economia

Il potere di decidere il futuro modello di sviluppo

segnalato da Barbara G.

L’autostrada E80, di cui il ponte Morandi fa parte, sulle case di Staglieno, Genova © Afp

Quel ponte poggiato sui palazzi, immagine di un paese sfigurato. La sinistra ha molte buone occasioni per tornare in campo e occuparsi di territorio e buon governo

di Aldo Carra – ilmanifesto.it, 21/08/2018

Non ha fatto nemmeno in tempo a decollare la nuova analisi costi-benefici sulla Torino – Lione, che il crollo del ponte Morandi riapre la discussione sugli aspetti della politica delle infrastrutture: tempi e nessi tra progettazione e realizzazione, tra manutenzione e gestione, tra pubblico e privato, tra opere e modello di sviluppo. Si tratta di due vicende diverse e, per molti aspetti, di segno opposto. La Torino- Lione è un’infrastruttura pensata 30 anni fa ed appena avviata che già oggi appare, nei costi ambientali, sovradimensionata.

Negli anni Novanta l’andamento dell’economia, i nuovi flussi di traffico merci e le speranze di intercettare a Gioia Tauro i traffici Asia-Europa, facevano pensare ad uno sviluppo esponenziale dei volumi trasportabili e, quindi, alla necessità di nuove infrastrutture. Invece, stava per finire un’epoca tanto che oggi si temono la stagnazione e la deglobalizzazione. Nel frattempo i costi lievitano e traffici e ricavi previsti si riducono rendendo più ragionevole un radicale ripensamento dell’opera.

Nel caso Genova si tratta di un’opera stradale giudicata, al contrario, sottodimensionata. Completata 50 anni fa e pensata per i traffici prevedibili allora, è stata sottoposta a pressioni di intensità e peso enormemente più alte. Da qui, dai probabili limiti insiti nella progettazione, dalla sottovalutazione delle esigenze di manutenzione e limitazione del traffico che stridevano col carattere privatistico della gestione, il punto di rottura tra caratteristiche costruttive, dimensionamento strutturale e volumi di traffico che l’hanno attraversata. Da questo groviglio di problematiche il disastro che l’ha colpita.

Le due vicende, per quanto così diverse, ruotano attorno allo stesso tema: l’interazione tra infrastrutture e modello di sviluppo al quale esse sono organiche. Le infrastrutture hanno una lunga fase di incubazione, dalla ideazione alla realizzazione, dovrebbero essere progettate per avere una vita lunghissima, nascono per sostenere lo sviluppo presente, ma influiscono anche sulla sua evoluzione. Un ponte nasce per fluidificare i flussi di traffico, ma finisce anche per attrarne di nuovi e più pesanti. Esse contribuiscono, così, a cambiare gli stessi parametri sui quali si basa la loro progettazione. Così come risentono dei mutamenti che avvengono nel territorio in cui insistono. Basta guardare a come è cambiata la struttura economica dell’area genovese, da nodo centrale del “triangolo industriale” Genova-Torino-Milano ad area vasta di servizi che ruotano intorno alle attività portuali in uno scenario globale – la rivoluzione dei container – che ne ha fatto sempre di più una sede di puro transito di mezzi pesanti accentuato dallo sviluppo del terminal Voltri.

A questa mutazione delle attività produttive, purtroppo, non si è affiancato un parallelo e tempestivo ridisegno delle infrastrutture modali con un riequilibrio tra strada e ferrovia (il potenziamento del nodo ferroviario genovese non è ancora compiuto e segue, invece di precedere temporalmente, l’aumento dei volumi di merci movimentate).

Ecco allora che la relazione tra infrastrutture, modello di sviluppo e contesto economico appare in tutta la sua rilevanza. Per tutte le infrastrutture si possono trovare ragioni per realizzarle, ma nessuna infrastruttura è neutra. Si tratta sempre di decidere a quale idea di territorio, di economia, di qualità della vita e dello sviluppo essa corrisponda, a cosa serve e cosa genera. Si tratta di capire chi se ne avvantaggia, chi ne subisce danni e quali interessi la muovono. Non esiste la modernità a prescindere, come cieca soggezione a tutto ciò che è nuovo. Né la stella polare delle scelte infrastrutturali può essere l’industria dell’auto o il capitalismo rampante a profitto garantito dai pedaggi delle autostrade che, invece di investire correndo il rischio di impresa, si insedia nelle nicchie della rendita di posizione, nei settori prima pubblici, sviluppando un perfido intreccio tra capitale, impresa e politica.

Eppure tutto questo è accaduto e questi temi saranno al centro della discussione che si apre.

Si sentirà in essa anche la voce della sinistra? Nell’immaginario collettivo, e non sempre a torto, la sinistra è corresponsabile e complice di ciò che di negativo emerge oggi. Ed il governo parte col vantaggio, non sempre fondato, di apparire nuovo. Quella che si apre potrà essere comunque una fase interessante. Per fronteggiare l’emergenza presente e le situazioni che verranno a galla dai controlli che si faranno ad oltre mezzo secolo dal boom del cemento, si imporranno consistenti manutenzioni del territorio. Ed i temi degli investimenti pubblici, dei vincoli di bilancio e dei rapporti con l’Europa diventeranno centrali, così come quelli delle priorità tra grandi opere e manutenzione diffusa del territorio. E su questi temi non è detto che l’alleanza di governo possa procedere compatta e senza incrinature.

C’è, quindi, terreno per fare politica e per ricostruire una visione di sinistra dello sviluppo e del futuro. Sia a Genova che in tutta Italia abbiamo a che fare con un territorio tanto bello quanto fragile ed i disastri di diversa natura che periodicamente lo colpiscono sono figli o di una trascuratezza o di una forzatura violenta dell’uomo sulla natura.

Prenderci cura del nostro territorio con le sue grandi bellezze, accudirlo come un essere delicato, costruire un modello di sviluppo basato sulla sua salute, sul suo benessere intrinseco e su quello che può trasmettere a chi lo vive e lo visita, può essere un nuovo cammino da intraprendere per una sinistra oggi fuori gioco. E’ troppo? Si. Basta, comunque, che non vediamo più quella terribile foto che mostra il ponte “appoggiato” sui palazzi preesistenti. Anzi: ma come abbiamo potuto conviverci per tanti anni?

Contagio

La sinistra è malata da quando imita la destra

Le idee socialiste sono entrate in crisi quando governi di sinistra hanno applicato in economia le regole dei liberisti. E ora i progressisti rischiano di scomparire nel tentativo di emulare un’altra destra, quella xenofoba.

di Emiliano Brancaccio – espresso.repubblica.it, 11 agosto 2017
La sinistra è malata da quando imita la destra

Il declino dei partiti del socialismo europeo è oggetto in questi mesi di nuove interpretazioni. Passata di moda l’idea blairiana dell’obsolescenza della socialdemocrazia e dell’esigenza di una “terza via”, sembra oggi farsi strada una tesi più affine al senso comune: la sinistra è in crisi perché una volta al governo ha attuato politiche di destra. Con un certo zelo, potremmo aggiungere.

* * *

Consideriamo in tal senso le politiche del mercato del lavoro. Una parte cospicua delle riforme che hanno contribuito in Europa a diffondere il precariato è imputabile a governi di ispirazione socialista. In molti paesi, tra cui l’Italia e la Germania, il calo più significativo degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE è avvenuto sotto maggioranze parlamentari di sinistra. Con quali risultati? La ricerca scientifica in materia ha chiarito che questo tipo di riforme non contribuisce ad accrescere l’occupazione.

Con buona pace per i nostrani apologeti del Jobs Act, questa evidenza è ormai riconosciuta persino dalle istituzioni internazionali maggiormente favorevoli alle deregolamentazioni del lavoro. Il World Economic Outlook 2016 del Fondo monetario internazionale e l’Employment Outlook 2016 dell’OCSE ammettono che le politiche di flessibilità dei contratti non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione. Ricerche recenti del Fondo e di altri, inoltre, indicano che minori protezioni del lavoro sono associate a un aumento degli indici di disuguaglianza tra i redditi. Dinanzi a simili evidenze, non si può dire che siano fioccati molti ripensamenti da parte dei leader socialisti che hanno promosso tali politiche. Quasi tutti, anzi, ancora oggi sostengono la validità delle loro scelte.

