Month: luglio 2018

Storia di K

segnalato da Barbara G.

Storia di K., sposa bambina e baby schiava

Vendute da giovanissime ai loro mariti in Albania, anche quando emigrano nel nostro paese restano di proprietà dei loro uomini. Ma una di loro si è ribellata e ci ha raccontato la sua storia terribile

di Martina di Pirro e Christian Elia – espresso.repubblica.it, 27/07/2018

Lei, che chiameremo K., non sapeva si trattasse di violenza. Aveva paura fosse solo la propria immaginazione e che, in fondo, era tutto normale. D’altronde in Albania era stata venduta ad uno sconosciuto a quattordici anni come tante altre bambine, senza alcuna ritrosia da parte della famiglia. «Ero una promessa sposa minorenne », racconta K. «In Albania esiste ancora un sistema patriarcale, per cui spesso è il padre a scegliere il marito. Mio padre scelse un uomo di dodici anni più grande di me. Dal momento in cui sono stata promessa, sono diventata una proprietà di quell’uomo».

Appena lasciata l’Albania per il nostro Paese, K. sperava che le cose sarebbero cambiate. Era convinta che i maltrattamenti subiti fin lì sarebbero stati sostituiti dalla calma di una casa accogliente in Italia, dalla possibilità di studiare, di avere dei documenti, lontana da quel mondo che l’aveva tradita.«Arrivai in un paese vicino a Roma con un visto di ricongiungimento, ma poi mi sono ritrovata a essere una clandestina. Mio marito aveva messo a carico del suo permesso di soggiorno i nostri figli, io invece ero quotidianamente sottoposta al ricatto dei documenti. Non potevo parlare, non potevo ribellarmi. I soldi dei miei lavori andavano a lui, altrimenti mi picchiava. Questo ricatto del permesso di soggiorno non mi faceva muovere. Mi minacciava di morte, ma io non avevo paura della morte, avevo paura mi portassero via i miei bambini».

«Ero solo un oggetto»

È praticamente impossibile stabilire il numero di casi come quelli di K. in Italia. Mancano dati, mancano troppo spesso gli strumenti per denunciare. Quel che è certo, però, è che quello delle spose bambine è un fenomeno mondiale. Secondo l’Onu, sono milioni. E l’Albania è un paese dove questo fenomeno è ancora troppo diffuso.

In Albania, da tempo, le istituzioni e la società civile si battono per eradicare i casi di spose bambine e, con la consulenza dell’Unicef e dell’Unfpa, è stato fissato come “obiettivo nazionale” la fine del fenomeno entro il 2030. Per ora, però, soprattutto in alcune sperdute zone dell’Albania settentrionale, il matrimonio deciso dai parenti per ragazze giovanissime è ancora una realtà.

Ogni giorno K. sapeva che a tavola non doveva mancare il vino, che la casa doveva essere pulita e i bambini silenziosi. Sapeva che anche una minima cosa fuori posto avrebbe potuto far scattare non solo le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche.

«Non ero una persona, ero un oggetto. Non sono mai stata definita una madre, mi diceva che ero solo una fabbrica».

Eppure le era ancora difficile credere che fosse vittima di un sistema di violenza e ricatto. Arrivata dall’Albania senza alcuna formazione ed informazione, non conosceva nessuno dei suoi diritti e delle possibilità di fuggire dall’incubo in cui viveva.

«Un diritto è tale solo se uno sa di averlo», spiega l’avvocata Ilaria Boiano dell’associazione Differenza Donna di Roma. «Nella maggior parte dei casi, le donne migranti non ne sono consapevoli. Capita di frequente che le donne straniere prive di permesso di soggiorno arrivino a denunciare ma l’unico procedimento che viene attivato è quello di portarle al pronto soccorso e poi procedere con l’espulsione, e quindi con la detenzione nei Cie. Le donne migranti passano da uno stato di regolarità ad uno di irregolarità in un battito di mani. La loro posizione è, infatti, fortemente dipendente da alcuni fattori. Innanzi tutto dal lavoro, e quindi tutto quello che è molestia e sfruttamento non emerge perché hanno paura di perdere il permesso di soggiorno o di non ottenerlo. In secondo luogo, se il permesso di soggiorno è per ricongiungimento, si verifica molto spesso che i mariti non lo chiedano ma ne chiedano invece il nulla osta: non facendo poi mai i documenti o mai consegnandoli alle compagne, esercitando, di fatto, così, un ricatto. Dal 2013 è stato istituito il permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica».

L’art. 4 della legge 119/2013 prevede che il questore – con il parere favorevole dell’autorità giudiziaria o su proposta di questa – rilasci il permesso per consentire alla vittima straniera, priva di permesso di soggiorno, di sottrarsi alla violenza quando siano accertate situazioni di violenza o abuso e emerga un concreto e attuale pericolo per la sua incolumità.

«C’è una forte disomogeneità di applicazione dell’istituto», continua l’avvocata Boiano . «È un permesso di soggiorno non ancora molto usato e conosciuto, non se ne rilasciano più di trenta l’anno. Inoltre, si è diffuso il pregiudizio che la richiesta di permesso di soggiorno per le vittime di violenza sia utilizzata dalle donne per ottenere un regolare permesso di soggiorno».

Pur non essendo ancora consapevole, K. non riusciva più a sopportare quella situazione.

«Un giorno arrivò a minacciare mio figlio perché si era messo in mezzo a una lite per difendermi», continua K. «Da lì mi è scattato tutto. Ho chiesto informazioni a delle mie amiche e ho fatto la denuncia. L’ho sporta piangendo, sprovvista di ogni documento, terrorizzata che gli assistenti sociali potessero portarmi via i miei figli».

E lì K. ha trovato un bravo maresciallo dei carabinieri che, con gli assistenti sociali, dopo un attento esame della situazione, hanno indirizzato K. nella via in cui ha sede l’associazione Differenza Donna. «Io non mi fidavo di nessuno perché così avevo vissuto una vita intera. Mi ero preparata anche a scappare con i miei figli. Poi invece decisi di provare ad andare in quell’associazione che mi avevano consigliato. Non sapevo dove mi trovavo, non sapevo l’esistenza di questi posti, non sapevo cosa facevano, avevo paura di tutto».

