Donald Trump

Un razzista alla Casa Bianca

Stephen Bannon, un razzista alla Casa Bianca

Il 28 gennaio 2017 Donald Trump ha invitato Stephen Bannon, già consulente strategico del presidente, a far parte del Consiglio nazionale per la sicurezza, un posto normalmente riservato a esperti militari.

internazionale.it, 04/02/2017 – da Die Zeit, Traduzione di Nicola Vincenzoni

Le elezioni presidenziali statunitensi sono passate da pochi giorni e la normalizzazione di Donald Trump è già cominciata. I mezzi d’informazione riferiscono con sollievo che forse Trump non vuole costruire un muro lungo tutto il confine con il Messico, ma una combinazione di muro e recinzioni. O che risparmierà un paio di capitoli della riforma sanitaria voluta dal suo predecessore Barack Obama. Da alcuni giorni si parla anche della nuova vita della futura famiglia presidenziale: si è scritto che Trump continuerà a trascorrere i fine settimana a New York, e che suo figlio è sembrato molto assonnato quando, alle tre di notte, il padre ha tenuto il discorso di accettazione della presidenza.

Anche i nomi di chi occuperà i ruoli chiave della prossima amministrazione sono annunciati come se fossero una cosa normale. Come capo del suo staff Trump ha scelto il repubblicano Reince Priebus, 44 anni, che avrà compiti amministrativi e coordinerà gli uffici del presidente. Come consulente strategico invece il presidente eletto ha voluto accanto a sé Stephen Bannon, esponente di punta della alt-right(alternative right, l’estrema destra) e già responsabile della sua campagna elettorale.
Ma la nomina di Bannon non è affatto una cosa normale. Con lui entra nei ristretti circoli del potere un uomo che non ha mai fatto mistero di voler distruggere il governo di Washington e rimpiazzarlo con un movimento nazionalista. Il fondato timore è che Trump continuerà ad ascoltare i consigli di Bannon anche ora che è diventato presidente.

L’influenza di Bannon traspare già dal comunicato stampa rilasciato dalla squadra di Trump, in cui il consulente strategico viene citato come figura istituzionale di spicco prima ancora di Priebus. Trump, infatti, ha bisogno di Bannon. È riuscito a battere la rivale democratica Hillary Clinton, ma ora ha inizio una nuova fase per la quale non ha ancora un piano. A questo penserà Bannon. Già durante la campagna elettorale è stato il principale ideologo dell’avanzata di Trump, che ha un debole per quest’uomo disciplinato, intelligente ed estraneo all’ambiente di Washington proprio come lui.

Priebus, che finora è stato presidente del comitato nazionale repubblicano, una sorta di segretario del partito, ha buone relazioni nel congresso e con il presidente della camera Paul Ryan, che Trump e Bannon disprezzano perché in campagna elettorale ha preso le distanze dal candidato repubblicano. A Priebus, che in teoria dovrebbe essere il secondo uomo più potente della Casa Bianca, rimarrà solo il ruolo dell’amministratore che manda avanti la detestata macchina politica.

Per quanto tempo? Almeno fino a quando Bannon non avrà raggiunto il suo obiettivo: trasformare il Partito repubblicano in un partito etno-nazionalista e distruggere l’“agenda globale” repubblicana basata sul libero commercio e su politiche migratorie moderate. Fino a che non avrà fatto piazza pulita delle élite. Gli strumenti per la sua crociata li ha magistralmente messi a punto negli ultimi anni: razzismo, antisemitismo, odio per l’establishment.

Un nemico per tutti
La postazione da cui finora ha tessuto la sua trama è il sito di informazione di destra Breitbart News. Bannon lo dirige da quattro anni e lo ha trasformato in una piattaforma per tutti gli statunitensi bianchi che si sentono, o hanno cominciato a sentirsi, stranieri nel proprio paese. Non ha temuto di mostrarsi vicino ai neonazisti o al giovane movimento alt-right nato nelle chat su internet e ossessionato dalla virilità e dai “privilegi dei bianchi”.