* * *

Un esempio ulteriore attiene alle privatizzazioni. Una parte rilevante delle vendite di Stato avvenute in Europa nell’ultimo quarto di secolo è stata realizzata da governi di sinistra, tra cui quelli italiani ancora una volta in prima linea. Gli esponenti di tali esecutivi hanno giustificato le dismissioni in base a un’idea di inefficienza dell’impresa pubblica molto diffusa nel dibattito politico, ma che nella letteratura specialistica non trova adeguati riscontri empirici. L’OCSE, un’istituzione tra le più avverse alla proprietà statale dei mezzi di produzione, ha pubblicato nel 2013 uno studio da cui si evince che le grandi imprese pubbliche presenti nella classifica di Forbes registrano un rapporto tra utili e ricavi significativamente superiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. Lungi dall’approfondire queste analisi e avviare una riflessione critica sulle passate privatizzazioni, i vertici dei partiti socialisti appaiono tuttora ancorati alle vecchie credenze e risultano spiazzati dall’onda di riacquisizioni statali che è seguita alla crisi del 2008.

* * *

Elaborazione grafica di Giuseppe Fadda

Consideriamo infine le politiche di liberalizzazione finanziaria e di apertura ai movimenti internazionali di capitali. I partiti socialisti hanno sostenuto senza indugio tali misure. La favola della globalizzazione dei capitali quale fattore di stabilità, di pace e di emancipazione sociale è entrata a far parte dei punti programmatici fondamentali di tali forze politiche e ha soppiantato la vecchia e per certi versi opposta parola d’ordine dell’internazionalismo operaio. Dopo la grande recessione mondiale e la successiva crisi dell’eurozona, persino nei rapporti del Fondo monetario internazionale e delle altre istituzioni favorevoli alla liberalizzazione dei flussi finanziari sono state espresse grandi preoccupazioni circa gli effetti destabilizzanti della indiscriminata libertà di circolazione internazionale dei capitali. I leader socialisti tuttavia sono sembrati disorientati dal nuovo corso, per molti versi incapaci di adeguarsi al cambiamento interpretativo.

Come novelli zelig alla compulsiva ricerca di un’identità alla quale conformarsi, i partiti socialisti hanno insomma applicato le ricette tipiche della destra liberista senza badare ai loro effetti reali, e con una determinazione talvolta persino superiore a quella delle istituzioni che le avevano originariamente propugnate.

* * *

La tendenza a scimmiottare l’avversario politico tuttavia non si esaurisce nella emulazione dei liberisti. C’è infatti una nuova tentazione che caratterizza la più recente propaganda della sinistra europea di governo e che a sprazzi sembra affiorare anche tra gli slogan delle forze emergenti guidate da Corbyn e da Melenchon, apertamente critiche verso le vecchie apologie del libero mercato. È la tentazione di emulare un’altra destra, quella xenofoba, proprio sul tema dell’immigrazione.

Segnali di questa forma inedita di camaleontismo si rintracciano anche in Italia, dove sempre più frequentemente il Partito democratico sbanda nella direzione delle più triviali rivendicazioni securitarie contro l’immigrazione, e dove in alcune frange della cosiddetta sinistra radicale montano istanze xenofobe che si pretende di giustificare con l’idea secondo cui gli immigrati contribuirebbero ad abbassare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori nativi. Anche in tal caso, a nulla valgono le evidenze scientifiche sull’assenza di legami causali tra immigrazione e criminalità e sui controversi e modesti effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali. Considerato che anche la tesi opposta secondo cui gli immigrati sarebbero essenziali per la sostenibilità del sistema previdenziale presenta varie inconsistenze logiche ed empiriche, si deve giungere alla conclusione che a sinistra in tema di migrazioni non si fa che saltare da una mistificazione all’altra.

Se al guinzaglio della destra liberista la sinistra è entrata in crisi, in coda alla destra xenofoba la sinistra rischia di sparire dal quadro politico internazionale. La sinistra può prosperare solo se radicata nella critica scientifica del capitalismo, nell’internazionalismo del lavoro, in una rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso sociale e civile.

L’età non conta

Una gag in tivù e un “doppio shock” per rilanciare l’economia

 

A Porta a porta nel 2001, Silvio Berlusconi mostra alle telecamere il celebre contratto sottoscritto con gli italiani

di Ugo Magri – lastampa.it, 3 luglio 2017

La gag è già pronta. Berlusconi si presenta nello studio tivù tutto curvo, zoppicante, aggrappato a una stampella. Avanza titic-titoc e davanti alla telecamera sospira: «Questo vecchietto avrebbe voluto cedere il testimone a qualcuno più nuovo di lui. Ma siccome nessuno dei giovani è in grado, eccomi di nuovo qui», via la stampella, «costretto a tornare in campo per il bene dell’Italia». Avrebbe voluto mettere in scena lo sketch una decina di giorni fa, da Vespa. L’hanno tutti convinto a soprassedere, il Paese non è nel “mood” adatto, per gli scherzi sarà tempo più avanti. Ma stiamo certi che l’uomo ci riproverà. Per due ragioni.

Anzitutto, gli è tornata una smania di vincere. E quando avvista la preda, l’ex Caimano diventa iper-cinetico. Manterrà il ritmo faticoso di 2 interviste a settimana inaugurato con le Comunali, più 7-8 colloqui politici al dì, più riunioni sistematiche con lo stato maggiore “azzurro”: vuole dare il senso fisico della presenza perché, come sapeva bene Napoleone, ha effetti balsamici sulla truppa. Non solo conta di riprendersi gli elettori “rubati” da Grillo, ma perfino quanti si erano indirizzati verso Renzi considerandolo un Berlusconi con 40 anni di meno. Silvio vorrà convincerli che il vero “giovanotto” è lui, perché ha in testa un paio di idee dirompenti. Di sicuro, spericolate.

Va dicendo ai suoi che stiamo sull’orlo di una guerra civile. Con 15 milioni di famiglie in difficoltà e il 40 per cento dei giovani disoccupati, «non potremo uscirne fuori con le ricette ordinarie, serve uno doppio shock», è il mantra berlusconiano. Cosa ci può essere di più scioccante di un taglio netto delle imposte attraverso una «flat tax» sotto il 20 per cento? Chiaro che si porrebbe qualche problemuccio con Draghi e con Bruxelles, perché almeno nell’immediato salterebbero i conti. Finiremmo in bancarotta. Ma qui soccorre l’altro «shock» immaginato da Silvio: la «doppia moneta», che qualcuno credeva una mossa per andare incontro a Salvini, invece Berlusconi ci punta sul serio. Consisterebbe nel tenerci l’euro per le transazioni internazionali, e nell’uso corrente tornare alle lire, della quale potremmo stamparne a volontà. Nei conversari privati, il Cav ammette che ci ritroveremmo con l’inflazione a livelli di Sud America. Però «diversamente della Germania, incapace di conviverci, negli anni ‘70 e ‘80 noi non siamo stati così male nell’inflazione a due cifre, la priorità adesso è rimettere in moto l’economia». Ne discuterà con economisti di sua fiducia e con alcuni gestori di patrimoni mobiliari per sondare le reazioni. Chi, tra i meno ardimentosi dei suoi, ha osato sollevare dubbi si è beccato la seguente risposta: «Vinceremo solo con idee rivoluzionarie e non banali, lasciate fare a me». Toni da giovane visionario.

Il vecchio che avanza  

E qui sta l’altro obiettivo della gag con la stampella: aggredire l’idea, sparsa in primis da Salvini, che con 80 primavere sulle spalle Berlusconi non possa incarnare il futuro. L’anagrafe conta poco, «è più importante la freschezza politica», si ribella Silvio. Gli hanno segnalato la popolarità di Jeremy Corbyn nel Regno Unito, e di Bernie Sanders negli Usa, per citare due vecchioni. Qualcuno gli ha rammentato che Peron tornò al governo quando aveva 78 anni, e in fondo Giorgio Napolitano domina la scena nonostante abbia passato i 90. L’importante è conservarsi bene. Perciò le feste «eleganti» fino alle tre di notte sono ormai un ricordo. Qualora cadesse in tentazione, non troverebbe la compiacenza di chi ora lo assiste: da Licia Ronzulli in veste di segretaria ai due assistenti Valentino Valentini e Sestino Giacomoni, quasi filiali nel loro affetto, con la supervisione dell’avvocato Niccolò Ghedini e di Gianni Letta, ritornato vicino a Silvio dopo una fase di disincanto. Il risultato è che adesso raramente chiude le palpebre mentre qualcuno gli parla, e se ciò accade è segno di noia più che di età avanzata, perché quando l’argomento gli interessa sarebbe capace di discuterne ore. Come a una cena, qualche sera fa, quando si è cimentato in una gara di barzellette. Ne ha snocciolate 50 delle sue, una dietro l’altra.

Debito pubblico, la proiezione dell’illusione

phastidio.net, 14/04/2017

Tra i punti più interessanti del Documento di economia e finanza appena aggiornato dal governo c’è la previsione dell’andamento del rapporto debito-Pil. Che, come noto a (quasi) tutti, rappresenta l’indicatore ultimo e definitivo per comprendere come e dove sta andando un paese. Nel caso italiano, da alcuni anni leggiamo di previsioni che, dal successivo, vedono l’inizio di un vero e proprio crollo di questa fondamentale metrica, ed ogni volta restiamo delusi. Proviamo a capire perché neppure questa volta sarà diverso, e perché i nostri eroi riescono a vendersi quello che non ha alcuna possibilità di avverarsi.

