diritti delle donne

Storia di K

segnalato da Barbara G.

Storia di K., sposa bambina e baby schiava

Vendute da giovanissime ai loro mariti in Albania, anche quando emigrano nel nostro paese restano di proprietà dei loro uomini. Ma una di loro si è ribellata e ci ha raccontato la sua storia terribile

di Martina di Pirro e Christian Elia – espresso.repubblica.it, 27/07/2018

Lei, che chiameremo K., non sapeva si trattasse di violenza. Aveva paura fosse solo la propria immaginazione e che, in fondo, era tutto normale. D’altronde in Albania era stata venduta ad uno sconosciuto a quattordici anni come tante altre bambine, senza alcuna ritrosia da parte della famiglia. «Ero una promessa sposa minorenne », racconta K. «In Albania esiste ancora un sistema patriarcale, per cui spesso è il padre a scegliere il marito. Mio padre scelse un uomo di dodici anni più grande di me. Dal momento in cui sono stata promessa, sono diventata una proprietà di quell’uomo».

Appena lasciata l’Albania per il nostro Paese, K. sperava che le cose sarebbero cambiate. Era convinta che i maltrattamenti subiti fin lì sarebbero stati sostituiti dalla calma di una casa accogliente in Italia, dalla possibilità di studiare, di avere dei documenti, lontana da quel mondo che l’aveva tradita.«Arrivai in un paese vicino a Roma con un visto di ricongiungimento, ma poi mi sono ritrovata a essere una clandestina. Mio marito aveva messo a carico del suo permesso di soggiorno i nostri figli, io invece ero quotidianamente sottoposta al ricatto dei documenti. Non potevo parlare, non potevo ribellarmi. I soldi dei miei lavori andavano a lui, altrimenti mi picchiava. Questo ricatto del permesso di soggiorno non mi faceva muovere. Mi minacciava di morte, ma io non avevo paura della morte, avevo paura mi portassero via i miei bambini».

«Ero solo un oggetto»

È praticamente impossibile stabilire il numero di casi come quelli di K. in Italia. Mancano dati, mancano troppo spesso gli strumenti per denunciare. Quel che è certo, però, è che quello delle spose bambine è un fenomeno mondiale. Secondo l’Onu, sono milioni. E l’Albania è un paese dove questo fenomeno è ancora troppo diffuso.

In Albania, da tempo, le istituzioni e la società civile si battono per eradicare i casi di spose bambine e, con la consulenza dell’Unicef e dell’Unfpa, è stato fissato come “obiettivo nazionale” la fine del fenomeno entro il 2030. Per ora, però, soprattutto in alcune sperdute zone dell’Albania settentrionale, il matrimonio deciso dai parenti per ragazze giovanissime è ancora una realtà.

Ogni giorno K. sapeva che a tavola non doveva mancare il vino, che la casa doveva essere pulita e i bambini silenziosi. Sapeva che anche una minima cosa fuori posto avrebbe potuto far scattare non solo le violenze fisiche, ma anche quelle psicologiche.

«Non ero una persona, ero un oggetto. Non sono mai stata definita una madre, mi diceva che ero solo una fabbrica».

Eppure le era ancora difficile credere che fosse vittima di un sistema di violenza e ricatto. Arrivata dall’Albania senza alcuna formazione ed informazione, non conosceva nessuno dei suoi diritti e delle possibilità di fuggire dall’incubo in cui viveva.

«Un diritto è tale solo se uno sa di averlo», spiega l’avvocata Ilaria Boiano dell’associazione Differenza Donna di Roma. «Nella maggior parte dei casi, le donne migranti non ne sono consapevoli. Capita di frequente che le donne straniere prive di permesso di soggiorno arrivino a denunciare ma l’unico procedimento che viene attivato è quello di portarle al pronto soccorso e poi procedere con l’espulsione, e quindi con la detenzione nei Cie. Le donne migranti passano da uno stato di regolarità ad uno di irregolarità in un battito di mani. La loro posizione è, infatti, fortemente dipendente da alcuni fattori. Innanzi tutto dal lavoro, e quindi tutto quello che è molestia e sfruttamento non emerge perché hanno paura di perdere il permesso di soggiorno o di non ottenerlo. In secondo luogo, se il permesso di soggiorno è per ricongiungimento, si verifica molto spesso che i mariti non lo chiedano ma ne chiedano invece il nulla osta: non facendo poi mai i documenti o mai consegnandoli alle compagne, esercitando, di fatto, così, un ricatto. Dal 2013 è stato istituito il permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica».

