nell’accesso all’università pubblica può essere un esempio di circostanza. Un altro filosofo spagnolo, José Ortega y Gasset, scriveva “Io sono io e la mia circostanza e se non salvo questa non salvo neppure me” nelle “Meditaciones del Quijote.” E salvare le circostanze, ogni tanto, può significare doverle difendere.

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Francia: studenti (e non solo) protestano contro la riforma universitaria

it.euronews.com, 10/04/2018

Video delle proteste

Quando ci dissero di aprire il fuoco

segnalato da Barbara G.

di Shai Eluk (*) – comune-info-net, 06/08/2018

Sei anni fa ero là. Era venerdì 30 marzo 2012, “Giorno della Terra” sul confine con Gaza. Le manifestazioni iniziarono dopo la preghiera di mezzogiorno. Un gruppo di cecchini aveva preso posizione la notte precedente, mentre il resto dell’unità era schierato con armi antisommossa, vicino alla barriera. L’ordine era chiaro: se un palestinese avesse superato la zona di sicurezza – 300 metri dalla barriera all’interno della Striscia di Gaza – si sarebbe dovuto sparare alle gambe dei “principali sobillatori”.

Questo ordine, che non ha mai definito esattamente come un soldato dovrebbe identificare, isolare e sparare a un “principale sobillatore” tra decine di migliaia di manifestanti, all’epoca mi turbò. Ha continuato a turbarmi lo scorso fine settimana, dopo che cecchini dell’esercito israeliano hanno aperto il fuoco contro dimostranti palestinesi sul confine di Gaza. “Come può essere legittimo un ordine di aprire il fuoco contro un assembramento di persone?” chiesi al vice comandante della mia compagnia sei anni fa. Devo ancora avere una risposta.

Cosa sarebbe successo se quei soldati avessero passato tutto il loro servizio militare sul fronte di Gaza? Come soldati che avevano appena terminato la formazione, il “Giorno della Terra” era l’opportunità ideale per vedere qualche “azione”. Lo stesso può probabilmente dirsi dei soldati che venerdì hanno ucciso almeno 16 manifestanti. Anche i loro comandanti molto probabilmente erano eccitati.

Sono certo che se fossimo stati chiamati a fare lo stesso per anni, qualcosa sarebbe cambiato. Dopo tutto questa situazione – ogni anno, nello stesso momento, nello stesso posto, con un’alta probabilità che un palestinese, non un israeliano, perda la vita – ha un senso solo la prima volta, soprattutto agli occhi di uno sbarbatello diciottenne.

Ma qualunque soldato che fosse tornato al confine con Gaza ogni anno, che avesse visto cadere al suolo un palestinese dopo l’altro, riuscirebbe a immaginare una soluzione migliore della situazione. Qualunque soldato che fosse tornato a vedere gli stessi manifestanti avvicinarsi alla barriera – che, più di ogni altra cosa, significa che la morte possa non essere un’alternativa così cattiva – capisce che ci deve essere un’altra soluzione.

Uno dei miei amici ha ucciso un manifestante sul confine con Gaza. Io faccio parte di un gruppo che porta sulle proprie spalle questa morte.L’unica differenza tra me e il mio amico è stata il caso. Se fossi stato mandato al corso per tiratori scelti piuttosto che a quello della sanità, sarei stato quello che ha sparato. Tutto il gruppo espresse il proprio appoggio all’operazione, e il sangue – nonostante il fatto che tutti siamo stati congedati dall’esercito – è ancora sulle nostre mani. Dubito che qualcun altro oltre a me se ne ricordi.

Ogni anno è nuovo, e sul confine con Gaza arrivano nuovi comandanti e nuovi soldati – carne fresca e comandanti con la memoria corta.

I soldati hanno un privilegio. Ogni tre o sei mesi si spostano in un’altra zona. Vedono solo una piccola parte della disperazione di Gaza, ma prima hanno anche la possibilità di elaborare o riflettere su questo, di andare a vedere la disperazione a Hebron, Ramallah e Nablus.

Il soldato picchia alla porta della famiglia Abu Awad in piena notte solo una volta. Spara ai manifestanti del “Giorno della Terra” solo una volta. Compie arresti per qualche mese, dopodiché è sostituito da un altro soldato. Poi è congedato.

Gli abitanti di Gaza e della Cisgiordania stanno celebrando 50 anni di occupazione. Ma non saranno sostituiti, e nessuno sta arrivando per congedarli o aiutarli a portarne il peso. Per noi soldati tutto è temporaneo. Per loro questo è permanente.

(*) Shai Eluk è un ex-soldato della brigata Nahal e un attivista di “Combattants for Peace” [“Combattenti per la pace”, Ong israelo-palestinese che promuove forme non violente di lotta contro l’occupazione, ndt.]. Quest’articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local Call” [“Chiamata Locale”, sito web d’informazione in ebraico].

Fonte: https://972mag.com

(traduzione in italiano per zeitun di Amedeo Rossi)