Partiamo da questa tabella:

Nel 2016 il debito-Pil, al lordo dei “sostegni”, cioè dei contributi italiani al primo programma di salvataggio della Grecia ed ai fondi EFSF e ESM, era al 132,6%. Nel 2017 è previsto pressoché stabile e dal 2018 piega -finalmente- al ribasso. Questo schema previsivo si ripete, tetragono, da parecchi anni. Ci sono tre componenti principali, per analizzare la variazione del rapporto debito-Pil: di massimo rilievo sono l’avanzo primario (l’eccedenza delle entrate sulle spese, escluse quella per interessi), e l’effetto snowball. Che è ‘sta cosa? Si tratta del contributo al rapporto d’indebitamento che deriva dal confronto tra crescita del Pil nominale e costo del debito pubblico. Del terzo elemento, l’aggiustamento stock-flussi, parleremo tra poco.

Ricordate la regoletta aurea? Se la crescita del Pil nominale eccede il costo medio del debito pubblico, lo stock di quest’ultimo si riduce, cioè l’effetto snowball è favorevole. Per contro, se la crescita del Pil nominale è inferiore al costo medio del debito pubblico, l’effetto snowball spiega il proprio curioso nome: è una palla di neve che rischia di diventare valanga. Questo è esattamente quanto accaduto negli anni più acuti della crisi, costringendo l’Italia ad inseguire avanzi primari da soffocamento dell’economia.

Osservate in tabella che, nel 2018, il rapporto debito-Pil cala di 1,5 punti percentuali. Non male, no? Questo calo deriva per oltre la metà, lo 0,8%, da aumento dell’avanzo primario. Ma sapete perché? Perché le previsioni dell’avanzo primario, a legislazione vigente, incorporano l’attivazione delle clausole di salvaguardia, cioè il maxi aumento Iva, che abbatterebbe il deficit-Pil fino all’1,2%, dal 2,1% del 2017. Però noi sappiamo che il governo italiano è già pronto a buttarsi a terra in preda a crisi convulsive (i.e. a “fare il pazzo”) pur di impressionare la Commissione Ue ed ottenere ancora un po’ della magica “flessibilità” (cioè deficit) senza la quale i nostri tossici non riescono a restare in piedi.

E quindi? Quindi, scordatevi che il nostro avanzo primario aumenti il prossimo anno di quasi un punto percentuale. Di conseguenza, anche la componente di calo del debito-Pil imputabile ad esso è una chimera. Veniamo ora all’effetto snowball, iniziando ad analizzarlo dal consuntivo del 2016. Lo scorso anno, questa malefica palla di neve ha fatto aumentare il debito-Pil di 1,8%. Sapete perché? Perché la crescita del Pil nominale è stata ben inferiore al costo medio del debito pubblico. La prima è stata di 1,6%, la spesa per interessi è stata il 4% del Pil, al costo medio di 3,1%. Ripetiamo: sin quando la crescita del Pil nominale non supererà quella della spesa per interessi rispetto al Pil medesimo, la strada resterà in salita. Claro?

Nella previsione Def, l’onere dell’effetto snowball frena alla grande, da 1,8% del 2016 a 0,9% quest’anno, a solo 0,2% nel 2018. Ma ciò poggia su due assunzioni: che il Pil nominale s’impenni, crescendo del 3% nel 2019, ad esempio; che il costo medio del debito freni. Siamo sicuri? Come che sia, speriamo che il concetto vi sia chiaro: da alcuni anni i Def prevedono una progressiva accelerazione nella flessione del rapporto debito-Pil. Ma questo è dovuto in misura preponderante a qualcosa che non si realizza: cioè al raggiungimento dell’obiettivo programmatico di rapporto deficit-Pil. Non solo: l’aumento del Pil nominale regolarmente previsto ed altrettanto regolarmente disatteso è a sua volta imparentato con l’aumento Iva previsto in caso di attivazione della salvaguardia. E si torna al via. Ci sarebbe infine da parlare dell’aggiustamento stock-flussi ma sarebbe troppa carne al fuoco e la vostra pazienza si esaurirebbe. Vi basti però sapere che tale aggiustamento aggiunge al debito-Pil, per i prossimi tre anni.

Per avere l’immagine plastica di questo ottimismo compulsivo del governo italiano osservate la tabella qui sotto, che mette a confronto le previsioni pluriennali del Programma di stabilità 2016 con quello 2017. Osservate la traiettoria del debito-Pil: lo scorso anno si prevedeva che nel 2019 sarebbe stato del 123,8%; quest’anno lo vediamo al 128,2%. Una lieve discrepanza, non trovate? Prendete il Pil: lo scorso anno vedevamo del tutto fattibile una crescita a velocità di crociera di 1,5%; quest’anno siamo scesi all’1%.

Ogni anno proiettiamo nel futuro un’illusione ottica, in pratica. E poi ci diamo pacche sulle spalle per il meraviglioso futuro che ci attende. Se potessimo monetizzare l’autoinganno, saremmo ricchi sfondati.

Ecco tutti gli errori di Renzi

Lunghissima e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall’ex presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco, Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato: “Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva”

di Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini e Vincenzo Visco

nuovatlantide.org, 22/01/2017

1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD. In particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali. A consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.