Sul suo sito Bannon è riuscito a far convergere la rabbia dell’estrema destra, finora completamente disorganizzata, verso l’islam, gli omosessuali, gli ebrei e la società liberale. Su Breitbart il femminismo è paragonato al cancro e Obama è accusato di aver “importato” negli Stati Uniti sempre più musulmani “colmi d’odio”. Le notizie hanno titoli come: “Clandestino già rimpatriato in passato viene filmato mentre distrugge un manifesto elettorale di Trump”; “La polizia mette in guardia contro un’escalation di stupri a Malmö dovuti alla presenza di immigrati”; “Immigrato siriano accusato di pluriomicidio con fucile d’assalto”.

Con Breitbart, Bannon ha creato una piattaforma che unisce tutti contro un unico nemico: la classe politica di Washington. E in Donald Trump ha visto lo strumento con cui rovesciare l’establishment repubblicano.

A ottobre Breitbart ha avuto 37 milioni di visitatori. Eppure l’influenza esercitata dal sito continua a essere sottovalutata dai mezzi d’informazione tradizionali. Per la società di analisi Newswhip, Breitbart è la principale fonte dei contenuti politici pubblicati sui social network in tutto il mondo. Gli articoli di Breitbart sono più letti di quelli di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal messi insieme. Tra maggio e giugno più di nove milioni di persone hanno letto o condiviso articoli di Breitbart su Facebook e Twitter. Il Washington Post arriva a 3,3 milioni di utenti, il Wall Street Journal a 2,9. Il New York Times non è nemmeno tra i primi venti.

Di fronte a questi numeri non sorprende che la maggioranza degli elettori di Trump pensi ancora che Barack Obama sia musulmano. Durante la campagna elettorale, Breitbart è stato per Trump quello che la National Review era stato per Ronald Reagan o Fox News per George W. Bush. Ora diventerà la voce ufficiale dell’amministrazione Trump? Una macchina propagandistica del futuro che con campagne diffamatorie, bugie, mezze verità e tirate contro il senso comune detterà la rotta ai mezzi d’informazione tradizionali?

E l’Europa sarà più preparata ad affrontare il fenomeno? Breitbart progetta di espandersi a Parigi e a Berlino. Dal 2014 il sito ha un ufficio a Londra, che ha contribuito alla vittoria del leave al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Il direttore della redazione londinese è stato uno stretto collaboratore di Nigel Farage, il leader del partito euroscettico di destra Ukip.

Bannon non vuole cambiare solo gli Stati Uniti. Vuole creare un movimento mondiale mettendo insieme i partiti e i gruppi nazionalisti accomunati dall’odio per le élite globali. Le elezioni che si terranno nel 2017 in Francia, Germania e Paesi Bassi rappresentano i prossimi fronti di questa battaglia. In una delle sue rare interviste, Bannon ha dichiarato: “La politica statunitense è cambiata in modo fondamentale. In tutto il mondo le persone vogliono più controllo sulla loro terra, sono orgogliose della loro patria. Vogliono i confini. Vogliono la sovranità. Il nostro movimento è solo l’inizio”.

Il fuoco della patria
Nell’ultimo anno Bannon ha dimostrato di padroneggiare abilmente tutti i mezzi della propaganda. Il New York Times e il Washington Post hanno pubblicato in prima pagina lunghi articoli sulla fondazione di Hillary Clinton e sulle sue discutibili pratiche finanziarie. Alla base delle inchieste c’era il libro Clinton cash, commissionato dal milionario Bannon. A scriverlo è stato uno storico del Governement accountability institute, l’istituto di ricerca fondato e finanziato dallo stesso Bannon. Il suo calcolo è stato che gli attacchi di quotidiani autorevoli avrebbero conferito maggiore credibilità a quelli di Trump e Breitbart. Il New York Times e il Washington Post hanno contribuito a seminare il dubbio, e Trump e Breitbart hanno raccolto i frutti. Perfino l’Fbi ha usato il libro per le indagini sulla Clinton foundation. Le accuse non sono mai state provate, ma sono state più che sufficienti per danneggiare l’avversaria di Trump.

Incontrando Stephen Bannon di persona si resta sorpresi prima di tutto dai suoi modi sommessi e riservati, che contrastano con la sua statura e la sua figura massiccia. Con il ciuffo biondo cenere spettinato e la barba di tre giorni, sembra sempre un po’ trasandato. Bannon ha servito nella marina statunitense, ha lavorato al Pentagono e ha studiato a Harvard. Ha fatto molti soldi, con Goldman Sachs prima e a Hollywood poi. Ha lavorato con Sean Penn ed è tra i produttori di Seinfeld, la serie tv di successo per la quale ancora oggi incassa ricche percentuali.

