Europa

Il leader del (non) partito

Triskel182

Quello di Macron potrebbe sembrare un mezzo miracolo.
Il giovane ministro dell’Economia di un governo in perdita di consenso e legato ad un partito in perdita di voti, è riuscito in pochi mesi a crearsi un movimento, a staccarsi dall’ombra di Hollande (di cui era consigliere) e del PS francese e a presentarsi agli elettori come il volto nuovo della politica.
Macron il rottamatore francese, quello che in Italia tutti guardano con interesse in Italia, con la solita domanda stupida, chi è il Macron italiano (ovvero il vincente) italiano?

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Gramsci o Laclau? I dilemmi di Podemos

Pegnalato da Barbara G.

di Carlo Formenti – temi.repubblica.it/micromega-online, 06/02/2017

Fra qualche giorno all’arena coperta di Vistalegre (Madrid), Podemos celebrerà la sua seconda assemblea generale, un evento che potrebbe segnare una svolta importante nella vita di questa formazione politica che rappresenta a tutt’oggi l’unica sinistra del Vecchio Continente in grado di competere alla pari con l’establishment neoliberale. Nel mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ho indicato in Podemos il più importante esempio europeo (accostandolo alle rivoluzioni bolivariane in America Latina e al movimento nato attorno alla candidatura di Sanders negli Stati Uniti) del tentativo di cavalcare a sinistra l’onda populista che in tutto il mondo si sta sollevando come reazione alle devastazioni sociali, civili ed economiche provocate da decenni di regime neoliberista.

Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.

Il presupposto da cui intendo partire è che stiamo vivendo la fase inziale di un rapido e caotico processo di de-globalizzazione. Non ho qui lo spazio di argomentare adeguatamente tale tesi per cui mi limito a enunciarla in modo apodittico rinviando all’articolo del vicepresidente boliviano Linera, che ho già avuto modo di commentare su queste pagine. In quel pezzo Linera scriveva, fra le altre cose, che Trump “non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina”. Clandestina, aggiungo io, per l’ottusa ostinazione con cui le sinistre si ostinano a non prenderne atto. E aggiungeva che l’era in cui stiamo entrando è ricca di incertezze, e proprio per questo potenzialmente fertile, se sapremo navigare nel caos generato dalla morte delle narrazioni passate.

Sulla stessa lunghezza d’onda vale la pena di segnalare un lungo, notevole articolo firmato Piotr e apparso sul sito megachip che sostiene, fra le altre cose: 1) che Trump non rappresenta solo un elettorato fatto di perdenti della globalizzazione (disoccupati, lavoratori bianchi poveri, ecc.) ma anche un composito mosaico di frammenti delle élite dominanti spaventati dall’inerzia di una politica neocons trasversale (Hillary Clinton su tutti) disposta a rischiare una guerra mondiale, pur di difendere l’egemonia americana fondata sul binomio finanziarizzazione/globalizzazione; 2) che questa base incoerente e composita lo costringerà a condurre una politica altrettanto incoerente e contraddittoria (per esempio facendo marcia indietro sulla globalizzazione senza smettere di difendere gli interessi della finanza globale); 3) che per opporsi al suo pseudo new deal autoritario le lobby liberal-imperiali lotteranno (è cronaca di questi giorni) con il coltello fra i denti, mobilitando un’ideologia identitaria “arroccata dietro il dogma e l’inquisizione della correttezza politica, cioè una forma ideologica elitaria che preferisce tutto ciò che è minoranza, perché le minoranze non pongono sfide esiziali mentre se sfruttate bene possono minare quelle poste dalla maggioranza. Minoranze che quindi devono essere tenute sotto tutela da lobby che si erigono a loro rappresentanti. Lobby di minoranza incorporate in un establishment dedito a politiche elitarie”; 4) che una sinistra che voglia lottare sia contro il globalismo alla Clinton che contro il trumpismo dovrà surfare, con spirito pragmatico ma senza rinunciare i principi, l’onda populista. Il che ci riporta ai dilemmi di Podemos.

Iniziamo col dire che Podemos è oggi oggetto di una violenta aggressione da parte di tutti i media spagnoli, simile a quelle che in tutti gli altri paesi occidentali vengono condotte contro la minaccia “populista”. Le virgolette s’impongono perché il termine viene usato in modo totalmente indifferenziato: populisti sono Evo Morales e Marine Le Pen, Rafael Correa e Grillo, Trump e Podemos. Un appiattimento che non è frutto di incapacità di analisi politica; al contrario: riflette la secca polarizzazione formulata qualche settimana fa dal direttore del Wall Street Journal, il quale ha dichiarato che, d’ora in avanti, lo scontro non sarà fra destra e sinistra ma fra globalisti e antiglobalisti. Altrettanto univoca la ricetta per fronteggiarli: costruire grandi coalizioni fra liberali e socialdemocratici per sbarrare loro il passo (coalizioni cui tendono ad accodarsi in posizione subordinata quei partiti di sinistra “radicale” che si lasciano convincere dalle élite liberali della necessità di far fronte contro il pericolo “fascista”). In Spagna, come spiega un articolo del deputato di Podemos Manolo Monereo, questa campagna si è fatta isterica da quando Podemos ha scelto di stringere un’alleanza elettorale con Izquierda Unida piuttosto che con il PSOE. Perciò, visto che la prima opzione è stata sostenuta da Pablo Iglesias e la seconda da Inigo Errejón, e visto che le due tesi si confronteranno nuovamente nell’assemblea di Vistalegre, i media stanno entrando a gamba tesa nel dibattito precongressuale nella speranza di riuscire a spaccare il partito o, in via subordinata, a rafforzare al suo interno la corrente che fa capo a Errejón. Ma veniamo ai documenti.

Il documento di Iglesias muove da considerazioni analoghe a quelle esposte poco sopra in merito alla fase storica mondiale: la globalizzazione sta entrando in crisi a mano a mano che sorgono nuove resistenze e avversari politici: non solo i movimenti sociali, ma anche quei governi guidati da forze politiche sovraniste/progressiste che, soprattutto in America Latina, tentano di restituire un ruolo strategico allo stato in materia di politica economica e perseguono programmi di riforme radicali, mentre è in corso un riequilibrio dei rapporti di forza geopolitici dovuto all’emergenza di superpotenze vecchie e nuove, come la Russia e la Cina. La crisi europea è parte integrante di tale contesto: gli effetti devastanti del progetto ordoliberista (elevamento del trattato di Maastricht a rango costituzionale sotto egemonia tedesca, perdita della sovranità monetaria e conseguente esautoramento dei governi nazionali privati di potere decisionale su temi strategici; attacco a salari e stato sociale; tagli generalizzati alla spesa pubblica; sistema dei media “blindato” a sostegno del pensiero unico liberista ecc.) generano una resistenza crescente dei popoli europei. In Spagna il consenso, a lungo fondato su settori sociali che aspiravano a venire integrati nella classe media e alternativamente gestito da democristiani e socialisti, si è dissolto dopo l’esplosione della crisi globale e a fronte della “cura” che la Ue ha imposto alla Spagna e che ha prodotto deindustrializzazione e disoccupazione. Così sono nati movimenti di massa che rivendicavano democrazia e sovranità popolari, provocando una vera e propria crisi di regime. In questa situazione i media mainstream si sono fatti garanti della continuità delle scelte politiche liberal liberiste, favorendo la nascita di una grande coalizione liberal socialdemocratica sul modello tedesco.