2. Per quanto riguarda l’economia, discutibile e contradittoria appare la linea seguita in Europa. La presidenza italiana dell’Unione Europea poteva essere l’occasione per porre in discussione formalmente la politica economica seguita, imposta dalla Germania, in quanto errata sul piano teorico e inefficace o controproducente su quello pratico (salvo che per la Germania stessa). Gli argomenti non mancavano certo. A questo si è arrivati molto più tardi dopo un periodo che è sembrato di acquiescenza alle posizioni di Schauble. Ci si è arrivati con una linea indebolita dall’obiettivo di ottenere individualmente una maggiore flessibilità di bilancio da utilizzare non già per maggiore spese per investimenti bensì per finanziare la politica dei bonus, senza rendersi conto che la credibilità di un Paese fortemente indebitato come l’Italia dipendeva (e dipende) dalla capacità di rispettare gli impegni assunti, pur mantenendo i propri punti di vista, cercando eventualmente di farli valere anche con convergenze e alleanze con altri Paesi, con il Parlamento europeo, ecc.. Anche questo è stato carente. Poco si è puntato sul ridisegno della architettura complessiva. Non si è cercato di porre sul tappeto la questione della ristrutturazione del debito europeo, nonostante che a una proposta italiana (Visco) se ne fosse aggiunta una (pressoché identica) avanzata dai “saggi” consulenti della signora Merkel. Non si è posta sul tappeto neppure la questione della concorrenza fiscale in Europa. Durante la crisi greca, invece di fornire un sostegno al governo di Tsipras, si preferì defilarsi lasciando la Grecia al suo destino, secondo una deriva nazionalista che è andata inevitabilmente crescendo.
3. Per quanto riguarda la politica interna, la strategia seguita dal Governo Renzi si è ispirata sostanzialmente a una politica dell’offerta: riforme strutturali (in primis quella del mercato del lavoro), riduzione delle imposte, tagli alla spesa pubblica, maggiore libertà all’azione privata e riduzione dei vincoli amministrativi. In sostanza l’approccio mainstream che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni, ma che, dopo la crisi del 2007-08, appariva non solo carente, ma anche superato sia in concreto, in quanto del tutto inadatto ad affrontare una situazione di deflazione e stagnazione come quella attuale, sia da un punto di vista teorico. Il risultato inevitabile è stato quello di sprecare ingenti risorse con l’obiettivo di rilanciare il consumo delle famiglie che invece è rimasto stagnante (per es. la Banca d’Italia ha valutato che l’erogazione degli 80 euro si è tradotta in consumi solo per il 40%), e di aumentare i profitti delle imprese nella speranza che esse avrebbero aumentato gli investimenti, cosa che in carenza di domanda non poteva accadere. Peraltro, anche la riduzione del cuneo fiscale (Irpef e imposte sulle imprese) tentata dal II Governo Prodi nel 2006 non aveva avuto successo: la riduzione delle imposte, invece di tradursi in investimenti determinò similmente un aumento degli accantonamenti delle imprese (e degli imprenditori).
Anche l’occupazione è stata massicciamente sussidiata con risultati complessivi che andranno valutati allo scadere degli incentivi previsti, ma probabilmente non esaltanti. Inoltre bisogna chiedersi quanto gli incentivi non abbiano contribuito a rendere conveniente impiegare lavoratori a bassa qualifica piuttosto che investire in nuove tecnologie e quindi contribuito alla riduzione della produttività.
4. Un altro approccio era invece possibile, come auspicato da molti e dimostrato dal XV rapporto Nens sugli andamenti e prospettive della finanza pubblica italiana che ha simulato gli effetti di una diversa strategia di politica economica basata sul riassorbimento progressivo delle clausole di salvaguardia oggi previste, su una efficace politica di contrasto all’evasione (come quella più volte proposta da uno degli autori) con il contestuale utilizzo dei proventi per misure di riduzione dell’Irpef e dei contributi sociali (cuneo) e di sostegno delle situazioni di povertà, e utilizzando tutte le altre risorse disponibili, incluse quelle derivanti dalla flessibilità europea, per spese di investimento ad elevato moltiplicatore.
Come si ricorderà, questa è la politica che recentemente è stata proposta dal FMI, dall’OCSE, e da autorevoli economisti in tutto il mondo. Pur prendendo con cautela i risultati ottenuti dalla simulazione, le direzioni cui avrebbe portato una strategia alternativa sono inequivocabili e di rilievo: nel periodo 2015-18 il PIL sarebbe cresciuto di (almeno) il 6% invece che del 3,8% implicito nelle manovre governative considerando i risultati acquisiti nel 2015 e quelli previsti nei documenti governativi per i tre anni successivi (e probabilmente sovrastimati); l’indebitamento pubblico per il 2017 si sarebbe collocato sull’1,6% invece del 2,3-2,4% oggi previsto; il debito pubblico sarebbe sceso al 130,2% del PIL, 2,5 punti in meno della stima del Governo. Inoltre ci sarebbero stati effetti positivi sull’occupazione, le aspettative e il clima di fiducia generale nei confronti della nostra economia sia in Italia che all’estero.
5. Un’altra grave carenza dell’azione economica del Governo Renzi (in parte da condividere col Governo Letta) riguarda la crisi bancaria che è stata causata in Italia non già da un eccesso di investimenti in prodotti strutturati, come in UK, USA, Germania, ecc., bensì dalla doppia recessione che ha determinato il fallimento di decine di migliaia di imprese e l’esplosione delle sofferenze. In tale situazione era necessario costituire al più presto una bad bank per smaltire i crediti deteriorati e rimettere in funzione il sistema. Non è stato fatto, e la crisi si è trascinata fino alla deprimente conclusione della vicenda MPS. Alla base di tale comportamento vi è stato un pregiudizio ideologico, condiviso e rafforzato dalla comunità dei banchieri, contro ogni intervento pubblico diretto nel settore. Se i Monti bonds fossero stati convertiti in azioni tra il 2013 e il 2014 (Governi Letta e Renzi), la situazione si sarebbe stabilizzata, non si sarebbero sprecati aumenti di capitale per 8 miliardi, e non si sarebbe verificata la massiccia fuga di depositi dal Monte che è la causa principale della richiesta da parte della BCE di una maggiore capitalizzazione della banca. La questione bancaria è stata più volte evidenziata come urgente dalla Banca d’Italia, ma senza successo. Che sarebbe entrato in vigore l’accordo sul bail in non poteva sfuggire al Governo. Inoltre, le mancate dimissioni del ministro Boschi in occasione della vicenda della banca Etruria che, pur non strettamente necessarie, sarebbero state politicamente utili, ha fortemente indebolito il Governo esponendolo a critiche spesso infondate, ma sempre efficaci da un punto di vista comunicativo, da parte delle opposizioni, contribuendo alla sostanziale paralisi operativa, alla politica dei rinvii e delle “soluzioni di mercato”, in nome delle quali si è deciso perfino di sostituire d’autorità il vertice del MPS. Incomprensibile ed inaccettabile, comunque, è non essere intervenuti almeno subito dopo lo stress test del luglio scorso a salvare il Monte, lasciando marcire la situazione a causa della priorità del momento, il referendum istituzionale. Il costo ulteriore per i contribuenti è rappresentato dai 4 miliardi di maggior aumento di capitale richiesto. Né va dimenticato che anche le riforme delle banche popolari e di credito cooperativo non sono state fatte in modo da evitare rilievi sia di carattere amministrativo che costituzionale.
6. E’ difficile valutare quale sia stata la politica industriale del Governo Renzi, sempre che ce ne sia stata una. Con industria 4.0 si è cercato di recuperare il terreno per quanto riguarda la digitalizzazione del Paese, ma il processo deve ancora partire. Analogamente la digitalizzazione della PA stenta a decollare e non si vede un disegno ed una visione unitaria. Sono stati confermati gli sgravi fiscali per ristrutturazioni e interventi energetici e ambientali, ma senza disegnare una strategia complessiva di trasformazione ecologica di settori dell’economia (a differenza di quando fatto in altri Paesi, Germania in testa). Si sono predisposti strumenti per affrontare le crisi industriali utilizzando la CDP, ma non si è saputo affrontare la questione delle infrastrutture da una prospettiva generale. Per quanto il Piano per la logistica e i Porti abbia un approccio condivisibile (e così quello relativo agli interventi delle Ferrovie) esso è rimasto del tutto laterale rispetto all’azione di Governo diretta verso altri fronti. Gli impegni di spesa sono stati essenzialmente collocati verso gli anni di scadenza (2020) del piano e di fatto lo stato di avanzamento su tutti i lavori concernenti i corridoi europei è in ritardo a causa della esiguità dei fondi disponibili. Sulla banda larga si rischia di creare concorrenza tra più operatori, con relativo spreco di risorse trattandosi di un monopolio naturale. Si difende l’italianità di Mediaset, e si è lasciato che Vivendi acquisisse il controllo di Telecom. In concreto la politica industriale di Renzi si è basata soprattutto e principalmente su un consistente insieme di misure di detassazione e incentivazione fiscale a pioggia, sicuramente molto gradito alle imprese, ma non in grado di indirizzare il Paese verso un nuovo assetto industriale e neppure di recuperare il potenziale industriale perso durante la crisi. L’idea di fondo è sempre la stessa: se lo Stato riduce il suo perimetro (riducendo le tasse, i contributi, ecc.) il mercato, le imprese, troveranno nuova energia e nuove opportunità di crescita a beneficio di tutti. Non si è fatto nessuno sforzo, né si è suscitato nessun dibattito su quali settori potrebbe essere utile sviluppare in Italia con il sostegno pubblico tenendo conto delle esigenze del Paese, delle possibili sinergie con la ricerca e le Università, della possibilità di creare occupazione, né si è avviato un dibattito sulla possibilità di utilizzare in modo diverso e coordinato il residuo sistema delle partecipazioni statali, che continua ad essere visto soprattutto come fonte di reddito per la finanza pubblica, prova ne sia la privatizzazione di Poste che è avvenuta prima di esplorare le sinergie che poteva avere con la digitalizzazione del Paese e con lo sviluppo della logistica di consumo. Non è stata elaborata nessuna strategia valida per il Mezzogiorno, mentre si ripropone drammaticamente la questione del dualismo del Paese. Tardiva è stata la predisposizione di Patti con Regioni e Città, che pur andando nella giusta direzione, appaiono spesso affrettati oltre che imperniati su progetti tirati fuori dai cassetti degli Enti locali, e in ogni caso improntati a una logica frammentaria e priva di visione organica. In tutte le politiche verso cui sono state indirizzate risorse pubbliche o varati mutamenti di assetto è mancata una vera e propria regia di attuazione e coordinamento degli attori, in un attivismo mirato a poter vantare interventi e riforme in vari campi, più che curarne la completezza, la qualità, il raccordo e l’implementazione.
7. Particolarmente discutibile è stata la politica tributaria del Governo Renzi. Dall’ultima riforma organica del fisco italiano, quella del 1996-97, sono passati 20 anni e quindi sarebbe necessaria una revisione complessiva. Ma il problema di fondo del sistema fiscale italiano rimane quello della evasione di massa, considerevolmente ridotta (in via permanente) dai governi di centrosinistra tra il 1996 e il 2000, tollerata e incentivata dal centrodestra, ridotta di nuovo durante il Governo Prodi del 2006-08, aumentata durante il successivo Governo Berlusconi. Renzi ha ignorato il problema di una revisione sistematica del sistema e anzi ne ha accentuato il degrado con provvedimenti ad hoc, frammentari, episodici senza alcuna consapevolezza della necessità di una visione organica. Per quanto riguarda il contrasto all’evasione, all’inizio Renzi sembrava orientato ad intervenire, ed infatti adottò alcune delle misure proposte in un rapporto del Nens del giugno 2014, in particolare il reverse charge e lo split payment, misure che, visto il successo ottenuto (anche al di là delle previsioni) , sono state sistematicamente presentate come la dimostrazione dell’impegno e del successo del Governo nel contrasto all’evasione, sempre riaffermato pubblicamente, ma ben poco praticato in realtà. Le altre proposte contenute nel rapporto Nens sono state invece ignorate, tra queste l’uso dell’aliquota ordinaria nelle transazioni intermedie IVA, l’adozione del sistema del margine in alcune transazioni al dettaglio, la trasmissione telematica obbligatoria dei dati delle fatture IVA….In verità quest’ultima misura è stata adottata con l’ultima legge di bilancio, ma in modo tale da risultare in buona misura inefficace, in quanto è esclusa la trasmissione automatica dei corrispettivi delle vendite finali, non è previsto l’accertamento automatico in caso di evasione manifesta, non sono state introdotte misure di cautela nel caso in cui la reazione dei contribuenti comportasse una riduzione del margine abituale sui ricavi (mark up); le sanzioni, già modeste, sono state ulteriormente ridotte, l’entrata in funzione rinviata….In sostanza si è seguita la stessa logica in base alla quale, in seguito all’introduzione obbligatoria del POS ci si dimenticò di prevedere una sanzione in caso di inadempienza. Eppure il rapporto Nens stimava che la misura fosse potenzialmente in grado di produrre oltre 40 miliardi di recupero di evasione.
