Biblioteca Siberiana

Bramini vs Mercanti

segnalato da Barbara G.

Piketty: i Bramini che si sono presi la sinistra

Il nuovo saggio dell’economista francese studia i comportamenti elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 e ne conclude che i sistemi politici non si possono più interpretare in base alla lotta di classe. A confrontarsi sono due diverse élite, quella degli intellettuali (i “Bramini”) nei partiti di sinistra tradizionale, e quella degli affari (i “Mercanti”) in quelli di destra. Per i più svantaggiati restano i “populismi” e ancor più il non voto.

di Carlo Clericetti – temi.repubblica.it/micromega-online, 08/05/2018

Il periodo in cui sono prevalse le politiche di riduzione delle disuguaglianze è quasi un accidente della storia, perché si è verificato solo in seguito ad eventi particolari: la Grande depressione, la seconda guerra mondiale, l’ascesa del comunismo. Lo dice Thomas Piketty, quello diventato famoso con il suo “Il capitale nel XXI secolo”, nel suo nuovo saggio “Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality & the Changing Structure of Political Conflict”, ossia Bramini di sinistra contro Mercanti di destra:  crescita della disuguaglianza e cambiamento nella struttura del conflitto politico.

Piketty ha studiato tutte le ricerche post-elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 ed ha esaminato i risultati non in base alla sola variabile dell’occupazione, che è di norma quella usata in queste ricerche, ma a molte variabili (reddito, patrimonio, istruzione, sesso, religione, età, ecc.). Tra queste risulta no particolarmente rilevanti il livello di istruzione e il patrimonio, mentre il solo livello di reddito non dà luogo a correlazioni significative. Ne è risultato che, mentre nel dopoguerra gli elettori si dividevano prevalentemente secondo i canoni tradizionali, quelli della lotta di classe, ossia chi aveva basso reddito e bassa istruzione votava prevalentemente a sinistra mentre gli alti redditi e alta istruzione prevalentemente a destra, oggi la situazione è completamente cambiata: gli elettori di sinistra sono caratterizzati da un alto livello di istruzione, quelli di destra da un più elevato patrimonio.

Insomma i sistemi politici sono diventati a “élite multipla” (multiple-élite) e quelle che si alternano al potere sono l’élite intellettuale e l’élite degli affari. E chi non ne fa parte? Il massiccio aumento dell’astensione fra le decadi 50-60 e 2000-2010 è dovuto per la maggior parte ai gruppi a bassa istruzione e basso reddito; e quelli che non si astengono si rivolgono ai “populismi”.

Questo fenomeno Piketty lo riscontra in tutti e tre i paesi esaminati. “Questo tipo di sistema di partiti – dice – ha poco a che fare con quello “sinistra contro destra” degli anni ’50 e ’60. Forse può essere descritto meglio come un’opposizione tra “globalisti” (alto reddito – alta istruzione) e “nativisti” (basso reddito – bassa istruzione). Questo è più o meno il modo in cui i nuovi attori politici stessi – per esempio Macron e Le Pen – tendono a descrivere ciò che percepiscono”.

“La difficile domanda – aggiunge poi – alla quale non sono in grado di dare una risposta esaustiva in questo studio, è capire da dove venga questa evoluzione”. Per riuscirci basterebbe forse che Piketty leggesse l’infinito numero di interventi (tra i più recenti questo dell’economista di Harvard Dani Rodrik, che parla anche di questo lavoro) che hanno raccontato come i partiti di sinistra, a partire dagli ultimi anni ’70 del secolo scorso, abbiano abbandonato le tradizionali idee socialdemocratiche basate sul compromesso keynesiano per convertirsi al neoliberismo, processo che si è poi accentuato quando la disgregazione dell’Unione sovietica ha fatto venire meno il modello alternativo a quello capitalistico. Da allora, nelle democrazie, l’offerta politica è stata relativamente omogenea da parte dei partiti di destra e sinistra tradizionali (ricordate “La fine della storia” di Francis Fukuyama?), almeno dal punto di vista delle ricette economiche, e le differenziazioni si sono giocate sulla maggiore o minore radicalità delle politiche neoliberiste, sui diritti civili, in qualche caso sui problemi ambientali.

Una parte di elettori si è riallineata a queste offerte, altri si sono allontanati dal voto non trovandole convincenti, altri ancora si sono rivolti a chi in modo più persuasivo è riuscito a proporsi come “anti-sistema” (i cosiddetti “populismi”). Così, l’oceano di numeri di Piketty ci dice un sacco di cose, per esempio che in Francia il voto femminile si è man mano spostato a sinistra, che i mussulmani votano prevalentemente a sinistra, che dopo il 2012 la percentuale di votanti che ritengono che ci siano troppi immigrati è stata superata da quelle di chi ritiene che non sia così. Ma nella sinistra lui ci mette tutti, quella che – con un ossimoro – potremmo chiamare la “sinistra liberista” ma anche gli altri partiti come La France Insoumise. Più interessante sarebbe capire come mai le proposte della sinistra più vicina a quella tradizionale (Mélenchon, appunto, in Francia, la Linke in Germania) non attirino più del 10% circa dell’elettorato. Sfiducia verso proposte considerate ormai fuori tempo? O mancanza di un leader carismatico, come il primo Tsipras in Grecia, Bernie Sanders negli Usa e Jeremy Corbyn nel Regno Unito?

Certo, bisogna anche considerare che la cultura individualista ha lasciato il segno. Nel 2002 ancora il 63% dei francesi riteneva giusto che si dovessero ridurre le disuguaglianze, nel 2017 la percentuale è scesa al 52 e, come mostra il grafico, la tendenza si è accentuata nel periodo della crisi. Una successiva tabella ci dice qualcosa di più: gli “egualitari” sono più di tutti nei partiti di sinistra, come ci si poteva aspettare, ma la seconda concentrazione più alta sta nel partito della Le Pen, mentre la destra di Macron fa il pieno di “internazionalisti” e i gollisti di Fillon di anti-egalitari.

Questo studio di Piketty, insomma, è un’ulteriore conferma di un’analisi politica condivisa da molti, ma che proprio i politici sembrano avere difficoltà ad accettare: la sinistra tradizionale è diventata una “sinistra dei Bramini”, cioè partiti di élite che hanno perso il seguito popolare, perché da tempo hanno scelto di non rappresentare più quella parte di società. Salvo poi lamentarsi che una fetta di costoro, che insieme agli astensionisti sono ormai quasi dappertutto la maggioranza degli elettori, si rivolgano ai “populisti”. Un tempo si è teorizzato che tra capitalismo e sistemi democratici ci fosse un legame intrinseco. A vedere quello che sta accadendo, sembra invece che questo capitalismo si stia mangiando la democrazia.

 

Il vecchio che avanza

Elezioni, dimenticatevi i programmi e guardate alle persone. Guida al voto consapevole per evitare gli impresentabili

di Peter Gomez – ilfattoquotidiano.it, 12 febbraio 2018

Pubblichiamo qui di seguito l’introduzione, rivista dall’autore, de Il vecchio che avanza – I fatti, le storie, i protagonisti. Guida informata per un voto consapevole (edizione chiarelettere), il nuovo libro del direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez, da oggi in tutte le librerie italiane.

