di Roberto C.A.
La recente discussione sulla leadership mi ha fatto pensare a come questa funziona nei nostri grandi esperimenti. Val la pena parlarne anche perché la stampa, che ha sempre bisogno di personaggi, tende a distorcere completamente la realtà. Chi ha scoperto il bosone di Higgs? Fabiola Gianotti? No di certo, come lei stessa, e non per falsa modestia, afferma in questo bell’articoletto.
http://nautil.us/issue/18/genius/who-really-found-the-higgs-boson
Mettiamo giù un po’ di numeri tanto per definire il campo. I due grandi esperimenti che hanno rivelato il bosone di Higgs (Atlas e CMS) sono collaborazioni in cui lavorano due-tremila fisici per ciascuna, provenienti da centinaia di istituti di tutto il mondo. Per CMS, attualmente 2680 fisici (di cui 891 studenti) e 859 ingegneri di 182 istituti di 42 diverse nazioni. Il CERN è il laboratorio ospite, fornisce l’acceleratore (LHC) che produce le collisioni tra protoni ad altissima energia, e partecipa anche con i suoi ricercatori agli esperimenti, come uno tra i molti istituti.
Come funzionano e sono organizzati questi esperimenti? Sono “collaborazioni di istituti”. Nel senso che ciascun istituto partecipante (per esempio l’università di Padova, o l’Imperial College di Londra etc.) costruiscono e mantengono pezzi di rivelatore, forniscono fisici che fanno le analisi dati, tecnici che fanno le manutenzioni e gli upgrade, e anche un po’ di soldi, pro quota (numero di autori che firmano gli articoli) per il fondo comune che serve a pagare le spese generali (e.g. l’elettricità). Le cose sono complicate, perché poi in genere i finanziamenti da una nazione sono dati agli istituti da singole agenzie finanziatrici (l’INFN in Italia, il DoE e NSF per gli Stati Uniti etc). In più, i vari detectors (i pezzi che vanno a costruire l’intero esperimento) sono finanziati e costruiti da gruppi di istituti spesso transnazionali. Per esempio, il rivelatore costruito da noi (si chiama DT, Drift Tubes) è il risultato di una collaborazione tra Padova, Bologna, Torino, Madrid, Oviedo, Santander, Debrecen, Aachen e ora è entrata anche Kuala Lumpur. Quindi ci sono vari livelli di collaborazione e interazione. Un bel casino.
È chiaro che per gestire tutto ciò c’è bisogno di una bella organizzazione. Che è sostanzialmente elettiva. Il capo dell’esperimento (spokesperson) è nel caso di CMS eletto ogni due anni dal “collaboration board” (l’insieme dei rappresentanti di tutti gli istituti). Ogni due anni si chiede alla collaborazione (tutta) di fornire suggerimenti per il prossimo spokesperson, poi si chiede ai candidati proposti se intendono partecipare all’elezione, e alla fine il capo viene eletto. Atlas ha, credo, 3 anni di turnover, ma poco cambia. A volte lo spokesperson è rinnovato, ma difficilmente più di una volta. Da notare, tra l’altro, che ciascun istituto con più di un paio di autori vota con lo stesso peso.
I livelli appena sotto (L1 coordinators, coordinatori di aree come computing, trigger, analisi di fisica etc), che poi formano assieme allo spokesperson il cosiddetto “executive board”, sono anche essi rinnovati con le stesse cadenze. Anche qui i candidati sono proposti dalla collaborazione tutta, poi però un “comitato di saggi” fa una scrematura e insieme allo spokesperson li nomina.
Lo stesso per i livelli ancora successivi (L2 coordinators, per esempio per le analisi di fisica i coordinatori dei sottogruppi che si occupano delle analisi sugli Higgs, sulla supersimmetria etc.), naturalmente in questo caso nella scelta si tiene conto delle opinioni dei relativi L1.
