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La mossa politica della Consulta

Legge elettorale. “Dopo la sentenza la legge corretta è immediatamente applicabile”, scrivono i giudici costituzionali. Ma non è una legge omogenea con quella del senato. Salvate le pluricandidature (però con il sorteggio), affondato il cuore dell’Italicum: il ballottaggio

di Andrea Fabozzi – ilmanifesto.info, 26/01/2017

«Il punto chiave della mia riforma elettorale è il ballottaggio», ha detto e ripetuto Matteo Renzi; la Corte costituzionale ha cancellato il ballottaggio. Come da previsioni, l’Italicum passando attraverso il giudizio della Consulta perde il cuore («senza casca tutto, è un’altra legge», ha sempre avvertito il suo autore, D’Alimonte), salvando il premio di maggioranza ma solo al primo turno. Andrebbe a un partito capace di raggiungere da solo il 40%, eventualità che oggi i sondaggi escludono. Bisognerà pensare ad alleanze travestite da listoni unici. O spostare il premio alle coalizioni, in questo caso però riportando la legge elettorale in parlamento.

Smentendo invece le previsioni originarie, ma confermando le sensazioni dell’udienza di martedì e gli indizi contenuti nella relazione del giudice Zanon, la Corte costituzionale ha salvato le pluricandidature. E bocciato solo la possibilità per i capilista eletti in più collegi di scegliere discrezionalmente per quale seggio optare, successivamente alla proclamazione dei risultati. È questo un punto molto delicato della decisione di ieri, quello che verosimilmente ha impegnato di più la discussione dei giudici e ritardato la decisione (attesa per le 13, è arrivata alle 17). Sul ballottaggio invece la discussione si è concentrata sugli argomenti da inserire nelle motivazioni, che scriverà Zanon entro un mese: la bocciatura sarà spiegata con l’aggiramento del criterio della soglia minima per assegnare il premio.

SALVARE I CAPILISTA bloccati (quelli cioè che non devono guadagnarsi le preferenze) e salvare anche il diritto del capolista di «pluri candidarsi» (fino a dieci collegi diversi, dice l’Italicum) – secondo le aspettative e le speranze di Renzi, condivise dagli altri partiti maggiori – ha richiesto ai giudici l’individuazione di un criterio per la selezione del collegio, diverso dalla discrezionalità dell’eletto. Non lo avessero fatto avrebbero dovuto affidare al parlamento questo lavoro, e dunque non avrebbero potuto scrivere (come hanno fatto, nell’ultima fondamentale riga del comunicato) che «all’esito della sentenza, la legge elettorale è suscettibile di immediata applicazione». Questo criterio è il sorteggio, residuato nell’originale articolo del testo unico sulle leggi elettorali dov’è previsto come norma di chiusura: se l’eletto non sceglie entro otto giorni il collegio, allora decide il destino. Il che impedisce ai partiti di fare calcoli sui candidati arrivati secondi da promuovere o seppellire (in genere in base alla loro fedeltà al leader), ma continua a privare gli elettori del loro diritto di scelta – quello che invece era il presupposto della richiesta di incostituzionalità. Tant’è vero che c’è già l’ipotesi di nuove obiezioni di costituzionalità contro la legge appena nata.

I PROBLEMI NON FINISCONO qui, perché il collegio – proprio per effetto del ritaglio delle norme incostituzionali (in questo caso il comma 27 dell’articolo 2) – nell’Italicum corretto diventa la circoscrizione, il che significa che ci si potrà candidare più volte ma solo in regioni diverse. O quasi, perché un altro comma dell’Italicum che invece è sopravvissuto (la lettera b dell’articolo 1, l’originale emendamento riassuntivo Esposito) continua a parlare di collegi. È un altra incertezza che andrebbe risolta in parlamento.
Al contrario chi spinge per le elezioni anticipate (i renziani) enfatizza il passaggio finale del comunicato della Consulta. Effettivamente clamoroso. Non perché sia smentibile che la legge elettorale uscita dalla sentenza «è suscettibile di immediata applicazione»; questa al contrario è un’ovvietà per le sentenze di questo tipo. La legge elettorale, lo ha spiegato proprio la Consulta, è «costituzionalmente necessaria», dunque dev’essere sempre pronta all’uso. Ma questo Italicum corretto varrà solo per metà parlamento, ed è una legge assai diversa da quella in vigore per il senato (il Consultellum, scritto peraltro dagli stessi giudici). Le soglie di sbarramento sono diverse (più alte: 8% per i partiti che corrono da soli e 3% per quelli in alleanze), sono possibili le coalizioni (con uno sbarramento al 20%) e non c’è il premio di maggioranza. Tutt’altro che due sistemi «omogenei, non inconciliabili e pienamente operativi», come da precisa richiesta del presidente della Repubblica.