Il vecchio che avanza non vuole convincervi a votare per questo o quel partito. Su chi mettere la croce lo deve decidere solo il cittadino. Il libro vuole invece aiutare i lettori a maturare una scelta consapevole in vista del 4 marzo. Partendo dai fatti e non dalle promesse. Chi come me è andato a votare per la prima volta a inizio anni Ottanta ha ampiamente sperimentato quanto poco conti ciò che viene detto in campagna elettorale. L’Italia, secondo le ricerche internazionali, è il paese d’Europa con il più basso tasso di attuazione di programmi elettorali. Negli ultimi 20 anni in media solo il 45% dei provvedimenti che erano stati garantiti prima delle elezioni sono poi stati realizzati. Nel Regno Unito la percentuale sale invece al 90 per cento ed è alta persino in Portogallo (78%) e in Spagna (72%). Nessuno studio ha invece analizzato la particolarità italiana dei programmi realizzati al contrario. Cioè lo strano caso delle norme approvate dopo che si era affermato che non lo si sarebbe mai fatto. Come, per esempio, è accaduto con l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, con la sistematica occupazione della tv pubblica, decisa dopo che era stato più volte ripetuto “Fuori i partiti della Rai”, o la sanatoria di 700mila immigrati irregolari da parte del secondo governo Berlusconi. Intendiamoci, sull’utilità e la bontà di questi provvedimenti, ciascuno è libero di pensarla come gli pare. Quello che invece nessuno può contestare è che queste decisioni siano state prese dopo che ai propri elettori si era detto l’esatto contrario.

Anche per questo, col tempo, ho capito che in politica le idee sono certamente importanti, ma che camminano sempre e solo sulle gambe degli uomini e delle donne. Scegliere le persone giuste è fondamentale. Del resto già nell’Ottocento il barone Otto Von Bismark diceva “Non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia”. E l’ammissione non gli ha impedito di essere l’artefice dell’impero tedesco e l’ideatore di un sistema previdenziale che poi tutti nel mondo avrebbero copiato.

Di cancellieri di ferro in giro però non se ne vedono. Come ogni cinque anni c’è invece tanta gente che pretende non il voto, ma un atto di fede. Ricordare cosa ha combinato quando in passato è stata al governo o all’opposizione conta dunque più delle parole. Se, per esempio, si è affascinati dall’idea di potere un giorno pagare un’aliquota unica sul reddito del 23 per cento come propone Silvio Berlusconi, è giusto sapere che il leader di Forza Italia promesse analoghe le ha già fatte. Senza mantenerle. È accaduto nel 1994 quando promise una flat tax al 30 per cento e nel 2001, quando nel contratto con gli Italiani firmato in diretta tv, si era impegnato ad arrivare nel giro di cinque anni a introdurre un’aliquota “al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui (circa 100mila euro nda)” e del 33% per quelli superiori.

Se poi, come chi scrive, siete convinti che il riscatto anche economico di questo Paese non può che passare attraverso una seria lotta alla corruzione, alle mafie e all’inefficienza sarà per voi utile capire chi presenta liste pulite e chi no. Gli elenchi dei candidati sono stati presentati solo poche ore prima della stampa del libro: ma una rapida ricognizione è stata sufficiente per scovare decine e decine di indagatiimputaticondannati in primo grado, voltagabbana, furbetti e parenti o figli di.

Conoscere i loro nomi e le loro storie serve per poter valutare i criteri con cui i partiti hanno selezionato le loro future classi dirigenti. Non per moralismo. Ma perché le quote marroni della politica condizionano il vivere civile. Il garantismo deve sempre valere nelle aule di tribunale dove un imputato deve essere considerato colpevole solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Nelle istituzioni di uno dei paesi più corrotti d’Europa è invece bene applicare criteri di normale buon senso. Perché se è vero che un avviso di garanzia non trasforma nessuno in un criminale, non si possono nemmeno considerare gli avvisi (e i processi e le condanne) dei titoli di merito.

Fare politica, rappresentare gli italiani, implica onori e oneri maggiori rispetto a quelli dei normali cittadini. Se finisci sotto indagine, se sei sotto processo, magari non ti impongo di dimetterti, ma di certo non ti faccio fare carriera. Scelgo invece qualcuno che sotto inchiesta non è. Non perché penso che tu sia colpevole, ma perché voglio preservare la reputazione e la credibilità del mio partito e delle istituzioni. Sempre che una reputazione la mia forza politica l’abbia ancora.

Invece, qualunque sarà il risultato, nel prossimo parlamento assisteremo come in un horror di serie B al ritorno dei morti viventi. Basta poco per rendersene conto. È sufficiente guardare le liste. Quegli elenchi di nomi che raccontano come l’Italia tra poco passerà dal sogno della rottamazione all’incubo della restaurazione. Dire che il Pd, accanto a pochi buoni candidati, ha presentato alcuni personaggi ignobili, molti discutibili e molti impresentabili, non significa essere antirenziani. Vuol dire fare cronaca. Riportare i fatti. Poi, una volta informato, ogni elettore deciderà cosa fare. Se scegliere un altro simbolo o votare per chi in Sardegna e nel Lazio candida sei imputati per peculato, in Sicilia ha imbarcato nel centrosinistra l’ex capogruppo del Movimento per l’autonomie di Raffaele Lombardo più una mezza dozzina di ex esponenti del centrodestra, e in Lombardia Paolo Alli, lo storico braccio destro di Roberto Formigoni da poco sotto processo per tentato abuso d’ufficio.

Affermare che Forza Italia, specie nel sud Italia, candida persone che per la loro storia, le loro frequentazioni e in qualche caso le indagini in corso piacciono ai clan, è dire solo la verità. Cosa ritenete che penseranno i boss e i loro scagnozzi quando leggeranno sulla scheda i nomi del senatore campano, Luigi Cesaro, detto Gigino purpetta, indagato per voto di scambio e con i due fratelli, Aniello e Raffaele, sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa? Quale sarà il segnale colto da Cosa Nostra quando vedrà in lista Antonio Mineo, figlio di Franco, un ex consigliere regionale condannato a otto anni e due mesi in primo grado per intestazione fittizia di beni con l’aggravante mafiosa e peculato? Davvero credete che gli uomini del disonore non si sentano rassicurati dal saper che Mineo Junior (mai indagato) diceva intercettato a Pietro Scotto, un trafficante di droga processato e assolto per la strage di via D’Amelio, “minchia, che figli di puttana sono questi pentiti”.

Tanti anni fa, nel 1989, Paolo Borsellino, un giudice di destra che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia rivendicano come parte del loro pantheon, spiegava: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse sole del problema della mafia […]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! […] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!».

Certo, per decidere il proprio voto, per molti cittadini la memoria di Borsellino non basta. Gli anni passano e tutto perde colore. Ci sono i problemi del lavoro. Quelli dell‘immigrazione. La ripresa è partita, ma va ancora troppo piano. Secondo le previsioni della commissione Ue nel 2018 il Pil registrerà un 1,5 per cento in più. Meglio che in passato, ma non ancora abbastanza per schiodarci dall’ultimo posto tra i paesi dell’Unione. Ci sono dieci milioni di poveri, il numero più grande d’Europa. Alle urne ciascun italiano ha il diritto di andare con in testa i suoi problemi e le sue convinzioni.

La legge elettorale oltretutto è pessima. È stata pensata per non far vincere nessuno, per spingere destra e sinistra a mettersi insieme in modo di governare il Paese con le larghe intese. Il progetto dei suoi ideatori era quello di riportare, grazie a un sistema di fatto proporzionale, l’Italia alla prima repubblica e andare oltre. Fino a un nuovo compromesso storico: quello tra Renzi e Berlusconi. Arrivati a questo punto però solo le urne e numeri ci diranno se sarà davvero così.

In ogni caso i giornali raccontano che il pregiudicato leader di Forza Italia ha rassicurato due volte agli amici del Partito Popolare europeo: “La Lega? Comunque vada non sarà nell’esecutivo con noi”. Di alleanze post voto con lui si parla invece esplicitamente nel Partito Democratico. Lo hanno fatto nel tempo il capogruppo al senato Luigi Zanda, il ministro dell’economia Piercarlo Padoan e Emma Bonino, la pasionaria dei diritti civili alleata dell’ex Dc Bruno Tabacci e in corsa con il centrosinistra: “Larghe intese? Vedremo dopo il 4 marzo. Io con Berlusconi nel ’94 ci ho già governato”

Non è vietato votare questi partiti che paiono decisi ad azzerare ogni residua differenza tra destra e sinistra. Basta però essere consapevoli delle loro intenzioni e condividerle. Altri tipi di voto sono però possibili.