Quindi, per dire, Fabiola è stata (ottima) spokesperson di Atlas per due mandati, ora lo è un inglese. All’inizio della presa dati per CMS c’era un italiano (il pisano Guido Tonelli), che è stato seguito da un americano e poi da un altro italiano (dipendente CERN, Tiziano Camporesi). Ma prima, nella lunghissima fase di costruzione, se n’erano alternati altri, e altri ne seguiranno. Si tratta perciò di una gestione sostanzialmente corale, in cui c’è, sì, leadership: in ciascun istante c’è bisogno di qualcuno che abbia un’overview e guidi la baracca (e che parli con voce univoca con il mondo esterno, siano le funding agencies o gli altri esperimenti, da cui il termine spokesperson, portavoce). Ma la rotazione evita che ci sia un “one person show”, e invece mette a profitto le migliori capacità che ci sono in giro.
Anche perché si tratta comunque di comandare una nave di cui non si è padroni, visto che i finanziamenti vengono dal basso, dagli istituti partecipanti: non è un’azienda, non è che un capo possa dire: “ti licenzio”, o cose del genere. Il potere viene dall’incarico e quindi dalla fiducia ricevuti, e si esercita soprattutto con la persuasione, a volte certo con decisioni che non accontentano tutti, ma di sicuro mai dicendo “il capo sono io e faccio quello che voglio”.
Funziona? Sì, funziona bene, certo con qualche inefficienza. Certo non tutti lavorano con la stessa intensità: ci sono post-doc che producono per 10 e altri meno, docenti che dedicano per necessità molto tempo alla didattica e meno alla ricerca, persone che vanno e che vengono: post-doc appunto, che diventano espertissimi e poi si trovano un altro mestiere, in accademia o nell’industria, per non parlare degli studenti di dottorato. Ma la struttura gerarchica flessibile (abbastanza rigida nei ruoli, ma molto flessibile in chi li ricopre) rende il sistema molto adattabile. Non ci sono, per esempio, proprietà private, nemmeno nazionali, nelle varie aree di coordinamento. Per dire, il trigger era americano, ora ci sono io, poi chissà. Si cerca di trovare la persona migliore per quel ruolo, in base a quanto ha dimostrato in passato e alla disponibilità (e anche con qualche bilanciamento geopolitico, ma molto lasco). Questo fa anche sì che tutti si sentano in qualche modo coinvolti, anche per le aree non di loro attuale pertinenza diretta, e ciò consente di mettere in gioco le energie opportune nei momenti di bisogno.
Ci sono dei problemi? Altroché, è una faticaccia. Il problema è che tutto si muove rapidamente, e con condizioni al contorno mutevoli. Dopo tutto è un esperimento e, per quanto si cerchi di programmare e simulare, cosa esattamente succederà domani non si sa. E la reazione rapida alle mutate condizioni è molto stressante, e pone anche problemi. Spesso, soprattutto durante la presa dati, o nei momenti in cui un’analisi importante sta convergendo, se appare un problema, questo viene affrontato e risolto nel giro di poche ore, anche di notte (che è giorno per i colleghi che sono in America), quindi si va a letto con una situazione e ci si sveglia con un’altra. Stressante per chi deve mantenere l’overview. Ma la cosa più problematica, per chi coordina, è far capire la ragione delle proprie scelte, e soprattutto delle inversioni improvvise di rotta, ai giovani cui si è chiesto di fare un lavoro. Capita di chiedere un lavoro con urgenza, e poi di non utilizzarlo, o di chiedere qualcosa di ortogonale. In generale con ottimi motivi (appunto, le condizioni al contorno che cambiano in maniera imprevedibile), ma capita di fare l’errore di non spiegarlo bene, e di generare insoddisfazioni. Cose che si imparano, ma la comunicazione: “tu stai facendo questo perché, e adesso cambiamo perché”, è faticosissima in condizioni che mutano rapidamente. E, come dicevo sopra, l’opzione “fai questo e taci” non funziona.
Ora, ci sarebbero molte altre cose da dire, ma ho già scritto troppo. Non è poi sempre così, ci sono stati in passato esperimenti con una leadership forte e unica (Carlo Rubbia, Sam Ting, per esempio). Ma è difficile che possa succedere ormai con le dimensioni attuali, che per questo sono, a tutti gli effetti, anche esperimenti di sociologia (pensate solo alle diverse culture di persone che vengono da Paesi di ogni continente e ogni latitudine). E mostrano che, sì, la leadership serve, ma può essere una leadership diffusa, e legata molto più all’obbiettivo che alla singola persona.