Il documento passa poi a ricostruire la breve storia di Podemos: nato nel 2013/14 su iniziativa di un gruppo di militanti di varia provenienza (movimenti studenteschi, sinistra anticapitalista, ex comunisti, movimenti di base, ecc.) ispirati dall’esempio del “giro all’izquierda” che ha visto molti Paesi latinoamericani costruire esperimenti populisti di sinistra, il partito ha lanciato un programma politico che chiedeva l’avvio di un processo costituente fondato su riforme radicali: riconquista della sovranità popolare con la possibilità di realizzare una politica economica ridistributiva e di recuperare i diritti sociali; riforma in senso proporzionale del sistema elettorale, riforma della giustizia per accrescerne l’autonomia dal sistema politico; lotta contro il TTIP, lotta per la parità di genere e per il riconoscimento del carattere plurinazionale dello stato spagnolo, ecc. Programma che ha riscosso largo consenso nei settori popolari e nelle classi medie impoverite, consentendo di ottenere importanti successi elettorali.

Dopodiché Iglesias richiama (e rivendica) la svolta che ha visto il partito scegliere l’alleanza elettorale con la sinistra radicale di Izquierda Unida e la contrapposizione frontale al blocco di potere liberal -socialdemocratico. Ricorda che tale svolta è maturata dopo un serrato dibattito interno, in cui la base ha respinto l’opzione (difesa da Errejón) di un accordo con il PSOE, scegliendo invece la strada di un’alternativa radicale al sistema di potere. Questa linea, che Iglesias si appresta a difendere nella prossima assemblea generale, si fonda sull’ipotesi che la crisi politica ed economica non stia avviandosi alla normalizzazione ma sia al contrario destinata ad acuirsi ulteriormente. Il compito di Podemos, quindi, non è quello di proporre un piano alternativo di governo, bensì quello di costruire un nuovo progetto di paese, tenendo saldamente insieme un blocco sociale formato da settori popolari e classi medie.

Per attuare questo progetto occorre una riforma dell’organizzazione del partito che, nella convulsa fase di crescita, si era concentrato sulla costruzione di una macchina elettorale favorendo la concentrazione del potere decisionale nelle mani del vertice. Ora si tratta di superare questo assetto verticistico sia rafforzando le strutture di base che affondano le radici nei territori, sia promuovendo e accompagnando la nascita di vere e proprie istituzioni di democrazia popolare, una rete di contropoteri che faccia sì che le vittorie siano percepite come vittorie di un blocco sociale più che come vittorie di Podemos. Infine, se si vuole costruire un modello alternativo di Paese, il programma di questo partito di tipo nuovo – che deve rappresentare un progetto condiviso da identità politiche, sociali e territoriali diverse – deve compiere un salto di qualità che il documento identifica con obiettivi ambiziosi: istituire un controllo democratico  (attraverso regolazione pubblica e/o nazionalizzazioni) sui settori produttivi strategici e in particolare sui settori finanziario, dell’energia, delle comunicazioni; reindustrializzare il Paese contro la sua riduzione a Paese prevalentemente turistico imposta dalla Ue; impegnarsi a realizzare la sovranità alimentare; offrire sostegno alla piccola e media impresa, al cooperativismo e all’economia sociale.

Il documento di Errejón dedica meno spazio all’analisi della fase storica, in quanto si concentra soprattutto sui rapporti di forza fra i partiti, sulle alleanze e sulle prospettive elettorali, dando relativamente poco peso ai fattori socioeconomici. In particolare, vengono affrontati i seguenti temi: 1) analisi degli errori di Podemos che, secondo Errejón, ne avrebbero frenato l’ascesa elettorale; 2) concentrazione sulla necessità di trasformare Podemos in forza di governo; 3) rilancio, a tale scopo, dell’ipotesi di alleanza con il PSOE (e critica dell’alleanza con IU) ; 4) necessità di riformare il partito, ridimensionando il potere del vertice e “femminilizzandolo”; 5) spostamento dall’obiettivo di costruire di un blocco sociale a quello di “costruire un popolo” (vedi, in proposito, il libro-dialogo fra Inigo Errejón e Chantal Mouffe, “Construir pueblo”), da cui consegue la riformulazione del conflitto sociale quasi esclusivamente nei termini della opposizione alto/basso, popolo/élite; 6) forte attenzione per le aspettative di sicurezza e ordine delle classi medie. Ma vediamone più in dettaglio lo sviluppo.

Per Errejón, Podemos incarna un ciclo di mobilitazione che ha dicotomizzato la società spagnola fra la “gente comune” e una casta privilegiata (si tratta della formulazione “classica” del fenomeno populista secondo le teorie di Ernesto Laclau). Perciò la sua vocazione è quella di costruire una forza politica di tipo nuovo (al di là dei dogmi della sinistra tradizionale) che persegua un cambio di potere in favore delle maggioranze sociali (cambio di potere, non rottura sistemica!).

Per superare l’attuale struttura verticistica (obiettivo sul quale concorda anche Iglesias, come si è visto) Errejón propone una ricetta fondata sui principi “classici” della democrazia parlamentare borghese e dei suoi partiti: divisione dei poteri, distribuzione delle cariche in base a un criterio di “proporzionalità” fra le correnti interne (la cui esistenza viene data per scontata in quanto garanzia di democraticità). Infine “femminilizzazione” del partito in ossequio a quello che in Italia definiremmo il principio delle quote rosa (punto su cui tornerò più avanti perché mi sembra rilevante ai fini delle differenze di prospettiva politica fra i due approcci).

Sul tema delle alleanze Errejón è fortemente critico nei confronti dell’accordo elettorale con IU (al quale imputa la mancata crescita nell’ultima tornata elettorale), mentre rilancia l’ipotesi dell’alleanza con il PSOE, in barba alla tragica crisi di questo partito e al fatto che la base aveva bocciato (vedi documento Iglesias) tale idea. Da un lato, sostiene che se si fosse impostato il rapporto con il PSOE in modo “laico” (implicita allusione all’ostilità ideologica della base di sinistra nei confronti dei socialisti) si sarebbero ottenuti risultati più produttivi di quelli realizzati con la linea di contrapposizione frontale che si è imboccata. A parte il fatto che questa tesi dà per scontata la possibilità di costringere il PSOE ad aderire a un’alleanza di centrosinistra, è evidente che il risultato cui qui si allude consiste nella possibilità che Podemos riesca finalmente a convertirsi in forza di governo. Ma a quale prezzo politico? Il documento, non a caso, sorvola sulle politiche condotte dal PSOE negli anni precedenti, vale a dire sulla sua piena conversione al credo neoliberale. Forse per non ammettere che un accordo con il PSOE implicherebbe, molto più probabilmente, un spostamento verso il centro di Podemos piuttosto che uno spostamento a sinistra dei socialisti.

Del resto Errejón ribadisce la propria convinzione che, alla forza delle élite, non si può contrapporre la sinistra ma “la maggioranza eterogenea di chi sta in basso”. Su quale sia la natura della maggioranza eterogenea che ha in testa Errejón, ci offre un indizio il suo ripetuto riferimento alla necessità di venire incontro alle esigenze di certezza, ordine e sicurezza della gente: il “popolo” in questione è fatto soprattutto da quelle classi medie che sperano di poter recuperare le posizioni di privilegio perse a causa della crisi, un popolo che non va spaventato contraendo imprudenti alleanze con le classi subalterne. In sintesi, potremmo dire che siamo di fronte a un progetto neo socialdemocratico, in ragione del quale Podemos si troverebbe impegnato a integrare, assorbire e  rivitalizzare un partito socialista delegittimato per avere consegnato il Paese al saccheggio del capitale finanziario globale.