Si può scegliere chi, secondo i sondaggi e la legge elettorale, pare destinato a stare all’opposizione (per esempio Liberi e Uguali o il Movimento cinque stelle). E lo si può fare partendo da una constatazione. Qualunque sarà la maggioranza dopo il 4 marzo, è necessario che in parlamento ci sia una forte opposizione non consociativa. Perché in ogni democrazia la prima e più importante funzione di controllo sull’operato di governo, non spetta alla stampa o alla magistratura, ma alla minoranza. Conoscere la storia e le opere dall’opposizione, i suoi candidati buoni o cattivi, gli errori che ha commesso e i suoi eventuali pregi, serve dunque per fare una scelta ponderata.

Come può benissimo essere ponderato pure il voto contro. Quello che in ciascun collegio guarda i nomi messi sulla scheda dalle varie formazioni politiche e decide semplicemente di mandare un sonoro no ai peggiori. Ovvio, lo sappiano. Il Rosatellum è un terno al lotto. Ci sono alleanze elettorali con partiti che non raggiungeranno la soglia del 3 per cento necessaria per entrare, ma i cui voti verranno sommati agli altri nei collegi uninominali se raggiungono l’1 per cento a livello nazionale. Sono consentite le candidature multiple. Nel proporzionale i listini sono pure bloccati, e un elettore rischia di riuscire a bocciare qualcuno nel suo collegio per vederselo poi ricomparire da un’altra parte. Oppure lo vota, ma finisce per eleggere un candidato diverso perché il suo ha optato per un’altra zona. La sottosegretaria Maria Elena Boschi, per esempio, è stata presentata all’uninominale a Bolzano e come capolista nel proporzionale in sei diverse zone della Lombardia, del Lazio e della Sicilia. Giusto per essere sicuri che rientri in parlamento.

È la vendetta della Casta. Quella che, come recita un proverbio basco, ti piscia addosso e ti dice che piove. Ecco, questo libro è come un ombrello. Serve per non uscire completamente fradici dalla pioggia del prossimo marzo. È una guida, certamente incompleta, a chi la pensa ancora come un grande liberale del passato, Luigi Einaudi: “Bisogna conoscere per deliberare”. Senza mai dimenticare che se anche si è disgustati, se si è convinti che nessun partito, movimento o candidato ci possa rappresentare, un fatto è certo: da sempre gli amministratori peggiori vengono eletti da quei bravi cittadini che non vanno a votare.

Comunque la pensiate, buon voto a tutti.

Stefano Rodotà, Diritto d’amore

Stefano Rodotà, se il diritto rimane indietro quando si parla d’amore

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Ad un mese dalla morte del giurista torna in libreria Diritto d’amore (Laterza), saggio illuminante sull’arretratezza delle leggi italiane nel normare la vita affettiva tra le persone. Autodeterminazione e piena soggettività di donne e coppie dello stesso sesso hanno cambiato, e stanno cambiando, la giurisprudenza anche in Italia. Con grossa fatica del legislatore, la difficoltà della mediazione politica e con un unico faro: la Costituzione.

Matilde e l’architetto

(Il mondo all’incosì)

di Barbara G.

Matilde è sindaco di un piccolo comune piemontese: Lauriano (TO), 1500 abitanti o giù di lì.

Matilde è agronomo, si occupa di agricoltura, conosce il valore della terra, e con valore non intendo il prezzo al mq di suolo agricolo, quello del suolo edificabile, o quanto si può ricavare da un ettaro seminato a mais. Sto parlando di Valore con la V maiuscola: il ruolo del suolo all’interno di un ecosistema, la sua importanza per la vita. Non solo quella degli uomini, intendiamoci, anche per quella degli altri esseri viventi, lombrichi compresi (che poi, ad essere sinceri, un ruolo nella catena alimentare dell’uomo ce l’hanno). E il Comune che amministra ha parte del suo territorio a rischio di dissesto idrogeologico. Lo dicono le mappe della regione, mica qualche ambientalista rompicoglioni.

Da persona sensibile alle tematiche connesse con il consumo di suolo, con la sua giunta tutta al femminile decide di riconvertire ad uso agricolo parte delle aree indicate come edificabili dal PGT, ed comincia da una zona inserita fra le aree a rischio.

E qui per lei (e non solo per lei) iniziano i problemi.

Il proprietario delle aree, che da tempo voleva utilizzarle per realizzare una quarantina di villette, la denuncia, insieme al segretario comunale e al tecnico comunale. Cosa piuttosto insolita, a dire il vero, anche perché queste figure non hanno responsabilità diretta nell’atto amministrativo con il quale si procede allo stralcio dell’area in oggetto. Con l’evolversi della vicenda diventa chiaro che lo scopo è dimostrare che il personale dell’Amministrazione Comunale è asservito al volere di una sindaca-despota.

Matilde viene rinviata a processo. Conosce l’ostilità dei media, che la ritengono colpevole di aver impedito ad un privato e stimato cittadino di fare business applicando il suo diritto a costruire “40 belle villette”. Scopre la falsità delle persone e si ritrova, paradossalmente, a dover invertire l’onere della prova; è lei a dover dimostrare di non aver mai rilasciato alcun permesso di costruire, o autorizzazione di qualsiasi tipo, all’uomo che l’ha denunciata, mentre lui dichiara di essere in possesso di tali autorizzazioni senza mai presentarle. Incassa la solidarietà silenziosa di altri amministratori, che sono con lei ma non osano esporsi pubblicamente (essere solidali con una indagata non è accettato dall’opinione pubblica).

Poi le cose cominciano a cambiare, perché i media, anche di livello nazionale, cominciano ad interessarsi al caso.

Dovendo nominare una consulente di parte, sceglie un tecnico estraneo alla sua amministrazione ma che, avendo collaborato in precedenza con la parte politica avversa, conosce bene il territorio del Comune: questa scelta si rivela fondamentale ai fini del processo perché l’urbanista riesce a tradurre gli aspetti tecnici anche ad uso e consumo dei profani, e, soprattutto, dei giudici. Ma la Sindaca scopre anche che, in certi casi, non è opportuno dire “faccio questo perché ci credo, rivendico la mia scelta politica”, ma è molto meglio tenere per se certe considerazioni e basarsi solo sull’aspetto puramente tecnico, in questo caso le mappe del rischio.

Potrebbe sembrare la trama per una fiction al femminile (i protagonisti sono in larga maggioranza donne), ma così non è.

Matilde Casa sotto processo ci è finita sul serio, ma alla fine è stata assolta. La domanda però nasce spontanea: se fosse stata approvata la nuova normativa sul consumo di suolo, bloccata da anni in parlamento e oggetto di critiche ferocissime da parte di ambientalisti, accademici e tecnici che si occupano di queste tematiche, sarebbe finita bene? Forse no, perché, districandosi fra articoli e commi, sembra che le previsioni di consumo di suolo introdotte nei PGT non possano essere cancellate nel caso si rivelassero inutili, ma solo spostate.

La storia di Matilde è raccontata in un libro scritto a quattro mani con Paolo Pileri, professore al Politecnico di Milano e uno dei massimi studiosi del fenomeno del consumo di suolo. Si intitola “Il suolo sopra tutto”, edizioni Altreconomia, ed ha la prefazione scritta da Luca Mercalli.

Nel libro non ci si limita a raccontare la storia di Matilde, viene analizzata normativa sul consumo di suolo “giacente” in parlamento, unitamente alle fantasiose declinazioni a livello locale della vigente normativa urbanistica, evidenziando come il linguaggio tecnico sia stato via via modificato e plasmato per tentare di giustificare ambiti di trasformazione che invece avrebbero poca ragion d’essere. Va invece recuperato il senso delle parole, e non usare le definizioni da normativa per forzare la natura: un prato rimane un prato indipendentemente che questo sia stato inserito in precedenza fra le aree edificabili, non cessa di essere suolo agricolo perché forse qualcuno in futuro potrà costruirci una villetta o un centro commerciale. Si pone anche attenzione sulla necessità che chi deve gestire la “cosa pubblica” possa ricevere una formazione adeguata (sarebbe forse il caso di ripristinare le scuole di politica), instaurando anche una collaborazione fra politici/amministratori e mondo della ricerca, affinché gli amministratori non vengano lasciati soli, e senza adeguati trasferimenti dallo Stato, davanti ai portatori di interesse.