LE DUE RIGHE CONCLUSIVE dei giudici guardano solo alla situazione della camera e raccontano una mezza verità; sono più politiche che giuridiche. Non a caso nulla del genere era contenuto nel comunicato che annunciava la sentenza «gemella» del 2013 sul Porcellum. Al contrario, allora si riconosceva al parlamento la facoltà di intervenire sulla legge. E fu nelle motivazioni che i giudici spiegarono di aver prodotto una legge «complessivamente» applicabile, anche se precisando, come si deve a maggior ragione dire oggi, che «non rientra tra i compiti di questa Corte valutare l’opportunità e/o l’efficacia di tale meccanismo».
I giudici della Consulta hanno così accolto solo due richieste di incostituzionalità su undici. Può essere poco ma è tanto per il pool di avvocati che ha promosso i ricorsi. «È stato confermato il principio che leggi elettorali possono essere sottoposte alla Corte costituzionale anche prima del loro utilizzo a partire dai diritti dei cittadini elettori – dice il coordinatore del pool, Felice Besostri -. Il risultato dipende anche dall’atteggiamento dell’Avvocatura dello stato e dunque del governo, che ha chiesto l’inammissibilità totale dei ricorsi. Su questo abbiamo avuto ragione noi. Ne viene fuori una legge autoapplicativa sì, ma non omogenea con quella del senato. Il fatto che il Pd dica che la Corte ha salvato l’impianto dell’Italicum – conclude Besostri – conferma che quel partito ha perso ogni contatto con la realtà».

Art. 18

segnalato da Barbara G.

Tutte le strettoie per ammettere il quesito sull’art. 18

di Andrea Pertici – huffingtonpost.it, 09/01/2017

È noto che fare previsioni su un giudizio di ammissibilità di un referendum abrogativo non è semplice. Nell’esercizio di questa competenza, la Corte costituzionale giudica, infatti, sulla base di parametri elaborati quasi esclusivamente attraverso la propria giurisprudenza, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, con un orientamento che nel complesso è divenuto progressivamente restrittivo, pur con significative oscillazioni, soprattutto in relazione alle modalità di formulazione del quesito.

Quest’ultimo, infatti, deve essere “chiaro e semplice” e per questo omogeneo: non si può chiedere agli elettori di abrogare, per esempio, il reato di istigazione a disobbedire le leggi e quello di atti contrari alla pubblica decenza, perché questi potrebbero voler rispondere a favore dell’abrogazione dell’uno ma non dell’altro.

Ciò non significa, che non possa essere chiesta l’abrogazione di più norme o anche di più istituti, purché abbiano una “matrice razionalmente unitaria”, individuata dalla Corte, la quale, fissandola a maglie più o meno larghe, può favorire l’ammissibilità di un quesito o al contrario determinare la sua inammissibilità. L’incertezza è accresciuta dal fatto che – sempre secondo la giurisprudenza costituzionale – un quesito deve non solo essere omogeneo (e quindi evitare di contenere qualcosa di troppo) ma anche completo e coerente, con la conseguente necessaria inclusione di tutte le norme connesse a quella matrice razionalmente unitaria, la dimenticanza di alcune delle quali ha determinato in più occasioni una pronuncia di inammissibilità.

Ma le strettoie dell’ammissibilità referendaria non finiscono qui. Sempre dal punto di vista della sola formulazione del quesito, la Corte – soprattutto dal 1997 – ha precisato che i quesiti non debbano essere “manipolativi”, e cioè tali da trasformare il referendum da abrogativo a “surrettiziamente propositivo”.

Pure in questo caso si tratta di un criterio non semplice da definire in concreto, anche considerato che la Consulta non considera manipolativo (o comunque inammissibilmente manipolativo) qualunque ritaglio di parole, ma soltanto quello che realizza una “saldatura di frammenti lessicali eterogenei”, sostituendo una previsione di legge con un’altra che “figura in tutt’altro contesto normativo”.