Un bel giorno finanziare i film degli altri non gli è bastato più, così Bannon ha cominciato a produrre i propri, che riflettono la sua visione politica. Come soggetti ha scelto Ronald Reagan, il movimento Tea party e l’idolo della destra Sarah Palin. Nel documentario Fire from the heartland celebra Palin come un’eroina, una conservatrice che ama la sua terra e i suoi figli, è sposata e non appartiene “all’orda delle lesbiche”.

Bannon sentiva che gli Stati Uniti non avevano più eroi né valori chiari in cui credere. Gli attacchi dell’11 settembre e gli effetti sovversivi della cultura liberale avevano ferito a morte il paese. Nel 2012 si è trasferito a Washington e ha cominciato a lavorare alla sua idea del paese alternativa, di destra e nazionalista. Ha sostenuto chiunque condividesse il suo obiettivo di distruggere il sistema di Washington: prima il Tea party, poi Sarah Palin e ora Trump. Oggi alcuni di loro saranno ricompensati: al momento Palin è candidata alla carica di segretaria dell’interno.

All’origine del suo odio per la classe dirigente progressista, ha raccontato una volta Bannon, c’è la crisi finanziaria. Dopo il crac del 2008 suo padre, un umile impiegato della Virginia, ha venduto tutte le sue azioni per paura della bancarotta e ha perso la pensione. Le banche invece sono state salvate da Washington.

Ma c’è un’altra storia che descrive bene lo spirito di Bannon: stando a quanto dichiarato nel 2007 dalla ex moglie e riportato negli atti giudiziari di una disputa sugli alimenti, non voleva che le sue figlie frequentassero una scuola in cui c’erano anche allievi ebrei. Il motivo, ha detto all’epoca, è che non ama gli ebrei perché educano i figli come rammolliti

Insulti e minacce
Il giornalista della National Review David French ha sperimentato di recente fino a che punto può spingersi l’odio degli attivisti del movimento alt-right, a cui il sito di Bannon ha offerto uno spazio pubblico. In un articolo French aveva criticato la scrittrice e opinionista Anne Coulter, una celebre sostenitrice di Trump, per aver adottato il linguaggio razzista dell’estrema destra. In risposta gli esponenti della alt-right hanno pubblicato sull’account Twitter di French un’immagine in cui si vede la figlia adottiva, una bambina etiope di 7 anni, in una camera a gas. Poi se la sono presa con la moglie, insultandola per essere andata a letto con un nero.

Quello di French non è un caso isolato. Secondo la Lega antidiffamazione, che ha protestato contro la nomina di Bannon come consulente strategico, il numero dei commenti antisemiti in rete, soprattutto indirizzati ai giornalisti, è decisamente aumentato. E spesso provengono dai sostenitori di Trump. Ma naturalmente il futuro presidente non può essere accusato di nulla. È questo il bello del metodo Bannon.

Pochi giorni dopo la nomina di Bannon, il suo entourage è tornato ad attaccare la stampa: Breitbart ha annunciato di voler querelare una pubblicazione anonima in cui il sito è etichettato come “nazionalista bianco”. Bannon è ancora il direttore esecutivo di Breitbart News.

Tutto ciò non sfugge ai repubblicani a Washington, che però sono rimasti sorprendentemente muti davanti alla nomina di Bannon. Si concentrano sulla figura di Priebus, come se potessero ignorare il fatto che l’uomo chiamato a occupare la seconda carica del paese è intenzionato a distruggere il loro partito.

Bannon non si ferma nemmeno davanti all’Europa. Mentre Breitbart cerca una sede a Berlino e a Parigi, lui stringe contatti politici. Su Twitter la nipote della presidente del Front national Marine Le Pen ha già accettato un invito a collaborare. Nigel Farage è stato ricevuto dal presidente eletto degli Stati Uniti nella Trump tower a New York. La normalizzazione è cominciata. Se riuscirà, nulla sarà più come prima.