Come si vede l’alternativa prospettata dai due documenti è radicale: da un lato abbiamo l’idea che la crisi è destinata ad aggravarsi e non richiede un semplice cambio di politica economica bensì un vero e proprio cambio di civiltà, dall’altro l’idea che esiste una possibilità di “normalizzazione” della crisi attraverso un cambio di governo e l’adozione di misure capaci di mitigare l’asprezza della civiltà liberista; da un lato abbiamo la concezione di un processo costituente gestito da nuove istituzioni di contropotere popolare e da un partito capace di guidare un blocco sociale fatto di classi subordinate e classi medie impoverite, dall’altro lato la convinzione che basti rivitalizzare le istituzioni della democrazia rappresentativa e rifondare la socialdemocrazia per restituire potere decisionale al popolo.

Potremmo anche dire che si confrontano due concezioni diverse del concetto di egemonia: la prima ispirata all’idea di blocco sociale di Gramsci, la seconda all’idea di popolo di Laclau – due concezioni che rinviano a due modelli diversi di “socialismo del XXI secolo” (non va mai dimenticato che tanto Iglesias quanto Errejón devono la propria formazione politica all’esperienza latinoamericana): da un lato il modello della rivoluzione boliviana di Morales e Linera, dall’altro il modello della Revolucion Ciudadana di Rafael Correa (quello, per intenderci, che piace a Grillo: se vincesse Errejón, Podemos somiglierebbe all’M5S assai più di quanto gli somigli adesso).

Infine è significativa la differenza di atteggiamento dei due documenti sul tema della parità di genere: entrambi attribuiscono un’importanza fondamentale all’obiettivo, ma nel documento di Errejón esso è al centro di riferimenti ripetuti quasi ossessivamente, nei quali si evoca a più riprese il concetto di ”femminilizzazione” (del partito, delle istituzioni, del programma, ecc.). Il dubbio è che tanta insistenza sia spiegabile, più che come omaggio all’ideologia femminista, come convergenza con la campagna globale che il fronte liberal sta conducendo contro la minaccia populista, campagna in cui l’ideologia politically correct, i diritti civili e individuali e l’esaltazione di tutte le differenze – vedi sopra – vengono mobilitati per impedire che la lotta per i diritti sociali torni a occupare il centro della scena.

Per concludere: è auspicabile che l’eterogeneità dei due blocchi sociali e delle due culture politiche che oggi convivono in Podemos non provochi una rottura che sarebbe disastrosa per il movimento antiliberista spagnolo ma, almeno dal punto di vista di chi scrive, è non meno auspicabile che l’unità venga mantenuta sotto l’egemonia della linea di Iglesias, alla quale credo si possa rimproverare quasi solo l’evidente incoerenza sul problema dell’Europa: l’esperienza greca ha dimostrato che l’obiettivo di riconquistare la sovranità popolare in materia di democrazia, welfare e politica economica non è compatibile con la permanenza nella Ue – incompatibilità della quale, finora, nemmeno Iglesias ha avuto il coraggio di prendere atto.

Yanis Varoufakis ti spiega perché l’Europa ha fatto flop

L’ex ministro greco torna sulle scene e nel suo ultimo libro spiega il perché del fallimento della valuta unica. Partendo da Bretton Woods e facendo nomi e cognomi dei responsabili

di Alessandro Gilioli – espresso.repubblica.it, 27/10/2016

Da quando non è più ministro dell’Economia, Yanis Varoufakis si è preso diverse amare soddisfazioni. La prima è quella di aver visto confermare le sue previsioni sulla Grecia: la sottomissione 
di Tsipras alla Troika, avvenuta un anno e mezzo fa, non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita dei cittadini, fino al nuovo taglio delle pensioni e al rischio di una crisi immobiliare nei prossimi mesi, con migliaia di senzatetto.

Ma più in generale Varoufakis aveva messo in guardia dal possibile processo di dissoluzione della Ue, denunciando gli effetti delle regole 
di Bruxelles e dell’architettura della sua moneta. Lasciato il governo, Varoufakis 
si è impegnato nella creazione di un movimento di sinistra europeo (Diem25 ) 
e nella stesura di un robusto saggio 
di geopolitica monetaria in uscita il 27 ottobre con il titolo “I deboli sono destinati a soffrire?” (La nave di Teseo, 338 pagine, 20 euro).

La tesi del libro è che gli squilibri sociali (e tra Paesi) che oggi dilaniano l’Europa hanno radici che risalgono almeno al 1971: l’anno in cui Nixon pose fine agli accordi di Bretton Woods, che 
dal 1944 regolavano l’ordine valutario mondiale imperniandolo sul dollaro e sulla sua convertibilità in oro.

La fine di quel sistema, scrive Varoufakis, portò i paesi europei a successivi tentativi di concatenazione tra le loro valute 
(il serpente monetario, lo Sme e 
infine l’euro) in cui finirono tuttavia 
per intrecciarsi errori tecnici, rigidità ideologiche e conflitti nazionali (in particolare, la competizione tra Francia 
e Germania).

Il risultato è il paradosso attuale: la moneta che doveva unire l’Europa l’ha invece divisa ancora di più, sia per ceti sociali all’interno di ogni Paese sia tra Stati, i cui interessi divergono e nei quali la valuta unica 
ha creato effetti diversi, compresa 
la svalutazione del lavoro come unico modo per salvare l’export non potendo 
più svalutare la moneta. Il saggio 
di Varoufakis non va alla ricerca di “poteri forti” nascosti dietro le tende, anzi fa nomi e cognomi dei politici (vivi o defunti) che secondo lui hanno causato il tracollo.

Non mancano pagine sull’Italia, in particolare sulla crisi del 2011, sulla caduta del governo Berlusconi, sul ruolo 
di Mario Monti e su quello successivo di Mario Draghi. Nell’appendice del saggio, le proposte politiche ed economiche dell’ex ministro, nonostante tutto 
un europeista convinto.

Focolaio belga

Segnalato da Barbara G.

Perché il Belgio è il focolaio del jihadismo europeo

Il bar Les béguines nel quartiere di Molenbeek, a Bruxelles, il 17 novembre 2015. Il locale era di proprietà di Brahim Abdeslam, uno dei responsabili degli attentati di Parigi

di Marie-Béatrice Baudet (*) – internazionale.it, 23/03/2016

Cercare di capire il motivo per cui il Belgio è oggi uno dei focolai del terrorismo in Europa significa esaminare diversi pezzi di un puzzle.

Il primo pezzo ha per simbolo la Grande moschea del parco del Cinquantenario, costruita nel cuore di Bruxelles, segno della forte influenza dell’Arabia Saudita, che l’ha finanziata alla fine degli anni sessanta, e della sua versione radicale e conservatrice dell’islam. Un terreno fertile per l’ideologia jihadista. Negli anni novanta lo sceicco francosiriano Bassam Ayachi ha tessuto una solida rete fondamentalista nel quartiere di Molenbeek-Saint-Jean, a lungo indisturbato dalle autorità federali belghe.