«La fortuna di K. è stata quella di incontrare persone informate», spiega l’avvocata Rossella Benedetti. «Molto spesso i carabinieri e i poliziotti invece non conoscono i diritti delle donne migranti e le portano direttamente nei Cie, come quello di Ponte Galeria, dove non esiste nemmeno la separazione tra uomini e donne, ripetendo così dinamiche di violenza psicologica nei confronti di chi già ne ha subita tanta. Nel caso di K., invece, la rete di sostegno ha funzionato ed è la cosa più importante, quella per cui lavoriamo ogni giorno».

L’alfabeto dei diritti

L’Associazione Differenza Donna nasce proprio per far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere grazie alle competenze specifiche delle socie: psicologhe, psicoterapeute, assistenti sociali, medici, educatrici, avvocate, giornaliste, sociologhe, informatiche, antropologhe, attive nel progetto complessivo. «Abbiamo avviato tanti progetti tra cui quello di alfabetizzazione ai diritti», racconta Valentina Pescetti dell’associazione. «Se le donne non hanno la possibilità di sapere l’italiano e nemmeno di conoscere il contesto di diritti che ci sono a livello internazionale di tutela per le donne, come fanno poi a potersi ribellare?».

«Prima di essere avvocate, sociologhe, operatrici, siamo donne. Ci riconosciamo in una dimensione di parità delle esperienze», dice Ilaria Boiano. «Vogliamo individuare nella disciplina dell’immigrazione un indicatore di violenza. Il solo fatto di essere esposte all’azione legale in uno Stato che ti identifica come titolare di diritti a seconda del tuo status già è una forma di violenza. Partire da questa prospettiva significa che le donne migranti vivono in una situazione di vulnerabilità che è provocata da una legge dello Stato, che a sua volta è attuazione di obblighi europei».

K. ha avuto il coraggio di prendere i suoi figli e denunciare la situazione perché quella situazione la soffocava. Costantemente sotto ricatto, si è sentita persa. Il sostegno che ha trovato lungo il suo percorso è stato enorme. «C’è stata solo una grave interruzione», racconta l’avvocata Benedetti. «Durante il procedimento penale abbiamo incontrato un giudice pieno di pregiudizi che, all’udienza preliminare per reato di maltrattamento in famiglia, ha deciso di prosciogliere l’imputato perché riteneva che la querela di K. fosse strumentale a ottenere il permesso di soggiorno. Il primo e, fino ad oggi, l’unico caso in cui si è messo nero su bianco tale affermazione. Abbiamo impugnato in Cassazione il provvedimento, che dubitava della veridicità e accusava la ragazza di avere un amante, La sentenza, per fortuna, è stata annullata e rinviata al Tribunale in diversa composizione».

K. non smette di dire che la salvezza l’ha trovata proprio nei centri antiviolenza. Un luogo che, per quasi un anno, è stato una casa, un rifugio per lei e per i suoi figli, un posto in cui autodeterminarsi e riprendere in mano la vita. «Ho quasi trent’anni adesso e sento di poter fare tutto. Vorrei un giorno poter aiutare tutte le donne, senza differenza di provenienza e diventare anch’io un’operatrice dei centri anti violenza. So cosa vuol dire sentirsi spaventata, persa, violata. So cosa significa sentirsi sotto ricatto. E so che si può uscire da questo dramma. Sono andata a scuola, ho ricominciato da zero. Ho lavorato come commessa, nelle pulizie, ovunque. Ho fatto corsi di formazione, tante esperienze diverse. A trent’anni mi sento una donna nuova, lontana da quella sposa bambina che ero e non più sotto il ricatto di nessuno».

Diritti, diritto e dovere

di Barbara G.

Quanto vale una vita?

Abbiamo tutti lo stesso diritto a vivere in pace, in salute, ad avere cibo e vestiti? A poter studiare, o esprimere la propria opinione? Ad avere una casa, un lavoro o un pezzetto di terra da cui ricavare ciò che serve per vivere? A poter rimanere nella propria casa senza rischiare di morire sotto qualche bombardamento?

Secondo la nostra Costituzione si, perché questi diritti li contempla tutti, e prevede anche che chi non possa goderne nel suo Paese abbia diritto a chiedere asilo. “Diritto” è la parola chiave. Non si tratta di un “favore” concesso in uno slancio di benevolenza, ma di un diritto che spetta alla persona. Ma anche i trattati internazionali prevedono che una persona privata dei suoi diritti inviolabili possa chiedere asilo. E vige l’obbligo di soccorrere chi in mare è in difficoltà, e il porto in chi si deve accompagnare il naufrago non è necessariamente il più vicino, deve essere considerato “porto sicuro”. Vige pure il principio di “non respingimento” di chi fugge da situazioni di pericolo.

In un paese “normale”, questi principi non dovrebbero essere nemmeno messi in discussione. Invece succede, in Italia ma non solo.

Che si fa?

A parte dare la colpa a quel cattivone di Salvini, senza considerare che a questo Matteo un altro Matteo, per interposto Minniti, ha preparato la strada (l’unica cosa che ha asfaltato veramente)… concretamente, qualcuno sta facendo qualcosa?

Quello che vedo io è che mentre Salvini usa l’arma migranti come un manganello (!!!) per far fuori l’opposizione, chi in teoria dovrebbe opporsi usa l’arma Salvini come uno stuzzicadenti per (tentare di) ricompattare la propria area e far fuori la maggioranza, facendo leva su chi ha votato M5S “per protesta”, ma questa roba qui, proprio così, non la voleva. Sistema delirante e, secondo me, controproducente, visto che prima d’ora non hanno fatto una mazza per smontare le bufale che venivano diffuse ad arte, non si sono mai degnati di ristabilire un minimo senso della realtà parlando di numeri veri, di sistemi che funzionano e che non funzionano, valorizzando i primi e disincentivando i secondi. E nessuno ha mosso un dito quando il Ministero ha fatto sparire i dati ufficiali relativi alle persone inserite nel circuito di accoglienza dal sito ufficiale. Nessuno tranne i soliti gufi rompicoglioni, che non contano un cazzo ma di colpo diventano responsabili di aver fatto perdere il csx alle elezioni.