Governo fossile

Le industrie sporche spendono sempre più in politica per mantenerci nell’era fossile.
di George Monbiot – 19 gennaio 2017 – the Guardian

Facciamo aspettare l’America di nuovo. Questa è la sostanza della politica energetica di Trump. Fermate tutti gli orologi, mettiamo la rivoluzione tecnologica in attesa, assicuriamoci che la transizione dai combustibili fossili all’energia pulita sia ritardata il più a lungo possibile.

Trump è il presidente che i luddisti delle multinazionali sognavano; l’uomo che consentirà loro di spremere ogni cent rimasto dalle loro riserve di petrolio e carbone prima che diventino senza valore. Loro hanno bisogno di lui perchè la scienza, la tecnologia e le domande della gente per un mondo sicuro e stabile li hanno lasciati a terra. Non c’è nessuna battaglia giusta che possano vincere, quindi la loro ultima speranza sta in un governo che truccherà la competizione.

A questo scopo Trump ha nominato nel suo gabinetto alcuni di questi responsabili di un crimine universale: inflitto non a particolari nazioni o gruppi, ma a tutti quanti.

Ricerche recenti suggeriscono che – se non vengono prese misure drastiche del tipo previsto dall’accordo di Parigi sul cambiamento climatico – la perdita di ghiaccio nell’Antartico potrebbe far salire i livelli dei mari di un metro in questo secolo e di quindici metri nei secoli seguenti. Combinate questo con lo scioglimento in Groenlandia e l’espansione termica delle acque marina e scoprirete che molte delle grandi città del mondo sono a rischio esistenziale.

Lo sconvolgimento climatico di zone agricole cruciali – in Nord e Centro America, Medio Oriente, Africa e buona parte dell’Asia – presenta una minaccia alla sicurezza che potrebbe sovrastare tutte le altre. La guerra civile in Siria, se non vengono adottate politiche risolute, ci fa intravedere il possibile futuro globale.

Questi non sono, se i rischi si materializzano, cambiamenti a cui possiamo adattarci. Queste crisi saranno più grandi della nostra capacità di rispondere ad esse. Potrebbero portare alla rapida e radicale semplificazione della società, il che significa, per dirla brutalmente, la fine della civilizzazione e di molte delle persone che sostiene. Se questo accade sarà il pi grande crimine mai commesso. E vari membri del gabinetto proposto da Trump sono tra i principali responsabili.

Nelle loro carriere, finora, hanno difeso l’industria fossile allo stesso tempo contestando le misure intese a prevenire la degradazione del clima. Hanno considerato i bisogni di pochi eccessivamente ricchi di proteggere i loro folli investimenti per alcuni anni ancora, soppesandoli contro le condizioni climatiche benigne che hanno permesso all’umanità di fiorire e hanno deciso che gli investimenti folli sono più importanti.

Nominando Rex Tillerson, amministratore delegato della società petrolifera ExxonMobil come segretario di stato, Trump non solo assicura all’economia fossile che siederà vicino al suo cuore; offre conforto ad un altro supporter: Vladimir Putin. È stato Tillerson che ha concluso l’affare da 500 miliardi di dollari tra la Exxon e la società statale russa Rosneft per sfruttare le riserve petrolifere dell’Artico. Come risultato gli è stato concesso da Putin l’Ordine Russo dell’Amicizia.
L’affare è stato stoppato dalle sanzioni che gli USA hanno imposto quando la Russia ha invaso l’Ucraina. La probabilità che queste sanzioni sopravvivano nella loro forma corrente al governo Trump è, fino all’ultimo decimale, la stessa di una palla di neve all’inferno. Se la Russia ha interferito nelle elezioni USA sarà lautamente ricompensata quando l’affare andrà avanti.

Le nomine di Trump a segretario per l’energia e agli interni sono entrambi negazionisti del cambiamento climatico, i quali – curiosa coincidenza – hanno una lunga storia di sponsorizzazioni da parte delle industrie fossili. La sua proposta per procuratore generale, il senatore Jeff Session, sembra abbia dimenticato di dichiarare nella sua lista di interessi personali che affitta terra ad una società petrolifera.