Questa “svolta salafita” dell’islam belga non si è limitata a Bruxelles. Ha riguardato anche altre città, come per esempio Anversa, dove è nata nel marzo del 2010 l’organizzazione Sharia4Belgium. Fouad Belkacem, il suo leader oggi in prigione, predicava all’epoca l’instaurazione della sharia nel paese e invocava la pena di morte per gli omosessuali. Il gruppuscolo salafita estremista riuscirà poi a estendere la sua influenza nelle Fiandre, in città come Mechelen e Vilvoorde, da dove molti giovani partiranno per combattere, a partire dal 2012, prima in Iraq e poi in Siria. Oggi dieci città in tutto il territorio belga sono considerate ad alto rischio dal governo federale e beneficiano di programmi di finanziamento per la lotta contro la radicalizzazione dei giovani.

Il secondo pezzo del puzzle potrebbe essere una “I”, come incrocio. Il Belgio infatti presenta molti vantaggi per un’organizzazione terroristica. Geograficamente si trova al centro dello spazio Schengen, dove è consentita la libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Anche se i controlli alle frontiere sono stati rafforzati, è ancora abbastanza facile raggiungere la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Germania, dove per esempio l’aeroporto di Düsseldorf offre molti voli economici per la Turchia, permettendo così di arrivare in Siria.

Il mercato illegale delle armi e la burocrazia

Il Belgio è anche uno snodo importante del traffico d’armi. Alla fine degli anni novanta, dopo le guerre nei Balcani e nel Caucaso, la mafia albanese e cecena si sono stabilite in diverse città del Belgio e hanno creato dei canali clandestini di approvvigionamento. È il caso di Charleroi, in Vallonia, dove Amedy Coulibaly, autore dell’attacco a un supermercato kosher di Parigi nel gennaio del 2015, si sarebbe procurato le armi. Tutte queste reti della criminalità organizzata sono utili ai gruppi jihadisti.

Il terzo pezzo del puzzle si potrebbe chiamare “particolarità politiche” del Belgio. Il paese è un rompicapo amministrativo e poliziesco che provoca numerose rivalità linguistiche e regionali. Bruxelles è costituita da 19 comuni, dove ogni sindaco ha poteri di polizia. La capitale belga è ugualmente divisa in sei zone di competenza della polizia federale. Per anni questo groviglio amministrativo ha impedito lo scambio di informazioni e ha ritardato diverse inchieste. Ancora oggi alcuni sindaci delle città belghe dicono di non conoscere precisamente la lista dei giovani a rischio di radicalizzazione residenti nel loro territorio e sottoposti a sorveglianza dalle autorità federali.

Infine, come in altri paesi europei, bisogna aggiungere un ultimo pezzo che riguarda le politiche di integrazione condotte nel paese. I reclutatori dei giovani che vogliono partire per la Siria approfittano del sentimento di frustrazione e di discriminazione provato da molti giovani e promettono ai futuri combattenti di passare dalla condizione di “essere uno zero a quelle di essere un eroe”. Una famiglia di origine marocchina su due è povera in Belgio. E i giovane di origine magrebina e turca hanno tra il 20 e il 30 per cento in meno di probabilità di trovare un lavoro rispetto a quelli di origine differente. Il gruppo Stato islamico sfrutta questo contesto economico.

La nuova classe esplosiva

Precari, l’economista: “Sono la nuova classe esplosiva. Occorre redistribuire ricchezza con reddito di cittadinanza”

Per Guy Standing, sociologo e docente alla School of Oriental and African Studies, la flessibilità del lavoro è un cambio epocale e sta sconvolgendo la politica occidentale e spiazzando i sindacati. “Corbyn e Sanders seppelliranno la vecchia sinistra”.

Joann Rupert, un magnate con 8 miliardi di dollari di patrimonio personale, a una conferenza a Monaco ha detto che non riesce a dormire, perché immagina che ogni persona là fuori si ribelli, prenda le armi e vada a prenderlo con i forconi: ‘E sapete una cosa? Avrebbero ragione loro’, ha detto. La nostra speranza è che sempre più di queste persone abbiano gli incubi”. Guy Standing non è più soltanto un autorevole sociologo ed economista (ora insegna alla School of Oriental and African Studies). È diventato un profeta dell’avvento del precariato come “nuova classe esplosiva”. Sta finendo il suo terzo libro sul tema, dopo Precariato (Il Mulino, 2012) e Diventare cittadini (Feltrinelli, 2015). È riuscito a spiegare a un pubblico anglosassone che l’estrema flessibilità del mercato del lavoro imposta soprattutto ai giovani, l’erosione dei loro diritti, la perdita del controllo sul loro tempo di vita, non sono sintomi inevitabili della vitalità del capitalismo, ma un cambio epocale. Abbiamo incontrato il professor Standing a Udine, al Future Forum promosso dalla Camera di Commercio locale.

Professor Standing, qui in Italia si dice che sta arrivando un po’ di ripresa, che il peggio è alle spalle.
Negli ultimi trent’anni l’offerta di lavoro, di persone nel mercato del lavoro globale, è quadruplicata. E molti di questi sono abituati a salari pari a un cinquantesimo di quanto un lavoratore francese o italiano può considerare accettabile. Non serve un dottorato in economia per capire che questo mette una forte pressione al ribasso sui salari, che infatti iniziano a convergere verso il basso a livello globale.

Con quali ripercussioni?
Ovunque, nel mondo, la quota di ricchezza prodotta che va verso il capitale aumenta, quella che va al lavoro scende. Il Paese dove la forbice è maggiore è la Cina. Ma la crescita della disuguaglianza in termini di condizioni sociali è salita molto più di quella dei redditi. Smantellare il vecchio assetto social democratico ha comportato che i lavoratori hanno perso accesso ai benefici non legati al lavoro.

In Italia c’è Matteo Renzi, la sinistra che vince anche usando ricette della destra.
Renzi è come Tony Blair all’inizio: vuole tagli di tasse. Chi ne beneficia? E chi subisce il costo dei tagli di spesa? Gradualmente perdi la tua base, cercando di applicare un approccio utilitarista alla tua idea di classe media. E così i partiti della sinistra tradizionale muoiono. Ma si aprono spazi per una nuova politica progressista.

Quindi la sinistra tradizionale deve morire perché ne possa emergere una contemporanea?
No, ma la sua frammentazione e liquefazione è già in atto: sta succedendo in Spagna, con l’ascesa di Podemos. Ma accade lo stesso anche in Polonia e in Danimarca. E in Grecia, dove il Pasok è stato ucciso. Poi Tsipras ha fallito, ma ha dimostrato che c’era un nuovo spazio politico. Un leader di un grande partito di sinistra mi ha confidato: ‘Guy, io sono d’accordo con quello che dici, ma se lo dico i sindacati e la vecchia guardia mi fanno fuori’. Gli ho risposto: allora non dovresti essere il leader.

I sindacati sono parte del vecchio da distruggere o l’ultimo baluardo?
Sono sempre stato un membro del sindacato. Ma se comincio a parlare di reddito minimo, la reazione più furiosa arriva proprio da loro, dai sindacati. Eppure significa redistribuire sicurezza e reddito. Un leader sindacale italiano ha confessato: ‘La verità è che se le persone hanno una sicurezza di base, non si iscrivono ai sindacati’.

E così avanzano i partiti degli arrabbiati. La chiamano antipolitica.
Un leader politico europeo mi ha scritto: ‘Il precariato è post-politico’. Io gli ho risposto con rabbia: ‘No, semplicemente non vota per te. Non è più vero che i precari non si sanno organizzare’. Noam Chomski mi ha chiesto: ‘Cosa pensi di Jeremy Corbyn, il nuovo leader dei laburisti britannici?’. Gli ho risposto: ‘Non sono religioso, ma se lo fossi direi che è più Giovanni Battista che Gesù Cristo’. Corbyn ha ucciso il Labour, lo ha reso ineleggibile. E Bernie Sanders, il candidato alla Casa Bianca che si proclama socialista può fare lo stesso con il Partito democratico americano. È l’inizio del cambiamento. Su un muro di Madrid ho letto un graffito della stagione degli Indignados: ‘Il peggio sarebbe tornare alla vecchia normalità’. Non vogliamo tornare al periodo laburista.