Bisogna però fare in modo che la pianificazione territoriale non sia in capo al singolo Comune, ma che essa venga gestita su aree di estensione maggiore, perché mai come ora si devono coordinare gli interventi per evitare di realizzare costruzioni inutili quando a pochi chilometri, o addirittura nello stesso comune, sono disponibili aree già sottratte fisicamente alla destinazione agricola.

Nessun paese è un’isola

di Barbara G.

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La Politica, quella con la “P” maiuscola, dovrebbe preoccuparsi di risolvere i problemi alla radice, muovendosi fra i paletti rappresentati dai principi della Costituzione e dai principi di base nei quali ogni formazione politica si riconosce. Nel caso in cui non fosse possibile intervenire in modo definitivo deve proporre interventi atti a contenere gli effetti dei problemi, magari anche solo in via provvisoria mentre gli interventi di lungo termine entrano a regime.

Per far questo però bisogna conoscere. Einaudi diceva “conoscere per deliberare”, ma questo sacrosanto principio pare ormai una cosa da gufi, perché si confonde la politica con il parlare alla pancia delle persone. Trovare la soluzione rapida da dare in pasto alla “plebe”, appiattendosi spesso su un linguaggio populista… atteggiamento che ora è trasversale, e che ha ormai invaso anche il sedicente centrosinistra, che, invece di inseguire la destra sul suo terreno per paura di perdere i voti, dovrebbe ricordarsi basi culturali, statuti e principi fondativi, e proporre una soluzione che sia ragionata e il più possibile congruente con i principi di base.

Il “Problema” (anche qui “P” maiuscola) è ad oggi la questione migranti, un po’ perché la questione è effettivamente seria e un po’ perché è facile terreno di propaganda per una politica alla continua ricerca di un capro espiatorio su cui scaricare la qualunque, per nascondere altri problemi e per perpetuare uno stato di emergenza perenne che fa comodo a troppi. Una “P” che fa da fondale teatrale, facendo sparire altre questioni dietro le quinte.

Se invece si vogliono affrontare seriamente i problemi bisogna addentrarsi nelle questioni, ricercando le cause del fenomeno (ammettendo anche le responsabilità di noi occidentali), analizzando numeri reali, i flussi delle persone, verificando cosa funziona e cosa no nel sistema di accoglienza italiano e come ci rapportiamo con gli altri Stati, con l’UE, tenendo ben presente che ci si deve muovere all’interno dei principi fissati nella Costituzione e nei trattati internazionali, mentre le “regole del gioco” le stabilisce la normativa vigente. Solo dopo questa analisi si può pensare ad un miglioramento di carattere organizzativo e/o procedurale, valutando eventuali modifiche alla normativa.

Stefano Catone, trentenne, è consigliere comunale di Solbiate Olona, oltre che collaboratore di Civati. Lui questo lavoro lo ha fatto, curando la stesura di “Nessun paese è un’isola“, edito da Imprimatur.

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Contenuti del libro

Nel testo, grazie al contributo di operatori, attivisti, giornalisti, viene sviscerato nella sua interezza il tema dell’accoglienza dei migranti: le basi normative e il dritto di asilo nel contesto europeo, le tipologie di protezione che possono essere richieste, l’iter seguito e la distribuzione totalmente squilibrata dei richiedenti asilo fra SPRAR (ovvero il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo), che prevede centri gestiti direttamente dagli enti locali e con spese rendicontate, e CAS (i Centri di Accoglienza Straordinaria), che sono quelli nei quali si verificano i più grossi problemi di sovraffollamento, di scarsa qualità dell’accoglienza, con l’ingresso di associazioni e cooperative non in grado di affrontare la situazione ma estremamente interessate ai famosi 35€/gg per migrante ospitato. Vengono anche raccontate le storie virtuose di alcuni esperimenti di accoglienza, prima di tutti quelli della Locride, dove un sistema già rodato (qui anni fa avevano già ospitato i profughi curdi) ha consentito un’accoglienza diffusa, che ha portato al ripopolamento dei centri storici, alla nascita di nuove attività economiche, a nuovi posti di lavoro (è stato calcolato che ogni 10 migranti ospitati si crea lavoro per una persona).

Viene trattato anche il tema delle rotte dei migranti, della differenza (spesso pretestuosa) fra profughi e migranti economici e delle pesantissime responsabilità delle nazioni europee, che stanno proseguendo imperterrite con il loro atteggiamento colonialista e con l’appoggio a dittature più o meno mascherate. Vengono evidenziati i numeri reali degli arrivi sul territorio europeo in rapporto sia alla popolazione residente nel paese di destinazione sia a quella che, fuggendo dal paese di origine, si ferma nei paesi limitrofi. Si tenga presente che circa l’86% dei profughi sotto mandato UNHCR si fermano nei paesi vicini e che il numero di migranti entrati in Europa è di poco superiore al milione di unità, cioè più o meno il numero delle persone ospitate…in Libano. Ma l’Europa conta circa 500 milioni di abitanti, il Libano solo 4!!!

distrib-rich-asiloI numeri effettivamente in ingresso in Europa sono assolutamente gestibili, basta la volontà di farlo, a cominciare dalla redistribuzione dei migranti sul suolo europeo, in attuazione degli accordi in essere ma non applicati. Sarebbe utile inoltre non vincolare il richiedente asilo allo Stato in cui presenta la richiesta: ad oggi infatti un migrante che chiede asilo politico in Italia non può muoversi finché la richiesta non è accolta, nemmeno se ha familiari in un altro Stato che potrebbero aiutarlo ad integrarsi, a trovare un lavoro.

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Altro aspetto su cui sarebbe opportuno intervenire è l’ampliamento della rete SPRAR, a cui i Comuni aderiscono su base volontaria: possibili incentivi potrebbero essere la garanzia di non vedere installati sul territorio comunale CAS e/o la possibilità di procedere ad assunzioni in deroga per implementare il sistema di accoglienza. A tale scopo è stato predisposto un modello di mozione consiliare per richiedere al Comune l’adesione al sistema SPRAR. Il documento è disponibile sul sito di Possibile, insieme alle slides di presentazione del libro, da cui sono stati tratti i grafici sopra riportati.

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Gli extrcomunitari ci costano? no…

Il lavoro di Catone sul tema migranti continua. Questa estate si era recato in un campo profughi in Grecia, recentemente è stato a Belgrado, il suo racconto potete trovarlo qui. I suoi contributi potete trovarli cliccando qui, inoltre potete iscrivervi alla sua newsletter.

Per informazioni: nessunpaeseeunisola@gmail.com.

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Intervista a Stefano Catone pubblicata su “Lombardia Oggi”, allegato a “La Prealpina” del 03/02/2017

Paura, merce politica

La civiltà nasce dalle paure che oggi il potere trasforma in merce politica

Questo brano è tratto dal libro di Bauman «Moral Blindness. The Loss of Sensitivity in Liquid Modernity», dialogo con Leonidas Donskis in traduzione presso l’editore Laterza.

di ZYGMUNT BAUMAN

La paura è parte integrante della condizione umana. Potremo anche riuscire a eliminare una a una la maggior parte delle minacce che ingenerano paura (proprio a questo serviva secondo Freud la civiltà come organizzazione delle cose umane: a limitare o a eliminare del tutto le minacce dovute alla casualità della Natura, alla debolezza fisica e all’inimicizia del prossimo): ma almeno finora le nostre capacità sono ben lontane dal cancellare la «madre di tutte le paure», la «paura delle paure», quella paura ancestrale che deriva dalla consapevolezza della nostra mortalità e dall’impossibilità di sfuggire alla morte. Anche se oggi viviamo immersi in una «cultura della paura», la nostra consapevolezza che la morte sia inevitabile è il principale motivo per cui esiste la cultura, prima fonte e motore di ogni e qualsiasi cultura. Si può anzi concepire la cultura come sforzo costante, perennemente incompleto e in linea di principio interminabile per rendere vivibile una vita mortale. Oppure si può fare un ulteriore passo avanti: è la nostra consapevolezza di essere mortali, e dunque la nostra perenne paura di morire, a renderci umani e a rendere umano il nostro modo di essere-nel-mondo.