L’uomo nominato a guidare l’EPA (Environmental Protection Agency, Agenzia di Protezione dell’Ambiente, n.d.t.), Scott Pruit ha speso gran parte della sua vita lavorativa a fare campagna contro…l’Agenzia di Protezione dell’Ambiente. Come procuratore generale in Oklahoma ha aperto 14 indagini contro l’EPA, cercando tra le altre cose, di stroncare il Piano Energia Pulita, i suoi limiti al mercurio e altri metalli pesanti rilasciati dalle centrali a carbone e la sua protezione delle forniture di acqua da bere e della fauna. In tredici di queste indagini sarebbero coinvolte come parti in causa delle società che hanno finanziato la sua campagna politica o comitati affiliati a lui.

Le nomine di Trump riflettono quel che io chiamo il Paradosso dell’Inquinamento. Più una società è inquinante e più denaro deve spendere in politica per accertarsi che non vengano stabilite regole che la costringono a chiudere. I finanziamenti delle campagne quindi finiscono per essere dominati da società sporche, che si assicurano di esercitare la più grande influenza, con l’esclusione conseguente dei loro rivali più puliti. Il gabinetto di Trump è imbottito di gente che deve la propria carriera politica alla sporcizia.

Si poteva una volta sostenere, giusto o no, che i benefici umani dati dallo sviluppo delle attività estrattive di combustibili fossili potevano superare i danni. Ma la combinazione di una scienza climatica più sofisticata, che ora presenta i rischi in termini crudi e il costo in caduta delle tecnologie pulite rende questo argomento altrettanto obsoleto di una centrale a carbone.

Mentre gli USA si rintanano nel passato, la Cina sta investendo massicciamente in energie rinnovabili, auto elettriche e nuove tecnologie per le batterie. Il governo cinese sostiene che questa nuova rivoluzione industriale genererà 13 milioni di posti di lavoro. Questo, in contrasto con la promessa di Trump di creare milioni di posti di lavoro attraverso la rianimazione del carbone, ha almeno una chance di materializzarsi. Non si tratta solo del fatto che tornare ad una vecchia tecnologia quando ne sono disponibili di migliori è difficile; è anche che l’estrazione del carbone è stata automatizzata fino al punto che ora offre pochi posti di lavoro. Il tentativo di Trump di far rivivere l’era fossile non servirà a nessun altro che ai baroni del carbone.

Comprensibilmente i commentatori hanno cercato lampi di luce nella posizione di Trump. Ma non ce ne sono. Non potrebbe averlo detto più chiaramente, attraverso le sue dichiarazioni pubbliche, la piattaforma Repubblicana e le sue nomine, che intende chiudere i fondi nella maggior misura possibile sia per la scienza climatica che per l’energia pulita, stracciare l’accordo di Parigi, mantenere i sussidi ai combustibili fossili e annullare le leggi che proteggono le persone e il resto del mondo vivente dall’impatto dell’energia sporca.

La sua candidatura è stata rappresentata come una ribellione che sfida il potere costituito. Ma la sua posizione sul cambiamento climatico rivela quel che avrebbe dovuto essere ovvio fin dall’inizio: lui e il suo team rappresentano il potere in carica e combattono le tecnologie ribelli e le sfide politiche a un modello di business moribondo. Essi tratterranno la marea di cambiamento per quanto a lungo potranno. E poi la diga esploderà.

fonte: http://www.monbiot.com/2017/01/20/the-pollution-paradox/

(trad. Lame)

Non resta che Grillo

Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un optional. Così trionfa il voto anti establishment”

Il filosofo ed ex sindaco di Venezia analizza le ragioni politiche e sociali dell’elezione del repubblicano alla Casa Bianca: “È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di centrosinistra. Dall’immigrazione al lavoro, “la politica diventa populista solo in campagna elettorale. E senza più la sinistra, contro la ‘destra cattiva’ in Italia non resta che Grillo”.

di Fabrizio d’Esposito – ilfattoquotidiano.it, 10 novembre 2016

Il Sistema, con la maiuscola, ormai esplode ovunque, non solo in Europa. Il professore Massimo Cacciari, filosofo nonché ex sindaco di Venezia, per lustri ha tentato invano di dare contenuti a un riformismo vero per il centrosinistra italiano.

La sconfitta di Hillary Clinton rade al suolo un’epoca. Un quarto di secolo a discettare di Terza Via, ulivismo mondiale, sinistra liberal e altre amenità.
È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di sinistra o centrosinistra. Lo stesso Trump ha vinto nonostante il Partito Repubblicano. Una riflessione analoga si può fare per la Brexit. Io uso questo termine: secessio plebis.