Qualcosa si muove.
In Polonia, poco prima delle ultime elezioni, un movimento di precari mi ha chiesto un incontro. Si chiamano Razem, poche settimane dopo hanno preso 700.000 voti. Podemos è diventato un movimento in pochi mesi. Anche in Danimarca, dal nulla il partito che rappresenta le istanze del precariato è arrivato al 10 per cento. I precari si stanno riconoscendo tra loro ed entrando nell’arena politica.

Perché lei sostiene la necessità del reddito minimo di cittadinanza?
È un modo di redistribuire la ricchezza generata dai nostri predecessori. È un dividendo dalla collettività che spetta ai residenti legali in un Paese, inclusi i migranti. Senza condizioni, non legato alla ricerca di lavoro. L’unico modo per controllare il tempo di lavoro nella società del precariato è dare alla gente la possibilità di dire no. E si può fare solo se si dà un reddito sufficiente a consentire la scelta.

(da Il Fatto Quotidiano del 24 febbraio 2016)

Riprendiamoci la sovranità!

segnalato da Barbara G.

Roma, 27 novembre: “Riprendiamoci la sovranità!” dibattito con Di Battista, Rodotà e Flores d’Arcais

È compatibile la democrazia con quest’Europa? E se fosse in crisi perché da decenni manca un partito dell’eguaglianza? Un confronto su quest’Europa senza bussola, ma anche sull’opposizione al renzismo e la necessità di ripartire dal giustizialismo e la difesa del welfare per una redistribuzione delle ricchezze e una rivoluzione all’insegna della legalità.

Come scrive nell’editoriale del nuovo numero di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, “la vera antipolitica sono gli espropriatori di democrazia della gilda dei politici di professione ormai inestricabilmente impastati con i privilegiati della finanza, del management, della corruzione, cornucopia di impunità anche per la criminalità organizzata. È necessario ripartire dal realismo dei valori contro il realismo degli apparati, della coerenza anti-Casta e anti-privilegio contro la sudditanza all’establishment, dell’intransigenza morale e programmatica contro le sirene della mediazione: senza contrapposizione frontale un nuovo partito dell’eguaglianza non capitalizza credibilità”.

Chiediamoci, invece, perché Corbyn

Triskel182

Per usare un lessico caro ai renziani, c’è da accomodarsi sul divano coi popcorn per assistere alle loro reazioni sbalordite di fronte alla vittoria di Jeremy Corbyn nel partito a loro cugino e maestro, il Labour inglese: cugino perché stanno insieme nei socialisti europei e maestro perché si sa quanto Renzi si ispira a Blair per stile, rottamazione del passato, vincismo sociale. Ma come, proprio ora che il Pd fa come il Labour di vent’anni fa, il Labour fa il contrario? Qualcosa non gli quadra.

Allo sbigottimento diffuso segue il più delle volte l’anatema: Corbyn è un vecchio perdente, legato a idee sconfitte da tempo, insomma durerà come un gatto sull’Aurelia.

Il che è possibilissimo, s’intende: vedremo.

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Primavera di Atene

Il 23 agosto scorso l’ex ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, è volato in un paesino della Borgogna, Frangy-en-Bresse, dove si tiene annualmente la “Festa della Rosa”, uno degli appuntamenti politici di richiamo della sinistra francese. Varoufakis era l’ospite d’onore di quest’anno e lì ha tenuto il discorso che pubblichiamo qui sotto.

di Yanis Varoufakis

Introduzione: la nostra Primavera di Atene
Lasciate che vi dica perché sono qui con parole che prendo a prestito da un famoso vecchio manifesto. Sono qui perchè:

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro della democrazia. Tutti i poteri della vecchia Europa hanno formato una santa alleanza per esorcizzare questo spettro: i banchieri sponsorizzati dallo stato e l’Eurogruppo, la Troika e il Dottor Schäuble, gli eredi spagnoli delle politiche franchiste e la leadership della berlinese SPD, i governi baltici che hanno sottoposto le loro popolazioni a una terribile, inutile recessione e la risorgente oligarchia greca.

Sono qui di fronte a voi perché una piccola nazione ha scelto di opporsi a questa santa alleanza. Di guardarli negli occhi e dire: la Nostra libertà non è in vendita. La Nostra dignità non va all’asta. Se rinunciamo a libertà e dignità, come ci chiede di fare, l’Europa perderà la sua integrità e perderà la sua anima.

Sono qui di fronte a voi perché niente di buono accade in Europa se non comincia dalla Francia.

Sono qui di fronte a voi perché la Primavera di Atene che ha unito i greci e restituito loro:

  • il loro sorriso
  • il loro coraggio
  • la libertà dalla paura
  • la forza di dire NO all’irrazionalità
  • NO alla non-libertà
  • NO ad un assoggettamento che alla fine non beneficia nemmeno i forti e potenti d’Europa…quella magnifica Primavera di Atene che è culminata in un 62 per cento che ha detto un maestoso NO alla non-ragione e alla misantropia……la nostra Primavera di Atene era anche una possibilità per una Primavera di Parigi, una Primavera di Frangy, una Primavera di Berlino, Madrid, Dublino, Helsinki, Bratislava, una Primavera di Vienna.

Sono qui perché la nostra Primavera di Atene è stata stritolata, esattamente come lo fu la Primavera di Praga. Naturalmente non è stata stritolata con i tank. È stata stritolata usando le banche. Come disse una volta Bertold Brecht:

“Perchè mandare degli assassini quando possiamo impiegare gli ufficiali giudiziari?”

Perchè organizzare un colpo di stato quando puoi mandare a un governo fresco di elezioni il presidente dell’Eurogruppo a dire al nuovo ministro delle finanze, tre giorni dopo che si è insediato, che ha una scelta: il pre-esistente Programma di Austerità, che ha provocato nel suo paese una Grande Depressione, o la chiusura della banche nazionali? Perché mandare le truppe quando puoi avere visite mensili della Troika con l’esplicito proposito di prendere il potere in ogni dipartimento del governo e scrivere ogni singolo provvedimento legislativo di una nazione?

Le elezioni non possono cambiare niente

Quando nella mia prima riunione dell’Eurogruppo, ancora a febbraio, suggerii ai ministri delle finanze un compromesso tra l’esistente Programma di Austerità della Troika e il programma di riforme del nostro governo appena eletto, Michel Sapin si alzò per dire che era d’accordo con me – per argomentare con eloquenza in favore di un terreno comune tra passato e futuro, tra il programma della Troika e il manifesto elettorale del nostro governo che il popolo greco aveva appena avallato.

Il ministro delle finanze della Germania intervenne immediatamente: “Le elezioni non possono cambiare niente!” disse. “Se ogni volta che c’è un’elezione cambiano le regole, l’Eurozona non può funzionare.”

