Oggi è l’8 Marzo, data in cui ricorre la giornata internazionale della donna, istituita per celebrare le conquiste sociali e politiche fatte dalle donne in questi anni. Sicuramente sulla questione diritti sono stati fatti degli enormi passi avanti, tuttavia siamo ancora lontani dall’effettiva parità tra uomo e donna, per questo voglio consigliarvi 5 titoli scritti da donne e che parlano di donne, per riflettere sulle conquiste ottenute e sulle lotte che ancora oggi è necessario portare avanti.
Non potevo non partire che consigliandovi Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi, una vera e propria guida ai temi caldi del femminismo: dal patriarcato al sessismo, dalla questione linguistica al concetto di bellezza fino ad arrivare al fondamentale capitolo Feminist FAQs, nel quale Giulia mette insieme domande e risposte alle obiezioni e ai luoghi comuni riguardanti il movimento femminista.
Il secondo libro è una graphic novel che attraverso…
La Lombardia si mobilita con la campagna #AbortoAlSicuro
Sono passati quasi 41 anni dall’approvazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, una legge che ha fatto da argine alla pratica dell’aborto clandestino e favorito la cultura della prevenzione, nell’ottica della tutela della salute della donna partendo, prima di tutto, da una corretta informazione. Negli anni questa legge è stata via via depotenziata, con una riduzione drastica della diffusione dei consultori sul territorio e con un ricorso massiccio all’obiezione di coscienza da parte dei medici.
A fronte di una percentuale di obiettori che, in molte città, non consente erogare un servizio che dovrebbe invece essere garantito per legge, medici che estendono in modo arbitrario il concetto di obiezione ed ospedali che devono ricorrere a professionisti esterni per le IVG, si verifica un preoccupante incremento dell’aborto fai-da-te, spesso con medicinali acquistati on line.
E’ giunto quindi il momento di chiedere a gran voce una piena e corretta applicazione della 194. Ed è per questo che, in Lombardia, è nata la campagna Aborto al Sicuro: una raccolta firma per proporre una legge regionale di iniziativa popolare, finalizzata alla riorganizzazione e al coordinamento dell’attività dei consultori e dei centri nei quali si pratica l’IVG.
La raccolta firme è promossa da: Associazione Radicale Enzo Tortora, Associazione Luca Coscioni, Radicali Italiani.
All’iniziativa aderiscono 19 fra associazioni e partiti:
AGITE, ALiDa, ARCIATEA, Casa delle donne di Milano, Casa per la pace Milano, Certi diritti, Collettivo AG!TAmente, Consulta Milanese per la Laicità delle Istituzioni- Milano, Consultori Privati Laici – Milano, Coordinamento Genitori Democratici Milano, Donne Democratiche, Federazione dei Verdi – Milano, Movimento 5 stelle – Lombardia, Naga, Chiesa Pastafariana Italiana, Possibile – Lombardia, PRO-CHOICE – Rete Italiana Contraccezione e Aborto, Sinistra X Milano, UAAR – Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.
Lunghi periodi di siccità, precipitazioni intensissime, frane e smottamenti, trombe d’aria, alluvioni, estati molto calde, inverni miti e con poca neve a inizio inverno, nevicate tardive (quando ci sono). Possiamo far finta di non capire, ma i cambiamenti climatici sono ormai cosa reale, e non previsioni catastrofiche da film hollywoodiano ad alto budget. Possiamo anche dare la colpa a Satana, ma di diabolico c’è solo la capacità dell’uomo di voler piegare il mondo in funzione delle sue comodità, del profitto, del potere, senza preoccuparsi degli effetti di lungo periodo, senza riflettere su una cosa basilare: per quanti soldi si possano fare ora, sarebbe anche il caso di mantenere un mondo vivibile in cui spenderli in futuro. O chi se lo potrà permettere colonizzerà Marte, lasciando la Terra ai poveracci?
Fermiamoci, ragioniamo. E ascoltiamo chi ne sa più di noi, per capire cosa c’è da fare, quanto tempo abbiamo per intervenire.
“Mettiamo le cose in chiaro. Il bigottismo e il razzismo sono tra le più letali malattie sociali che infettano il mondo di oggi. Ma, a differenza di un team di super-cattivi in costume, non possono essere fermati con un pugno sul naso, o con un colpo di pistola laser. L’unico modo di distruggerli è di smascherarli, rivelarli per ciò che sono. Il bigotto è animato da odio irrazionale, è uno che odia ciecamente, fanaticamente, indiscriminatamente. Se ce l’ha degli uomini neri, odia TUTTI gli uomini neri. Se una volta uno coi capelli rossi l’ha offeso, odia TUTTI quelli con i capelli rossi. Se qualche straniero ha ottenuto un lavoro a cui aspirava anche lui, se la prende con TUTTI gli stranieri. Odia gente che non ha mai visto – gente che mai conoscerà – con la medesima intensità, con il medesimo veleno.
