elezioni politiche 2018

Trappole elettorali

Elezioni, le trappole sulla scheda che rischiano di fregare l’elettore. Manuale breve: primo, conoscere (bene) i candidati

Chi vota Giachetti, vota anche un ciellino. Chi sceglie la Meloni, dà una mano all’Udc che ha sostenuto tutti i governi “dell’inciucio”. Chi vota M5s, si prende un candidato già espulso. Non basta il ritorno dei nomi stampati sulla scheda: dentro la cabina bisogna stare attenti anche a dove si riflette la preferenza. Per questo nasce libertadivoto.it, piattaforma lanciata dal radicale Staderini, attraverso la quale ciascuno può trovare i candidati del proprio collegio.

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Chi è del Pd a Bologna vota Casini e ormai lo sanno tutti. A Modena vota la Lorenzin e anche questo è noto. Chi sceglie il M5s a Potenza o a Pesaro trova Caiata, indagato per riciclaggio ed espulso, e Cecconi, emarginato in qualità di caso alfa del caos sui rimborsi. A Pontida – la culla del leghismo – chi vuole essere fedele al Carroccio e lascia la sua ics sul simbolo di Alberto da Giussano, contribuisce all’elezione di Maurizio Lupi, ex fedelissimo alfaniano e perno dei “governi dell’inciucio” di questi anni. È il risultato dei giochi di prestigio del Rosatellum, il sistema elettorale che regola le elezioni politiche di domenica prossima. E’ il frutto di illusioni ottiche di una legge che invita a votare un partito e usa quel voto per dare la preferenza a un candidato che non si vorrebbe e che, al contrario, invita a scegliere un candidato e usa quel segno sulla scheda per ingrossare in realtà anche il risultato di una forza politica che non si sopporta. Il Rosatellumcome ha sottolineato più volte ilfatto.it anche nei giorni dell’approvazione, nasconde molti “trucchi” che impediscono una completa libertà dell’elettore dentro la cabina. Al cittadino resta un modo per “difendersi”: trasformare il proprio voto, farlo diventare il più consapevole possibile.

Non basta il fatto che sulla scheda, per la prima volta dopo molti anni, tornino stampati i nomi dei candidati. Anche perché, a una settimana dal voto, alzi la mano chi conosce i candidati che si ritroverà sulla propria scheda. Per questo l’ex segretario dei Radicali Mario Staderini, da anni impegnato in difesa dei diritti politici dei cittadini, ha creato e messo online libertadivoto.it, una piattaforma che consente di sapere quali sono i candidati di ogni collegio. “Insieme ai compagni radicali Giuseppe Alterio e Paolo Breccia – spiega a ilfattoquotidiano.it – abbiamo voluto offrire un servizio pubblico ai cittadini, che potranno conoscere i candidati del loro collegio inserendo l’indirizzo di residenza e scoprire se, per colpa della legge elettorale, per votare il loro partito al proporzionale saranno costretti a votare anche un candidato uninominale che loro considerano invotabile“.

Per cominciare si può ricordare che la legge è un sistema misto, cioè in parte maggioritario e in parte proporzionale. Ma non sono quote equivalenti: solo un terzo dei parlamentari sarà eletto con il criterio maggioritario col collegio uninominale (dove vince chi ottiene un solo voto in più dell’avversario), mentre gli altri due terzi di deputati e senatori saranno presi da listini bloccati con il criterio proporzionale: più la lista prende voti, più eletti scattano, a partire dal capolista (che ha quasi la certezza di essere eletto) e a scendere con gli altri (ci sono in tutto da 2 a 4 nomi a seconda della grandezza dei collegi).

Tutto chiaro? No. Perché la scelta dell’elettore è obbligata, annodata, intrecciata. Vediamo di sciogliere il nodo. Primo: scegliendo il candidato dell’uninominale, il voto è “trasmesso” anche ai partiti che lo sostengono (uno o più di uno). Secondo: scegliendo il partito, il voto si riflette in automatico anche sul candidato uninominale. Terzo: non ci sono le preferenze, quindi scegliendo un partito si prende il listino bloccato così com’è (anzi, ogni segno in più comporta un rischio di annullamento). Quarto: per la proprietà transitiva – poiché scegliendo il candidato dell’uninominale si vota anche il partito che lo sostiene – si contribuisce a votare i candidati nel listino bloccato del proporzionale. Il male originale è la mancanza del voto disgiunto: è così che il voto sulla scheda del Rosatellum nasconde in realtà tre voti diversi, un gioco di specchi che può portare l’elettore dove non vuole o comunque dove non immagina.

Tutto chiaro? No. C’è un’altra regolina che distorce ancora un po’ il voto, nota forse solo agli addetti ai lavori e agli elettori più attenti. Hanno, infatti, diritto a una rappresentanza in Parlamento solo le forze politiche che raggiungono il 3 per cento. Ma gli altri voti non sono tutti uguali: quelli che vanno ai partiti non coalizzati sono ripartiti tra tutte le liste che superano la soglia del 3, mentre quelli che vanno ai partiti coalizzati e che superano l’1 vengono ripartiti solo tra le forze della stessa coalizione. Facciamola più facile: se Civica Popolare (la listarella centrista di Beatrice Lorenzin) supera l’1 ma non il 3, le preferenze andate al suo simbolo vengono redistribuite tra i partiti che nella coalizione di centrosinistra superano il 3. Cioè, secondo i sondaggi, il Pd e PiùEuropa. Ancora più chiaramente: un voto agli ex berlusconiani come Lorenzin e Casini finirà per favorire la radicale Emma Bonino e non serve sottolineare quanto siano distanti le due posizioni politiche. Vale anche per il centrodestra: se Noi con l’Italia (soggetto in gran parte formato da ex democristiani) supera l’1 e non il 3, i suoi voti saranno redistribuiti alle altre forze della coalizione. Tradotto: i voti per CesaLupiFittoQuagliariello finiranno a Salvini. Anche in questo caso un voto “moderato” andrebbe ad ingrossare idee molto più radicali.

Proviamo a sciogliere qualche nodo e passare dalla teoria alla pratica.

Primo caso. A Latina all’uninominale per la Camera è eletta Giorgia Meloni, che pochi giorni fa ha organizzato una manifestazione “anti-inciucio”. Segnando il suo nome sulla scheda, il voto sarà ripartito in quota proporzionale anche a Noi con l’Italia, in gran parte formato da esponenti che hanno sostenuto i governi di LettaRenzi e Gentiloni. Naturalmente la stessa cosa vale per i candidati all’uninominale della Lega.

Secondo caso. A Reggio Calabria il centrosinistra (Pd e alleati) candida all’uninominale del Senato Vincenzo Mario Domenico D’Ascola, da tutti conosciuto come Nico. Cioè la quintessenza del berlusconismo, anche se lui ora si dice semplicemente “socialista da sempre”: eletto parlamentare col Pdl, è stato il legale di Gianpi Tarantini e di Claudio Scajola e anche socio dello studio di Niccolò Ghedini. Detto tutto questo: l’elettore che barrerà solo il simbolo del Pd, contribuirà all’elezione di D’Ascola.

Terzo caso. Ad Alba, in provincia di Cuneo, il Movimento Cinque Stelle ha inserito come capolista del listino bloccato per il Senato Carlo Martelli, uno dei parlamentari che ha nascosto di non aver fatto tutti i bonifici al fondo per le piccole e medie imprese. È stato già messo fuori dal M5S e lui dice che rinuncerà. In attesa che le parole si trasformino in fatti, Martelli sarà certamente eletto perché il suo posto è blindatissimo in un’area del Nord in cui i Cinquestelle peraltro vanno piuttosto bene. Votando il simbolo del M5S, l’elettore farà eleggere Martelli.