Contemporaneamente l’amministrazione finanziaria è stata delegittimata e indebolita, non si è salvaguardata la sua autonomia, si è consentito che membri del Governo attaccassero l’Agenzia delle Entrate, non si è data soluzione al problema creato da una discutibile sentenza della Corte Costituzionale relativa agli incarichi dirigenziali. Non si sono investite risorse nell’informatica.
Ma più in generale, l’intera politica fiscale si è indirizzata in direzione opposta a quella di serietà e di un ragionevole rigore: il sistema sanzionatorio è stato modificato innalzando le soglie di punibilità penale e restringendo le fattispecie incriminatrici; inizialmente era stato perfino proposto di depenalizzare la frode fiscale, misura poi rientrata; l’abuso del diritto (elusione) è stato depenalizzato e ridotto ad una fattispecie residuale, senza considerare il fatto che prima o poi la Cassazione e la Corte di Giustizia europea ristabiliranno l’interpretazione corretta. Ciò peraltro è già avvenuto con il falso in bilancio per cui la Cassazione ha già vanificato la portata della norma che allentava ben oltre quella approvata dal Governo Berlusconi, e per anni criticata dal centrosinistra, la possibilità di punire tale comportamento. E’ stato abolito il termine lungo di accertamento amministrativo per le condotte penalmente rilevanti, contrariamente a quanto previsto dalla normativa prevalente in Europa. La riscossione dei tributi è stata fortemente indebolita prevedendo la possibilità di rateazioni fino a 72 rate per i debitori decaduti negli ultimi due anni da un precedente piano di dilazione, ciò mentre per i debiti nei confronti di privati (banche) si sono accelerate le procedure di riscossione coattiva creando una inaccettabile discriminazione tra pubblico e privato. Ci si è uniformati alla propaganda del M5S sopprimendo, anche se solo in apparenza, Equitalia, e introducendo un condono (rottamazione) delle cartelle esattoriali, relative – è bene ricordarlo – a evasori conclamati, spesso sanciti come tali da più gradi di giudizio. Si sono varate due voluntary disclosures in apparente ossequio a un indirizzo internazionale, senza considerare che negli anni precedenti erano già stati varati da Tremonti ben due condoni in materia. Si è cercato di introdurre una sorta di riciclaggio di Stato prevedendo la sanatoria anche per il contante, norma che fortunatamente non è sopravvissuta alle critiche. Si è innalzata a 3000 euro la soglia di utilizzazione del contante favorendo così non solo l’evasione ma anche il riciclaggio. La norma sugli 80 euro, operando in un ristretto intervallo di reddito, da un lato ha penalizzato relativamente i redditi più bassi, e dall’altro ha introdotto un’aliquota marginale implicita pari al 79,5% (48% a causa del venir meno degli 80 euro, cui si aggiunge l’aliquota effettiva (formale e implicita) Irpef del 31,5%) per i contribuenti collocati sul limite superiore di applicazione della misura (tra i 24000 e i 26000 euro), per cui è stato necessario inserire nella ultima legge di bilancio, e in previsione degli aumenti contrattuali, una norma di deroga che non si sa ancora come opererà. L’Irpef è stata ulteriormente distorta dalla detassazione dei premi di produttività che fa sì che neanche i redditi di lavoro entrino più interamente nella base imponibile della imposta sul reddito in deroga a qualsiasi principio di progressività. Molte sono state le norme a favore delle imprese: dalla eliminazione dall’Irap dei redditi di lavoro (il che equivale ad escluderli da qualsiasi contributo specifico per la spesa sanitaria), alla decontribuzione per i nuovi assunti, alla patent box, al rafforzamento dell’ACE col recupero dell’incapienza sull’Irap, alla assegnazione agevolata dei beni ai soci, alle norme di accelerazione degli ammortamenti, alla riduzione dell’aliquota Ires al 24% e all’introduzione dell’IRI, all’eliminazione dell’IMU sui cosiddetti “imbullonati”. L’agricoltura è stata ulteriormente detassata (Irap, imposta patrimoniale), senza considerare che il settore era già quello più agevolato sul piano fiscale e quello in cui maggiore è l’evasione. La condivisibile esigenza di redistribuire il prelievo alleviandolo per alcuni settori e fattispecie non è stata affrontata, in altre parole, in modo organico e secondo un disegno preciso, ma con provvedimenti frammentari e ad effetto guidati da preoccupazioni di consenso. Si è inoltre rinunciato alla revisione del catasto dei fabbricati che era in dirittura d’arrivo e necessario avviare, e si è eliminata l’imposizione patrimoniale sulla casa di abitazione. Con le modifiche dell’Irap, della Tasi, e con le misure connesse all’obbligo di pareggio di bilancio e al funzionamento del fondo di solidarietà si è svuotata l’autonomia impositiva di regioni ed enti locali. Si è rinviato l’esercizio della delega di revisione delle cosiddette tax expenditures, che sono viceversa di molto aumentate. In tema di tassazione delle rendite finanziarie è stato aumentato il differenziale con la tassazione dei titoli pubblici, e nel complesso, pur essendo l’obiettivo condivisibile, il sistema il sistema è stato reso sempre più irrazionale.
8. Per quanto riguarda le riforme “strutturali”, quella più importante per il Governo era ovviamente la riforma istituzionale. Oggi è senso comune criticare Renzi per aver “personalizzato” e politicizzato lo scontro sul referendum confermativo, ma il problema nasce prima. La personalizzazione infatti è avvenuta immediatamente, fin dall’inizio del dibattito parlamentare quando Renzi ha imposto la sua peculiare visione della riforma senza accettare critiche né mediazioni, visione che aveva a cuore nella sostanza il fatto che i futuri senatori non dovessero beneficiare di alcuna retribuzione per ridurre i costi della politica oltre a quella derivante dalla drastica riduzione del loro numero. Questo è stato l’unico punto considerato irrinunciabile perché tutto il resto della proposta iniziale è stato oggetto di cambiamento per cercare convergenze tattiche. Questo approccio ha compromesso fin dall’inizio la possibilità di successo della riforma. Ed in verità il dibattito parlamentare al Senato mostra chiaramente che se si fossero accettati due punti essenziali, vale a dire che anche il numero dei deputati fosse ridotto a 400, e quello dei senatori a 200, e che i senatori fossero eletti direttamente dal popolo, ferma restando la differenza delle funzioni delle due assemblee e l’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei Deputati, la riforma avrebbe ottenuto un consenso molto ampio evitando la necessità del referendum, o comunque depotenziandone la portata politica. E’ qui emersa una caratteristica di fondo dell’approccio di Renzi alle riforme: la necessità di determinare in ogni caso rotture, divisioni, contrapposizioni, secondo una logica amici-nemici che, a ben vedere, riguardava principalmente una parte rilevante della sua costituency e del suo stesso partito. La questione di fondo era ideologica: le tradizionali posizioni della sinistra italiana non dovevano avere più legittimità: esse rappresentavano comunque il vecchio, qualcosa da rimuovere e “rottamare”.
9. La stessa logica è stata seguita sul jobs act, dove l’avversario principale è diventato il sindacato e in particolare la CGIL. Una riforma contro, quindi, e non una riforma utile per tutti. E anche in questo caso sarebbe stato sufficiente evitare alcuni eccessi e adottare, per esempio, il modello di contratto a tutele crescenti proposto da tempo da Tito Boeri, per ottenere un consenso pressoché unanime. Il risultato è stato quello di rischiare di sottoporre il Paese ad un ‘altra prova referendaria di cui non si sentiva certo il bisogno. Sui vouchers si sono allargate le maglie senza pensare ai possibili abusi, tanto che ora sarà necessario un intervento correttivo.
10. La riforma della scuola è avvenuta secondo lo stesso approccio: anche in questo caso il “nemico” era inizialmente il sindacato, ma ben presto sono diventati gli insegnanti. Il modello proposto è stato quello dell’autonomia scolastica interpretata come meccanismo in grado di simulare una sorta di mercato all’interno del settore pubblico, meccanismo che avrebbe inevitabilmente aumentato le diseguaglianze nei livelli di insegnamento tra le diverse zone del Paese e quartieri delle città. Ciò di cui avrebbe invece bisogno la scuola italiana è una modernizzazione dei programmi, un ripensamento dei cicli scolastici, una migliore qualità dei docenti, una carriera per i docenti, e investimenti rilevanti per ridurre le distanze tra le scuole di migliore qualità e le altre, rivalutando il ruolo sociale dei docenti, limitando le ingerenze indebite delle famiglie, prevedendo concorsi per le assunzioni, ecc. Ora il Governo Gentiloni è costretto a ritornare indietro (anche troppo) su alcuni punti della riforma cercando un accordo con i sindacati. E’ stata giusta l’introduzione nella nostra scuola dell’alternanza tra studio e lavoro. Ma al solito con fondi insufficienti e senza adeguata regia. Rimane non coordinato il canale dell’istruzione professionale di competenza statale con quello di competenza regionale e manca un Sistema Nazionale di Valutazione. Anche la ricerca pubblica non ha avuto alcuna razionalizzazione visto che non si è posto mano alla dispersione dei centri e al loro scarso coordinamento. L’Italia rimane nel mezzo delle due grandi direttrici della ricerca, quella dei grandi progetti diretti ai paradigmi tecnologici e che mettono insieme alte capacità realizzative industriali, Università, centri di ricerca (che può solo svolgersi come partecipazione a progetti di ricerca internazionali, in primo luogo quelli europei) e quella che si adatta alle situazioni concrete e esigenze tecnologiche specifiche. Di fatto l’Italia non segue né l’una né l’altra. Sebbene siano stati finalmente aumentati, dopo anni di tagli, i fondi per la ricerca pubblica, questi sono stati allocati in modo tale da suscitare una vera e propria sollevazione della comunità scientifica. L’eccessivo affidamento a criteri di mercato, soprattutto attraverso criteri di valutazione tecnicamente molto discutibili, si è riprodotto con l’Università producendo gli stessi problemi della scuola di determinare una frattura e differenziazioni che senza governance e correttivi del processo, rischiano di penalizzare pesantemente gli Atenei meridionali, non si capisce con quale vantaggio per il Paese.
11. La riforma della giustizia è rimasta al palo. In questo caso, la categoria presa di mira è stata quella dei magistrati attaccati sulle ferie, sulle retribuzioni e sulla età pensionabile, sulla quale, peraltro, si è fatta una parziale marcia indietro che si spera non diventi totale. In questo caso, tuttavia, va riconosciuto che, data la composizione del Governo, la riforma non era agevole. Va però sottolineato che il problema della legalità (corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata) non sembra essere stato al centro delle preoccupazioni e del programma di Governo. In diverse occasioni Renzi ha negato che in Italia esista un problema di evasione di massa, o che in alcune regioni italiane il potere dello Stato è contestato e talvolta vanificato dall’esistenza delle mafie. Molta propaganda è stata fatta all’Autorità anticorruzione guidata da Cantone, e sono state approvate nuove norme, secondo alcuni insufficienti, ma il punto di fondo è che i tre fenomeni sopra ricordati sono intrinsecamente collegati e andrebbero affrontati insieme e posti all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, cosa che non è avvenuta. Uno degli strumenti possibili era quello di varare finalmente una buona legge sui partiti, legge di cui si è parlato, ma che non ha fatto passi avanti.
12. Quanto alla riforma della PA, si è seguito un vecchio modello, già sperimentato e fallito più di una volta, secondo una visione organicistica della PA, attaccando la dirigenza pubblica e portando alle estreme conseguenze una logica privatistica che mal si adatta al settore pubblico i cui dirigenti non possono essere assimilati a quelli delle imprese private, ma necessitano di competenze specifiche e specializzazioni. Anche in questo caso la riforma si è esposta a rilievi di ordine amministrativo e costituzionale.
13. Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva. Il Paese è oggi più diviso, il PD è politicamente isolato (salvo l’alleanza con Alfano e Verdini) ed è diviso, data la radicalità dello scontro sul referendum, si sono verificate fratture nelle famiglie e nelle amicizie. Le riforme sono state contestate e in parte sono rimaste sulla carta. L’opinione pubblica è confusa, disorientata, arrabbiata, e sempre più influenzabile da posizioni qualunquiste e di antipolitica. Dopo il risultato del referendum è inoltre diffusa, soprattutto all’interno dell’establishment la convinzione che il Paese è irriformabile e rassegnato al proprio destino. La colpa sarebbe della gente che non capisce. Ma così non è, la gente desidera riforme, ma vorrebbe capirne finalità e modalità, desidera essere coinvolta, e soprattutto vedere una classe dirigente preoccupata dei problemi e delle difficoltà dei cittadini comuni. Soprattutto ci sarebbe bisogno di un a classe dirigente competente e all’altezza. Uno dei lasciti del Governo Renzi rischia di essere proprio quello di aprire la strada a una classe dirigente ancora meno qualificata.