Ricapitoliamo…come se ne esce da questo casino, che è contemporaneamente culturale e politico, e se non agisci sul piano culturale difficilmente riesci a sovvertire il piano politico? E se non agisci sul piano politico, come puoi avere a cascata ricadute sul piano culturale? E al prossimo giro elettorale pensi che ti si filerà qualcuno, visto che sono vent’anni che il cosiddetto centrosinistra non muove un dito, sperando sia l’avversario politico a suicidarsi?

Sul tema culturale credo che ognuno debba metterci del suo, anche se è deprimente, se ti viene il latte alle ginocchia, se ti vien voglia di prendere a legnate il vicino di casa, o il collega, per le cazzate che ti viene a dire. E con “culturale” non voglio assolutamente dire che esiste una verità assoluta e la sinistra ne è detentrice… ma che oggi si tirino ancora in ballo i 35€ al giorno ai migranti, che si parli di invasione quando la maggior parte dei profughi rimane nei paesi limitrofi da cui scappa, e in Italia il rapporto richiedenti asilo/abitanti è inferiore al 3/1000, e che ci sia una sedicente giornalista che, pagata da CasaPound, diffonde panzane clamorose su twitter e la gente ci casca… no, ‘ste cose non si possono stare a sentire. Provate a chiedere a chi sostiene queste cose se sa quanti sono i richiedenti asilo e gli stranieri presenti sul territorio… non lo sa nessuno.

E sul piano politico?

In quanto cittadini, non passiamo tollerare che chi ci rappresenta in parlamento o al governo agisca in totale sprezzo della Costituzione, della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, delle convenzioni che regolano il soccorso in mare. Abbiamo una classe dirigente che considera le leggi dei cavilli burocratici, delle scocciature da “superare”, e quasi nessuno che fa notare che una società si regge su valori, e che questi “tecnicismi normativi” li dovrebbero rispecchiare, oltre ad essere espressione di un istintivo rispetto per il prossimo. Chi sta in Parlamento la possibilità di agire sul serio ce l’ha, ma si nasconde dietro ai calcoli di opportunità, tuona a parole ma in realtà va a pescare nei metodi tipici della destra, per poi stupirsi se la destra vera dilaga.

Un esempio? Eccone uno fresco di giornata. Riporto cosa ha scritto oggi Laforgia

Votazione, al Senato, del provvedimento sulla cessione delle motovedette italiane alla Guardia Costiera libica. Misura annunciata da #Salvini settimane fa e che si muove in continuità con le politiche, scellerate, sull’immigrazione degli ultimi governi. I tre puntini rossi alla sinistra sono quelli di LeU (la capogruppo era assente giustificata). L’altro puntino rosso è quello di Emma Bonino. L’immagine fa impressione. È la foto di un Parlamento. Voglio pensare che non sia la foto di un intero Paese.

Senato, 25/07/2018. Votazione su cessione motovedette alla guardia costiera libica. I pallini rossi sono tre senatori di LeU ed Emma Bonino

Ecco, forse è il caso di mettere davanti i nostri “dipendenti in Parlamento” alle loro responsabilità. Hanno il dovere di agire attuando la Costituzione, e chi non lo fa non è degno di ricoprire un ruolo istituzionale, non può avere la fiducia dei cittadini, anche se è stato votato alle elezioni, e la fiducia dei cittadini, in una democrazia rappresentativa è data dalla fiducia in Parlamento.

Va chiesta la sfiducia individuale per Salvini. Non è degno del ruolo che gli è stato assegnato, ed è necessario che chi può fare qualcosa prenda l’iniziativa. Ed è per questo che è stata lanciata on line una iniziativa di sensibilizzazione indirizzata ai parlamentari,  affinché votino una mozione di sfiducia individuale nei confronti di Matteo Salvini. Il Ministro degli Interni sta infatti tenendo un comportamento inqualificabile e totalmente al di fuori dei suoi poteri e dei principi sopra citati.

La petizione, lanciata alcuni giorni fa con primi firmatari Beatrice Brignone (Segretaria di Possibile), Pippo Civati e Andrea Maestri, Luca Pastorino (deputato eletto nelle liste di LeU) e Elly Schlein (europarlamentare, relatrice dei Socialisti e Demoncratici per la riforma del Regolamento di Dublino), ha superato in breve tempo le 100000 firme, e mentre scrivevo queste righe ha superato le 148400. Oltre centoquarantottomila persone che, con la loro firma, vogliono che i parlamentari agiscano per chiedere il rispetto della Costituzione e del Diritto internazionale, senza nascondersi dietro presunti calcoli di convenienza politica.

La politica vera non è sui social, non si può fare con change org.

Vero, ma la rete consente ai messaggi di bypassare i “blocchi” esistenti nel sistema dei media, e la notizia di questa iniziativa nei giorni scorsi è diventata virale (altrimenti non sarebbero stati raggiunti questi numeri), e ha sollevato discussioni accese. E se o destrorsi si incazzano, vuol dire che si è visto giusto. Faccio inoltre notare che questa iniziativa ha avuto il merito di far emergere le contraddizioni di molti nell’area di centrosinistra, ovvero ha cominciato a fare un po’ di chiarezza, dividendo i “si ma non conviene” da chi la vede come una questione di principio, e non nel senso di “puntiglio” ma in quello del “principi” morali e politici. E ha avvicinato le anime della sinistra più dei vari tentativi di fusione a freddo, da Brancaccio a LeU. Era da tempo che non vedevo persone con differenti sfumature di rosso pensarla allo stesso modo su un aspetto così importante.