Quarto caso. A Sesto Fiorentino il candidato all’uninominale del centrosinistra è Roberto Giachetti. Parlamentare del Pd, è ex radicale nei modi (si ricorda il suo sciopero della fame per la riforma elettorale) ma anche nei temi, soprattutto sui diritti civili. È suo un ddl per la legalizzazione della cannabis, su biotestamento e unioni civili si potrà immaginare come la pensa. Ma nello stesso collegio, votando Giachetti, si dà forza anche alle liste che lo appoggiano e tra queste c’è anche Civica Popolare che, nella parte proporzionale, candida al secondo posto del listino Gabriele Toccafondi, berlusconiano storico poi diventato alfaniano e soprattutto da sempre ciellino: è contrario alla legalizzazione della cannabis, al biotestamento e alla legge Cirinnà sulle unioni civili. Chi vota Giachetti contribuisce alla possibilità che venga eletto anche Toccafondi (remota solo per i numeri minuscoli di Civica Popolare).

Naturalmente tutti questi esperimenti valgono anche di più con i cosiddetti “impresentabili“. Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, condannato per corruzione a sei anni, è candidato al Senato come capolista di Noi con l’Italia in tre circoscrizioni della Lombardia (MilanoMonza-Brianza e Brescia-Bergamo). Un elettore di centrodestra che voterà il candidato della parte uninominale dei tre collegi (Luigi PagliucaStefania Craxi, Adriano Paroli) non potrà evitare di dare il suo contributo anche al Celeste. Qui una via d’uscita c’è: basterà votare solo una lista – sempre del centrodestra – che non è quella di Formigoni (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia) senza barrare alcun nome. E in effetti votare il simbolo (come accadeva col Porcellum) è il consiglio che danno molti leader di partito, da Piero Grasso a Silvio Berlusconi a Giorgia Meloni.

Il vecchio che avanza

Elezioni, dimenticatevi i programmi e guardate alle persone. Guida al voto consapevole per evitare gli impresentabili

di Peter Gomez – ilfattoquotidiano.it, 12 febbraio 2018

Pubblichiamo qui di seguito l’introduzione, rivista dall’autore, de Il vecchio che avanza – I fatti, le storie, i protagonisti. Guida informata per un voto consapevole (edizione chiarelettere), il nuovo libro del direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez, da oggi in tutte le librerie italiane.

Il vecchio che avanza non vuole convincervi a votare per questo o quel partito. Su chi mettere la croce lo deve decidere solo il cittadino. Il libro vuole invece aiutare i lettori a maturare una scelta consapevole in vista del 4 marzo. Partendo dai fatti e non dalle promesse. Chi come me è andato a votare per la prima volta a inizio anni Ottanta ha ampiamente sperimentato quanto poco conti ciò che viene detto in campagna elettorale. L’Italia, secondo le ricerche internazionali, è il paese d’Europa con il più basso tasso di attuazione di programmi elettorali. Negli ultimi 20 anni in media solo il 45% dei provvedimenti che erano stati garantiti prima delle elezioni sono poi stati realizzati. Nel Regno Unito la percentuale sale invece al 90 per cento ed è alta persino in Portogallo (78%) e in Spagna (72%). Nessuno studio ha invece analizzato la particolarità italiana dei programmi realizzati al contrario. Cioè lo strano caso delle norme approvate dopo che si era affermato che non lo si sarebbe mai fatto. Come, per esempio, è accaduto con l’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, con la sistematica occupazione della tv pubblica, decisa dopo che era stato più volte ripetuto “Fuori i partiti della Rai”, o la sanatoria di 700mila immigrati irregolari da parte del secondo governo Berlusconi. Intendiamoci, sull’utilità e la bontà di questi provvedimenti, ciascuno è libero di pensarla come gli pare. Quello che invece nessuno può contestare è che queste decisioni siano state prese dopo che ai propri elettori si era detto l’esatto contrario.

Anche per questo, col tempo, ho capito che in politica le idee sono certamente importanti, ma che camminano sempre e solo sulle gambe degli uomini e delle donne. Scegliere le persone giuste è fondamentale. Del resto già nell’Ottocento il barone Otto Von Bismark diceva “Non si mente mai così tanto come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia”. E l’ammissione non gli ha impedito di essere l’artefice dell’impero tedesco e l’ideatore di un sistema previdenziale che poi tutti nel mondo avrebbero copiato.

Di cancellieri di ferro in giro però non se ne vedono. Come ogni cinque anni c’è invece tanta gente che pretende non il voto, ma un atto di fede. Ricordare cosa ha combinato quando in passato è stata al governo o all’opposizione conta dunque più delle parole. Se, per esempio, si è affascinati dall’idea di potere un giorno pagare un’aliquota unica sul reddito del 23 per cento come propone Silvio Berlusconi, è giusto sapere che il leader di Forza Italia promesse analoghe le ha già fatte. Senza mantenerle. È accaduto nel 1994 quando promise una flat tax al 30 per cento e nel 2001, quando nel contratto con gli Italiani firmato in diretta tv, si era impegnato ad arrivare nel giro di cinque anni a introdurre un’aliquota “al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui (circa 100mila euro nda)” e del 33% per quelli superiori.

Se poi, come chi scrive, siete convinti che il riscatto anche economico di questo Paese non può che passare attraverso una seria lotta alla corruzione, alle mafie e all’inefficienza sarà per voi utile capire chi presenta liste pulite e chi no. Gli elenchi dei candidati sono stati presentati solo poche ore prima della stampa del libro: ma una rapida ricognizione è stata sufficiente per scovare decine e decine di indagatiimputaticondannati in primo grado, voltagabbana, furbetti e parenti o figli di.

Conoscere i loro nomi e le loro storie serve per poter valutare i criteri con cui i partiti hanno selezionato le loro future classi dirigenti. Non per moralismo. Ma perché le quote marroni della politica condizionano il vivere civile. Il garantismo deve sempre valere nelle aule di tribunale dove un imputato deve essere considerato colpevole solo al di là di ogni ragionevole dubbio. Nelle istituzioni di uno dei paesi più corrotti d’Europa è invece bene applicare criteri di normale buon senso. Perché se è vero che un avviso di garanzia non trasforma nessuno in un criminale, non si possono nemmeno considerare gli avvisi (e i processi e le condanne) dei titoli di merito.

Fare politica, rappresentare gli italiani, implica onori e oneri maggiori rispetto a quelli dei normali cittadini. Se finisci sotto indagine, se sei sotto processo, magari non ti impongo di dimetterti, ma di certo non ti faccio fare carriera. Scelgo invece qualcuno che sotto inchiesta non è. Non perché penso che tu sia colpevole, ma perché voglio preservare la reputazione e la credibilità del mio partito e delle istituzioni. Sempre che una reputazione la mia forza politica l’abbia ancora.

Invece, qualunque sarà il risultato, nel prossimo parlamento assisteremo come in un horror di serie B al ritorno dei morti viventi. Basta poco per rendersene conto. È sufficiente guardare le liste. Quegli elenchi di nomi che raccontano come l’Italia tra poco passerà dal sogno della rottamazione all’incubo della restaurazione. Dire che il Pd, accanto a pochi buoni candidati, ha presentato alcuni personaggi ignobili, molti discutibili e molti impresentabili, non significa essere antirenziani. Vuol dire fare cronaca. Riportare i fatti. Poi, una volta informato, ogni elettore deciderà cosa fare. Se scegliere un altro simbolo o votare per chi in Sardegna e nel Lazio candida sei imputati per peculato, in Sicilia ha imbarcato nel centrosinistra l’ex capogruppo del Movimento per l’autonomie di Raffaele Lombardo più una mezza dozzina di ex esponenti del centrodestra, e in Lombardia Paolo Alli, lo storico braccio destro di Roberto Formigoni da poco sotto processo per tentato abuso d’ufficio.

Affermare che Forza Italia, specie nel sud Italia, candida persone che per la loro storia, le loro frequentazioni e in qualche caso le indagini in corso piacciono ai clan, è dire solo la verità. Cosa ritenete che penseranno i boss e i loro scagnozzi quando leggeranno sulla scheda i nomi del senatore campano, Luigi Cesaro, detto Gigino purpetta, indagato per voto di scambio e con i due fratelli, Aniello e Raffaele, sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa? Quale sarà il segnale colto da Cosa Nostra quando vedrà in lista Antonio Mineo, figlio di Franco, un ex consigliere regionale condannato a otto anni e due mesi in primo grado per intestazione fittizia di beni con l’aggravante mafiosa e peculato? Davvero credete che gli uomini del disonore non si sentano rassicurati dal saper che Mineo Junior (mai indagato) diceva intercettato a Pietro Scotto, un trafficante di droga processato e assolto per la strage di via D’Amelio, “minchia, che figli di puttana sono questi pentiti”.