È quanto avveniva nel caso della sentenza n. 36 del 1997, relativa al limite di trasmissione dei messaggi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica, fissato nel 4% dell’orario settimanale (e nel 12% di ogni ora), che – attraverso un ritaglio di alcune frasi – si mirava a far scendere al 2% che era, invece, il limite dell’eventuale eccedenza oraria da recuperare nell’ora antecedente o successiva.

Diversamente, però, altri ritagli di norme sono stati dichiarati ammissibili, pur determinando la sostituzione di una determinata disciplina con un’altra ,che, tuttavia, non risultava “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo”, ma al contrario determinava l’estensione di un criterio già esistente come residuale, facendolo diventare quello normalmente applicabile. È quanto la Corte costituzionale disse con la sentenza n. 13 del 1999, a proposito di un referendum sul Mattarellum dal quale sarebbe risultata la sostituzione delle particolari modalità di attribuzione dei seggi previste per la Camera con altre (previste dalla legge solo come residuali).

Ecco, questi aspetti diventano oggi importanti alla vigilia del pronunciamento della Corte costituzionale su tre quesiti proposti dalla CGIL, relativi, rispettivamente, alla disciplina sui licenziamenti illegittimi, alla responsabilità solidale in materia di appalti e ai voucher.

Alcune criticità potrebbe presentare proprio il primo quesito. Questo, infatti, elimina il decreto legislativo sui licenziamenti approvato sulla base di una delega contenuta nel jobs act, proprio come faceva il quesito già proposto da Possibile nel 2015, ma aggiunge poi l’abrogazione di alcune parti dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come successivamente modificato (soprattutto dalla legge Fornero).

Ora, questo potrebbe determinare alcune difficoltà nella individuazione di una matrice razionalmente unitaria sufficientemente definita e quindi quell’omogeneità del quesito necessaria per renderlo ammissibile. Potrebbe infatti volersi votare a favore di una modifica delle conseguenze del licenziamento ingiustificato ma non della estensione di queste anche alle imprese con un più limitato numero di dipendenti (da quindici a cinque)?

La risposta sul punto finirà per dipendere proprio dalla individuazione che la Consulta farà della “matrice razionalmente unitaria”, perché se questa fosse fissata a maglie molto larghe (per esempio, nel “rafforzamento delle tutele rispetto ai licenziamenti illegittimi”) il quesito potrebbe risultare ammissibile, ma in caso diverso no.

Tuttavia, l’inammissibilità del quesito è stata sostenuta da più parti, nelle ultime settimane, sulla base della “manipolatività”, in quanto questo quesito – attraverso il ritaglio di alcune parole e frasi – non determinerebbe una semplice abrogazione ma sarebbe propositivo di una nuova disciplina. La questione si pone, in particolare, per l’ottavo comma dell’articolo 18, relativo alla dimensione dell’impresa alla quale si applicano le tutele previste rispetto al licenziamento illegittimo. Infatti, attraverso la cancellazione di alcune parole, si intende sostituire, ai limiti attualmente previsti, calcolati sulla singola impresa o sulle diverse imprese del medesimo imprenditore nell’ambito del Comune (con una disciplina specifica per le imprese agricole), un unico limite, oggi previsto per le sole aziende agricole, dato dalla presenza di almeno cinque dipendenti.

Ora, come abbiamo detto, non qualunque ritaglio che porti a un cambiamento della disciplina vigente è inammissibilmente manipolativo, ma soltanto quello che, saldando frammenti lessicali eterogenei, relativi a “tutt’altro contesto normativo” produca un effetto surrettiziamente propositivo. Se, invece, il ritaglio porta all’espansione di un criterio già presente, senza operare una sostituzione con un’altra disciplina “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo (…), ma utilizza un criterio specificamente esistente”, il referendum è ammissibile.

La domanda, quindi, è se la soglia dei cinque dipendenti, prevista oggi per l’applicabilità dell’articolo 18 alle sole aziende agricole, divenendo valida per tutte le aziende (per le quali attualmente è di quindici dipendenti), determini una semplice espansione di una disciplina prevista e non estranea al contesto normativo o no. E da questo potrebbe dipendere l’ammissibilità del quesito o la sua inammissibilità.