Secessione della plebe. Il popolo. La sinistra, appunto, com’era una volta.
Ovviamente l’effetto del tracollo è più eclatante per le forze democratiche e socialdemocratiche perché sono state soprattutto loro a non comprendere i fenomeni che ci hanno condotto a tutto questo.

L’elenco è lunghissimo.
La moltiplicazione delle ingiustizie e delle diseguaglianze; il crollo del ceto medio; lo smottamento della tradizionale base operaia; l’incapacità di superare lo schema di welfare basato sulla pressione fiscale. Oggi l’unico sindacato che conta è quello dei pensionati e a mano a mano che si pensionavano i genitori sono emersi i figli precari, i figli pagati con il voucher, i figli ancora a carico della famiglia.

La classe dirigente, a destra come a sinistra, ha pensato solo a diventare establishment.
Non è solo questo perché non era semplice prevedere cambiamenti colossali e un Churchill o un Roosevelt non nascono in ogni epoca. Anzi.

Quasi trent’anni fa ormai, in Italia furono pochissimi, tra cui lei, a capire movimenti come la Lega.
Avevi voglia a dire che a Vicenza gli operai votavano Lega oppure che la sinistra a Milano la sceglievano solo contesse e contessine di via Montenapoleone.

Adesso Bersani, per quel che vale, dice: “Basta con la retorica blairiana”.
La sinistra è stata a rimorchio delle liberalizzazioni e dei poteri forti. Ma l’immagine di una donna liberal di sinistra a Wall Street è una contraddizione in termini.

L’ex comunista Napolitano, oggi presidente emerito della Repubblica, se la prende pure con il suffragio universale.
Ecco, appunto. È la conferma che le élite liberal si sono adeguate al trend burocratico e centralistico.

La tecnocrazia al posto delle elezioni.
La partecipazione è diventata un optional.

Di qui la secessio plebis. O il populismo, se vuole.
A me non interessa come definire il fenomeno, a me preme capirlo. Tutti sono populisti in campagna elettorale. Francamente il punto non è questo. Io voglio comprendere questi fenomeni sociali, poi chi li rappresenta può avere un tono o l’altro.

Ora tocca all’Europa.
Dove gli effetti dell’immigrazione sono devastanti. Ma è necessario fare una premessa: l’Europa non sono gli Stati Uniti.

Cioè?
Dove c’è un impero la politica la fa l’impero.

Non Trump, quindi.
Esatto. In fondo basta sentire le sue prime dichiarazioni concilianti.

In Europa, invece?
La storia è matematica, non sbaglia mai. E in assenza di politiche efficienti e credibili, non banali promesse, ci sono tre tappe nel nostro continente. La prima è quella del malcontento o della secessio plebis di cui ho già parlato.

Poi?
Sparare contro i Palazzi, infine l’affermazione di una destra cattiva anti-immigrazione. Penso a Le Pen, Farage, Orban, Salvini e Meloni.

Grillo no?
No, Grillo non fa parte di questa destra cattiva. Ho scritto un articolo su chi saranno i Trump d’Europa e concludo proprio così: in Italia non resteranno che i Cinquestelle.

Un argine contro la peggiore destra.
Renzi si è fatto establishment. Per questo i suoi tentativi populistici puzzano parecchio.

Quale sarà l’effetto Trump sul referendum del 4 dicembre, se ci sarà?
Vedo due tendenze. Da un lato può galvanizzare le forze che vogliono mandare Renzi a casa.

Dall’altro?
In questo clima, gli italiani potrebbero scegliere l’opzione ritenuta più tranquilla e meno traumatica, cioè il Sì.

Io voglio la donna giusta

Susan Sarandon

Susan Sarandon: “La mia Hollywood ha il cuore che batte solo per Sanders”

L’attrice e icona liberal racconta il suo impegno nella sfida democratica: “Dobbiamo tutti dire no al potere delle lobby incarnato da Hillary”.

di Silvia Bizio – Repubblica.it, 24 aprile 2016

Susan Sarandon è da sempre la pasionaria di Hollywood, lo spirito della sinistra americana fatto persona. Per questo da anni – insieme a star come Tim Robbins, suo ex compagno, e Sean Penn – si batte sia per i diritti civili che contro il militarismo di Washington, contro guerre come quella in Iraq. In questi ultimi mesi, però, la sua battaglia è tutta per il più progressista, tra i candidati alla presidenza: il democratico Bernie Sanders. L’abbiamo incontrata al Four Seasons Hotel di Los Angeles, per parlare del suo impegno elettorale e del perché non bisogna arrendersi: non solo davanti a una cinepresa, ma anche nel provare a cambiare le cose.