L’art. 4 della legge 119/2013 prevede che il questore – con il parere favorevole dell’autorità giudiziaria o su proposta di questa – rilasci il permesso per consentire alla vittima straniera, priva di permesso di soggiorno, di sottrarsi alla violenza quando siano accertate situazioni di violenza o abuso e emerga un concreto e attuale pericolo per la sua incolumità.

«C’è una forte disomogeneità di applicazione dell’istituto», continua l’avvocata Boiano . «È un permesso di soggiorno non ancora molto usato e conosciuto, non se ne rilasciano più di trenta l’anno. Inoltre, si è diffuso il pregiudizio che la richiesta di permesso di soggiorno per le vittime di violenza sia utilizzata dalle donne per ottenere un regolare permesso di soggiorno».

Pur non essendo ancora consapevole, K. non riusciva più a sopportare quella situazione.

«Un giorno arrivò a minacciare mio figlio perché si era messo in mezzo a una lite per difendermi», continua K. «Da lì mi è scattato tutto. Ho chiesto informazioni a delle mie amiche e ho fatto la denuncia. L’ho sporta piangendo, sprovvista di ogni documento, terrorizzata che gli assistenti sociali potessero portarmi via i miei figli».

E lì K. ha trovato un bravo maresciallo dei carabinieri che, con gli assistenti sociali, dopo un attento esame della situazione, hanno indirizzato K. nella via in cui ha sede l’associazione Differenza Donna. «Io non mi fidavo di nessuno perché così avevo vissuto una vita intera. Mi ero preparata anche a scappare con i miei figli. Poi invece decisi di provare ad andare in quell’associazione che mi avevano consigliato. Non sapevo dove mi trovavo, non sapevo l’esistenza di questi posti, non sapevo cosa facevano, avevo paura di tutto».

«La fortuna di K. è stata quella di incontrare persone informate», spiega l’avvocata Rossella Benedetti. «Molto spesso i carabinieri e i poliziotti invece non conoscono i diritti delle donne migranti e le portano direttamente nei Cie, come quello di Ponte Galeria, dove non esiste nemmeno la separazione tra uomini e donne, ripetendo così dinamiche di violenza psicologica nei confronti di chi già ne ha subita tanta. Nel caso di K., invece, la rete di sostegno ha funzionato ed è la cosa più importante, quella per cui lavoriamo ogni giorno».

L’alfabeto dei diritti

L’Associazione Differenza Donna nasce proprio per far emergere, conoscere, combattere, prevenire e superare la violenza di genere grazie alle competenze specifiche delle socie: psicologhe, psicoterapeute, assistenti sociali, medici, educatrici, avvocate, giornaliste, sociologhe, informatiche, antropologhe, attive nel progetto complessivo. «Abbiamo avviato tanti progetti tra cui quello di alfabetizzazione ai diritti», racconta Valentina Pescetti dell’associazione. «Se le donne non hanno la possibilità di sapere l’italiano e nemmeno di conoscere il contesto di diritti che ci sono a livello internazionale di tutela per le donne, come fanno poi a potersi ribellare?».

«Prima di essere avvocate, sociologhe, operatrici, siamo donne. Ci riconosciamo in una dimensione di parità delle esperienze», dice Ilaria Boiano. «Vogliamo individuare nella disciplina dell’immigrazione un indicatore di violenza. Il solo fatto di essere esposte all’azione legale in uno Stato che ti identifica come titolare di diritti a seconda del tuo status già è una forma di violenza. Partire da questa prospettiva significa che le donne migranti vivono in una situazione di vulnerabilità che è provocata da una legge dello Stato, che a sua volta è attuazione di obblighi europei».