La cultura è il sedimento del tentativo incessante di rendere possibile vivere con la consapevolezza della mortalità. E se per puro caso dovessimo diventare immortali, come qualche volta (stoltamente) sogniamo, la cultura si fermerebbe di colpo, come hanno compreso sia Joseph Cartaphilus di Smirne, l’infaticabile cercatore della Città degli Immortali ideato da Jorge Luis Borges, sia Daniel, l’eroe de La possibilità di un’isola di Michel Houellebecq destinato a essere clonato e riclonato all’infinito. Joseph Cartaphilus accerta di persona che Omero, essendosi reso conto della propria immortalità, e sapendo «che in un tempo infinito a ogni uomo accadono tutte le cose» e che dunque per questa stessa ragione sarebbe «impossibile […] non comporre, almeno una volta, l’Odissea», è destinato a ritornare troglodita. E Daniel25 comprende che una volta cancellata la prospettiva della fine del tempo e assicurato il carattere infinito dell’esistenza, «il solo fatto di esistere è già una sciagura» e la tentazione di rinunciare alla prerogativa della ulteriore clonazione andando verso «un nulla semplice, una pura assenza di contenuto», diventa irresistibile.

È stata proprio la consapevolezza di dover morire, della inevitabile brevità del tempo, della possibilità o probabilità che le visioni rimangano ir-realizzate, i progetti in-compiuti e le cose non fatte, a spronare gli uomini ad agire e l’immaginazione umana a spiccare il volo. È stata questa consapevolezza a rendere necessaria la creazione culturale e a trasformare gli esseri umani in creature culturali. Fin dai suoi albori, e per tutta la sua lunga storia, il motore della cultura è stato la necessità di colmare l’abisso che separa il transitorio dall’eterno, il finito dall’infinito, la vita mortale da quella immortale; l’impulso a costruire un ponte per passare da una parte all’altra del precipizio; l’istinto di consentire a noi mortali di incidere durevolmente sull’eternità, lasciandovi un segno immortale del nostro pur fugace passaggio.

Tutto ciò naturalmente non significa che le sorgenti della paura, il luogo che essa occupa nell’esistenza e il punto focale delle reazioni che evoca siano immutabili. Al contrario, ogni tipo di società e ogni epoca storica hanno le proprie paure, specifiche di quel tempo e di quella società. Se è incauto baloccarsi con la possibilità di un mondo alternativo «senza paura», descrivere invece con precisione i tratti distintivi della paura nella nostra epoca e nella nostra società è condizione indispensabile alla chiarezza dei fini e al realismo delle proposte.

I nostri progenitori quando avevano sete tracannavano la loro dose quotidiana di acqua dai torrenti, dai fiumi, dai pozzi, persino dalle pozzanghere… Noi acquistiamo in un negozio una bottiglia di plastica sigillata piena d’acqua, la portiamo tutto il giorno con noi, ovunque andiamo, e ogni tanto ne beviamo un sorso. È questo oggi a «fare la differenza», la stessa differenza che intercorre tra le paure contemporanee e quelle dei nostri antenati. In entrambi i casi, la differenza è la commercializzazione. Come l’acqua, la paura è diventata un prodotto di consumo ed è stata assoggettata alla logica e alle regole del mercato. È stata poi trasformata in merce politica, in valuta utile a condurre il gioco del potere. La quantità e l’intensità della paura nelle società umane non rispecchiano più la gravità oggettiva o l’imminenza del pericolo, ma l’abbondanza di offerte sul mercato e l’intensità della promozione (o propaganda) commerciale.

(traduzione di Fabio Galimberti)

Yanis Varoufakis ti spiega perché l’Europa ha fatto flop

L’ex ministro greco torna sulle scene e nel suo ultimo libro spiega il perché del fallimento della valuta unica. Partendo da Bretton Woods e facendo nomi e cognomi dei responsabili

di Alessandro Gilioli – espresso.repubblica.it, 27/10/2016

Da quando non è più ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis si è preso diverse amare soddisfazioni. La prima è quella di aver visto confermare le sue previsioni sulla Grecia: la sottomissione 
di Tsipras alla Troika, avvenuta un anno e mezzo fa, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita dei cittadini, fino al nuovo taglio delle pensioni e al rischio di una crisi immobiliare nei prossimi mesi, con migliaia di senzatetto.

Ma più in generale Varoufakis aveva messo in guardia dal possibile processo di dissoluzione della Ue, denunciando gli effetti delle regole 
di Bruxelles e dell’architettura della sua moneta. Lasciato il governo, Varoufakis 
si è impegnato nella creazione di un movimento di sinistra europeo (Diem25 ) 
e nella stesura di un robusto saggio 
di geopolitica monetaria in uscita il 27 ottobre con il titolo “I deboli sono destinati a soffrire?” (La nave di Teseo, 338 pagine, 20 euro).

La tesi del libro è che gli squilibri sociali (e tra Paesi) che oggi dilaniano l’Europa hanno radici che risalgono almeno al 1971: l’anno in cui Nixon pose fine agli accordi di Bretton Woods, che 
dal 1944 regolavano l’ordine valutario mondiale imperniandolo sul dollaro e sulla sua convertibilità in oro.

La fine di quel sistema, scrive Varoufakis, portò i paesi europei a successivi tentativi di concatenazione tra le loro valute 
(il serpente monetario, lo Sme e 
infine l’euro) in cui finirono tuttavia 
per intrecciarsi errori tecnici, rigidità ideologiche e conflitti nazionali (in particolare, la competizione tra Francia 
e Germania).

Il risultato è il paradosso attuale: la moneta che doveva unire l’Europa l’ha invece divisa ancora di più, sia per ceti sociali all’interno di ogni Paese sia tra Stati, i cui interessi divergono e nei quali la valuta unica 
ha creato effetti diversi, compresa 
la svalutazione del lavoro come unico modo per salvare l’export non potendo 
più svalutare la moneta. Il saggio 
di Varoufakis non va alla ricerca di “poteri forti” nascosti dietro le tende, anzi fa nomi e cognomi dei politici (vivi o defunti) che secondo lui hanno causato il tracollo.

Non mancano pagine sull’Italia, in particolare sulla crisi del 2011, sulla caduta del governo Berlusconi, sul ruolo 
di Mario Monti e su quello successivo di Mario Draghi. Nell’appendice del saggio, le proposte politiche ed economiche dell’ex ministro, nonostante tutto 
un europeista convinto.

“Ho seminato morte”

segnalato da Barbara G.

Il pentito

«Coi rifiuti per anni ho seminato morte»

di Antonio Maria Mira – avvenire.it, 27/01/2016

«Io credo di aver seminato veramente morte nella mia terra. Me ne vergogno. Ho fatto un macello…». Così parla Gaetano Vassallo, imprenditore dei rifiuti legato alla camorra, “colletto bianco” delle ecomafie, uno dei maggiori responsabili del disastro della “Terra dei fuochi”. Per quasi trenta anni ha gestito discariche e sversato illegalmente rifiuti di tutti i tipi, è stato arrestato una prima volta nel 1992 ma poi assolto fino in Cassazione e ha continuato a inquinare. Nel 2008 ha deciso di collaborare con la giustizia «per paura di essere ucciso – ammette – ma anche per provare a riparare qualcosa di quello che avevo combinato ». Ora a 57 anni vive con la famiglia in una località protetta e lancia un’inquietante denuncia. «Io ho pagato e sto pagando, ma altri imprenditori che lavoravano con me gestiscono ancora grossi settori ». E si scaglia anche contro gli industriali del Nord che usavano le sue discariche. «Sapevano benissimo che noi smaltivamo in quel modo». Lo raggiungiamo al telefono al termine di una notte di lavoro. Proprio nei giorni in cui esce il suo libro Così vi ho avvelenato scritto con la giornalista del Mattino Daniela De Crescenzo. E ci racconta la sua vita di “ecomafioso”, il prima e il dopo. L’uomo e il criminale. Parliamo di vergogna, di perdono, di speranza (nella seconda parte dell’intervista sul giornale di domani). Ma anche di un sistema che va ancora avanti, delle mire dei clan sulle bonifiche, delle responsabilità dei politici campani ma anche degli imprenditori del Nord.