Tanti anni fa, nel 1989, Paolo Borsellino, un giudice di destra che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia rivendicano come parte del loro pantheon, spiegava: «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse sole del problema della mafia […]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! […] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!».

Certo, per decidere il proprio voto, per molti cittadini la memoria di Borsellino non basta. Gli anni passano e tutto perde colore. Ci sono i problemi del lavoro. Quelli dell‘immigrazione. La ripresa è partita, ma va ancora troppo piano. Secondo le previsioni della commissione Ue nel 2018 il Pil registrerà un 1,5 per cento in più. Meglio che in passato, ma non ancora abbastanza per schiodarci dall’ultimo posto tra i paesi dell’Unione. Ci sono dieci milioni di poveri, il numero più grande d’Europa. Alle urne ciascun italiano ha il diritto di andare con in testa i suoi problemi e le sue convinzioni.

La legge elettorale oltretutto è pessima. È stata pensata per non far vincere nessuno, per spingere destra e sinistra a mettersi insieme in modo di governare il Paese con le larghe intese. Il progetto dei suoi ideatori era quello di riportare, grazie a un sistema di fatto proporzionale, l’Italia alla prima repubblica e andare oltre. Fino a un nuovo compromesso storico: quello tra Renzi e Berlusconi. Arrivati a questo punto però solo le urne e numeri ci diranno se sarà davvero così.

In ogni caso i giornali raccontano che il pregiudicato leader di Forza Italia ha rassicurato due volte agli amici del Partito Popolare europeo: “La Lega? Comunque vada non sarà nell’esecutivo con noi”. Di alleanze post voto con lui si parla invece esplicitamente nel Partito Democratico. Lo hanno fatto nel tempo il capogruppo al senato Luigi Zanda, il ministro dell’economia Piercarlo Padoan e Emma Bonino, la pasionaria dei diritti civili alleata dell’ex Dc Bruno Tabacci e in corsa con il centrosinistra: “Larghe intese? Vedremo dopo il 4 marzo. Io con Berlusconi nel ’94 ci ho già governato”

Non è vietato votare questi partiti che paiono decisi ad azzerare ogni residua differenza tra destra e sinistra. Basta però essere consapevoli delle loro intenzioni e condividerle. Altri tipi di voto sono però possibili.

Si può scegliere chi, secondo i sondaggi e la legge elettorale, pare destinato a stare all’opposizione (per esempio Liberi e Uguali o il Movimento cinque stelle). E lo si può fare partendo da una constatazione. Qualunque sarà la maggioranza dopo il 4 marzo, è necessario che in parlamento ci sia una forte opposizione non consociativa. Perché in ogni democrazia la prima e più importante funzione di controllo sull’operato di governo, non spetta alla stampa o alla magistratura, ma alla minoranza. Conoscere la storia e le opere dall’opposizione, i suoi candidati buoni o cattivi, gli errori che ha commesso e i suoi eventuali pregi, serve dunque per fare una scelta ponderata.

Come può benissimo essere ponderato pure il voto contro. Quello che in ciascun collegio guarda i nomi messi sulla scheda dalle varie formazioni politiche e decide semplicemente di mandare un sonoro no ai peggiori. Ovvio, lo sappiano. Il Rosatellum è un terno al lotto. Ci sono alleanze elettorali con partiti che non raggiungeranno la soglia del 3 per cento necessaria per entrare, ma i cui voti verranno sommati agli altri nei collegi uninominali se raggiungono l’1 per cento a livello nazionale. Sono consentite le candidature multiple. Nel proporzionale i listini sono pure bloccati, e un elettore rischia di riuscire a bocciare qualcuno nel suo collegio per vederselo poi ricomparire da un’altra parte. Oppure lo vota, ma finisce per eleggere un candidato diverso perché il suo ha optato per un’altra zona. La sottosegretaria Maria Elena Boschi, per esempio, è stata presentata all’uninominale a Bolzano e come capolista nel proporzionale in sei diverse zone della Lombardia, del Lazio e della Sicilia. Giusto per essere sicuri che rientri in parlamento.

È la vendetta della Casta. Quella che, come recita un proverbio basco, ti piscia addosso e ti dice che piove. Ecco, questo libro è come un ombrello. Serve per non uscire completamente fradici dalla pioggia del prossimo marzo. È una guida, certamente incompleta, a chi la pensa ancora come un grande liberale del passato, Luigi Einaudi: “Bisogna conoscere per deliberare”. Senza mai dimenticare che se anche si è disgustati, se si è convinti che nessun partito, movimento o candidato ci possa rappresentare, un fatto è certo: da sempre gli amministratori peggiori vengono eletti da quei bravi cittadini che non vanno a votare.

Comunque la pensiate, buon voto a tutti.

Studiare gratis

Tasse universitarie, l’Italia terza più cara d’Europa. Poche borse di studio e nessun aiuto per affitto e bollette

Il leader di LeU Grasso ha proposto di abolirle. Un’idea giudicata “trumpiana” da Calenda e criticata dal Pd e dall’ex ministro Vincenzo Visco. Per capire però se e quale sia il sistema di sostegno per gli studenti, bisogna considerare anche altre esenzioni e agevolazioni. E guardando all’estero la situazione è molto diversa dalla nostra: in Nuova Zelanda, ad esempio, ci sono contributi per le spese di alloggio e in Germania, dove gli studi sono gratis, l’iscrizione all’Università è legata solo al pagamento di un abbonamento ai mezzi pubblici.

di Luisiana Gaita – ilfattoquotidiano, 15 gennaio 2018

In Italia non solo le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa, ma il nostro Paese non è neppure fra quelli che sostengono maggiormente l’istruzione dei giovani. Tra gli Stati dove l’università è economicamente più accessibile ci sono sicuramente Germania, Danimarca, Finlandia, Svezia, Scozia e Norvegia. Le rette più alte sono quelle della Gran Bretagna, anche se nel Regno Unito gli studenti possono iniziare a pagare dopo la laurea. La recente proposta del presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso di abolire le tasse è stata criticata in primis dal Pd, ma anche dall’ex ministro Vincenzo Visco, secondo il quale in Italia “sono così basse che non è che abolendole succeda molto” e dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda che l’ha definita una misura “trumpiana” che sarebbe un “supporto fondamentale alla parte più ricca del Paese”, perché “oggi sono già esentati gli studenti con reddito basso”. Ma è davvero così? “La misura – ha spiegato intanto Grasso – costa 1,6 miliardi: avere un’Università gratuita, come avviene già in Germania e tanti altri Paesi europei significa credere davvero sui giovani, non a parole ma con fatti concreti”. Da LeU, a difendere la proposta di Grasso, sono stati Nicola Fratoianni e Roberto Speranza. Ma rispetto agli altri Paesi europei, in Italia si paga davvero di più per frequentare l’Università? Cosa succede altrove? Per avere un’idea del sostegno che si dà (o non si dà) agli studenti italiani e ai loro genitori, anche in confronto ad altre realtà, bisogna tenere presenti diversi fattori. Non solo i costi di iscrizione all’Università, ma anche il sistema di esenzioni e le borse di studio.

Le tasse universitarie in Italia – Secondo l’Ocse negli ultimi dieci anni le tasse universitarie sono aumentate in Italia del 60%, facendo piazzare il Paese al terzo posto della classifica dei più cari d’Europa, dopo Olanda e Regno Unito. D’altro canto, a fine anno, l’Unione degli Universitari ha denunciato nel dossier Dieci anni sulle nostre spalle che mentre in Italia le borse di studio sono poche e insufficienti a sostenere i costi da affrontare, la tassazione media che pesa sugli studenti universitari è aumentata di 473,58 euro negli ultimi due lustri. Una prima grande differenza con diversi Paesi è che in Italia le rette le pagano sia gli studenti europei sia quelli extracomunitari. Nell’Università pubblica le rette partono dai circa 500 euro per arrivare a superare i duemila euro, a seconda del reddito Isee della famiglia e dell’ateneo. Si segue quindi un sistema progressivo con il quale, già oggi, chi ha un reddito basso non paga, mentre la retta aumenta in modo proporzionale al reddito.