E problemi simili potrebbero forse esservi anche per un’altra disposizione oggetto di abrogazione e in particolare per quella relativa alla determinazione dell’indennità risarcitoria per il licenziamento dichiarato inefficace per difetto di motivazione, per la quale, attraverso una serie di ritagli, si applica uno dei criteri (quello della reintegrazione con pagamento di indennità) previsti per il licenziamento ingiustificato.

Di fronte a un esito incerto, soprattutto quando i quesiti sono particolarmente complessi e articolati, rimane da sottolineare la necessità di fornire il giudizio di ammissibilità di parametri meglio definiti e soprattutto l’importanza che la Corte costituzionale arrivi a pronunce quanto più possibile solide, chiare e trasparenti, nel presupposto che, a norma della Costituzione, per il referendum abrogativo l’ammissibilità è la regola e l’inammissibilità l’eccezione.

I criteri che determinano quest’ultima, quindi, ferma restando la necessità di garantire un’autentica libertà di voto, non dovrebbero essere oggetto di un’interpretazione estensiva (rispetto alla quale talvolta la Corte ha ecceduto, come sottolineato anche dall’autore della sentenza n. 16 del 1978, Livio Paladin, in un seminario svoltosi proprio alla Consulta nel 1996).

Risarcimento (d)anni

segnalato da barbarasiberiana

LEGGE 40. RISARCIMENTO ANNI

di Simona Maggiorelli – Left.it

Ha avanzato una richiesta di risarcimento danni la coppia a cui il tribunale di Bologna il 14 agosto ha riconosciuto il diritto immediatamente esigibile all’eterologa. E adesso potrebbero essere molti altri a imboccare questa via, considerando che sono circa 20mila le persone che, dall’entrata in vigore della legge 40 nel 2004 a oggi, sono andate all’estero per fare la fecondazione assistita con gameti ricevuti da donatori esterni alla coppia. Mentre altre 9mila ancora attendono in Italia.

Non solo azioni individuali a pioggia, ma anche un’azione collettiva, una class action. Questa possibilità è stata prospettata, all’indomani della decisione della Consulta, dagli avvocati Gianni Baldini e Filomena Gallo. E subito ripresa dalla stampa specializzata di settore. «Sono migliaia – ha scritto il Quotidiano sanità – le coppie che potrebbero decidere di fare una class action contro lo Stato italiano per colpa della legge 40 che per 10 anni ha vietato loro il ricorso alla fecondazione assistita eterologa».

La sentenza che lo scorso 9 aprile ha cancellato il divieto di eterologa, ha “valore sub costituzionale” (cioè non può essere superata nemmeno dal Parlamento attraverso modifiche legislative) ed è immediatamente eseguibile e retroattiva. Questo senza determinare alcun vuoto normativo, come ha chiarito lo stesso presidente della Corte Giuseppe Tesauro. «Da aprile ad oggi ho ricevuto moltissime telefonate e tanti messaggi su facebook da coppie che vorrebbero fare ricorso per accedere all’eterologa» dice il segretario dell’associazione Coscioni Filomena Gallo, in questi giorni al lavoro per preparare l’XI congresso dell’associazione che si terrà a Roma dal 19 al 21 settembre sul tema delle libertà civili. «Se non si partirà presto con queste tecniche, ormai legali e lecite, saranno i tribunali a decidere, proprio come è avvenuto a Bologna. In molti fra coloro che mi hanno contattato in queste ore – spiega Gallo – si sono rivolti ai centri di fecondazione e sono in lista d’attesa. I centri si stanno attrezzando e stanno valutando il da farsi. Ho consigliato alle coppie di farsi indicare tempi certi. In assenza di questi elementi, infatti, si configura una chiara lesione dei loro diritti». Il tergiversare della politica nel recepimento della sentenza della Consulta e la decisione del Consiglio dei ministri di affidare la materia al Parlamento non contribuiscono certo a sbloccare la situazione. E i tempi si allungheranno a dismisura. Basta ricordare le annose discussioni, ideologiche e prive di basi scientifiche che i cattolici, di destra e di sinistra, ingaggiarono in Aula nel 2004 e nel 2005 all’epoca del referendum.

Il resto dell’articolo è disponibile in edicola da sabato 30 agosto e per tutta la settimana (Left n°33)