K. ha avuto il coraggio di prendere i suoi figli e denunciare la situazione perché quella situazione la soffocava. Costantemente sotto ricatto, si è sentita persa. Il sostegno che ha trovato lungo il suo percorso è stato enorme. «C’è stata solo una grave interruzione», racconta l’avvocata Benedetti. «Durante il procedimento penale abbiamo incontrato un giudice pieno di pregiudizi che, all’udienza preliminare per reato di maltrattamento in famiglia, ha deciso di prosciogliere l’imputato perché riteneva che la querela di K. fosse strumentale a ottenere il permesso di soggiorno. Il primo e, fino ad oggi, l’unico caso in cui si è messo nero su bianco tale affermazione. Abbiamo impugnato in Cassazione il provvedimento, che dubitava della veridicità e accusava la ragazza di avere un amante, La sentenza, per fortuna, è stata annullata e rinviata al Tribunale in diversa composizione».

K. non smette di dire che la salvezza l’ha trovata proprio nei centri antiviolenza. Un luogo che, per quasi un anno, è stato una casa, un rifugio per lei e per i suoi figli, un posto in cui autodeterminarsi e riprendere in mano la vita. «Ho quasi trent’anni adesso e sento di poter fare tutto. Vorrei un giorno poter aiutare tutte le donne, senza differenza di provenienza e diventare anch’io un’operatrice dei centri anti violenza. So cosa vuol dire sentirsi spaventata, persa, violata. So cosa significa sentirsi sotto ricatto. E so che si può uscire da questo dramma. Sono andata a scuola, ho ricominciato da zero. Ho lavorato come commessa, nelle pulizie, ovunque. Ho fatto corsi di formazione, tante esperienze diverse. A trent’anni mi sento una donna nuova, lontana da quella sposa bambina che ero e non più sotto il ricatto di nessuno».

Quando le donne sono al potere possono fare la differenza

segnalato da Barbara G.

internazionale.it, 22/11/2017

“La prima volta che ho annunciato che mi sarei candidata per il parlamento si sono messi a ridere. Poi ci ho riprovato e alla fine ce l’ho fatta”, dice Peris Tobiko, la prima donna masai diventata parlamentare in Kenya.

Quando le donne sono al potere, a livello locale o nazionale, possono fare la differenza, soprattutto su temi come la parità e la violenza di genere. Ma la loro presenza in politica è ancora insufficiente.

Secondo i dati raccolti dall’Unione interparlamentare (Ipu) in 193 parlamenti di tutto il mondo, le donne siedono solo sul 23 per cento dei seggi. Appena un ministro su cinque è donna. Nel 2017 il numero delle donne capo di stato o di governo nel mondo è sceso da 17 a 15.

Il paese con maggiore presenza femminile in parlamento è il Ruanda, dove il 61 per cento dei seggi è occupato da donne. A seguire la Bolivia con il 53 per cento di parlamentari donne e Cuba con il 49 per cento.

I leader del mondo si sono impegnati a raggiungere l’equilibrio di genere nella rappresentanza politica entro il 2030, ma si teme che i progressi fatti in questa direzione siano troppo lenti per raggiungere l’obiettivo.

Il video della Thomson Reuters Foundation.

Questo progetto è stato cofinanziato dall’European journalism centre, tramite il programma Innovation in development reporting grant.

Madre per altri

La scelta di Kathy, «un regalo speciale»

Intervista. Le ragioni che hanno spinto una donna americana a decidere di partorire una bimba per una coppia che non può avere figli.

di Luca Tancredi Barone – ilmanifesto.info, 1 febbraio 2016

C’è un fantasma che ieri si aggirava per il Circo Massimo. È lo spauracchio che brandiscono le famiglie «canoniche», la minaccia che mina i pilastri della società italica maschia, ordinata ed eterosessuale. È il male assoluto che temono uomini e donne di destra e di sinistra, eterosessuali e anche molti e molte omosessuali. Ha la faccia di Kathy, trentanovenne statunitense, acconciatrice ed estetista, due figlie di 9 e 6 anni, un marito italiano. E un sorriso bellissimo. Lei ha scelto di essere una gestante per altri, una madre surrogata. Le tre parole che secondo lei definiscono le persone che decidono di fare la sua scelta sono «altruismo, orgoglio, regalo».

Perché ha deciso di prestarsi a portare in grembo il figlio di qualcun altro?
C’è una cosa che unisce me e mio marito: la voglia di aiutare gli altri, di restituire alla società qualcosa in cambio di tutte le opportunità che abbiamo ricevuto dalla vita. Ognuno ha scelto di farlo a modo suo. Essere gestante per altri è una cosa speciale che possono fare solo le donne. Sapevo che non desideravamo altri figli per noi. L’esperienza delle mie gravidanze mi era piaciuta. Durante la mia vita ho conosciuto moltissime coppie frustrate per le loro difficoltà ad avere figli. E ho un’amica del liceo che lo ha fatto, leggere il suo blog mi ha ispirato.