Prendendo nuovamente la parola, replicai che, dato il modo in cui la nostra Unione era disegnata (molto, molto male!), forse il Dottor Schäuble aveva ragione. Ma aggiunsi: “Se è vero che le elezioni non possono cambiare niente, dovremmo essere onesti verso i nostri cittadini e dirglielo. Forse dovremmo emendare i Trattati europei e inserirvi una clausola che sospende il processo democratico nei paesi che sono costretti a prendere a prestito dalla Troika. Che sospende le elezioni finché la Troika decide che si possano tenere di nuovo. Perché dovemmo far passare i nostri popoli attraverso il rituale di costose elezioni se le elezioni non possono cambiare niente?”. Ma, chiesi ai miei colleghi ministri, “è questo che l’Europa è diventata, colleghi? È a questo che i nostri popoli hanno aderito?”

Ripensandoci, questa ammissione sarebbe il miglior regalo di sempre al Partito Comunista Cinese che pure crede che le elezioni siano una pericolosa complicazione che intralcia la via di un governo efficiente. Naturalmente sbagliano. Come disse Churchill, la democrazia è un sistema terribile.Ma è la migliore di tutte le possibili alternative, anche per l’efficienza economica a lungo termine.

Un silenzio gelido seguì per alcuni secondi nell’Eurogruppo. Nessuno, nemmeno l’usualmente intrattabile signor Djisselbloem, riuscì a trovare qualcosa da dire, finché un collega dell’Europa Orientale ruppe il silenzio con un’altro incantesimo dal Libro dei Salmi dell’Austerity della Troika. Con l’angolo dell’occhio potevo vedere Michel Sapin che guardava desolato. Mi ricordai di qualcosa che mi disse a Parigi, quando ci incontrammo per la prima volta nel suo ufficio: “la Francia non è più quella che era”.

Fin da quando ero molto giovane guardavo alla Francia come fonte di ispirazione, probabilmente ricordando il modo in cui la riemersione della Grecia nel mondo moderno2 fu ispirata dalla rivoluzione francese, con citazioni di Voltaire e Rousseau che echeggiavano nella mia testa. In quel momento, il silenzio di Michel è stato difficile da sopportare. La vista e il suono dell’impotenza francese è l’avvisaglia di un’Europa che ha perso la sua strada.

Un vero golpe europeo

Ai tempi della nostra dittatura tra il 1967 e il 1974, quando i tanks controllavano le strade di Atene, i democratici greci venivano in Francia, andavano in Germania, Austria, Svezia, Canada, Australia, per stimolare il supporto per la disastrata nazione greca. Per galvanizzare la solidarietà con il popolo greco nella sua lotta contro la dittatura fascista.

Amici, io non sono qui oggi per stimolare il supporto per la democrazia greca stritolata. Sono qui per portare il supporto e la solidarietà del popolo greco alla democrazia francese

Perché è lei ad essere a rischio. La democrazia francese. La democrazia spagnola. La democrazia italiana. La democrazia in tutta Europa. La Grecia è stata e sfortunatamente rimane un laboratorio dove il potere distruttivo dell’austerità controproducente è stato provato e testato. La Grecia non è mai stata il problema per la Troika e i suoi lacchè. Voi lo siete!

Non è vero che i nostri creditori sono interessati ad avere il loro denaro dallo stato greco. O che vogliano vedere la Grecia riformata. Se lo fossero stati, avrebbero discusso seriamente le nostre proposte per la ristrutturazione del debito pubblico greco in modo da assicurarsi di riaverne indietro la maggior parte. Ma non gli poteva interessare di meno. Loro invece hanno insistito sulla nostra resa. Era l’unica cosa che gli interessava. Gli interessava unicamente una cosa: confermare l’editto del dottor Schäuble che non si può permettere alle elezioni di cambiare alcunché in Europa. Che la democrazia finisce dove comincia l’insolvenza. Che orgogliose nazioni di fronte al debito devono essere condannate a una prigione di debito dentro la quale è impossibile produrre la ricchezza necessaria per ripagare il loro debito e uscire di galera. Ed è così che l’Europa si sta trasformando dalla nostra casa comune nella nostra gabbia di ferro condivisa.

Questo è importante. Voi leggete i giornali e ascoltate i programmi alla radio e alla televisione che vi bombardano con la riposante narrativa che l’Eurogruppo, la Troika attorno a cui l’Eurogruppo è costruito, i programmi di austerità riguardano tutti le RIFORME, tutti allo scopo di forzare la fallita economia greca ad incrementare la sua ricchezza così che possa pagare il suo debito e la finisca di disturbare il resto d’Europa.

Solo che non è così che l’Europa funziona in pratica. Se voi foste stati una mosca sul muro che guardava i nostri negoziati, avreste visto anche, come ho detto, che la signora Lagarde, il signor Draghi, il signor Juncker, certamente il dottor Schäuble, erano interessati ad una cosa: dettarci le “condizioni della resa”. Condizioni che hanno segnato la fine della Primavera di Atene. Condizioni che hanno spazzato via il sorriso da coloro che, in tutta Europa, guardavano a noi e pensavano che una Nuova Politica è possibile. Condizioni imposte dai creditori, che, incredibilmente, garantiscono che noi, i debitori, non potremo ripagare loro i nostri debiti, vecchi e nuovi.

Medicina tossica

Molti di voi si chiederanno, giustamente: ma perché mai i creditori imporrebbero alla Grecia condizioni che riducono la capacità della Grecia di ripagare il suo debito agli stessi creditori? Perché i creditori farebbero fare al governo greco cose che impediscono di mettere in pratica riforme reali? Riforme che migliorerebbero la posizione della Grecia all’interno dell’Europa? Non potrebbe essere che la Troika stia semplicemente cercando di far prendere ai greci un’amara, ma necessaria medicina? E che noi greci non vogliamo prendere la nostra medicina? Fare i nostri compiti a casa, come la signora Merkel potrebbe dire?

Queste sono questioni cruciali. Sono cruciali per voi, per il popolo francese. Perchè? Perché se noi greci abbiamo creato i nostri problemi e se è vero che siamo un popolo pigro e viziato che rifiuta di fare i propri compiti a casa e prendere la medicina amara, allora voi non avreste niente da temere. Voi non dovreste sprecare il tempo ascoltando gente come me.

Ma se così non è, se la medicina che ci chiedono di prendere ancora e ancora è velenosa, se noi abbiamo fatto i nostri compiti a casa, ma l’insegnante non vuole nemmeno leggerli, allora quel che succede in posti come la Grecia non ha niente a che vedere con la Grecia. Riguarda la politica dell’Europa, Francia in particolare. Quindi lasciate che io sia chiaro al proposito: la medicina non è solo amara. È tossica. Un medico che prescrive una tale medicina ad un paziente verrebbe arrestato e radiato dall’ordine dei medici. Ma nell’Eurogruppo, il fatto che la medicina stia uccidendo il paziente è visto come prova che c’è bisogno di altre dosi della stessa cura. Che la dose deve essere aumentata!

Per cinque anni il Programma di Austerità della Troika ha creato la più lunga e profonda recessione della storia. Abbiamo perso un terzo del nostro reddito collettivo. La disoccupazione è salita dal 10% al 30% in un paese dove solo il 9% dei disoccupati ha mai ricevuto un sussidio. La povertà inghiotte 2 dei 10 milioni di greci. E non avrebbe potuto essere altrimenti.

Nel 2010 lo stato greco andò in bancarotta. Il nostro stato non poté pagare i suoi debiti alle banche francesi e tedesche. Quindi, che fece l’Europa? Decise di dare al fallito stato greco il più grande prestito nella storia a condizione di un’austerità che ridusse il reddito dal quale il vecchio e il nuovo, gigantesco prestito dovevano essere ripagati. Un bambino di dieci anni può dirvi che chi è insolvente non può risolvere il problema con nuovi prestiti a condizione che il suo reddito diminuisca.