Chi ha pagato, chi pagherà – Nel 2016 sono stati quasi un milione e 700mila gli studenti che si sono iscritti a corsi di laurea, dottorati, master e specializzazioni, oltre un milione e mezzo solo ai corsi di laurea. E di questo milione e mezzo quelli esonerati totalmente dal pagamento delle tasse sono stati 176mila, mentre in 134mila hanno ottenuto uno ‘sconto’. Nell’ultima legge di Stabilità, però, il governo Gentiloni ha inserito il cosiddetto Student Act che esonera dal pagamento delle tasse tutti gli studenti le cui famiglie hanno un Isee inferiore a 13mila euro. Diverse Università hanno aumentato il limite stabilito dal governo, non facendo pagare le tasse agli studenti con Isee inferiore a 15mila euro. L’Istat stima che questa novità ridurrà il costo delle tasse del 39,3%. Secondo un’analisi del Sole 24 Ore la decontribuzione per il 2017/2018 porterà a quasi 600mila gli studenti che non pagheranno tasse e a 500mila quelli che beneficiano dell’esenzione parziale. Questo significa che oggi un terzo degli studenti non paga le tasse universitarie e un terzo paga importi agevolati. A chi gioverebbe quindi l’abolizione? In Italia sborsano la retta intera gli studenti con alle spalle famiglie che presentano un reddito Isee superiore a 30mila euro. Quindi se è vero che quelle meno abbienti sono già esonerate, è anche vero che quelli che pagano non sono necessariamente ‘figli dei ricchi’ che, tra l’altro, frequentano sempre più spesso università private, anche straniere. La differenza potrebbero invece sentirla le famiglie che hanno un reddito medio e sul cui budget le rette universitarie influiscono eccome.

Il confronto con i Paesi europei – Ma per fare un confronto con gli altri Paesi è necessario considerare tutta una serie di agevolazioni che fanno sistema altrove e che da noi sono ancora una chimera. Si parte sì dalle tasse, per arrivare a borse di studio, sostegno per gli studenti che vivono da soli e ad altri tipi di agevolazione. Basti pensare che in Italia solo il 9-10% degli universitari percepisce una borsa di studio a fronte del 25% in Germania, 30% in Spagna e del 40% in Francia. Secondo un rapporto Eurydice per la Commissione europea i Paesi europei dove non esistono, o quasi, tasse universitarie sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, Scozia, Grecia, Malta e Cipro. In Germania e Austria sono state prima introdotte e poi abolite. In Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia gli studi sono gratuiti solo per gli europei: in Austria la tassa annuale per gli studenti che non provengono da un Paese dell’Ue va dai 600 ai 1.500 euro, in Danimarca dai 6mila a 16mila euro, mentre in Finlandia è stata di recente introdotta una tassa di 1.500 euro, ma solo per i corsi di laurea in inglese. Decisamente più alte, invece, le tasse in Italia e in Paesi come Spagna, Irlanda, Olanda, Portogallo e Svizzera. In diverse realtà, poi, c’è un legame tra le tasse universitarie e il merito: accade, ad esempio, in Spagna come in Austria, in Polonia come in Slovacchia.

Danimarca, Finlandia, Scozia e Germania tra i più virtuosi – Come ricordato da FQ Millennium Danimarca, Germania, Finlandia e Norvegia sono quattro Paesi accomunati da due fattori: non ci sono tasse universitarie ed esiste un ottimo sistema di erogazione delle borse di studio. Gli studenti a tempo pieno residenti in Danimarca ricevono un aiuto economico a cadenza settimanale o mensile per l’intera durata della loro carriera accademica. Per gli universitari che vivono a casa dei genitori il valore delle borse di studio va dai 124 euro (se il reddito familiare supera i 76.900 euro) ai 346 euro (se il reddito è pari o inferiore ai 45mila euro). Gli studenti che vivono da soli, invece, possono ricevere fino a 804 euro al mese. Il 38% degli studenti danesi utilizza poi i prestiti al 4% d’interesse: possono arrivare a 411 euro al mese e può beneficiarne anche chi già ha ottenuto una borsa di studio. In Finlandia, invece, tra prestito statale (3.600 euro) e borsa di studio ogni studente ha a disposizione ogni anno la somma massima di 11.260 euro. Nel caso in cui abbia un reddito inferiore agli 11.850 euro, lo Stato garantisce allo studente un aiuto per la copertura di parte delle spese di affitto: 201 euro al mese per 9 mesi. E anche in Finlandia funziona molto bene il sistema dei prestiti da parte del governo: 400 euro al mese, che si iniziano a restituire generalmente entro due anni dalla laurea. In Scozia, l’agenzia governativa Student Awards Agency for Scotland paga agli studenti europei l’intera retta universitaria a patto che gli esami vengano superati nei tempi previsti.

In Germania e Norvegia si pagano (scontati) solo i servizi – In Germania il sistema non è neppure paragonabile al nostro. Non esiste alcuna tassa, né per gli studenti europei, né per quelli che arrivano da altri Paesi extra Ue. L’iscrizione all’Università è legata solo al pagamento di un abbonamento ai mezzi pubblici: si tratta di una somma tra i 100 e i 200 euro a semestre che copre i costi di trasporto. Ma c’è di più. Il programma di sostegno BAföG garantisce agli universitari under 30 un sussidio individuale che può arrivare fino a 735 euro al mese per un anno composto per il 50% di una borsa di studio erogata in base al merito (la cui entità va dai 300 ai 1.035 euro, dipende dal reddito e dalla situazione familiare) e per l’altra metà di un prestito garantito dallo Stato, che riguarda i costi non coperti dal BAföG. Si tratta di 300 euro mensili per un massimo di 7.200 euro in 2 anni, che vanno restituiti a partire dal 4° anno dopo la concessione in rate da 120 euro. A questo c’è da aggiungere che lo Stato interviene per assicurare l’alloggio a tutti i cittadini europei residenti in Germania sotto una certa soglia di reddito, che siano studenti o no. Anche in Norvegia gli studenti sono tenuti a pagare solo una somma modesta (fra i 30 e i 60 euro a semestre) che copre i costi di carta, assistenza sanitaria, trasporti gratuiti e garantisce diversi sconti per attività ed eventi culturali.

Gran Bretagna: tasse alte, ma si paga dopo la laurea – In Scozia la triennale è gratuita e per la magistrale si arriva a 5mila euro l’anno. Nel resto del Regno Unito, invece, gli studenti devono sborsare fino agli 11mila euro l’anno per il conseguimento della triennale, ancora di più se si tratta di cittadini non europei. Le tasse sono state aumentate nel 2012, con la revisione del sistema di istruzione. Le tasse, però, possono essere pagate dopo la laurea, a patto che si rispettino i tempi previsti. C’è da dire che già nel 2016 l’organizzazione no profit Sutton Trust aveva segnalato un debito medio record di 44.500 sterline per i laureati inglesi del 2015. Non è un caso se di recente Jo Johnson, ministro dell’Università e della ricerca, ha annunciato che agli studenti saranno offerti corsi universitari di due anni, ad un costo ridotto rispetto a quello triennale. Molto alte le tasse anche in Olanda: gli studenti europei arrivano a pagare anche più di 2mila euro, mentre i non europei sborsano fino a 12mila euro. Relativamente alte anche le tasse spagnole: le triennali costano dai 700 ai 2mila euro all’anno, mentre per la magistrale si può arrivare fino a 4mila euro l’anno.

Francia, tasse basse pagate da tutti – In Francia le tasse le pagano tutti, ma rispetto ad altri Paesi dell’Ue sono piuttosto basse. La laurea magistrale costa 181 euro all’anno, un master 250 euro e un dottorato 380 euro. Fanno eccezione le Università di medicina e i politecnici. Nelle prime si può arrivare a pagare 450 euro all’anno, nei prestigiosi politecnici 596 euro. Per i redditi più bassi le tasse di abbassano di circa 30 euro. Anche in Francia, però, lo Stato aiuta gli studenti con l’alloggio: si possono ricevere dai 115 ai 200 euro al mese.