Che bisogna fare per diventare gestanti per altri?
Io mi sono rivolta a un’agenzia. Negli Stati Uniti ce ne sono decine. Io ne ho scelta una che lavorava localmente con madri e coppie del Texas e gestita da una donna. Bisogna fare domanda, superare una serie di esami psicologici, fisici ed economici. Ovviamente vogliono che tu sia fisicamente sana, ma anche che sia una persona equilibrata, capace di saper gestire le difficoltà – a volte ci vuole del tempo per rimanere incinta -, di saperti mettere in relazione con gli altri – perché dovrai mantenere un rapporto con i futuri genitori durante tutto il processo -, che abbia già avuto figli, e che non abbia alcuna difficoltà finanziaria o bisogno di denaro.

Come ha incontrato i futuri genitori?
La prima coppia che ho incontrato era una coppia eterosessuale. All’inizio, ti ci fanno parlare per telefono, poi ti incontri da qualche parte per chiacchierare. Ma con quella coppia non c’è stata chimica. Il marito era simpatico, ma la moglie era troppo ossessiva. Avevo l’impressione che avrebbe voluto controllare la mia vita, quello che mangiavo, quando riposavo. Così ho chiesto all’agenzia di farmi incontrare una coppia gay, perché mi sembrava che così nessuno avrebbe voluto amministrare il mio corpo. Per me è importante stabilire una relazione di fiducia: fai quel che è giusto, ci fidiamo. Dopo una settimana ho incontrato questa coppia di papà: tra l’altro, uno dei due è italiano, all’agenzia sembrava l’accoppiamento ideale con noi. Una donatrice anonima ha fornito gli ovuli, ed è nata una bella bambina 11 mesi fa.

Lo rifarebbe? Com’è stata l’esperienza?
Dal punto di vista emotivo e mentale, bellissima. Fisicamente invece ci sono state delle complicazioni gravi alla fine della gravidanza. Tanto che è finita con un’isterectomia, per cui non lo potrei rifare, no.

Un trauma, quindi.
Ci siamo spaventati quando abbiamo saputo che la placenta era cresciuta fuori dall’utero e che questo avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita. Mi hanno costretto al riposo assoluto. È durata tre settimane, fino al parto che è stato anticipato per questo. C’è stata una convalescenza più lunga che per un cesareo normale, ma si sono tutti presi cura di me, anche i papà della bimba. Io davo loro il latte – anche se questa è una scelta libera di ciascuna gestante – e loro mi portavano i pasti in ospedale. Ma, spavento a parte, l’esperienza è stata comunque molto bella.

Come lo ha spiegato a suo marito e alle sue figlie?
Con mio marito è stato facile: condivide il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno. Con loro anche: ho dato loro una spiegazione molto concreta. Farò crescere un bimbo che non è mio per una famiglia che non lo può fare. Alle poche domande che hanno fatto, abbiamo risposto con tutta la precisione necessaria. Abbiamo anche spiegato la scienza che c’è dietro, che un dottore ha messo assieme le cellule e le ha messe dentro di me. Ora la adorano, e la trattano come una cuginetta.

Quindi mantenete i contatti con loro?
Certo. Sono una coppia bellissima, siamo diventati molto amici. C’è un’ammirazione reciproca. Loro, molto affettuosi, mi definiscono addirittura la loro hero. Li capisco, chiunque faccia questo regalo a una coppia sterile diventa il loro eroe.

E gli amici, come hanno reagito?
In generale, bene. Solo una mia amica, il cui marito è stato adottato, mi ha chiesto: perché non adottano invece di ricorrere a questa tecnica? Ma a parte lei, gli unici problemi sono venuti dal lato italiano della famiglia. Hanno fatto un sacco di domande. Sono sicura che non erano del tutto sinceri con me – penso che non abbiano capito davvero tutto il processo, anche se non mi hanno mai criticata apertamente. Ma i silenzi a volte possono essere molto espliciti.