L’austerità fa contrarre il reddito mentre il debito cresce. Più debito, nella forma di nuovi prestiti di salvataggio, a condizione di sempre più austerità porta con precisione matematica ad una catastrofe.

Tutti lo sapevano. Quindi, perché l’ha fatto l’Europa? Perché l’obiettivo non era salvare la Grecia, o l’Irlanda, o il Portogallo o la Spgna! L’obiettivo era salvare la Deutsche Bank, BNP Parisbas, Finanz Bank, Societè General, le banche tedesche e francesi con denaro dei contribuenti e mettere tutto l’onere a carico dei più deboli tra gli europei, causando una crisi umanitaria in Grecia e una recessione a fuoco lento in Francia.

E poi, quando è stato evidente che tutta questa austerità nei fatti ha fatto salire il debito greco dal 120 al 180 per cento del reddito nazionale, invece di ridurlo, che cosa ha fatto l’Europa ufficiale? Altra austerità nel 2012, nel 2013, nel 2014. I redditi continuavano a cadere, la povertà cresceva, la disoccupazione raggiungeva punte da record, tutti dovevano soldi a tutti e nessuno poteva pagare. Più prestiti allo stato che dovevano essere pagati dai cittadini più deboli era una politica economica che non avrebbe mai potuto funzionare. Come Macbeth che aggiungeva crimine a crimine, cercando di nascondere il precedente delitto commettendone uno nuovo, così la Troika aggiunse un salvataggio tossico all’altro, estendendo la crisi, approfondendola, continuando per tutto il tempo a far finta che la crisi stesse per essere risolta.

È stato questo misantropico modo di procedere che ha estinto la speranza in Grecia tra il 2010 e il 2015. A gennaio scorso noi siamo stati eletti per riportare la speranza. Invece che sedere nell’ombra e maledire l’oscurità, noi abbiamo deciso di accendere una candela. Per dare un’altra possibilità alla razionalità e alla speranza. E la gente lo ha visto. La piccola candela che abbiamo acceso ha illuminato le facce della gente, e non solo in Grecia.

Dalla prospettiva della Santa Alleanza della Vecchia Europa, questo è stato un terribile crimine per il quale noi, e chi ci aveva votato, doveva essere punito. Con un altro gigantesco prestito. Con altra austerità controproducente e che porterà presto il nostro debito pubblico al 250% del reddito nazionale. Con un’altra decisione dell’Eurogruppo che condanna la nostra gente a sofferenze non necessarie per lo scellerato crimine di aver cominciato a sperare e, peggio ancora, aver propagato quella speranza al resto d’Europa.

Terreno comune?

Tornando alla mia prima comparsa all’Eurogruppo, devo dirvi che entrai con la determinazione di trovare un terreno comune, come ha fatto anche Michel Sapin. Lasciate che vi legga alcuni estratti dal mio intervento con il quale proponevo una nuova partnership con le istituzioni e con i miei colleghi, gli altri ministri delle finanze:

La nuova partnership che vi proponiamo dovrebbe essere basata su obiettivi realistici e politiche efficienti.

Noi, il nuovo governo greco, dobbiamo guadagnarci una moneta molto preziosa senza esaurire un importante bene capitale: dobbiamo guadagnare la vostra fiducia senza perdere la fiducia del nostro popolo – dei votanti tra i quali godiamo, per adesso, di un consistente tasso di approvazione. Perché questa approvazione è un importante bene capitale nella battaglia dell’Europa per riformare la Grecia e renderla stabile e normale.

In questi tempi di cambiamento, noi sentiamo le vostre preoccupazioni a proposito delle intenzioni del nostro governo. Abbiamo bisogno, chiaramente, di placarle.

Sono qui oggi per trasmettervi un chiaro messaggio sul programma e gli impegni del nuovo governo verso i suoi partner nell’Eurogruppo.

La Grecia, come membro dell’Eurozona, è pienamente impegnata a trovare una soluzione discussa congiuntamente tra i partner, allo scopo di rafforzare la nostra unione monetaria.

Noi siamo impegnati a cooperare in buona fede con tutti i nostri partner europei ed internazionali su una base di parità.

Noi siamo impegnati a finanze pubbliche sane. La Grecia ha effettuato un vasto aggiustamento negli ultimi cinque anni con costi sociali immensi. Il suo deficit è ora sotto il 3% in termini nominali, disceso dal 15% del 2010. Noi abbiamo ora un avanzo primario e il nostro avanzo strutturale, come viene misurato dal Fondo Monetario Internazionale, è il più ampio nell’Unione Europea.

Il nuovo governo prende questo aggiustamento come proprio punto di partenza. Desideriamo ora andare avanti, sulla base di una nuova partnership vicendevolmente vantaggiosa con i nostri partner europei.

Noi siamo impegnati a profonde riforme strutturali.

Il nostro programma di riforme mira a ricreare fiducia tra i cittadini greci, crescita economica e credibilità in Europa. Riconosce il bisogno di profonde riforme per ancorare la prosperità a lungo termine della Grecia all’interno dell’Eurozona.

Riconosciamo che i precedenti programmi di aggiustamento riflettevano impegni presi dalla Grecia e dai suoi partner nell’Eurogruppo.

Riconosciamo gli straordinari sforzi fatti dai contribuenti dei vostri paesi per sostenere il debito greco e mantenere l’integrità dell’euro.

Però al nostro paese e alla nostra popolazione sono stati imposti obiettivi fiscali irrealistici e controproducenti che quindi vanno rivisti. L’obiettivo di un avanzo primario di più del 3% del reddito nazionale annuale non ha precedenti storici in alcuna situazione che rassomigli a quella della Grecia di oggi. Non sarà semplicemente possibile per il nostro paese crescere se rimaniamo sul sentiero di un’austerità che risucchia il reddito imposta alla nostra economia. È anche abbastanza discrepante con il raggiungimento di un rapporto debito-reddito sostenibilmente ridotto.

Il nuovo contratto che proponiamo di discutere con voi dovrebbe riconoscere questa evidenza.

Il nuovo contratto sarà costruito su riforme che sono “possedute” dai cittadini e dalle istituzioni nazionali, usando molti elementi dei programmi preventivamente concordati. Questo significa anche che la speranza di una prosperità condivisa deve essere ravvivata attraverso l’Europa.

Desideriamo discutere con voi questo programma cresciuto localmente che riflette sia il nostro potenziale che i nostri specifici limiti. Vogliamo che la nostra crescita sia inclusiva, basata sulla crescita di investimenti e produttività. La crescita basata su ulteriore compressione del costo del lavoro non può funzionare in Grecia ed è stata rigettata dal nostro popolo.

Basato su obiettivi di avanzo primario più realistici e sul nostro programma di riforma e crescita cresciuto localmente, completamente “posseduto”, il nuovo programma che proponiamo ristabilirà una traiettoria sostenibile del debito.

Invitiamo il Fondo Monetario Internazionale a lavorare con noi per stimare la costruzione della sostenibilità del debito greco in base agli impegni del governo. La Grecia sarà pronta a fare proposte concrete ai suoi partner, a tempo debito, su un menù di strumenti innovativi pr ridurre efficientemente il peso del debito, includendo gli “swap del debito” (debt swaps in originale, n.d.t.).

Poi concludo con queste parole:

Cari colleghi,

l’Europa è una e indivisibile, e il governo greco considera che la Grecia è un membro permanente e inseparabile dell’Unione Europea e della nostra unione monetaria.