Ora, non stiamo cercando di dire che è irragionevole per un essere umano provare disprezzo per un altro. Ma, sebbene chiunque abbia il diritto di non apprezzare un altro individuo, è totalmente irrazionale, palesemente folle condannare un’intera razza, disprezzare un’intera nazione, svilire un’intera religione. Presto o tardi, dovremo imparare a giudicarci l’un l’altro basandoci sui meriti di ciascuno. Presto o tardi, se l’uomo sarà mai degno del suo destino, dovremo riempire i nostri cuori di tolleranza. Perché allora, e solo allora, saremo davvero degni del concetto che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, un Dio che ci chiama TUTTI figli suoi.
Mobilitazioni, categorie che scendono in campo, metaforicamente ed anche fisicamente, per il rispetto dei diritti di tutti, soprattutto di quelli che sono meno uguali degli altri.
Storie note e meno note, avvenute attorno al 16 ottobre, ma non solo…
Perché ogni storia richiama un’altra storia che merita di essere ricordata, e di servirci come avviso o come una luce di speranza, visti i tempi non proprio brillanti nei quali viviamo.
La “soluzione finale” per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l’ordine da Berlino di “trasferire in Germania” e “liquidare” tutti gli ebrei “mediante un’azione di sorpresa”. Il telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei a Roma non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è “città aperta”, e poi c’è il Papa, sotto l’ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza. Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell’Europa dell’Est sono ancora scarse e imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di consegnare 50 chili d’oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso, nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l’ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, stanno già organizzando il blitz del 16 ottobre.
Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in contemporanea la caccia per i quartieri di Roma. L’azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione. Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani.
I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola
Giacomo Debenedetti
(…) Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c’erano 207 bambini.
Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina. Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.
Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.
Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini … e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli… Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? “Campo di concentramento” allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager
Siamo nell’anno dell’assassinio di Martin Luther King, della primavera di Praga, del Maggio Francese, del sangue di Bob Kennedy. Periodo storico eufemisticamente delicato, crocevia del novecento, quando il futuro chiamava a gran voce e ancora troppo spesso la violenza rispondeva.
Norman, Smith, Carlos
Olimpiadi di Città del Messico. L’Olympic program for human rights nacque l’anno precedente per raccogliere a sé gli atleti di colore portandoli a boicottare i Giochi, perché sarebbe stato inutile “correre in Messico per strisciare a casa”. Impresa troppo complicata; gli atleti decisero di partecipare ma vollero raccogliersi sotto una coccarda, un messaggio appeso alla tuta, simbolo di quella protesta.
A testa alta.
I duecento metri piani videro Tommie Smith trionfare; record del mondo, il primo uomo (uomo, non “bianco” o “nero”) al di sotto dei venti secondi. Un risultato entusiasmante, un muro abbattuto.
Non sarà l’ultimo.
La medaglia d’oro e quella di bronzo John Carlos sono vicini, nel sottopassaggio dello stadio, in attesa di mostrarsi al mondo non come atleti, ma come uomini. I due stanno per fare un gesto che la storia ricorderà per sempre; e che al tempo stesso brucerà irrimediabilmente le loro carriere.
Il secondo classificato, Peter Norman, australiano, bianco, è al loro fianco. Chiede loro la coccarda, quella coccarda, perché “sono solidale con voi, si nasce tutti uguali e tutti con gli stessi diritti”.
Carlos dimenticò i suoi guanti, neri come quella pelle che stava ribellandosi a una violenza troppo profonda per essere ancora sopportata, e Norman suggerì ai due di dividersi quelli di Smith. Fu questo il motivo per cui uno alzò il pugno destro e l’altro il sinistro.
Quel pugno alzato al cielo era in onore dei fratelli che stavano combattendo per i loro diritti, fratelli ghettizzati e massacrati, come a Selma. Il black power salute contro ogni tipo di razzismo.
Scesi dal podio la loro vita sarà un inferno, la loro carriera bruciata, finita.
Per sempre.
Ma ancora una volta lo sport fu portatore di qualcosa di unico, bello, rivoluzionario. Che ancora oggi, grazie a due uomini veri, uniti, scalzi, ricordiamo.
Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio.
Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi.
Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’Olimpiade messicana.
Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19″83 (primo a scendere sotto i 20″) davanti a Norman (20′ 06″) e Carlos (20′ 10″). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri.
Bisogna sapere che nel ’67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’Ophr, Olympic program for human rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.
Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni, è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem. Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa.
Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’ è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman.
Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro. «Se ne pentiranno tutta la vita», dice Payton Jordan, capo delegazione Usa.
Vengono cacciati dal villaggio, Smith e Carlos. Uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York e come buttafuori ad Harlem. Sono come appestati. A casa di Smith arrivano minacce e pacchi pieni di escrementi, l’esercito lo espelle per indegnità. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Solo molti anni dopo li riprenderanno a San José, come insegnanti di educazione fisica. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico.
Norman in Australia viene cancellato. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ‘ 72 non lo mandano. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d’Achille, rischia l’amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20″06 avrebbe vinto l’oro). Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre. La banda suona “Chariots of fire”. Il 9 ottobre diventa, su iniziativa Usa, la giornata mondiale dell’atletica. Il nipote Matt ha girato un lungometraggio sul nonno, intitolato “Salute”, trovando pochi finanziatori in patria («È una storia che riguarda due atleti neri»).
Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.
Primavera di Praga e Olimpiadi di Città del Messico
Sempre alle olimpiadi di Messico ’68 c’è stato un altro gesto di protesta, meno noto rispetto a quello di Smith e Carlos, ma comunque significativo.
La ginnasta ceca Vera Cáslavská, salita sul podio più volte durante la competizione, durante le premiazioni delle gare vinte da atlete sovietiche al momento dell’inno nazionale si volta dall’altra parte e abbassa lo sguardo, in segno di protesta contro la repressione della Primavera di Praga, e ciò la rende persona non gradita dal nuovo regime.
Vera, Tommie, Peter, John… e gli altri
Non ci sono solo queste storie con protagonisti atleti. Spesso il mondo dello sport si è fatto portatore di battaglie in difesa dei diritti di tutti. Gli atleti statunitensi contro le violenze sui cittadini di colore, i calciatori greci contro le stragi nel mediterraneo. Alcuni di questi episodi sono raccolti nel video che Repubblica.it ha dedicato ai “50 anni di sport ribelle“.
16 ottobre… padano
La vicenda di Lodi e delle agevolazioni mensa negate ai figli di immigrati può sembrare a qualcuno un fatto “minore”, compensabile (anche se non è giusto) dalla solidarietà altrui, ma sono anche tutti questi “fatti minori”, le discriminazioni quotidiane e diffuse, a generare un clima di insofferenza, diffidenza, odio, esclusione sociale. Una brutta aria che aleggia intorno a noi, e negli sguardi, nelle parole, nelle azioni vediamo 50 sfumature di un nero che non piace. Casi simili si sono verificati anche in altre città e regioni, ed è notizia recente che, con lo stesso…”stratagemma”, si sta cercando di escludere i figli dei migranti dalle agevolazioni per acquisto dei libri scolastici.
La cosa che fa incazzare (e che, una volta tanto, fa storcere il naso anche a qualche destrorso) è il fatto che si utilizzino i bambini come strumento per fare del male, loro che sono i più vulnerabili, e che sono i semi per una futura integrazione, per una società che, piaccia o meno, è destinata a diventare multietnica.
Ma la società civile in questo caso ha dato un esempio fantastico, reagendo prontamente con numerose iniziative finalizzate a sensibilizzare la cittadinanza sul problema. La colletta organizzata per coprire i maggiori costi dei buoni mensa ha raccolto, in due soli giorni, ben più della somma necessaria. E ieri, 16 ottobre, in piazza Broletto (davanti alla sede del Comune), si è tenuta una manifestazione che è durata tutto il giorno, con panini e merende solidali, spettacoli per i bambini, alla presenza di famiglie di tutti i colori e con vestiti sgargianti, nonne che spiegavano ai nipotini il significato della manifestazione, insegnanti che si sono impegnati attivamente in difesa dei propri alunni.
Sperando di spingere l’Amministrazione a rivedere la decisione, ma non solo: bisogna cogliere ogni occasione per far vedere che non si piega la testa davanti alle discriminazioni.
Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.
Dino Buzzati – Corriere della Sera, 11/10/1963
Sono passati 55 anni, e non è che abbiamo imparato molto, di questo disastro che non è proprio naturale naturale…
Questa storia è stata magistralmente raccontata da Marco Paolini, che si è girato l’Italia fra teatri e università, perché la memoria è fondamentale, per non rifare gli stessi errori. E il 9/10/1997 ha portato la sua orazione civile su, ai piedi della frana.
L’approvazione all’unanimità in Consiglio dei ministri dei decreti voluti da Matteo Salvini, riguardanti sicurezza e immigrazione, confermano almeno due cose: la prima è che Matteo Salvini si è messo in tasca tutto il Movimento 5 Stelle, incapace di esprimere una sola voce in dissenso; la seconda è che la Lega cambia nome e segretario, ma come già successo con la legge Bossi-Fini si conferma campione del mondo nel creare problemi al nostro paese in maniera scientifica, articolo dopo articolo, comma dopo comma.