Vassallo, si sente parte di un sistema più grande?
Quando venivano a controllarci e non guardavano le bolle di accompagnamento, quelli erano responsabili come me. Il politico che veniva e mi metteva delle persone a lavorare non si é mai interessato di quello che stavamo facendo, perché lo sapeva. Quando si pigliavano i soldi nostri lo sapevano. Sono responsabili come noi ma non pagano, ma non fa niente…

Ora nessuno la conosce più…
Ma quando venivano a portare le gente a fatica’ mi conoscevano bene… Erano tutti amici nostri. In realtà sono io ora che non li voglio riconoscere, non li voglio sentire. Ora ho solo mia moglie e i miei figli. Vado a lavorare di notte dalle 18 alle 6 di mattina. Ma finalmente sono orgoglioso di quello che sto facendo.

Allora lei faceva molto comodo a tanti.
Non ci potevamo tirare indietro. Oggi mi auguro che si possa fare qualcosa, sperando che sia politicamente che imprenditorialmente non ragionino nello stesso modo. Mi auguro che non succeda anche con le bonifiche…

Ha qualche sospetto?
Speriamo che chi va a fare le bonifiche non lo faccia con la stessa logica, la stessa mentalità che avevamo noi. Il sospetto ce l’ho, lo dico e lo confermo perché dove ci sono i soldi la camorra non sparisce mai. Ci vorrebbe una classe politica più attenta perché questo polverone che si sta creando attorno a queste bonifiche non mi è chiaro. Può essere che ci sia qualcosa dietro.

C’è ancora una parte del mondo imprenditoriale che lavorava con lei che ancora opera?
I grossi imprenditori che hanno lavorato con me, che erano a braccetto con me, sono ancora liberi e gestiscono ancora grossi settori. Io l’ho riferito ai magistrati e non ho paura di dirlo anche a lei. Mi conoscevano bene, hanno lavorato con me. Andavano fuori regione a prendere i rifiuti per me. Sono io che gli ho fatto acquistare i primi autotreni per fare il trasporto di rifiuti. Oggi dicono che non mi conoscono. Quante persone oggi dicono che non mi conoscono…

Non hanno pagato neanche gli imprenditori del Nord che le affidavano i loro rifiuti.
Secondo me non ha pagato nessuno. L’unico che ha pagato sono io, che ho fatto una scelta di collaborazione, che sono stato arrestato, che sono stato in carcere e non so se ci tornerò. Sono l’unico ad aver lasciato un intero patrimonio. Ma di questo non mi rammarico. Sono orgogliosissimo di averlo fatto e continuerò a farlo anche se mi aspettavo un’attenzione diversa. Io comunque mi sono rimboccato le maniche, sto cercando di inserirmi e di lavorare, questo è l’unica cosa che mi interessa. Ma oltre a me chi ha pagato? Solo Gaetano Vassallo ha pagato. Ma se io non avessi deciso di collaborare?

Gli imprenditori che venivano da lei sapevano?
Eccome se sapevano! Sapevano benissimo che noi smaltivamo in quel modo. In Campania eravamo 9 discariche, una sola non ha smaltito rifiuti provenienti da fuori regione ed era la Sari di Terzigno. Tutte le altre ricevevano quei rifiuti, tutti scaricavano nello stesso modo, perché c’era l’intervento della camorra, erano tutti affiliati. Nel Salernitano, nel Napoletano, nel Casertano ci sono quei rifiuti.

E ora questi imprenditori del Nord non dovrebbero chiedere scusa anche loro?
I primi responsabili sono i produttori di rifiuti perché avrebbero dovuto interessarsi della destinazione finale dei loro rifiuti. Le loro aziende avevano interesse a venire da noi, pagavano di meno, ma poi non se ne interessavano perché non c’erano controlli. Io dovrei preoccuparmi di colui al quale mi affido. L’Acna di Cengio quando è venuta a scaricare da noi non sapeva chi eravamo, come scaricavamo? Si affidavano a noi ma solo qualche imprenditore del Nord veniva, mentre quelli con la roba più pericolosa non si sono mai fatti vedere. C’era sempre qualche intermediario che si preoccupava di portarceli.

E adesso i rifiuti del Nord, lei che conosce bene il sistema, come vengono smaltiti? Tutto a norma?
Non credo. Io ora sono fuori gioco ma anche dove adesso mi trovo si vedono i traffici di rifiuti. Li faranno un po’ diversamente ma li fanno. In modo un po’ più camuffato.

E ora cosa le succederà?
Il processo per disastro ambientale non è stato ancora fatto. In un altro, in abbreviato, sono stato condannato in primo grado a 6 anni e sto facendo l’appello. Tutti gli altri imputati sono a piede libero, non sono stati mai arrestati, andranno in prescrizione. Io sono andato a collaborare da libero. Non è che ero stato arrestato e ho deciso di collaborare per questo motivo. Chi ha avuto l’ergastolo è facile che collabori perché è l’unica soluzione per uscire. Io era libero e la mia scelta è stata fatta con la mia famiglia. Mi ero reso conto che avevo fatto un casino e volevo dare un contributo. Non ho collaborato per avere benefici ma per cercare di dare una mano. Mi auguro che qualcosa si possa ancora fare.

Lei evidentemente é stato purtroppo molto bravo a fare quegli affari coi rifiuti…
Bravo? Altri sono stati più bravi e sono ancora a casa loro. Ma non sono invidioso, per carità… È giusto che paghi e se devo pagare anche per gli altri va bene. Ma non sono stato l’unico a rovinare la Campania. Sono stato invece l’unico ad trovare il coraggio di dirlo. Forse perché mi volevano uccidere, ma almeno ho avuto questo coraggio. Gli altri se lo tengono tra di loro.

C’è sempre chi aspetta che passi l’onda.
Ma il tempo è galantuomo. Chi non ha ancora pagato dovrà pagare. Io ho pagato in questo modo, forse era questo il mio destino.

Gli investigatori e i magistrati non si sono certo fermati. Non credo, ma forse dovrebbero aprire un po’ di più occhi e orecchi…
(…)

*****

Dalla lettera di Don Praticello a Vassallo

(…) Lo «schifoso male» è il cancro che non abbiamo più nemmeno il coraggio di chiamare per nome. Io sono diventato prete. Franco, mio vicino di banco alle elementari, è morto a 35 anni di cancro. Sossio, invece divenne ingegnere, ma la leucemia se l’è portato via. Anche Maurizio, l’amico della mia infanzia, quello dei carruoccioli, è morto di cancro, mentre Giovanni, mio fratello, di leucemia. La scena, però, che più di tutte mi fa male sono le bare bianche in chiesa. Non ti nascondo che tanti funerali li celebro con gli occhi chiusi. E mentre le mamme piangono, i figli soffrono, i cimiteri si allargano, ancora c’è chi tenta di negare o di ridimensionare il dramma. Odio la camorra con tutte le mie forze. Ma provo per i camorristi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù. (…)