La mozione da presentare in parlamento è in fase di preparazione, ed ogni firma può aumentare la forza, la pressione da esercitare sui Parlamentari perché, finalmente, ricomincino ad agire sulla base dei valori che si propongono di incarnare.

Alex Langer, che era uomo di pace e “costruttore di ponti”, nel suo messaggio di addio ha scritto “continuate in ciò che era giusto”. Ecco, la classe politica italiana deve ricominciare ad agire in funzione di ciò che considera giusto, e non con la logica da marketing da due soldi, finalizzato a pescare nel bacino di voti del rivale più a destra.

La petizione è disponibile al seguente link

La legge che dice la verità su Israele

segnalato da Barbara G

Gerusalemme, maggio 2018. (Adrien Vautier, Barcroft Media/Getty Images)

Gideon Levy – Haaretz, 12/07/2018

fonte: internazionale.it, 19/07/2018

Il parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato una delle leggi più importanti della sua storia, oltre che quella più conforme alla realtà. La legge sullo stato-nazione (che definisce Israele come la patria storica del popolo ebraico, incoraggia la creazione di comunità riservate agli ebrei, declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale) mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è. La legge mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano “ebraico e democratico”, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno.

Se lo stato è ebraico non può essere democratico, perché non esiste uguaglianza. Se è democratico, non può essere ebraico, poiché una democrazia non garantisce privilegi sulla base dell’origine etnica. Quindi la Knesset ha deciso: Israele è ebraica. Israele dichiara di essere lo stato nazione del popolo ebraico, non uno stato formato dai suoi cittadini, non uno stato di due popoli che convivono al suo interno, e ha quindi smesso di essere una democrazia egualitaria, non soltanto in pratica ma anche in teoria. È per questo che questa legge è così importante. È una legge sincera.
Le proteste contro la proposta di legge erano nate soprattutto come un tentativo di conservare la politica di ambiguità nazionale.

Il presidente della repubblica, Reuven Rivlin, e il procuratore generale di stato, i difensori pubblici della moralità, avevano protestato, ottenendo le lodi del campo progressista. Il presidente aveva gridato che la legge sarebbe stata “un’arma nelle mani dei nemici di Israele”, mentre il procuratore generale aveva messo in guardia contro le sue “conseguenze internazionali”. La prospettiva che la verità su Israele si riveli agli occhi del mondo li ha spinti ad agire. Rivlin, va detto, si è scagliato con grande vigore e coraggio contro la clausola che permette ai comitati di comunità di escludere alcuni residenti e contro le sue implicazioni per il governo, ma la verità è che a scioccare la maggior parte dei progressisti non è stato altro che vedere la realtà codificata in legge.

Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica

Anche il giurista Mordechai Kremnitzer ha denunciato invano il fatto che la proposta di legge avrebbe “scatenato una rivoluzione, né più né meno. Sancirà la fine di Israele come stato ebraico e democratico”. Ha poi aggiunto che la legge avrebbe reso Israele un paese guida “per stati nazionalisti come Polonia e Ungheria”, come se non fosse già così da molto tempo. In Polonia e Ungheria non esiste un popolo che esercita la tirannia su un altro popolo privo di diritti, un fatto che è diventato una realtà permanente e un elemento inscindibile del modo in cui agiscono Israele e il suo governo, senza che se ne intraveda la fine.

Tutti questi anni d’ipocrisia sono stati piacevoli. Era bello dire che l’apartheid riguardava solo il Sudafrica, perché lì tutto il sistema si basava su leggi razziali, mentre noi non avevamo alcuna legge simile. Dire che quello che succede a Hebron non è apartheid, che quello che succede in Cisgiordania non è apartheid e che l’occupazione in realtà non faceva parte del regime. Dire che eravamo l’unica democrazia della regione, nonostante i territori occupati. Era piacevole sostenere che, poiché gli arabi israeliani possono votare, la nostra è una democrazia egualitaria. O fare notare che esiste un partito arabo, anche se non ha alcuna influenza. O dire che gli arabi possono essere ammessi negli ospedali ebraici, che possono studiare nelle università ebraiche e vivere dove meglio credono (sì, come no).

Ma quanto siamo illuminati. La nostra corte suprema ha stabilito, nel caso dei Kaadan, che una famiglia araba poteva comprare una casa a Katzir, una comunità ebraica, solo dopo anni di dispute. Quanto siamo tolleranti nel consentire agli arabi di parlare arabo, una delle lingue ufficiali. Quest’ultima è chiaramente una menzogna. L’arabo non è mai stato neanche remotamente trattato come una lingua ufficiale, come succede invece per lo svedese in Finlandia, la cui minoranza è nettamente più piccola di quella araba in Israele.

Era comodo ignorare che i terreni di proprietà del Fondo nazionale ebraico, che includono buona parte delle terre dello stato, erano riservati ai soli ebrei, una posizione sostenuta dalla corte suprema, e affermare che fossimo una democrazia. Era molto più piacevole considerarci egualitari.

Adesso ci sarà uno stato che dice la verità. Israele è solo per gli ebrei, anche sulla carta. Lo stato nazione del popolo ebraico, non dei suoi abitanti. I suoi arabi sono cittadini di seconda classe e i suoi abitanti palestinesi non hanno statuto, non esistono. Il loro destino è determinato da Gerusalemme, ma non sono parte dello stato. È più facile per tutti così.