Negli Stati Uniti milioni di famiglie indebitate – Dando uno sguardo al di fuori dei confini europei, è significativo quanto accade negli Stati Uniti. Come in Gran Bretagna, anche negli Usa iscriversi all’Università rischia sempre più di essere un lusso. Sono 44 milioni gli americani titolari di prestiti contratti proprio per accedere agli atenei. Si tratta del 13% della popolazione. Le rette delle università pubbliche per l’anno accademico 2016-2017 ammontavano in media a circa 20mila dollari, il 2,6% in più rispetto all’anno precedente.

Nuova Zelanda, il paradiso – In Nuova Zelanda non solo lo Stato paga le tasse universitarie, ma non chiede neppure il rimborso. A garantire questo tipo di sostegno è lo Student Allowance, il programma del ministero dello Sviluppo sociale che prevede un finanziamento statale di 380 dollari a settimana a fondo perduto. Può farne domanda chi studia full time dai 18 ai 65 anni, ma anche chi ha tra i 16 e i 17 anni con un figlio a carico e un partner. Ma il governo della Nuova Zelanda mette a disposizione fondi anche per i giovani con figli a carico che vivono con i genitori o che non abitano con loro e non ricevono nessun aiuto economico. E per affitto e bollette c’è lo Youth Service: 50 dollari a settimana.

Chiti, La democrazia nel futuro

Chiti: “Gentiloni doveva fare sì che Boschi salutasse. Il Pd? Se si allea con Forza Italia scompare”

Vannino Chiti: “Il 40% alle Europee valeva comunque meno voti di quelli presi da Veltroni nel 2008, ma nessuno ha osato muovere appunti”.

Vannino Chiti

di Luca De Carolis – ilfattoquotidiano.it, 15 gennaio 2018

“Dopo 16 anni in Parlamento era giusto lasciare. Ma la decisione finale l’ho presa dopo quanto avvenuto sulla legge elettorale, piovuta in Senato con un voto di fiducia: per me è stata l’ultima goccia”. In una mattinata romana il senatore Vannino Chiti ragiona di passato prossimo e di futuro. Cresciuto nel Pci, presidente della Regione Toscana, ministro con Romano Prodi e sottosegretario a Palazzo Chigi con Giuliano Amato, non si ricandiderà. Cercherà di aiutare da fuori quel Pd che ancora difende: “L’idea era buona, però non le abbiamo dato le gambe giuste”. Contrario alle riforme renziane, ha comunque sostenuto il Sì nel referendum perché “ci furono correttivi concordati con la minoranza e pacta sunt servanda”, e ha disapprovato la scissione di Mpd. Di questo e molto altro scrive nel libro La democrazia nel futuro (Guerini e associati).

Lei parte dalla crisi della sinistra in tutto l’Occidente. Ma perché questo tracollo?
La sinistra è stata subalterna rispetto alla globalizzazione. Non aveva gli strumenti per governarla, perché non ha saputo affrontarla in ottica internazionale, l’unico modo con cui si poteva gestire. Ogni partito europeo è rimasto chiuso nei confini nazionali.

Perché la globalizzazione ha prevalso così facilmente?
Perché si veniva anche dalla sconfitta dell’Urss e del socialismo reale. Non palpitavo per quel sistema, ma per quel crollo hanno pagato tutte le forze socialiste: l’alternativa al capitalismo aveva fallito.

Negli anni ’90 a sinistra furoreggiava la “terza via”.
Doveva essere un modo di sinistra per orientare la globalizzazione. L’idea era che il pubblico lasciasse spazio anche al privato, per esempio nel welfare, e che fosse necessario attenuare le regole nell’ambito del lavoro. Ma non ha funzionato.

Uno degli apostoli della terza via era Tony Blair.
Veniva in vacanza ogni estate in Toscana, quando governavo la Regione. Una volta mi disse che voleva portare la Gran Bretagna nell’euro.

Blair disse di avere un erede italiano, Matteo Renzi. Lei l’ex premier quando l’ha conosciuto?
Quando ero presidente regionale. Fu a un dibattito pubblico a Pontassieve (Firenze), dove presentavo un libro. Non ricordo cosa disse, quindi non rimasi molto colpito. Poi nel 2001 ci sentimmo molto per le Politiche. Da coordinatore della Margherita, lui appoggiò la mia candidatura nel collegio uninominale di Firenze. A coordinare il mio comitato elettorale era Dario Nardella. E il mio avversario era Denis Verdini.

Quanto è stretto il legame tra Verdini e Renzi?
Hanno relazioni pre-politiche. Il senatore aveva rapporti con il padre e la sua famiglia.

Poi sono arrivati i rapporti politici…
Verdini è stato il ponte tra Renzi e Berlusconi: è un pragmatico.

Fu pragmatico anche quando a Firenze candidò contro Renzi l’ex portiere di calcio Giovanni Galli?
Senza dubbio.

Lei come si trovava con l’ex premier?
Con me è sempre stato corretto. Nel 2009 mi chiese di fare il sindaco di Firenze, perché voleva rimanere presidente della Provincia. Ma ho avuto forti dissensi politici con lui, a cominciare dall’uso del termine rottamazione.

Lei racconta di vari incontri in cui discutevate di legge elettorale e riforme. Renzi le rispondeva sempre che bisognava fare in fretta.
La velocità e lo svecchiamento servono. Ma il come? E la condivisione?

Renzi affonda sulla riforma costituzionale.
L’errore primario è stato non dividerla in più leggi costituzionali. E poi il Senato avrebbe dovuto diventare un vero Bundesrat sul modello tedesco, espressione delle Regioni. Oppure restare elettivo.

Lui non capiva?
Renzi riconosceva i difetti della riforma. Ma l’unica cosa che gli premeva era il taglio dei costi. Lo ripeteva sempre. Voleva inseguire i grillini sul loro terreno: errore grave.

Lei scrive di “accecamento” nel Pd dopo il 40,8 nelle Europee.
Erano meno voti di quelli presi da Walter Veltroni nelle Politiche del 2008, ma nessuno lo notò. E nel Pd per lungo tempo nessuno ha osato muovere appunti al segretario. Io gli riconosco doti, come il coraggio e la capacità di lavoro. Ma gli ho sempre detto ciò che ritenevo giusto.

Lei scrive: “Non ci possono dire che il patto del Nazareno è saltato per l’elezione di Mattarella al Quirinale”.
Le intese vanno fatte in modo trasparente, altrimenti restano dubbi. Non so cosa prevedesse, e perché venne meno,

Lei definisce il giglio magico “inadeguato”.
Renzi si è circondato di persone inesperte e incompetenti.

E Boschi sul caso banche?
Occuparsi del proprio territorio non mi pare un problema, e certi attacchi nei suoi confronti sono stati vergognosi.

Ma?
Io rimprovero a lei e a tutto il Pd errori politici. E il primo è stata la mozione del Pd su Bankitalia (quella contro il governatore Visco, ndr), autogol clamoroso. Boschi conosceva quel testo? Gentiloni non è stato coinvolto. Al posto del premier avrei fatto in modo che lei salutasse.

Il secondo errore?
La commissione sulle banche. Andava fatta nella prossima legislatura, con una chiara conclusione temporale.

Ora come si riparte? Il Pd se la vedrà anche con LeU.
Io ero contrario alla scissione, le fratture non hanno mai giovato alla sinistra. Ma stimo Pietro Grasso, e penso che vada ricostruito un centrosinistra plurale, al più presto.

Il Pd rischia di scomparire in caso di sconfitta?
Potrebbe accadere in caso di alleanza con Forza Italia. In quel caso verrebbe meno la speranza di ricostruirlo.

Chiti, ora cosa farà?
Politica, perché è la mia vita. Lavorerò per la riunificazione della sinistra. Ma devo ancora capire come.