*****

COSÌ VI HO AVVELENATO

DANIELA DE CRESCENZO, GAETANO VASSALLO

Gaetano Vassallo è il manager dei rifiuti che per primo ha collaborato con la giustizia dando il via, con le sue confessioni, a tredici processi, alcuni dei quali ancora in corso. Cresciuto nella discarica del padre, nella campagna tra Caserta e Napoli, inizia nel 1982, poco più che ventenne, a gestire con la famiglia uno sversatoio e a organizzare traffici destinati ad arricchire in pochi anni tutti e dieci i fratelli. All’inizio si tratta di mettere a disposizione dei comuni della zona le cave dove scaricare l’immondizia. Poi arrivano, sempre più numerose, le richieste delle grandi aziende di tutta Italia, che cercano il modo per smaltire gli scarti industriali risparmiando sui costi. È allora che la camorra entra in campo e che Vassallo diventa il «ministro dei rifiuti» di Francesco Bidognetti, boss dei casalesi. Nelle discariche si accumulano i veleni: residui di concerie, oli di veicoli rottamati, scorie di lavorazioni industriali, ceneri e fanghi che sterminano perfino i topi. Le voragini si moltiplicano, i sacchi vengono incendiati per far posto a nuovi carichi. La spazzatura è nascosta sotto le strade in costruzione e nelle fondamenta dei palazzi, i liquami si usano per irrigare i campi. Boss e imprenditori lavorano indisturbati, perché chi dovrebbe controllare è a libro paga dei clan, e l’affare diventa sempre più sporco e redditizio, fino alla beffa dell’intervento del governo che, per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, sovvenziona gli stessi camorristi.
Vassallo ricostruisce un quadro criminale sconvolgente, dove compaiono amministratori che truccano gli appalti, funzionari pubblici stipendiati dai boss, avvocati che si fanno strumenti di corruzione. Un racconto spudorato e preciso, raccolto da una giornalista esperta del tema, che mostra dall’interno il funzionamento dell’industria dei veleni e la criminale devastazione che ha condannato a morte le terre e le acque della regione.

Il bambino possibile

“Il bambino possibile”: se la fecondazione assistita diventa un ‘miracolo di volontà’

Una guida alla Pma che unisce la raccolta di informazioni tecniche alle risposte scritta dalla giornalista scientifica Adele Lapertosa. Per sapere come orientarsi tra le sigle, i dubbi medici, i prezzi e le possibilità e imparare a non vergognarsi mai del proprio percorso.

 *

Per capire cosa significhi sottoporsi a un tentativo di procreazione medicalmente assistita bisogna passarci, guardare il proprio compagno o compagna sperare, illudersi, frustrarsi. E alle volte vincere. Solo se uno c’è passato sviluppa gli anticorpi che gli permettono di filtrare le informazioni rilevanti da quelle irrilevanti, gli appigli illusori dell’anima dalle ancore materiali della tecnica. Solo se ci si è passati si può capire quanto crudele sia stata la legge 40 nei confronti delle migliaia di coppie che hanno sofferto, mese dopo mese per anni, l’impossibilità di realizzare una famiglia.

Per questo il libro di Adele Lapertosa, Il bambino possibile (Il Pensiero scientifico Editore, euro 15) riempie uno spazio difficile da spiegare altrimenti. Perché Adele non è solo una giornalista ma una mamma. Ed è mamma grazie alla fecondazione assistita. Le due cose unite fanno la volontà di raccontare un percorso, di raccontarlo con la passione di chi ha superato le proprie dodici fatiche e il rigore di giornalista scientifica. È la stessa autrice a spiegare che il libro nasce dalla volontà di regalare una guida a chi guarda al proprio percorso dal buco della serratura dell’imbarazzo, della vergogna. O semplicemente dell’ignoranza legittima di chi non ha mai considerato il proprio corpo un oggetto di intervento.

Tecnico ed emotivo insieme, Il bambino possibile racchiude in un solo volume le informazioni fondamentali per non perdersi nel dedalo di nomi, sigle, tecniche, prezzi e sofferenze che si vivono in un percorso di fecondazione. Informazioni spesso note, ma disseminate in Rete in modo confondente. Oppure meno note ma non verificate né supportate dalla scienza. Dalla scelta del centro cui affidarsi alla diagnosi pre-impianto fino ai riferimenti normativi, il libro affronta il percorso in modo volutamente didascalico. Rispondendo alle ossessioni più semplici eppure più difficili da liberare. A cominciare dalla domanda tabù, in grado di sovvertire la vita e schiacciare una coppia: “Perché è toccato a me?”.

Qui entra in gioco la consapevolezza di madre e di “sopravvissuta”. Sapersi destinati a non avere figli in modo naturale è una prova difficile, per non dire brutale, nei confronti di una coppia. Sovverte gli equilibri, tradisce la vostra privacy, è uno sguardo che viene a rovistare impudicamente sotto le lenzuola. Adele lo sa e per questo accompagna il lettore, prevenendo i riflessi psicologici, anticipando il bisogno di un supporto, anche clinico, fornendo un sentiero già tracciato e quindi più facile da seguire. Riflessioni non banali che investono l’intera sfera dei sentimenti – cosa ci succederà adesso? devo parlare con qualcuno? cosa dico in giro? – che servono a sollevare il lettore dal senso di inadeguatezza e di colpa. Oppure da quel fastidio insopprimibile verso la vostra migliore amica che, senza rendersi conto del vuoto che covate dentro, vi racconta ogni singola mossa di suo figlio e vi guarda come uno scherzo di natura.

Passata questa fase, ci sarà poi lo stordimento da acronimi: FivetIcsi, Imsi, Gift, Zift, TetTefna… C’è di che ubriacarsi e rinunciare. Soprattutto perché arrivare impreparati a un colloquio in un centro significa subire ancora di più il proprio “destino” invece che sceglierlo. E poi quale centro? Dove? Nel pubblico? Nel privato? E quanto si può continuare prima di considerarsi “dipendenti” da Pma? Vale la pena di espatriare per l’eterologa o aspettare in Italia? Tutte domande a cui il libro di Adele Lapertosa risponde con garbo e senza insolenza, sapendo lei stessa che alla fine del percorso, comunque sia andata, l’importante è non sentirsi “sbagliati”. Sentimento che una legge vessatoria si è permessa di inculcare a sufficienza in un Paese che continua a parlare di famiglia, ma a ostacolarla con ogni mezzo e ogni pregiudizio.

Adele Lapertosa vive tra Italia e Cile. Il 30 novembre sarà a Milano – ore 18, Casa della cultura –  e il 2 dicembre a Roma – associazione Luca Coscioni – per presentare il suo libro.

Il velo alzato sul mondo dei morlock

segnalato da Andrea

di Benedetto Vecchi – ilmanifesto.info, 10/10/2015

Tempi presenti. «Il regime del salario», le analisi di un gruppo di ricercatori e attivisti raccolte in un volume. Dal jobs act al job sharing, la discesa negli inferi della condizione lavorativa. Dai quali uscire senza sperare in facili scorciatoie.

L’inferno degli atelier della produzione non è necessariamente un luogo dove ci sono forni accesi, rumori assordanti, caldo insopportabile e dove gli umani sono ridotti a bestie. Il lavoro può essere infatti svolto in ambienti lindi dove viene diffusa musica rilassante e piacevole; oppure in case dove la sovrapposizione tra vita e lavoro è la regola e non l’eccezione. L’immagine più forte del lavoro non è data certo da «Tempi moderni» di Charlie Chaplin. L’omino con baffetti, cappello e bastone risucchiato negli ingranaggi delle macchine rappresenta con lievità l’orrore della catena di montaggio. Strappa un sorriso di fronte la disumanità dell’organizzazione scientifica del lavoro. Ma la rappresentazione del lavoro non è viene più neppure dalla folla rabbiosa di Metropolis di Fritz Lang. Sono due film dove è presente l’imprevisto dell’insubordinazione, della rivolta. Ma in tempi di precarietà diffusa, occorre leggere le pagine o far scorrere i fotogrammi del film tratto dal libro di Herbert George Wells La macchina del tempo per avere la misura di come è cambiato il lavoro.