Rimane un piccolo problema con il resto del mondo, e con l’immagine d’Israele che questa legge in parte macchia. Ma non è un grave problema. I nuovi amici d’Israele saranno fieri di questa legge. Per loro sarà una luce che illumina le nazioni. Tanto le persone dotate di coscienza di tutto il mondo conoscono già la verità, e da tempo devono farci i conti. Sarà un’arma nelle mani del movimento Bds (boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele)? Sicuramente. Israele se l’è guadagnata, e ora ne ha fatto una legge.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Lo spopolamento dei Balcani

segnalato da Antonella

Fonte: LeMonde Diplomatique, giugno 2018

Olga, Petar, Marko, Goran, Svetlana… In qualche ora un muro del pianto improvvisato, eretto il 17 ottobre del 2017 in pieno centro a Banja Luka, la città principale della Republika Srpska, l’entità serba di una Bosnia-Erzegovina ancora divisa, si è eicoperto di centinaia di nomi, formando un monumento effimero dedicato a yna comunità che sta scomparendo. L’organizzazione ReStart Srpska aveva chiesto ai cittadini di scrivere i nomi dei loro cari “andati all’estero nella speranza di una vita migliore”, come spiega il suo animatore, Stefan Blagič. Quest’uomo di 27 anni non la finisce più di contare gli amici che hanno preso la via dell’esilio. “Anche i laureati più qualificati sono pronti ad accettare qualsiasi impiego. È meglio lavorare per 1000 euro al mese in un supermercato in Occidente che per 400 euro qui”. Tra le destinazioni più richieste: la Germania, l’Austria, ma anche la Slovenia.

Questo esodo colpisce tutta la Bosnia-Erzegovina. Pasa Baragovič , 25 anni, abita a Tuzla, nella federazione di Bosnia Eraegovina, l’altra entità del paese. Questa grande città operaia abbandonata è stata sempre un baluardo della sinistra antinazionalista. Qui, i bosniaci musulmani, i croati e i serbi hanno convissuto anche negli anni più bui del conflitto (1992-1995). Nato nel dopoguerra, Barakovič è cresciuto in un paese devastato da un’interminabile transizione che hz prodotto un saccheggio sistematico delle risorse pubbliche attraverso le privatizzazioni. Con, al posto della democrazia, una minopolizzazione del potere da parte delle formazioni nazionaliste di ciascuna comunità: il partito d’azione democratica (Sda, musulmano), l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd, serbo), e la comunità democratica croata (Hdz).

Baraković si è già recato a più riprese in Francia, a Besançon, per lavorare in nero nell’edilizia. A casa, a volte venuva chiamaro da alcune stazioni di servizio per 300 euro al mese. “Bisogna pagarsi la benzina per andare al lavoro. Con il pranzo e le sigarette si spende più di quanto si guadagna.” Alla fine ha deciso d’iscriversi in una scuola privata di medicina, un passaggio molto utile per ottenere un contratto di lavoro in Germania, le cui case di riposo assumono in massa dai Balcani. “La mia formazione è costata 2600 marchi (1300 euro) e ho seguito dei corsi di tedesco che ho pagato 465 marchi, più 265 marchi per l’iscrizione all’esame del livello b2”. Ormai attende il visto e il permesso di lavoro promessi da una clinica di Dusseldorf. Gli hanno garantito un salario mensile di 1900 euro, che diventeranno 2500 dopo i primi sei mesi. In questo modo, potrà farsi raggiungere dalla moglie e dalla figlia di pochi mesi. La Bosnia-Erzegovina? Baraković ci tornerà finché i genitori continueranno a lavorare – sua madre è una maestra elementare e sio padre un poliziotto-, ma quandi arriverà il momento della pensione, spera di poter accogliete anche loro in Germania.

A Tuzla le scuole private di lingua si stanno moltiplicando. In una di queste, la Deutsch als Fremdsprache, una ventina di studenti è alle prese con degli esercizi di grammatica. “Tre anni fa il gruppo Glossa di Banja Luka, conta già una dozzina di scuole in tutta la Bosnia, ha voluto aprire un centro anche a Tuzla, e io mi sono detta che dovevo lanciarmi. I nostri iscritti aumentano ogni giorno di più” si rallegra Alisa Kadić, la direttrice che lavora anche come insegnante di tedesco nella scuola secondaria. Grazie a un accordo sottoscritto tra l’agenzia di cooperazione internazionale tedesca e il governo della federazione di Bosnia ed Erzegovina, alcuni datori di lavoro occidentali finanziano dei corsi intensivi di quattro mesi e mezzo ai loro futuri dipendenti, “Ci guadagnano tutti, a cominciare dalle imprese tedesche, che spenderebbero molto di più formando i loro dipendenti dul posto, osserva la Kadić. Degli ispettori del Goethe Institut e dell’Österreich institut di Sarajevo vengono a esaminare gli studenti ogni mese”.
Chi intende partire a volte deve accettare fin dall’inizio di rivedere al ribasso le sue pretese in funzione delle esigenze del mercato. “Dei fisioterapisti sono andati a lavorare come inservienti, perchè in Germania la loro specializzazione non è richiesta”.

Nessuno redige delle statistiche relative all’emigrazione, né le autorità cantonali né quelle statali. In tutti i paesi della regione, le partenze sono difficilmente quantificabili, perché non danno luogo a dichiarazioni ufficiali. Admir Hrustanović, che dirige l’ufficio di collocamento del cantone di Tuzla e scuote la testa desolato, tiene un proprio conto basato sul tasso di disoccupazione, che indirettamente rivela l’ampiezza degli spostamenti. Nel 2017, nel cantone, 98.600 persone avevano un posto di lavoro e 84.500 ne erano sprovviste, ma il numero dei disoccupati sta diminuendo: nel 2016 erano 91.000. ” il nostro ufficio offre impieghi in Austria e in Slovenia, perchè abbiamo degli accordi con questi paesi. Ma l’anno scorso solo 1.500 persone sono state assunte con la mediazione dei nostri servizi. Le altre sono scomparse dalle statistiche, il che significa che sono andate all’estero senza segnalarcelo. É così che si fa credere che la situazione economica sia migliorata.” Questo esodo non sembra disturbare affatto i dirigenti politici del paese. Anzi, fa abbassare i numeri della disoccupazione e serve da valvola di sfogo per le tensioni sociali. Quelli che partono sono tutti cittadini che avrebbero potuto esprimere la loro collera in occasione delle elezioni, alle quali, dall’estero, è molto probabile che non partecipino.