Il decreto Salvini parte da un assunto falso e cioè che coloro che hanno diritto alla protezione umanitaria siano dei “falsi profughi”, “finti rifugiati”, come ama chiamarli. Questo perché scappano da paesi nei quali “non c’è nessuna guerra”, come ripete ossessivamente. Il diritto a ricevere protezione, però, non è subordinato all’esistenza di guerre nel paese dal quale si scappa, ma alla storia individuale del richiedente asilo. L’articolo 10 della nostra Costituzione prescrive infatti che ha diritto d’asilo in Italia il cittadino straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», mentre il diritto internazionale, citando l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ha consolidato il divieto di espellere o respingere «in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate». Per queste ragioni, per dare piena attuazione a queste prescrizioni e in accordo con la normativa europea, l’Italia ha introdotto l’istituto della «protezione umanitaria», riconosciuta nel caso in cui non vi siano gli estremi per riconoscere l’asilo o la protezione sussidiaria, ma ricorrano comunque «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano». Il decreto Salvini, al primo articolo, cancella la protezione umanitaria e la sostituisce con un coacervo di altre protezioni, circoscritte e confusionarie, di difficile interpretazione e quindi di difficile applicazione.
Partendo sempre dal medesimo assunto, la seconda applicazione non poteva che essere la cancellazione del Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), e cioè il sistema di accoglienza pubblico che offre maggiori garanzie, sia dal punto di vista della presa in carico della persona e della sua autonomia, che dal punto di vista amministrativo ed economico. Lo Sprar non esisterà più perché verranno espulsi dal sistema tutti i richiedenti asilo, anche coloro che sono considerati vulnerabili: «i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le vittime della tratta di esseri umani, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali». Dallo Sprar vengono espulsi anche coloro che saranno titolari delle sei fattispecie che sostituiranno la protezione umanitaria. Tutti questi soggetti sono destinati a strutture di fatto affidate ai privati, sulle quali si sono concentrati scandali e indagini, a partire dai Cara e dai Cas. Nello Sprar resteranno solamente titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati.
Il decreto prevede inoltre una stretta virtuale sulle espulsioni, aumentando i periodi di detenzione per l’accertamento dell’identità e per il rimpatrio, prevedendo procedure accelerate, spostando risorse dai rimpatri volontari assistiti ai rimpatri forzati. «Virtuale», dicevamo, perché tra il detenere una persona in un centro per il rimpatrio e procedere all’effettivo rimpatrio c’è di mezzo il mare.
Tra eliminazione della protezione internazionale, smantellamento dello Sprar, investimento nelle espulsioni, ampliamento delle fattispecie per cui può essere revocata la protezione internazionale (vi rientra la minaccia a pubblico ufficiale: se minacci un pubblico ufficiale puoi essere torturato in patria) il finale sembra già scritto: maggiore irregolarità, più persone che cadranno in situazioni di marginalità.
Per concludere, in spregio alla mobilitazione che negli anni scorsi ha percorso l’Italia da sud a nord, il decreto estremizza il concetto di ius sanguinis introducendo la «revoca della cittadinanza», da applicarsi a chi compie reati connessi con il terrorismo. Ma non a tutti: solo a coloro che non sono nati italiani, ma che lo sono diventati. Pensare che la cittadinanza sia una concessione allo straniero e non un diritto acquisito e da riconoscere svela il disegno di fondo: uno straniero non potrà mai essere veramente italiano perché non è nato italiano, perché non ha sangue italiano. Vengono inoltre ampliate le tempistiche e inasprito il tributo dovuto per il riconoscimento della cittadinanza.
Infine, un altro mostro giuridico: al richiedente asilo che dovessero essere investito da un procedimento penale per ipotesi di reato legate alla sicurezza dello Stato (non condannato!) viene bloccato l’iter per il riconoscimento dell’asilo ed è tenuto ad abbandonare il paese. Si configura in primo luogo una violazione dell’art. 27 della Costituzione secondo il quale «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» e, inoltre, non si capisce per quale ragione – se il soggetto dovesse realmente rivelarsi colpevole e quindi essere una minaccia per lo Stato – nel frattempo sia stato costretto a lasciare il paese.
Profili di incostituzionalità e la volontà, nemmeno tanto nascosta, di fare a pezzi la parte migliore del sistema di accoglienza, per investire decisamente sulla gestione emergenziale e straordinaria che negli anni scorsi ha creato problemi di tutti i tipi. Ed è proprio sguazzando tra questi problemi che l’attuale ministro dell’Interno ha costruito il proprio consenso.