Ci sono molte donne che credono che sia una violenza separare un figlio dalla madre biologica, e che prestarsi a portare il figlio di altri sia una forma di schiavitù femminile.
Mi sembra ridicolo. Non stai separando nessuno dai suoi genitori, non lo penso io e non lo penserà neppure lei quando crescerà. Non perché sia uscita dal mio grembo necessariamente ha a che vedere con me. La sua famiglia lei ce l’ha. Quanto alla schiavitù. Ovviamente, c’è una linea sottile. Sì, sono stata compensata anche io. Ma le dirò una cosa: la fatica non vale proprio i soldi che ti danno! All’inizio devi sottometterti a iniezioni dolorose per dieci settimane. Prendere farmaci e ormoni. Poi la fatica della gravidanza. E magari, come nel mio caso, finisci col rischiare la vita. Nessuna quantità di denaro ti ripaga per tutto questo. Ci saranno persone che lo fanno per soldi, non lo so. Ma la maggior parte delle persone lo fa per altri motivi. Quanto ai soldi, io la vedo così. Se esci la sera e devi prendere una baby sitter, o devi mandare tuo figlio all’asilo, paghi qualcuno per prendersi cura di tuo figlio o tua figlia. Per me è lo stesso per la surrogazione: paghi una persona perché si prenda cura di tuo figlio per nove mesi e per assicurarti che prenda tutte le precauzioni possibili per non fargli del male.

C’è una regolamentazione giuridica per tutto ciò?
Oh sì! Prima ancora di cominciare devi firmare 200 pagine di contratto legale, in cui c’era scritto che io ero solo responsabile di prendermi cura di me stessa. Nel contratto si esplicitava tutto. Per dire, loro avevano l’obbligo di identificare 3 persone di backup disposte a prendere in adozione il bambino nel caso fossero morti in un incidente prima del parto. È tutto molto controllato per proteggere la portatrice, i genitori e anche il bambino.

Sa che in Italia qualcuno ha proposto di condannare con due anni di carcere e un milione di multa chiunque faccia uso di questa tecnica per ottenere un figlio?
Sono basita. Pensa che, nel nostro caso, il papà “principale”, quello che è apparso subito sul certificato di nascita del bimbo, è proprio l’italiano. Ma lo trovo anche interessante. Nella mia agenzia, ho conosciuto una donna che venne dall’Italia e che finse con la sua famiglia di essere rimasta incinta negli Stati Uniti. Tornò a casa con il bimbo, senza raccontare come l’aveva avuto davvero. Mi era sembrato curioso. Ora la capisco molto meglio.

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«Perché io, donna e studiosa, dico no alle “madri in affitto”»

Daniela, la rappresentante per l’Italia al convegno mondiale che ha chiesto il divieto dell’utero in affitto: «La madre è quella che partorisce. Così si crea un mercato di bambini».

di Chiara Pizzimenti – vanityfair.it, 6 febbraio 2016

«La madre è quella che partorisce, punto. Non si può creare un mercato di bambini». Daniela Danna è forse la maggiore esperta italiana sulla maternità surrogata. Ricercatrice all’Università degli studi di Milano e insegnante di politica sociale, era a Parigi a rappresentare l’Italia al convegno sull’utero in affitto.

Il tema, è bene ripeterlo, non è inserito nel disegno di legge Cirinnà che regolamenta le Unioni Civili. Queste pratiche sono peraltro vietate in Italia dalla Legge 40. Eppure si parla più di questo argomento che degli articoli effettivamente presenti nel testo. «Forse unioni civili e stepchild adoption andavano separate. Così il testo sarebbe stato meno attaccabile sulla questione della maternità».

Lei era a Parigi all’incontro organizzato per dire no alla maternità surrogata.
«Abbiamo chiesto a tutti gli Stati di non permettere questa forma oppressiva con contratti perché va contro le basi della civiltà. Non può esistere un obbligo economico e giuridico di questo tipo».

Qual è secondo lei il rischio?
«Che la donna diventa una “fattrice contrattualizzata”, attrice di un mercato di bambini».

Come in India?
«Sì, un Paese con una grande disuguaglianza sociale, direttamente proporzionale alla possibilità di pagare una donna un’inezia per portare a termine una gravidanza. La donna non compare sul certificato di nascita e non può rivendicare la continuità alla crescita del figlio o della figlia».