Il romanzo dello scrittore inglese è utile non tanto perché ci sono gli eloi, umani ridotti a ebeti che possono consumare di tutto in attesa di essere divorati dai morlock umani-talpa che vivono nel sottosuolo per produrre chissà cosa. La macchina del tempo è un testo significativo perché rappresenta una società che ha occultato gli atelier della produzione, li ha sottratti allo sguardo pubblico. Sono come le community gated delle metropoli: zone dove lo stato di eccezione – limitazione dei diritti e della libertà personale — è la normalità. Per gli attivisti e ricercatori del gruppo «Lavoro insubordinato» sono espressione di un regime che non conosce faglie distruttive e dove la crisi è la chance che il capitale ha usato per affinare e rendere più sofisticate, e dunque più potenti, le forme di assoggettamento e di compressione del salario del lavoro vivo. Lo scrivono in un ebook dal titolo programmatico Il regime del salario che può essere scaricato dal sito internet www.connessioniprecarie.org. Ha una introduzione di Ferruccio Gambino e saggi di Lucia Giordano, Isabella Consolati, Roberta Ferrari, Piergiorgio Angelucci, Eleonora Cappuccilli, Floriano Milesi e Francesco Agostini. Sono testi sulle nuove normative che regolano il rapporto di lavoro, dal Jobs Act, all’introduzione dei voucher, al job sharing. E se per il Jobs Act il lavoro critico è facilitato dalla mole di materiali usciti sulla legge varata in pompa magna dal governo di Matteo Renzi come panacea per la precarietà diffusa e la disoccupazione di massa, meno facile è invece restituire il valore performativo che le disposizioni sui voucher e il job sharing hanno per l’intero «regime del salario».

L’impianto analitico proposto è efficace e condivisibile. Più problematiche sono le proposte politiche avanzate nel volume. Non perché impossibili, ma perché problematica è la prospettiva indicata come necessaria: organizzare l’inorganizzabile, cioè quelle nuove figure del lavoro, disperse, frammentate, sempre più individualizzate. È con questa prospettiva che occorre fare i conti. Il limite che emerge dalle proposte avanzate è infatti il limite che si incontra quando si cerca di lacerare il velo che occulta il lavoro contemporaneo. Fanno dunque bene gli autori a nominarlo. Non ci sono infatti facili scorciatoie da imboccare.

Il mimetismo che paga

Il Jobs Act è ritenuta la forma giuridica che istituzionalizza la precarietà. Matteo Renzi e la sua squadra di governo hanno aggirato lo statuto dei lavoratori vigente, modificandone l’articolo 18 (quello sul licenziamento senza giusta causa), ma non si sono mai scagliati contro la «filosofia» garantista dello Statuto. Hanno mimetizzato l’obiettivo — rendere normale la precarietà — con la retorica di sviluppare forme di tutela per i giovani precari. Così facendo sono però riusciti a produrre consenso alla istituzionalizzazione della precarietà, visto che il Jobs Act permette il licenziamento e prevede forme di significativi sgravi contributivi per le imprese, motivando le misure come incentivi all’assunzione dei lavoratori a tempo determinato e dunque alla crescita occupazionale, cresciuta sopra il 10 per cento dopo il 2008 a causa della crisi economica globale. Che questo non sia accaduto è oggetto delle polemica politica quotidiana, con errori e omissioni da parte del Ministero del lavoro, come ha testimoniato e denunciato la ricercatrice Marta Fana sulle pagine di questo giornale. Nel volume di «Lavoro Insubordinato» viene però messo in evidenza un altro aspetto, meno presente nella discussione pubblica. Il Jobs Act ratifica anche la compressione salariale in auge da decenni in Italia. Precarietà e salari stagnanti sono inoltre le fondamenta della progressiva e tendenziale trasformazione del lavoro vivo in un esercito di working poor.

Ma queste, direbbero i soliti buon informati, sono cose note. Meno evidente è la diffusione dei voucher e del job sharing.

Sull’uso dei voucher poco si sa. Le recenti statistiche parlano di una crescita esponenziale del loro uso da parte delle imprese. Si tratta della possibilità da parte delle imprese di «assoldare» lavoratori e lavoratrici per brevi periodi, ma anche per poche ore in cambio di un voucher che può essere ritirato dal singolo in alcuni luoghi preposti. Si tratta di un’attivazione al lavoro – l’espressione tecnica parla di lavoro occasionale — che non prevede nessuna forma di regolamentazione della prestazione lavorativa. Il singolo, infatti, non ha un contratto o una forma di collaborazione codificati dal diritto del lavoro. È solo fissato un tetto economico – i voucher non possono superare la cifra dei 7mila euro l’anno per il singolo lavoratore – ma nulla più. È una delle forme più radicali di precarietà che sono state imposte al lavoro vivo. E contempla anche una colonizzazione del tempo di vita: il singolo deve essere pronto a lavorare in ogni momento. A ragione, i voucher sono considerati la forma assunta da una logica di «usa e getta», che scarica inoltre sui singoli l’attivazione di tutele individuali riguardo la pensione, la formazione, la salute. Devono cioè intraprendere la discesa negli inferi della privatizzazione del welfare state. Lo stesso si può dire del job sharing, cioè la condivisione tra due persone della stessa mansione.

Immaginata come una forma di tutela per le donne entrate nel mercato del lavoro ma che non vogliono rinunciare alla cura dei figli, il job sharing rivela anche in questo caso il progressivo abbandono dello Stato nei servizi sociali. L’assenza di asili nido, scuole materne ricade sulle donne: cosa anche questa nota. Ma questo si traduce in una condizione di assoggettamento delle donne che condividono lo stesso lavoro. È infatti prerogative loro trovare la compagna di «avventura»; e ricade su di loro la perdita di salario e una scansione della giornata che solo i «creativi» della pubblicità possono rappresentare come espressione di una onnipotenza femminile che passa dal lavoro sotto padrone a quello di cura come se niente fosse, sempre senza mai scomporsi e mantenendo un seducente sorriso sulle labbra.

Neppure i cosiddetti ammortizzatori sociali sono omessi in questo volume: ogni acronimo e sigla usata nasconde la riduzione delle tutele a elemosine per i «senza lavoro». La disoccupazione è ridotta a fatto domestico, privato, del quale lo Stato non si cura, se non nelle forme compassionevoli dell’assistenza ai poveri.

Organizzare l’inorganizzabile 

È da qualche lustro che minoranze intellettuale e gruppi di attivisti segnalano che uno degli effetti delle politiche neoliberiste è la trasformazione dell’insieme del lavoro vivo nella marxiana «fanteria leggera del capitale». Possono essere molte le forme giuridiche usate, ma rimane il fatto, incontestabile, che l’universo dei diritti sociali di cittadinanza è stato sostituito da dispositivi dove la cittadinanza è vincolata all’accettazione del «regime del salario». Quello che veniva definito come tendenza, è quindi divenuto realtà.

Quale prospettiva politica attivare per un lavoro vivo frammentato, disperso, che spesso non ha luoghi dove incontrarsi? «Organizzare l’inorganizzabile» non è solo una suggestione, bensì un programma di lavoro politico per rendere maggioranza ciò che è patrimonio di minoranze teoriche e politiche. Il primo passo è il reddito di cittadinanza, va da sé, ma c’è un suggerimento del libro del quale fare tesoro.

Il reddito di cittadinanza non può essere immaginato come una ingegneria istituzionale, delegando alla Stato sia le forme che le modalità di erogazione. Se così accadesse tutte le forme di ricatto e di nuovo assoggettamento dalle quali il reddito di cittadinanza favorirebbe l’emancipazione, ritornerebbero sulla scena dei rapporti di lavoro. Per questo va messo in relazione proprio con il regime del salario.

La presa di parola proprio del lavoro vivo nella sua eterogeneità è certo un fattore primario, ma non risolutivo del problema. Serve immaginare forme di sciopero sociale efficaci. E attivare coalizioni sociali, sottraendole però alle alchimie autoconservative che assegnano alle organizzazioni sindacali date e della cosiddetta società civile il ruolo di gate keeper delle stesse coalizioni sociali.