La Boschi no

Appello a Renzi: non candidare Boschi

di Luca Di Bartolomei – strisciarossa.it, 5 dicembre 2017

Bisogna che sia chiaro, proprio nel momento in cui per speculazione elettorale i grillini e la Lega chiedono le dimissioni di Maria Elena Boschi: la sottosegretaria è fuori da ogni indagine, è estranea così come il governo con le sue azioni da responsabilità. Ma vorrei porre una domanda a Matteo Renzi: vogliamo davvero affrontare la campagna elettorale con sul tavolo questa fonte di aggressioni, polemiche, continuo scambio di accuse?

Io penso di no e penso che per sminare il terreno sarebbe bene se Renzi chiedesse alla Boschi un atto di generositá: la disponibilitá a non candidarsi alle prossime politiche. Capisco sia molto difficile visto lo strettisimo rapporto politico e umano che un leader ha verso le persone a lui più vicine, quelle di cui più di tutte si fida e nelle mani delle quali consegna spesso responsabilitá importanti. Peró credo che sarebbe davvero un atto dirompente, uno di quelli che dimostrano amore verso il proprio partito e ricambiano di quanto la nostra comunitá ha offerto loro in questi anni di battaglie durissime.

So (e comprendo) l’obiezione per la quale la non candidatura per accuse tutte da dimostrare nei confronti non già della sottosegreteria bensì del di lei padre sarebbe una resa al populismo giustizialista. Ma se è il Pd a rovesciare le carte l’effetto politico sarebbe inverso. Ci stiamo avvicinando ad una campagna elettorale che segnerà uno spartiacque fra il Paese che conosciamo e quello che verrá: in una situazione di polarizzazione frammentata, di confusione così pazzesca sarebbe opportuno presentarsi come una “forza tranquilla”, evitando magari di porre in lista per questo giro persone che per la loro recente storia – diretta e indiretta, positiva e negativa – hanno prodotto così tante divisioni nell’opinione pubblica italiana.

Politicamente parlando chieder loro un po’ di generosità inserendo in lista magari tutti quegli amministratori locali di piccoli comuni abituati a fare coi modi di chi sa comporre nell’interesse di una comunità sarebbe un segnale di grandissima forza e porterebbe, di certo, molti più voti in una lotta contro le destre che oggi ci vede assai indietro.

Il PD ha già perso

segnalato da Barbara G.

Il PD ha già perso, e non c’è coalizione che possa cambiare il suo destino

di Paolo Cosseddu – possibile.it, 18/10/2017

I giornali e i tg di oggi traboccano di reportage embedded dal treno di Renzi, un Renzi che fa gioco di squadra, che punta al 40 per cento, che apre alle coalizioni senza veti, nemmeno per D’Alema. Tutto bellissimo, ma chi ci crede? Senza citare nessuno dei mille possibili precedenti, basta guardare l’articolo di fianco, quello in cui Renzi scarica il barile su Bankitalia, per trovare prove dell’affidabilità e credibilità del personaggio. Ciò nonostante la questione si ripropone nel dibattito mediatico e politico: le aperture di Renzi e la chiamata alle armi per non far vincere gli altri. Peccato che sia tutto completamente falso.

Il centrosinistra, si sa, non è mai stato agilmente maggioranza, in questo Paese (e men che mai la sinistra senza centro, checché ne dicano i revisionisti): ha vinto le elezioni due volte con Prodi, in un contesto rigidamente bipolare e sempre per un soffio, malgrado le temporanee divisioni concomitanti nel campo avverso. Nel 2013 Pierluigi Bersani si presentò come favorito assoluto, in uno schema di centrosinistra classico – con Berlusconi al minimo storico, travolto dagli scandali e dalle pressioni sovranazionali – e pur premiato da un sistema elettorale che gli consegnò la bellezza di 467 parlamentari si fermò al 29,55 per cento, con il centrodestra al 29,18 a un pelo dalla clamorosa remuntada e la grande sorpresa del M5s al 25,56. Nella coalizione Italia Bene Comune, il Pd, pur rinvigorito dall’appassionante sfida delle primarie in cui Renzi arrivò secondo, si fermò al 25,43, con Sel al 3,2 e meno di un punto suddiviso tra Svp e Centro democratico. Le analisi del giorno dopo si concentrarono su due aspetti, indicati come decisivi del mancato successo: il supporto al governo lacrime e sangue di Monti e alle larghe intese, e la cattiva comunicazione di marca bersaniana.

Ora, c’è qualcuno che seriamente può pensare che gli ultimi cinque anni, uniti alla leadership di Matteo Renzi, costituiscano una premessa migliore rispetto a quella del 2013? Tutto qui.

Intanto, come già scritto nei giorni scorsi,  il sistema elettorale è diverso: il Porcellum fu terribile e lungamente osteggiato, ma per assurdo premiò il Pd più di tutti, consegnandogli una gigantesca pattuglia parlamentare che però, per quanto enorme, non bastò a dargli la maggioranza. Con la legge attualmente in discussione, qualcuno ha calcolato che per raggiungere il fatidico 40 per cento il Pd dovrebbe vincere in oltre il 60 per cento dei collegi uninominali. Fantascienza pura, in realtà dovrà lottare anche nei feudi rossi per non arrivare terzo.

Secondo, il centrosinistra non c’è più:. Quello del 2013 era forse discutibile, ma quantomeno esisteva: oggi no. A furia di tagliare ogni questione con l’accetta ci si dimentica che quella formula era la risultante dell’incontro di varie culture politiche che il Pd degli ultimi anni ha sistematicamente e volutamente demolito. La legislatura, non dimentichiamolo, è iniziata con Renzi ancora sindaco che si lanciava contro i cattolici democratici (nell’occasione, per questioni tutte interne di posizionamento in seguito alla candidatura di Marini a Presidente della Repubblica). E questi erano quelli a lui più vicini, la sua area di appartenenza: figuriamoci gli altri. Il Segretario del Pd è uno che interviene alle Feste dell’Unità rivendicando di essere lui la sinistra, lui l’ambientalismo, lui i cattolici in politica, lui tutto. Lui quello che ha riaperto l’Unità, ricordate? Ancora se ne parla, diciamo. Tutte cose di cui poi si è detto che valevano lo zerovirgola, peccato solo che togli uno zerovirgola oggi, togline uno domani, e puf, il centrosinistra non c’è più.

Perché il centrosinistra non era solo far convivere Mastella con Bertinotti, bensì costruire con fatica – enorme fatica – l‘idea che persone provenienti da mondi diversi potessero trovare un terreno comune. E mettersi d’accordo su quale fosse quel terreno comune era il 99,9 per cento di quella fatica, che infatti frustrava tantissimo i potenziali elettori, dava continuamente modo ai giornali di ricamarci e che, ripetiamo, al massimo delle sue potenzialità, insomma nella migliore delle ipotesi, vinceva con stretto margine. Renzi può aprire a D’Alema quanto vuole, ma di quella roba non c’è più niente, e non c’è più niente perché è stato proprio lui, a proporsi come quello che con la leadership avrebbe archiviato quei faticosi caminetti. Cosa che ha funzionato solo fino alle europee del famoso 40,8 per cento, quelle in cui si è creduto che davvero lui avrebbe incarnato, con la sua sola leadership, tutto quanto. Non poteva durare e infatti, dopo di allora, il diluvio: certo i caminetti e le discussioni del vecchio centrosinistra erano brutti, ma con il senno di poi è venuto fuori che anche allontanare i propri elettori a calci in bocca, colpendoli sistematicamente in tutte le loro convinzioni più sensibili (scuola, diritti sul posto di lavoro, ambiente, e così via) alla lunga non paga (eufemismo). Ha avuto l’occasione storica di fare sintesi, con un sostegno senza precedenti, ha preferito asfaltare tutto ciò che non fosse esattamente a sua immagine e somiglianza, e se oggi sembra tornare indietro è solo perché sta ingranando la retro, è semplicemente la sua natura ed è assolutamente trasparente.