I candidati alla partenza sono per lo più giovani, laureati o persone con qualifiche tecniche che avrebbero potuto essere utili al proprio paese. “Ci sono tre gruppi, spiega il demografo Aleksandar Čavić, che è anche vice-presidente del partito progressista (conservatore): quelli che non hanno un lavoro, quelli che ne hanno uno ma mal pagato e quelli che hanno un buon lavoro, remunerato in modo corretto, ma temono l’insicurezza politica e trovano impossibile crescere adeguatamente i propri figli in un paese come la Bosnia- Erzegovina”. Analista politica presso la Fonfazione Friedrich Ebert di Banja Luka, Tania Topić mette in evidenza il decadimento del sistema educativo del paese, la diffusione di università private che vendono le loro lauree e la necessità di un “aggancio” e di raccomandazioni politiche per ottenere qualsiasi lavoro. La situazione è la stessa in entrambe le entità del paese. “In passato, afferma caustico Jasmin Imamović, sindaco di Tuzla e figura emblematica della sinistra bosniaca, avevamo il partito unico, ma per assegnare un posto di lavoro si guardavano i titoli e le competenze. Oggi abbiamo tre partiti etnici che tendono a comportarsi come partiti unici all’interno delle loro rispettive comunità e se si vuole ottenere un impiego bisogna passare per loro”.’

“Le persone se ne vanno perchè hanno perso ogni speranza. Ormai anche il più piccoli cambiamento appare impossibile.” Spiega Jasna Jasarević, della Fondazione comunitaria di Tuzla. Nel febbraio del 2014, la città è stata il centro nevralgico del movimento dei plenum, una potente rivolta sociale contro la corruzione della classe politica e la cattiva gestione delle privatizzazioni. La mobilitazione era iniziata in alcune fabbriche messe all’asta, i cui operai non venivano pagati da mesi, e aveva poi raggiunto l’intera società. Il movimento ha ottenuto rapidamente le dimissioni delle autorità cantonali, ma non ha tardato a lacerarsi in guerre intestine. “Il 2014 è stato un anno di alti e bassi, afferma la Jasarević, il fallimento dei plenum ha spento le nostre speranze. Poi, nel mese di maggio, la regione è stata colpita da inondazioni devastanti senza che le autorità facessero nulla. La gente sa che tali disastri si ripeteranno e che le nostre istituzioni saranno altrettanto innefficaci. Come si può immaginare il proprio futuro in un paese del genere?”

“Vogliamo restare qui, non vogliamo emigrare!” Scandivano i sostenitori dei plenum, proprio come i manifestanti che sono scesi in piazza in Serbia nell’aprile del 2017 per protestare contro la contestata elezione di Aleksandar Vučić alla presidenza della repubblica, la mobilitazione, durata alcune settimane, si è ben presto estesa all’insieme delle sfide che la Serbia ha di fronte in questa fase di transizione liberale. Rivendicazioni simili si sono sentite anche in Macedonia durante la “rivoluzione dei colori” del 2016. Dopo il fallimento registrato in tutti i paesi, i giovani animatori di questi movimenti sono stati spesso i primi ad andarsene e la loro partenza ha contribuito a ridurre ulteriormente le speranze di cambiamento.

Nei Balcani, l’emigrazione è una tradizione antica. Già ai tempi della Jugoslavia socialista, molti uomini andavano a lavorare in Germania o in Austria come gastarbeiter – lavoratori ospiti – questo termine, diventato gastarbajter in serbo-croato, ha assunto il significato di emigrato in tutta la ex Jugoslavia. Poi le guerre degli anni ’90 hanno provocato grandi esodi. Ancora oggi, intere famiglie lasciano la Bosnia-Erzegovina e la vicina Croazia, nonostante quest’ultima faccia parte dell’UE dal 2013. In Croazia, solo la capitale Zagabria, le città costiere e le zone più turistiche riescono in qualche modo a cavarsela. Basta allontanarsi pochi chilometri dalla costa per incontrare delle regioni in cui lo spopolamento sta avanzando rapidamente e lo stesso vale per il centro e la parte orientale del paese.

Al liceo di Nova Gradiska, una piccola città della Slavonia addossata all’autostrada per la Serbia, i conti sono presto fatti: all’inizio dell’anno scolastico 2017-2018 la scuola contava 343 studenti contro i 465 del 2012, vale a dire una diminuzione del 27%. “Nel comune abbiamo un cinema, un teatro, un ospedale e due asili, ma non c’è lavoro”, afferma Ljiljana Patčnik, la direttrice della scuola. Alcune aziende sono venute a stabilirsi nel nuovo parco industriale della città, ma i salari rimangono bassi. “Quando abbiamo aderito all’UE, pensavamo che la situazione sarebbe migliorata, ma i giovani non hanno più la pazienza di aspettare un ipotetico futuro migliore” Anche gli insegnanti del liceo se ne stanno andando: l’anno scorso la professoressa di arti visive ha seguito il suo compagno in Austria, “e abbiamo enormi difficoltà a sostituirla” precisa la direttrice. Nel censimento del 1991, Nova Gradiska contava 17.071 abitanti. In quello del 2011 erano 14.229 e negli ultimi cinque anni, l’emigrazione ancora più marcata, ha ridotti sempre più le forze vive della città e si é portata via le giovani generazioni, che avrebbero potuto assicurare il rinnovamento della popolazione. “Con l’ingresso nell’Unione, in molti temevano che gli occidentali sarebbero arrivati e avrebbero acquistato tutte le terre. Ma sono i croati che stanno partendo in massa”, lamenta la Ptačnik.