Susan, è lei la vera portavoce di Sanders…
“Cerco di fargli avere maggiore visibilità, visto che rispetto a Donald Trump e a Hillary Clinton è meno seguito dai media. In tutta la vita, non ho mai visto un candidato attivo in politica da tanto tempo che non abbia mai accettato soldi dall’industria farmaceutica, pertrolifera o da Wall Street. Quando si è candidato per le primarie, l’ho chiamato e gli ho detto, “Bernie, faccio tutto quello che vuoi!”. E sono subito andata in Iowa per i caucus”.

Clooney si è “pentito” del sostegno a Hillary: perché non piace più alle star liberal?
“Per quanto mi riguarda per la guerra, soprattutto. Sanders ha sempre parlato contro i nostri troppo facili interventi bellici. Ed è per il motivo uguale e contrario che ho smesso di credere in Hillary Clinton. Sanders è uno che non si mette a difendere i diritti dei gay quando è comodo: lo ha sempre fatto. Affronta i problemi quando non sono di moda, non esita ad affermare che i ricchi devono pagare più tasse, si batte per alzare il salario minimo a 15 dollari l’ora. Ne parlava quando si diceva fosse impossibile, e ora sta succedendo. Hillary è andata ad appoggiare la proposta di aumentare il salario minimo a 15 dollari a New York accanto al governatore, prendendosi il merito”.

E sull’ambiente, che sta tanto a cuore anche ad altre star (Leonardo di Caprio, ad esempio), chi la convince?
“Ora Hillary dice di appoggiare nello stato di New York la legislazione anti fracking, la trivellazione idraulica, pericolosissima per l’ambiente. Ma in realtà ha incoraggiato il fracking in tutto il mondo”.

Sanders, nonostante la sua età, ha risvegliato la coscienza politica di tanti giovani: secondo lei perché?
“Non parla come un politico, dice le cose come stanno e offre spiragli di un idealismo perduto su temi come la vera eguaglianza, la solidarietà sociale e il rigetto delle lobby e dei poteri forti. I giovani elettori sentono fortemente il suo messaggio”.

E Obama?
“Credo che il suo errore sia stato lasciare il movimento spontaneo, che noi chiamiamo “grass-root”, sul prato della Casa Bianca: ha smesso di coinvolgere il popolo nel suo modo di amministrare il paese. Molti giovani si sono disaffezionati”.

E se la Clinton dovesse vincere la candidatura?
“Gli ambientalisti e i verdi non la sosterranno. E piuttosto di votare per lei i giovani non andranno a votare”.

Ma come donna ha mai sentito la contraddizione di non appoggiare una donna “for President”?
“Io voglio la donna giusta. Hillary non rappresenta niente di quello che a me sta a cuore. Penso che a un certo punto avremo una donna, ma quella donna non dovrà essere incredibilmente ricca e non dovrà essere sposata a un ex presidente per diventare presidente. Ci sono tanti paesi che hanno donne leader, il nostro non sarebbe il primo paese nella storia del mondo: ma è più importante avere la persona migliore”.

Lei ha dichiarato che tra Hillary e Trump, sarebbe quasi meglio Trump. Era una provocazione. Ma se Trump diventasse davvero presidente?
“Impossibile. Cruz almeno ha qualche idea, Trump è solo un finto politico che vuole vincere e che riduce tutto a sport e spettacolo”.

Un altro fronte su cui alcune star di Hollywood, come Angelina Jolie, si stanno impegnando, è quello dei profughi che arrivano in Europa.
“Sono stata in Grecia lo scorso Natale per 10 giorni. Rispetto agli altri posti in cui sono stata dopo i disastri, dal Nepal ad Haiti, dove sapevi già arrivando quanti erano i morti e cosa andava fatto, quello che ho visto in Grecia mi ha angosciato di più: un costante flusso imprevedibile di disperazione. Bisogna che tutti noi facciamo di più”.