Più poveri dei genitori 9 italiani su10 gli anni Duemila come il Dopoguerra

Triskel182

Impoverimento

La ricerca.

La quasi totalità delle famiglie ha redditi inferiori rispetto alle generazioni precedenti. In un rapporto di McKinsey il record negativo del nostro Paese Un trend che riguarda il 70 per cento della popolazione nell’Occidente sviluppato.

L’ULTIMO decennio ha sconvolto l’ordine economico: i figli sono più poveri dei genitori, e forse destinati a rimanerlo. Non era mai accaduto dal Dopoguerra fino al passaggio del Millennio. L’Italia si distingue, fra tutti i paesi avanzati, come quello in cui questo ribaltamento generazionale è più dirompente.
L’impoverimento generalizzato e l’inversione delle aspettative sono i fenomeni documentati nell’ultimo Rapporto McKinsey. Il titolo è Poorer than their parents? A new perspective on income inequality (Più poveri dei genitori? Una nuova prospettiva sull’ineguaglianza dei redditi). Il fenomeno è di massa e praticamente senza eccezioni nel mondo sviluppato. Contribuisce a spiegare – secondo lo stesso Rapporto McKinsey – il disagio sociale che alimenta populismi di ogni…

View original post 511 altre parole

L’industriale vede e prevede…

Confindustria sul referendum: se vince il no tante previsioni fosche, neppure una fonte dichiarata

segnalato da Barbara G.

di Guido Ortona (*) – libertaegiustizia, 12/07/2016

Una teoria scientifica e delle previsioni basate su di una teoria scientifica possono essere giuste o sbagliate. Questi termini non hanno un valore assoluto: una previsione è tanto più giusta quanto più è confermata dai fatti, e tanto più sbagliata quanto meno lo è. A questa bipartizione Wolfgang Pauli ha aggiunto una terza categoria, quella delle teorie o delle previsioni che non sono “neanche sbagliate”: nel senso che sono talmente poco teoricamente fondate e talmente refrattarie a qualsiasi verifica empirica da rendere impossibile stabilire se sono appunto giuste o sbagliate. Un esempio dovuto a Bertrand Russell è l’ipotesi che fra la Terra e Marte orbiti una piccola teiera rossa. Se anche fosse vero questo non darebbe origine a nessun fenomeno osservabile, la cui presenza o assenza testimonierebbe della verità o falsità dell’ipotesi: e quindi non si può affermare su base sperimentale che l’ipotesi sia falsa.

Anche in economia è possibile distinguere fra previsioni giuste e previsioni sbagliate, anche se queste categorie vanno prese con cautele maggiori che non in fisica o in biologia. Per esempio, la previsione “in una fase di recessione ridurre la spesa pubblica ha effetti espansivi” è sbagliata, nel senso che si è argomentato teoricamente e verificato empiricamente che normalmente non è così. Ha quindi ragione di esistere anche in economia la categoria delle previsioni che non sono “neanche sbagliate”: si tratta di previsioni basate su dati talmente incerti o male interpretati e su ipotesi teoriche talmente campate in aria da rendere impossibile passare logicamente dalle ipotesi teoriche e dai dati alle conclusioni suggerite.