Eppure gli investitori conoscono bene la tradizione industriale e la manodopera qualificata della Slavonia. Piccole imprese austriache, ungheresi, italiane, si stanno trasferendocnella regione, dove si assiste anche a un’esplosione del lavoro da casa, offerto soprattutto dai call center internazionali, che richiedono molti lavoratori con una buona padronanza delle lungue straniere. Lo stesso accade dall’altro lato del confine, nella Posavina bosniaca. Derventa nelka Republika Srpska, registra da diversi anni un tasso record di creazione di imprese: si tratta di piccole unità produttive esternalizzate da aziende austriache, ungheresi o italiane, principalmente nel settore tessile e in quello dell’indotto automobilistico. La regione è facilmente raggiungibile dall’autostrada che porta a Zagabria; il diritto del lavoro, un concetto puramente teorico. Gli stipendi fanno fatica a superare l’equivalente di 200 euro e la flessibilità assoluta rimane la regola. Tutti i governi della regione sono pronti a fare ponti d’oro agli investitori stranieri, anche se questo significa praticare un vero dumping fiscale e sociale. Queste delicalizzazioni non sono accompagnate da alcun trasferimento di tecnologia e sono spesso di breve durata. E i lavoratori che rifiutano lz nuove forme di salario precario non hanno altra soluzione che l’esilio.

Il bisogno di manodopera della Germania sembra inesauribile. Imprese, Länder e persino singoli comuni organizzano direttamente campagna fi assunzioni nei balcani. I media della Bosnia-Erzegovina, della Croazia e della Serbia annunciano regolarmente incontri per ottenere un’offerta e un visto di lavoro. All’inizio di marzo, ad esempio, il gruppo Sozialwerk Heuser di Bad Aibling (Baviera), che gestisce delle case di riposo, ha annunciato che stava assumendo infermieri e tecnici medici in Serbia. La società paga le spese di trasferimento e garantisce salari compresi tra 1900 e 2500 euro al mese. Il 16 aprile del 2018, la Küchen Aktuell, un’azienda presente in tutta la Germania è arrivata ad assumere trenta installatori di cucine a Tuzla.

Spesso le agenzie locali fungono da intermediari. La RIAdra Works, con sede a Fiume, in Croazia, sta cercando muratori per la Danimarca. Nella stessa città industriale – disastrata e molto poco turistica – situata a nord sulla costa adriatica, un’altra agenzia assume in Serbia delle addette alle pulizie per alcuni alberghi della zona. Le migrazioni sono in forte aumento, soprattutto per chi lavora nel campo delle professioni mediche, nell’edilizia, nel settore alberghiero e nei servizi: bosniaci, macedoni e serbi si spostano in Croazia e in Slovenia, mentre Croati e Sloveni partono per la Germania. “Ai tedeschi non resta che andare a lavorare in Svizzera” dice scherzosamente Blagić a Banja Luka.

L’emorragia di lavoratori qualificati é tale da mettere a rischio le imprese locali. La camera di commercio della federazione di Bosnia ed Erzegovina ha recentemente lanciato l’allarme, facendo presente che al paese mancano dei quadri preparati. Il suo presidente, Mirsad Jasarspahić, punta il dito contro il sistema educativo, che non formerebbe professionisti adatti alle esigenze di mercato. Ma questa tesi non sembra essere affatto condivisa in Germania. Nel mese di marzo del 2018, gli studenti della scuola superiore di costruzione navale di Fiume, che stavano frequentando uno stage a Francoforte sul Meno, si sono visti offrire degli impieghi come elettricisti, installatori di impianti di riscaldamento o carpentieri. È però anche vero che il cantiere navale “3 maggio” in passato fiore all’occhiello di Fiume, è da tempo in attesa di un acquirente, dal momento che la privatizzazione di tutto il settore è stata posta come condizione per l’ingresso della Croazia nella UE.

Nessuno stato della regione è risparmiato da questo fenomeno. In alcuni casi le partenze assumono l’aspeto di veri e propri esodi dettati dal panico. Nell’inverno 2014-2015, piú di centomila persone, quasi il 7% della popolazione, hanno lasciato il Losovo nell’arco di poche settimane. La conclusione di un accordo tra Belgrado e Pristina aveva permesso ai cittadini kosovari di entrare in Servia solo con la carta d’identità. Poco dop, sono stati predisposti dei pullman diretti in Voivodina e essendo il Kosovo l’unico paese nei Balcani ancora non esentato dal visto per l’area Schengen, decine di migliaia di persone hanno attraversato illegalmente il confine ungherese per proseguire il viaggio verso la Germania. In assenza di un permesso di lavoro o di studio, moltissimi kosovari hanno chiesto asilo politico nell’Europa occidentale, ma sono stati espulsi nei mesi successivi. Le espulsioni hanno colpito in particolare i piú poveri, che avevano venduto tutti i loro averi per finanziare il proprio viaggio. Il 7 settembre del 2017, migliaia di persone si sono riversate nuovamente in Serbia, al punto che le autorità kosovare hanno dovuto chiudere la stazione dei pullman di Pristina per diverse ore. Tre giorni prima, i partiti nati dalla guerriglia dell’Esercito di luberazione del Kosovo (Uck) avevano formato un governo di coalizione, ponendo fine alle speranze di cambiamento suscitate dallo sfondamento del movimento di sinistra Vetëvndosje (Autodeterminazione), nelle elezioni legislative dell’11 giugno.

Ondate migratorie simili hanno interessato il nord del Montenegro nella primavera del 2015. Gli abitanti di suesta regione svantaggiata hanno creduto di poter trovare condizioni di vita migliori nella Bassa Sassonia, un’area della Germania nord-occidentale colpita da un forte calo demografico. Alcuni consiglieri tedeschi locali avevano chiesto alle autorità federali di inviare richiedenti asilo quanto più possibile. “Se vogliamo che la nostra comunità soravviva, abbiamo bisogno di nuovi arrivi”, aveva spiegato il sindaco di Goslar, le cui proposte erano arrivate fino in Montenegro.

Nella Bulgaria occidentale o nella Serbia sud-orientale, intere regioni si stanno spopolando a causa di un tasso di natalità molto basso e di un alto livello di emigrazione. Secondo l’Istituto nazionale di statistica, 160.000 persone hanno lasciato la Serbia tra censumenti del 2002 e del 2011. In questo paese, che nel 2030 potrebbe avere meno di 6 milioni di abitanti contro i 7.7 mioni di oggi, l’età media è già passata dai 38.8 anni del 1995 ai 42.7 del 2015.