Chi è secondo lei la madre?
«La madre è colei che resta incinta, anche con una fecondazione extracorporea, e poi partorisce. Nella gestazione il neonato o la neonata in divenire non hanno cognizione della madre biologica, della donatrice dell’ovulo, ma di chi li sta portando. Poi le madri possono essere più di una, una sociale e una biologica».

Nel suo ultimo libro, Contract Children. Questioning Surrogacy, lei spiega che in italiano sostituirebbe il termine «surrogata» con «maternità per altri».
«Sì, è la promessa che una donna fa ad altre persone di portare a termine una gravidanza e lasciare poi il bimbo alla cura di queste persone».

Se una persona senza contratto, per libera scelta, volesse partorire per altri, per lei sarebbe fattibile?
«Assolutamente sì a una gestazione per altri che sia etica, cioè libera, volontaria e gratuita».

 

Obiezione Vostro Onore

segnalato da Barbara G.

Abortire a Roma? Dimenticatevelo! Una docu-inchiesta sulla legge 194

di Giulia Quercini – left.it, 23 settembre 2015

«La legge 194 è una legge che ha quasi 40 anni ed è figlia di lotte e rivendicazioni, ci sembrava giusto raccontare cosa stesse accadendo». Dicono Claudia Torrisi, Filippo Poltronieri, Federica Delogu e Sebastian Viskanic, ex studenti della Fondazione Lelio Basso e autori dell’inchiesta-documentario, che Giovedì 24 settembre verrà trasmessa alle 21.20 su Rainews 24. La loro inchiesta Obiezione Vostro Onore, finalista della quarta edizione del Premio Roberto Morrione, si concentra sul tema del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza nella città di Roma, verificando quanto la legge 194 trova applicazione negli ospedali della capitale.

A Roma, secondo i dati raccolti dagli autori del documentario, 9 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza. Nonostante, quindi, la legge 194 sia applicata in Italia dal 1978, ancora non è facile per le donne che decidono di intraprendere un aborto portarlo a termine nelle strutture pubbliche ospedaliere, tenute per legge a offrire il servizio. Questo perché al diritto della donna di decidere del proprio corpo si sovrappone un altro diritto: quello del medico a esercitare l’obiezione di coscienza, non effettuando interruzioni di gravidanza. La facilità con cui l’obiezione di coscienza può essere posta, compilando un semplice modulo e revocata, senza dover addurre motivazioni, determina un dilagarsi del suo utilizzo.

Percentuale obiettori di coscienza a Roma

Dall’inchiesta emerge che solo nella città di Roma ci sono almeno tre ospedali che non garantiscono il diritto ad abortire: il Centro per la donna Sant’Anna, l’Ospedale Sant’Andrea e il Policlinico Tor Vergata, due dei quali sono policlinici universitari, dove vengono formati i nuovi ginecologi. Anche negli ospedali in cui si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza i problemi a cui vanno incontro le donne sono molti: «Si ha la sensazione di un percorso a ostacoli, ci si sente invisibili e abbandonate in una scelta che richiederebbe agevolazioni e supporto» racconta Valentina, che alle 5 di mattina è insieme ad almeno altre dieci donne, in attesa del suo turno in un sottoscala dell’ospedale San Camillo, davanti ad una porta di vetro sbarrata.
C’è però un altro tipo di interruzione di gravidanza, di cui si parla pochissimo, ed è effettuata dopo il primo trimestre: l’aborto terapeutico. Questo è effettuato per legge dopo il primo trimestre, nei casi di pericolo per la vita della donna o se gli esami a cui si è sottoposta hanno evidenziato gravi malformazioni del feto. Se la donna sceglie di interrompere una gravidanza dopo il terzo mese si rende necessario ricoverarla per qualche giorno e indurre il parto. Per questo i medici non obiettori devono organizzare i loro turni per seguire la paziente, ma spesso negli ospedali i non obiettori sono così pochi che le donne devono attendere per ore, in locali non idonei. Roma è solo l’esempio di come questa legge, in tutta Italia, e in particolare al sud, fatica ancora a trovare una vera applicazione.
Obiezione vostro onore è un’inchiesta che denuncia e porta davanti agli occhi di tutti una cruda verità: la garanzia del diritto all’aborto non è ancora una realtà consolidata in Italia e per le donne non è facile usufruire di un diritto che dovrebbe essere già ampiamente affermato.