Un esempio particolarmente interessante, per vari motivi, di previsioni neanche sbagliate in economia è stato recentemente fornito da un contributo del Centro Studi della Confindustria, firmato dal suo direttore, Luca Paolazzi. Si tratta di una serie di slides sull’andamento dell’economia italiana, presentata come il n. 26 della collana Scenari Economici.

Le ultime slides della serie contengono delle previsioni per il caso di una vittoria del No al referendum di ottobre. Sono previsioni molto pessimistiche e molto circostanziate: per esempio, una perdita di 589 euro di pil pro-capite e di 577.000 unità di lavoro per il 2019. La fonte di queste cifre non è indicata. Sono indicate solo le ipotesi su cui si basano, e cioè “caos politico”, “aumento dello spread”, “fuga di capitali”, “crollo della fiducia” e “svalutazione”. Per correttezza deontologica si sarebbe dovuto fornire una quantificazione e una qualificazione rigorose di queste ipotesi.

Ammesso che ciò fosse difficile per motivi di spazio, sarebbe stato imprescindibile fornire l’indicazione del documento dove esse vengono esaminate. Invece nessuna fonte è indicata. In queste condizioni i lettori hanno il diritto (e anzi il dovere) di ritenere che queste previsioni non siano neanche sbagliate; nella scienza, incluso in questo caso a pieno titolo la scienza economica, nessuna conclusione può pretendere di essere accettata se non è chiaramente indicato il modo in cui è stata raggiunta, e se tale modo non è convincente.

Sarà compito dell’autore delle slides, se riterrà di doverlo fare, fornire la documentazione necessaria a modificare quell’opinione. Anche per sfatare il sospetto, plausibile data la scorrettezza dell’elaborazione, che queste previsioni saltino un passaggio: e cioè che in caso di vittoria del No la Confindustria propizierebbe gli scenari catastrofici ipotizzati. In tal caso ovviamente la responsabilità non sarebbe della vittoria del No ma della Confindustria; e forse vale la pena ricordare che la serrata per fini politici è un comportamento contrario alla Costituzione, e che l’aggiotaggio e la turbativa dei mercati sono reati.

Quella appena discussa non è l’unica violazione della deontologia presente in questa vicenda. I dati sono forniti ufficialmente dalla Confindustria: come tali si ammantano di una credibilità che non avrebbero se fossero altrettanto campati in aria -se lo sono- ma forniti da fonti meno qualificate. C’è quindi un esplicito uso strumentale della pseudo-scienza; cosa che un ufficio studi serio non dovrebbe consentire. Andiamo avanti. Anche la maggior parte dei giornalisti italiani che hanno riferito di queste diapositive hanno violato i criteri minimi della deontologia professionale. In altri paesi i loro colleghi avrebbero preteso di valutare le fonti dei dati prima di pubblicarli. Infine, così come l’ordine dei medici penalizza o dovrebbe penalizzare l’uso di pratiche stregonesche da parte di un medico, la Comunità degli economisti dovrebbe intervenire per prendere le distanze da un documento che getta una luce sinistra sull’attendibilità delle previsioni economiche serie. Questa comunità non esiste in forma strutturata: è quindi compito dei singoli economisti, quando possano farlo, prendere le distanze da questo modo di procedere. Io lo faccio con questo scritto.

Una considerazione più generale. Degli studiosi accreditati possono produrre risultati incontrollabili utili a fini politici di parte, e dei giornalisti ignoranti o complici possono divulgarli, senza che esistano anticorpi che valgano a segnalare all’opinione pubblica la mancanza di valore di questi risultati. E’ l’ennesimo segnale della presenza di seri limiti nel  funzionamento  della nostra democrazia.

Nota: il 3 luglio 2016 ho chiesto al Centro Studi della Confindustria che mi venisse indicato dove reperire la documentazione su cui si basano le elaborazioni citate. A tutt’oggi (10 luglio) non ho avuto risposta.

(*) Guido Ortona è professore ordinario di politica economica Università del Piemonte Orientale

“Sotta ‘o muro” – Dispensa n.2

(Ciclostilato in proprio)

di Antonio “Boka”

Dalle poche cose dette precedentemente potremmo trarre la conclusione che, ove potessimo separare la nostra economia dall’economia globale principalmente impedendo la libertà di movimenti dei capitali (ebbene sì, aboliamo Schengen ma per il Capitale non per le persone), rendendo le politiche fiscali indipendenti dai bisogni del neoliberismo globale e tornando a gestire la domanda con politiche di sviluppo più o meno apertamente keynesiane, potremmo tornare a ricostruire una economia in crescita paragonabile ai tempi della “Golden Age” del capitalismo post seconda guerra mondiale ed incrementare l’occupazione, ma dobbiamo riusare la memoria (storica). Una soluzione basata sulle azioni descritte (senza entrare nel merito della loro fattibilità per vincoli determinati esclusivamente dalla politica dei governi ormai subordinati, asserviti e dominati dal capitale finanziario) non risolverebbe la questione della “piena occupazione. Per un motivo molto semplice e, tristemente sperimentato, negli anni ’70 (l’inflazione). Una riduzione dell’esercito industriale di riserva (concedetemi il vezzo del lessico marxiano) rafforzerebbe la posizione contrattuale dei salariati che richiederebbero salari (monetari) più elevati. Questo comporterebbe (a concessioni avvenute) un aumento del livello generale dei prezzi, nuove richieste di aumenti e la ben nota spirale inflazionistica si ripresenterebbe con effetti ben noti. D’altra parte se in qualche modo si riuscisse a contenere l’aumento dei prezzi questo potrebbe avvenire solo con una riduzione dei profitti, difficile se non impossibile da realizzare in una economia di mercato (nessuno sta proponendo un’economia dirigista e statalista). Ne consegue che un determinato livello di disoccupazione è necessario per la stabilità del sistema.

Giunti a questo punto segue una conclusione che non piacerà a molti per due ragioni semplici: la prima deriva dalla diffusione ormai generalizzata della religione del capitale finanziario per cui non appena si accenna a termini come “Stato” partono le accuse di blasfemia e che il profitto ci salvi dagli zeloti pronti ad iniziare roghi ed a innalzare patiboli, la seconda deriva, invece, dalla confusione permanente tra “pubblico” e “statalismo” dove, per controbattere a questo tipo di accuse basta osservare che mai come oggi c’è un intervento permanente degli stati nell’economia (basta pensare alla regola di pareggio del bilancio ed altre amenità affini” dove, però l’obiettivo è servire ed essere asserviti al capitale privato. La verità è che statalismo dirigista in favore del mercato = bene, intervento dello stato in favore del pubblico = male.

Torniamo, in ogni caso, al nostro obiettivo di ridurre la disoccupazione (che, voglio ricordare, consiste semplicemente nel restituire dignità e speranza alle persone, quelle che, purtroppo, appartengono al “pubblico”).

Il problema o la difficolt, consiste, quindi, nel fatto che se si vuole che la disoccupazione scenda sotto un certo livello che sembra necessario per la stabilità del sistema economico allora il sistema dei prezzi non può essere lasciato al mercato (poiché questo causerebbe la ben nota spirale inflazionistica), ma è necessario un intervento dello stato sotto forma di “politica dei redditi e dei prezzi” (ohibò, politica dei redditi sembra un telegiornale del passato). Lo stato non può limitarsi ad intervenire per sostenere la domanda aggregata ma deve impegnarsi anche nella gestione della distribuzione del reddito. Appare quindi necessario (in Economia apparire e necessario vanno sempre insieme, in caso contrario trattasi di religione mascherata) che lo Stato nel perseguire politiche di gestione e supporto della domanda debba intervenire anche nella distribuzione (del reddito). Qualcuno si ricorderà della scala mobile. Uno dei risultati possibili, come abbiamo visto, è il rincorrersi a catena di salari e prezzi (in assenza di un intervento dello Stato). La storia passata mostra che questi tentativi sono stati inutili, ma lo sono non per “la natura delle cose” ma per la chiara opposizione del sistema delle imprese assolutamente non disposta ad accettare interventi sui margini di profitto (tralascio di discutere le ragioni oggettive poiché non esistono). Quello che il sistema delle imprese capitalistiche è disposto ad accettare è un intervento dello Stato mediato attraverso di esse, detti anche “incentivi” per cui è possibile aumentare l’occupazione solo e se le imprese ricevono sussidi dallo Stato (se qualcuno pensa ai recenti interventi del governo Renzi fa bene e del resto ho già fatto notare più volte che la fiscalizzazione degli oneri sociali è cosa vecchia ma, a volte, il Novecento non è da buttare). Insomma, è essenziale per la legittimità sociale del capitalismo che il mercato e la piena libertà delle imprese siano visti come indispensabili.