Infine c’è la questione comunicativa. Che è interessante, proprio alla luce delle critiche – giuste – fatte a Bersani 2013: forse il Pd, il sistema mediatico e Renzi stesso non si rendono conto dell’effetto che fa Renzi sulle persone, sull’italiano medio. Forse non capiscono che il governo Gentiloni non ha più consenso del precedente per come amministra il Paese, ma perché non compare mai, non si impone tutti i giorni colazione pranzo e cena in tutti i tg, in tutti i talk, su tutti i siti d’informazione, ovunque incessantemente Renzi Renzi Renzi bum bum bum. Renzi che parla parla parla, dicendo sempre le stesse cose, le stesse cose, le stesse cose, tutti i giorni, a tutte le ore, in tutti i luoghi: cose false, e tutti sanno che sono false tranne lui e il giornalista che gli sta davanti, perché purtroppo è stata proprio la sua ossessione per la comunicazione ad averci insegnato che la narrazione e lo storytelling e tutte quelle fanfaronate con cui si camuffa il nulla politico reggono solo se la storia di chi ci parla è coerente con le cose che dice. È soffocante, e verrebbe da buttarcisi sotto al treno, altro che salirci. La lezione del 4 dicembre è stata in questo senso completamente inutile, è stata fatta passare per antirenzismo fraintendendone il senso profondo: che nessuno (se non una minoranza di invasati in una teocrazia) può sopportare un leader politico che pretende l’attenzione del suo popolo 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È una cosa umanamente impossibile. Se da qui alle elezioni l’esposizione di Renzi sarà quella vista nelle ultime 24 ore ci saranno anarchici che usciranno dall’astensione che portavano avanti sin dagli anni Settanta, pur di levarselo di torno.

Quindi, per chiudere la questione: non è possibile nessuna chiamata all’unità per non far vincere le destre o altri babau, perché il Pd le prossime elezioni le ha già perse, e non per colpa delle divisioni o della sinistra: le ha perse quattro anni fa quando ha cominciato a cacciare in malo modo non i Civati o i Bersani, ma le persone. E non saranno gli stessi che le hanno cacciate, a farle tornare.

Studiare da premier

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premier

Nessun partito riuscirà a mandare a Palazzo Chigi il suo leader alle prossime elezioni. Così fioriscono le diverse ipotesi di mediazione tra i partiti. Ma alla fine a scegliere sarà Mattarella.

di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 23 agosto 2017

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premierNon c’erano i migranti nel Mediterraneo, ma i boat-people del Vietnam. Non c’era la ripresina, ma l’inflazione al 14,5 per cento. E quell’anno fu inaugurata l’ottava legislatura repubblicana, mentre nel 2018 sarà eletta la diciottesima.

Ma per il resto tutto riporta la politica italiana a somigliare incredibilmente al 1979, con un salto all’indietro di quasi quarant’anni. Quando “L’Espresso”, il 15 luglio, per la penna di Guido Quaranta, pronosticava l’avvento di «capi di governo entranti, balneari, in pectore, recidivi», avvertendo che «la rosa di Palazzo Chigi è sempre più spinosa». Faceva i nomi dei candidati alla presidenza del Consiglio: Andreotti, Piccoli, Saragat, Forlani, Pandolfi, Visentini. E si domandava sconsolato: «Da quale di questi uomini comprereste un’auto usata?».

Sarà meglio cominciare ad abituarsi: cambiati i nomi, sembra un retroscena dell’estate 2017. Stagione di roventi battaglie sotto il pelo dell’acqua per la politica italiana, in vista di una campagna elettorale con pochissime certezze.

La prima: senza una nuova legge nessuno vincerà nelle urne e nessun partito avrà da solo la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Non succede da un quarto di secolo: nel 2013 la coalizione Italia bene comune guidata dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani aveva la maggioranza dei seggi alla Camera per effetto del premio garantito dal Porcellum, ma non al Senato. La seconda certezza: in assenza di vincitore toccherà a Sergio Mattarella individuare il nome del prescelto per Palazzo Chigi sulla base di due valutazioni, la capacità di formare un governo di coalizione con partiti che in campagna elettorale si sono dichiarati alternativi e la possibilità di garantire un periodo di stabilità non solo politica ma anche istituzionale, come stanno chiedendo in queste settimane i settori più esposti sui fronti caldi, da quello mediterraneo in politica estera a quello europeo in politica economica. Per questo le lobby si sono messe già in movimento, sponsorizzando sotto traccia, ma neppure più di tanto, questo o quel nome.

Nel 2018, a complicare la situazione, arriveranno a scadenza tutti i vertici degli apparati di sicurezza e ordine pubblico, al centro in questi mesi di tutte le vicende più delicate, dall’inchiesta Consip in cui è indagato il comandante generale uscente dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette al caso Regeni in cui è impegnata da due anni l’intelligence italiana, per non parlare dello scacchiere libico.

Scadono tutti insieme il capo della Polizia Franco Gabrielli (nominato dal governo Renzi con un mandato di soli due anni), il capo del Dis Alessandro Pansa, i numero uno dell’Aisi Mario Parente e dell’Aise Alberto Manenti, i vertici della Guardia di Finanza Giorgio Toschi, della Marina Valter Girardelli, dell’Aeronautica Enzo Vecciarelli, oltre al capo di Stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano e dell’Esercito Danilo Errico.

Un risiko senza precedenti. E nel Palazzo, in modo sotterraneo, si discute se sia opportuno che un governo in scadenza, e per di più nato come provvisorio e a termine, come quello di Paolo Gentiloni, metta mano a una simile tornata di nomine, dopo aver già indicato gli amministratori degli enti partecipati (Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna), il direttore generale della Rai Mario Orfeo e, nelle prossime settimane, il governatore di Banca d’Italia (favorito per il secondo mandato l’uscente Ignazio Visco).

Paolo Gentiloni

In rari casi un governo ha avuto un potere così grande per incidere con le nomine sugli equilibri futuri. C’è chi fa notare che si tratta di pura apparenza, perché in realtà Palazzo Chigi non fa altro che ratificare, e in molti casi prorogare, decisioni giù prese, avvicendamenti scontati, filiere che si auto-riproducono in base alle logiche interne a ciascuna arma o apparato.

E infatti anche in questo caso girano i nomi dei successori, quasi sempre i numeri due che salgono a numero uno. Anche in questo caso, quindi, il governo Gentiloni si comporterebbe da facilitatore, come si definì il premier durante la presentazione alle Camere del suo programma, più che da decisionista, come è stato nel caso del predecessore Matteo Renzi. Ma è un’osservazione che conferma l’ipotesi di partenza: nei prossimi mesi le due partite, per le nomine in arrivo e per la poltronissima di Palazzo Chigi, finiranno per incrociarsi. E ogni candidato sta chiamando a raccolta i suoi sponsor: in passato servivano le tessere, il peso della corrente nel partito di maggioranza relativa, l’eterna Dc. Oggi, finita la fase del nome indicato sulla scheda elettorale, la corsa per Palazzo Chigi somiglia a quella per il Quirinale: il candidato viene selezionato sulla base dei suoi appoggi istituzionali e sulla trasversalità, il consenso che arriva fuori dal partito di appartenenza.

Giuliano Amato

Ecco perché torna a girare il nome di Giuliano Amato: bocciato nel 2015 da Renzi per il Quirinale perché portato da Berlusconi e da Massimo D’Alema, potrebbe tornare utile per Palazzo Chigi. Ecco perché si stanno muovendo per tempo a caccia di alleanze i ministri in carica. Ognuno attento a costruire la sua candidatura tassello per tassello.

Per Marco Minniti, per esempio, il Viminale è stato il coronamento di una carriera politica, come fu per Francesco Cossiga, che dell’attuale ministro dell’Interno è stato amico: toccava a Minniti, sottosegretario a Palazzo Chigi, tenere i rapporti con l’ex presidente per conto di Massimo D’Alema presidente del Consiglio, le telefonate dal condominio di via Ennio Quirino Visconti arrivavano puntuali alle prime ore dell’alba.

Nel già citato 1979 Cossiga fu incaricato dal presidente della Repubblica Sandro Pertini di risolvere una crisi inestricabile, la più lunga della storia repubblicana, e in quel momento sembrava avviato al tramonto, un anno prima si era dimesso da ministro dell’Interno per non essere riuscito a salvare Aldo Moro. Invece quelle dimissioni furono il suo trampolino di lancio: divenne presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica nel giro di sei anni, senza poter contare su truppe e correnti, ma con il vistoso supporto di apparati interni e internazionali.