Nel suo piccolo ufficio presso la facoltà di geografia di Zagabria, il demografo Stjepan Sterc osserva preoccupato le sue tabelle statistiche. “Il calo della popolazione croata è l’unico problema che la nostra classe dirigente dovrebbe affrontare, perchè condiziona tutte le politiche pubbliche”, sottolinea, prima di recitare un lunga litania di cifre. Secondo le sue stime, nel 2017 in Croazia i decessi sono stati 18000 in piú rispetto al numero delle nascite, mentre il tasso di fertilità rimane bloccato a 1,4 figli per donna. Dal 1991, anno della sua indipendenza, il paese avrebbe perso 627.000 abitanti su una popolazione fi 4,1 milioni, ovvero il 13% della popolazione di allora L’emigrazione a sua volta influisce sul tasso di natalità, dal momento che le prime fasce di età a partire sono quelle che hanno maggiori probabilità di procreare.

Il paese, inoltre, soffre ancora per le conseguenze della guerra e in particolare per l’esodo forzato di circa 200000 serbi nell’estate del 1995. “Se questa tendenza dovesse confermarsi, in un decennio un quarto della popolazione croata potrebbe scomparire”, aggiunge Sterc, che, vicino ad ambienti conservatori, si batte per politiche piú incisive di incentivi alla natalità. “È essenziale adottare misure per proteggere le donne lavoratrici che vogliono avere figli. Bisogna proibire i licenziamenti a seguito di gravidanze, organizzare la flessibilità del lavoro, prevedere sussidi per le famiglie numerose e abbassars le tasse nelle regioni che si stanno spopolando. La Germania continuerà senza dubbio ad assorbire le forze vive dell’Europa dell’ Est; è quindi necessario rinnovarle.”

Come soluzione al problema demografico e alla catastrofe sociale alle porte, i governi dei Balcani si limitano tuttavia a offrire garanzie ai conservatori e a rendere difficile l’aborto. Il 16 marzo, il presidente serbo Vučić non ha esitato a implorare le “madri e le donne di capire le esigenze della Serbia”, chiedendo ai medici di mostrare l’ecografia del feto e di far sentire il battito del suo cuore a quelle che desiderano interrompere la gravidanza. Il ministro sella difesa Aleksandar Vulin, da parte sua, si è impegnato a “impiegare l’esercito nella lotta contro lo spopolamento della Serbia”, mentre il ministero della cultura ha lanciato una gara di slogan miranti a stimolare la natalità.

Nella vicina Croazia, sotto la pressione di movimenti conservatori molto strutturati, una nuova legge sull’aborto potrebbe presto sostituire quella del 1978, rendendo obbligatori degli in ontri di consulenza per le donne che chiedono un’interruzione di gravidanza e introducendo un periodo di attesa prima dell’intervento. Questa mobilitazione in favore della natalità, di cui i media hanno parlato molto, permette di eludere ogni discussione sulle cause reali dell’esodo delle popolazioni balcaniche: il fallimento generale di una classe politica corrotta e le cure neoliberiste somministrate alle ecnmie esangui di tutti i paesi della regione.

È molto improbabile che queste iniziative riescano a contenere il declino demografico, mentre le delocalizzazioni industriali continuano a incentivare le partenze. “Ho vissuto in Germania per cinque anni e so che laggiù non è il paradiso, dice la Kadić nella sua scuola di lingue a Tuzla. Ma fermare l’esodo è impossibile. Se ne vogliono andare tutti. Siccome io sarò forse l’ultima a partire, quando lascerò i Balcani spegnerò la luce”.

 

La solidarietà si tinge di rosso

segnalato da Barbara G.

La solidarietà si tinge di rosso: una maglietta contro l’indifferenza e il cinismo dilagante

Mettersi nei panni degli altri, soprattutto dei bambini. Il 7 luglio Anpi, Arci, Libera e Legambiente lanciano l’appello per manifestare la propria vicinanza a chi fugge dalle guerra e dalla miseria

espresso.repubblica.it, 03/07/2018

Una maglietta rossa per fermare l’emorragia di umanità, sabato 7 Luglio indossiamo una maglietta rossa per un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà”. È l’appello dei presidenti di Anpi, Arci, Libera e Legambiente.

Il rosso, si legge nel comunicato, è il colore che ci invita a sostare, ma anche il rosso delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il Mediterraneo riversa sulle nostre spiagge.

Mentre l’Europa si accorda sulla accoglienza su base volontaria i numeri dei morti e dispersi, nel Mediterraneo, cresce. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni le persone che hanno perso la vita nel weekend trascorso sono 218 in totale.

“Di rosso erano vestiti i tre bambini annegati l’altro giorno davanti le coste libiche. Di rosso ne verranno vestiti altri dalle madri, nella speranza che, in caso di naufragio – prosegue l’appello – quel colore richiami l’attenzione dei soccorritori”, rosse sono le coperte delle protezione civile che avvolgono i migranti a terra dopo il viaggio in mare.

“Muoiono, questi bambini, mentre l’Europa gioca allo scaricabarile con il problema dell’immigrazione – cioè con la vita di migliaia di persone – e per non affrontarlo in modo politicamente degno arriva a colpevolizzare chi presta soccorsi o chi auspica un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà. Bisogna contrastare questa emorragia di umanità, questo cinismo dilagante alimentato dagli imprenditori della paura.

L’Europa moderna non è questa.

L’Europa moderna è libertà, uguaglianza, fraternità. Fermiamoci allora un giorno, sabato 7 luglio, e indossiamo tutti una maglietta, un indumento rosso, come quei bambini. Perché mettersi nei panni degli altri – cominciando da quelli dei bambini, che sono patrimonio dell’umanità – è il primo passo per costruire un mondo più giusto, dove riconoscersi diversi come persone e uguali come cittadini”.