Il circolo vizioso è quindi chiaro: se si vuole aumentare l’occupazione è necessario che lo Stato sostenga la domanda ma questo a sua volta implica una gestione del sistema dei prezzi e conseguentemente dei margini di profitto che non è possibile causa la resistenza del sistema delle imprese (per chi non avesse capito eufemismo per “mercato”). Di fatto e molto semplicemente, la via per trascendere il sistema capitalistico passa proprio attraverso l’aumento dei livelli di occupazione in netta e chiara opposizione al mercato.

Ovviamente, il neoliberismo era ed è la risposta a questa minaccia e vedremo come ha reagito per evitare questo pericolo.

(“Si vedrà da queste pagine se sarò io od un altro l’eroe della mia vita [anche se] in considerazione del giorno e dell’ora della mia nascita (fu dichiarato) che avrei avuto il privilegio di vedere spiriti e fantasmi” e talpe), continua…….

 

Sotta ‘o muro

di Antonio “Boka”

Del vivere sull’orlo del vuoto come unica alternativa all’essere  “nu popolo ca cammina sotta ‘o muro”

Una lunga serie di ragionamenti non sintetizzabili in 140 caratteri su ciò di cui si deve tacere perché non se ne può parlare (semi-cit.) con annessa pervicace ostinazione basata su “se una domanda può esser posta deve esserci la risposta” (seconda parte della semi-cit.).

Essere “senza” lavoro o se preferite, con un termine tecnico che suona ormai afono, essere disoccupati sembra essere diventato ormai una sorta di stato “naturale” delle cose su cui nulla può essere fatto e, in una versione tragicamente adattata della “sindrome di Stoccolma, l’unica azione possibile diviene la condivisione delle difficoltà, anch’esse “naturali”, di coloro i quali coprono il ruolo di creatori di lavoro: gli imprenditori. Agenti sociali con vocazione naturale alla sofferenza che agiscono, nonostante prezzi elevati da pagare in termini personali, solo ed esclusivamente nell’interesse della comunità. Il profitto è un risultato non perseguito direttamente, cade lì per caso come quando, persi nell’osservare il volo di un uccello, la sua merda ci colpisce in viso e ci ricorda che volare alto sarà anche necessario e nobile purché non ci si curi (e non si faccia parte) di coloro i quali calpestano la terra alla quale ritorneranno.

Prima Intercessione

Ma Aristotele quando spiegava la caduta dei gravi con “il simile attira il simile” come avrebbe spiegato la caduta della merda degli uccelli? Da qui la superiorità della fisica Newtoniana che ci permette di calcolare la traiettoria balistica utile ad esprimere il nostro disappunto al pennuto di cui sopra.

Fine Prima Intercessione.

Torniamo allo “stato naturale”. Senza entrare nel merito o tantomeno senza nostalgie (per di più impossibili nel mio caso per avversione, questa sì “naturale”, profonda per i paesi del “socialismo reale”) fuori luogo, fuori tempo ed oramai fuori dalla storia (ma non dalla “Storia”) vale la pena ricordare che fino a poco tempo fa c’erano società (ebbene sì, parlo dell’Unione Sovietica) caratterizzate da carenze di manodopera in maniera strutturale tanto che ponderosi ed estesi tomi sono stati scritti per cercare di capire come e perché la carenza di manodopera sia stata in realtà l’elemento caratterizzante di quel tipo di economie (analizzare quelle economie con gli strumenti critici delle teorie sulle economie pianificate sarebbe come spiegare il virus del raffreddore con la perdita di fluidi dai canali nasali e la “moccoleconomics non mi entusiasma”). (Per chi fosse interessato ad approfondire cercare Janos Kornai). A questo punto, appurato con stupore e riattivazione della memoria (storica) che la disoccupazione non è uno stato naturale delle cose non possiamo attribuirne la causa al funzionamento implicito dell’economia capitalistica (vedi “moccoleconomics”) poiché ritorneremmo allo stato “naturale” delle cose.

Ora, mantenendoci sul semplice possiamo ragionevolmente affermare che due sono le cause possibili della disoccupazione: scarsità di capitale necessario per fronteggiare l’offerta di lavoro o domanda insufficiente che comporta la non necessità di piena utilizzazione della risorsa lavoro. In quest’ultimo caso si è in presenza ovviamente di capitale sotto-utilizzato.

Nel caso di scarsità di capitale dobbiamo distinguere due casi: carenza di capitale fisso o carenza di capitale variabile e cioè di beni-salario necessari per impiegare la forza-lavoro al livello minimo di sussistenza (o, se preferite gli eufemismi, al prezzo di equilibrio sul mercato del lavoro). Vale la pena sottolineare che la prima ragione e cioè la scarsità di capitali non è mai stata decisiva e anche se possono esserci casi (come nel caso del picco di un ciclo economico  – cosiddetto “boom” -) in cui, per un breve periodo di tempo , ci si trovi di fronte a scarsità di capitali di sicuro essa non spiega la presenza costante di disoccupazione. Di fatto la condizione tipica di una economia capitalistica è data dalla costante sotto utilizzazione delle risorse dell’economia (vedi Kalecki). In sostanza, come ho cercato di spiegare altre volte, la realtà economica è ben diversa da quella immaginata nella favola dell’equilibrio economico generale (fatte salve le ridicole condizioni in cui esso si verifica, se ricordate una serie di commenti scritti qualche tempo fa) siamo, infatti, di fronte a monopoli o semi-monopoli in cui i prezzi (e conseguentemente l’utilizzazione delle risorse) sono determinati dalle imprese dominanti  che si basano su costi medi e prezzi medi e determinati sulla base della massimizzazione del profitto.

L’esistenza della disoccupazione (e, contemporaneamente, di capitale inutilizzato) va quindi ricercata nella insufficienza della domanda aggregata, domanda aggregata che ha generalmente quattro componenti: consumi, investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette.

Ora, se la domanda per consumi ha bisogno di essere aumentata, ciò significa che la distribuzione del reddito ha bisogno di essere alterata favorendo l’occupazione (tralasciando la discussione sui livelli salariali, per comodità e per evitare accuse di ideologismo sinistro faccio sempre riferimento al livello minimo di sussistenza). I detentori di capitale, ovviamente, oppongono resistenza a questa redistribuzione del reddito essendo mossi solo dalla motivazione della massimizzazione del profitto. Ricordo brevemente a questo punto la diminuzione della quota salari sul Reddito Nazionale Lordo verificatasi i tutte le economie occidentali negli ultimi vent’anni in contro tendenza con quanto verificatosi negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ed in particolare con riferimento alla “golden age” del capitalismo (grosso modo prima della crisi petrolifera di inizio anni’70)

Esaminiamo ora un altro componente della domanda aggregata, gli investimenti che dipendono dalla crescita attesa del mercato. Un solo punto va sottolineato con chiarezza: gli investimenti sono grosso modo insensibili al tasso di interesse (la teoria vorrebbe che un abbassamento del tasso di interesse comporti un aumento degli investimenti) come dimostrato dai fatti degli ultimi anni.

La spesa pubblica rappresenta, ovviamente, un elemento fondamentale (una prece per Keynes) per sostenere la domanda, incrementare l’occupazione (per decenza evito di parlare di “piena occupazione”) ed evitare il crollo del sistema. Di fatto con l’introduzione della religione della “responsabilità fiscale”, apologia indiretta e strumento ottimale ai fini del neoliberismo, la spesa pubblica ha cessato di essere uno strumento autonomo, i deficit vanno contenuti nei termini e nella misura che fanno comodo alla finanza globalizzata

Per quanto riguarda le esportazioni esse dipendono dall’economia globale. In presenza di grandi economie in espansione e crescita alcuni paesi riusciranno a trarne vantaggio ma in presenza di una generale stagnazione è solo possibile prevedere un aumento della disoccupazione (o di sicuro nessuna tendenza alla piena occupazione).

Una prima conclusione, sebbene insufficiente, abbastanza ovvia è che se potessimo staccare la nostra economia dall’economia globale (imponendo controlli sui flussi di capitale in entrata ed uscita – immagino l’orrore di molti su questo punto considerate le litanie ipnotiche sulla libertà di movimento dei capitali e tutto il “bene” che ne è derivato) e contemporaneamente liberando la politica fiscale dalle necessità e dal “comando” del capitale finanziario globalizzato si potrebbe potenziare la domanda aggregata e di conseguenza incrementare l’occupazione.

Una brevissima nota prima di concludere in particolare per Heiner che più volte ha lamentato la mancanza di proposte in presenza di analisi giuste, approfondite e persino condivisibili. Le proposte ci sono. Sono scomode, rompono equilibri di potere e sono in controtendenza rispetto ai mantra quotidiani. Voglio solo ricordare, ancora una volta, che il pluricitato Adam Smith quando parla della “mano invisibile” lo fa in termini di controllo del mercato ma non voglio tediarvi oltre.

(Continua à la Dickens)