Marco Minniti

Minniti non vive una stagione di tramonto, anzi, è in continua ascesa. Celebrato dal “New York Times” e dai giornali berlusconiani, piace perfino al “Fatto quotidiano”, le polemiche sulle Ong nel Mediterraneo non sembrano fermarlo, «posso fare errori e cazzate, ma non per inconsapevolezza, so benissimo quello che faccio», ripete con tutti gli interlocutori, è il suo slogan. Nei tavoli di gestione dell’ordine pubblico si muove a suo agio, come un tecnico che però è dotato di sensibilità politica e di rapporti (mai sbandierati ma solidissimi) con la stampa. Gli apparati di sicurezza vedono in lui il vero capo, la sua parola sarà decisiva nella partita delle nomine. E qualcuno a questo punto si chiede se si fermerà qui: l’apprezzamento ricevuto da Quirinale, Palazzo Chigi e Vaticano fanno di lui uno tra i pochissimi ministri certo della riconferma (a meno che non ci sia un governo del Movimento 5 Stelle), ma non è detto che la sua scalata si fermi al Viminale.

Graziano Delrio

A sospettarlo, più di tutti, è stato Renzi che ha dato il via libera alla polemica ferragostana del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio contro Minniti in difesa del trasbordo nei porti italiani dei migranti a bordo delle navi delle Ong. Delrio, nel governo Gentiloni, rappresenta il renziano di rito ulivista. Reggiano, amico di Romano Prodi e di Arturo Parisi, sostiene la necessità di un’alleanza larga che va dai centristi di Angelino Alfano a Giuliano Pisapia, con cui ha lavorato all’epoca della presidenza dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani.

In caso di governo di coalizione sarebbe l’ipotesi della premiership di un renziano aperto alle altre forze del centrosinistra, compresi gli ex Pd di Bersani (sono ottimi i suoi rapporti con Vasco Errani). Un altro candidato in pectore, il ministro della Cultura Dario Franceschini, pensa di andare oltre e già da tempo manda segnali nel campo berlusconiano. «Bisogna separare i moderati dai populisti», è il suo mantra, ovvero accelerare il divorzio tra Berlusconi e Matteo Salvini. Anche se con Renzi i rapporti sono ai minimi termini, può contare su un antico rapporto con Mattarella. Il suo nome potrebbe uscire come punto di equilibrio in caso di sconfitta di Renzi.

Finito? No, perché nella lista dei ministri in carica che si muovono da candidati premier vanno inseriti almeno altri due nomi. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è molto attivo nel rivendicare alle politiche del governo, a sé più che a Renzi, l’imprevista crescita in arrivo: sarebbe il nome più gradito a Bruxelles e a Francoforte. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda è sostenuto da ambienti confindustriali, Luca Cordero di Montezemolo ne ha rivendicato la scoperta nella lunga intervista al “Giornale” berlusconiano per i suoi settant’anni («Carlo sta facendo un gran lavoro al governo. È cresciuto con me in Ferrari e nella mia Confindustria, arrivò a Maranello che era un ragazzino»): il suo sarebbe un governo di larghe intese tecnico-politico.

C’è infine un’altra candidatura per ora coperta che potrebbe rappresentare la carta a sorpresa di Renzi. «Non saranno altri a escludermi da Palazzo Chigi, deciderò io», dice infatti l’ex premier. E se dovesse scegliere di fare il passo indietro di fronte ai veti incrociati potrebbe estrarre il nome della fedelissima. La sottosegretaria Maria Elena Boschi ha lavorato in questi mesi sottotraccia per rafforzare il suo potere nei ministeri e nel circuito dell’alta dirigenza statale, il club esclusivo dei commis di Stato che sorvegliano, promuovono o ostacolano le carriere dei politici. La Boschi può contare su una rete di protezione istituzionale, costruita attraverso gli uomini a lei più vicini, il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti, il suo braccio destro Cristiano Ceresani, capo dell’ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri.

 

Un circuito pronto a sorreggere l’ascesa al gradino superiore nel 2018: la presidenza della Camera, al posto di Laura Boldrini, o addirittura il grande salto, l’ambizione mai nascosta dalla Boschi di diventare la prima donna premier della storia nazionale.

Bisognerà vedere cosa ne pensa Renzi, che assiste al valzer delle candidature e auto-candidature con un misto di inquietudine e di compiacimento, nella speranza che alla fine portino alla conclusione che l’unico ad avere le carte in regola per guidare il governo resta lui, anche se non è ancora chiaro con quale maggioranza. Bisognerà seguire le mosse di Gentiloni, che nonostante la debolezza politica e il limite di leadership continua a essere il principale candidato alla successione di se stesso. E poi certo, più di tutto, bisognerà capire cosa ne pensa il signore che vive nel palazzo sul Colle più alto, da cui passa la scelta dell’incaricato per la guida del governo. Domani più di oggi.

Meglio perdere in Sicilia (?)

Per il futuro di PD e 5 Stelle, meglio perdere in Sicilia

di Paolo Natale – glistatigenerali.com, 20 agosto 2017

Sappiamo ormai tutti che alle legislative del 2018 non vincerà nessuno, e il governo che si formerà sarà sostanzialmente frutto di difficili accordi di legislatura, per poter avere almeno una parvenza di maggioranza stabile, in grado di affrontare i mille problemi che attanagliano il paese. Se questo è l’orizzonte più prossimo, cerchiamo di immaginare la situazione ideale per le più importanti forze politiche, in grado di permettere a ciascuna di loro un vantaggio competitivo nel futuro, che forse diverrà più aperto a possibili vittorie di più ampio respiro.

Al Movimento 5 stelle non si può certo augurare – per il suo bene – una vittoria nelle elezioni siciliane di novembre. Con tutti i problemi che la regione si porta appresso, da decenni, il rischio per il movimento di Grillo è quello di dover fronteggiare una situazione così aggrovigliata che, al confronto, il governo della Capitale sembrerà una bazzecola. Per aumentare i propri consensi, molto meglio che ottengano un buon successo, così come nelle consultazioni politiche, ma senza essere costretti a governare. Dai banchi di opposizione avranno mano libera per denunciare le malefatte altrui, incrementando in tal modo le proprie fila di simpatizzanti.

Per il centro-destra, e in particolare per Forza Italia, una vittoria in Sicilia sarebbe al contrario di buon auspicio, un buon viatico per poter ben figurare anche nelle successive legislative, dove soprattutto la Lega darebbe un ottimo contributo di voti. È probabilmente questa l’occasione migliore per la coalizione di Berlusconi-Salvini-Meloni (se riuscirà a presentarsi abbastanza coesa) di riconquistare la fiducia degli italiani, perché le sue parole d’ordine, in un mondo pieno di paure e di incertezze, sarebbero ben accolte da molti elettori. Le ricette del centro-destra, condivisibili o meno, ridarebbero una qualche speranza di riuscire a fronteggiare i problemi dell’immigrazione crescente, della sicurezza in pericolo e della difficile ripresa economico-occupazionale. Che poi riescano realmente a cambiare le cose, è una cosa tutta da verificare, ma lo spazio per la loro proposta sicuramente esiste.

Per il Partito Democratico, infine, la situazione migliore sarebbe quella di perdere nettamente in Sicilia e di non essere costretto a governare (con qualche partner) alle successive politiche. Ci sarebbe in questo modo la possibilità, per il Pd, di iniziare una decisa ristrutturazione interna, di ripensare definitivamente ad una proposta programmatica precisa, con uno sguardo non soltanto contingente ma almeno di medio periodo, di fare chiarezza su quale idea della società hanno in mente per il nostro paese. Un periodo dunque di grandi confronti e discussioni interne, che questa volta deve risultare scevro da ripicche e conflittualità personalistiche. Inutile sottolinearlo di nuovo ma, a mio parere, per il bene della sinistra e del centro-sinistra, tutto questo non può avvenire senza le dimissioni di Renzi dalla guida del partito. O, almeno, senza un deciso ridimensionamento della sua figura e della sua supremazia nel Pd.