Alcuni di voi, lo so, sono stati contrariati dalla vittoria di un partito di sinistra, un partito radicale di sinistra. A loro ho questo da dire: vederci come avversari sarebbe un’opportunità perduta.

Siamo europeisti dedicati. Teniamo profondamente alla nostra gente, ma non siamo populisti che promettono tutto a tutti. Per di più, noi possiamo portare con noi il popolo greco su un accordo che sia genuinamente vantaggioso per l’europeo medio. In noi troverete partner degni di fiducia che non vedono questi incontri come mezzi per ottenere qualcosa in cambio di niente, di guadagnare a spese di tutti gli altri.

Attendo con impazienza di discutere con voi ora, in un vero spirito di cooperazione e partnership e di scrivere assieme questa nuova pagina delle nostre relazioni.

Vi ringrazio molto per l’attenzione.

Mi scuso per la lettura di questi estratti. Ma volevo darvi un sentore dello spirito di cooperazione con cui abbiamo affrontato l’Eurogruppo. Mentre stavo snocciolando queste parole nell’Eurogruppo, “fonti” di Bruxelles facevano trapelare che ero stato maleducato, che stavo facendo la predica ai miei colleghi, che stavo rigettando le “riforme” della Troika. Non ho preso queste voci sul piano personale perché non erano intese come un attacco personale. Erano parte di una volgare campagna di propaganda attraverso cui giustificare la demonizzazione del nostro governo, un tentativo di dipingerci come comunisti radicali così da preparare il pubblico europeo per il nostro rovesciamento.

Per cinque lunghi mesi, la nostra parte ha messo sul tavolo proposte chiare e sofisticate per:

  • riformare l’ufficio delle tasse e renderlo totalmente indipendente dal mio ministero, ma anche dall’oligarchia.
  • una ristrutturazione del debito che avrebbe minimizzato i nuovi prestiti alla Grecia e massimizzato i nostri pagamenti ai creditori.
  • una nuova banca di sviluppo che avrebbe utilizzato beni pubblici e sarebbe entrata in partnership con la Banca Europea di Investimento.
  • una nuova “bad bank” con la quale occuparsi dei prestiti non performanti del sistema bancario greco, dei debiti privati inesigibili che hannointasato i circuiti del credito, impedendo alle banche di prestare perfino a chi è solvente e alle imprese orientate all’export.
  • creare meccanismi per affrontare la corruzione, i cartelli dei prezzi nei mercati al dettaglio, l’emersione del lavoro nero, una riforma delle pensioni che ha ridimensionasse il pensionamento anticipato senza spingere altri anziani verso la povertà.

Ogni volta che proponevamo una misura o una riforma sensata ci mettevano a terra. I miei colleghi francesi erano chiaramente fuori dal gioco e avevano sconsolatamente poca influenza. Anche se eravamo d’accordo con Michel Sapin o Pierre Moscovici su alcune misure non faceva differenza. Se così aveva deciso il presidente dell’Eurogruppo, il nostro accordo non veniva nemmeno preso in considerazione nell’Eurogruppo – non che il signor Djisselbloem abbia mai preso queste decisioni di testa sua, naturalmente. Quando, cosciente di questo, sollevai la questione con il dottor Schäuble, Wolfgang rifiutò di negoziare con me su qualunque questione di sostanza: è il programma (fallito) esistente o l’autostrada (or the highway, in originale. Penso voglia dire la via per uscire dall’Eurozona, ma nell’incertezza ho preferito la traduzione letterale, n.d.t.), era la sua linea. “Andate dalle istituzioni”. Cosa che diligentemente ho fatto.

Boicottaggio

Solo che i nostri negoziati con le istituzioni, la Troika, sono stati l’esperienza più frustrante che uno possa mai avere. Come della gente snervante che vuole parlare a proposito di tutto nello stesso tempo, che significa finire per non parlare di niente del tutto, le istituzioni insistevano su una “revisione omnicomprensivo” che portasse a un “accordo onnicomprensivo”, il che significa che volevano parlare di tutto.

Dicevano: abbiamo bisogno di tutti i vostri dati sul percorso fiscale sul quale si trova l’economia greca, abbiamo bisogno di tutti i dati sulle imprese statali, tutti i dati sui fondi pensione, sulle società energetiche, su questo, quello e quell’altro. Per dimostrare la nostra collaborazione noi acconsentivamo, rispondevamo ai questionari, tenevamo innumerevoli riunioni fornendo i dati. Dopo che un mucchio di tempo è stato sprecato trovando fatti che loro avevano già, prima che li sapessimo noi ministri, loro ci chiedevano cosa intendevamo fare sull’Iva. Noi facevamo di tutto per spiegare loro il nostro piano moderato e sensato per l’Iva. Loro ascoltavano, con aria poco convinta, rigettavano la nostra proposta ma senza uscirsene con una proposta da parte loro. E poi, prima di fissare un accordo sull’Iva, loro si spostavano a un’altra questione, come le privatizzazioni. Ci chiedevano cosa intendevamo fare a proposito delle privatizzazioni, noi proponevamo qualcosa di sensato e moderato, loro lo rigettavano. Poi andavano ad un’altra questione ancora, come le pensioni e da lì ai mercati dei prodotti, da lì alle relazioni industriali, dalle relazioni industriali a qualunque altra cosa. Era come un gatto che si cerca la coda.

Forse l’impedimento maggiore a dei negoziati sensati era la frammentazione della Troika. Il Fondo Monetario Internazionale era vicino alle nostre posizioni riguardo all’importanza della ristrutturazione del debito, ma insisteva che dovevamo rimuovere ogni rimanente protezione dei diritti dei lavoratori e dei professionisti della classe media, come i farmacisti o gli ingegneri. La Commissione era molto più comprensiva verso di noi riguardo queste istanze sociali, ma impediva ogni discussione sulla ristrutturazione del debito per non irritare Berlino o Francoforte. La Banca Centrale Europea aveva il suo programma. In breve, ognuna delle istituzioni aveva una diversa linea rossa, il che vuol dire che noi eravamo imprigionati in una rete di linee rosse.

Ancor peggio, abbiamo fronteggiato la “disintegrazione verticale” dei nostri creditori, visto che i capi del Fondo Monetario e della Commissione avevano un programma differente da quello dei loro lacchè o ad esempio i ministri delle finanze di Germania e Austria avevano piani totalmente in conflitto con quelli dei loro cancellieri.

Nel frattempo, mentre i giorni e le settimane passavano a causa della determinazione dei nostri creditori di ritardare, ritardare e ritardare, mentre facevano sapere alla stampa, nello stesso tempo, che noi eravamo quelli che stavano frenando i negoziati, il nostro governo era soffocato di proposito dalla BCE. Perfino prima che fossimo eletti, la Bce aveva segnalato che avrebbe ridotto l’accesso alla liquidità per le banche greche. I nostri oppositori avevano usato questo per una gigantesca campagna del terrore, nei fatti incitando i depositanti a ritirare il loro denaro dalle banche. Non c’è niente di più facile al mondo per una Banca Centrale che far scattare una corsa agli sportelli – e le banche centrali sono state create appositamente per impedirla.

Pochi giorni dopo essere stati eletti, ho fatto un salto a Londra per parlare con i finanzieri della City allo scopo di calmare i loro nervi e convincerli che il nostro governo era a favore del business e allo stesso tempo determinato a salvaguardare gli interessi della popolazione che soffriva. Funzionò. Il mattino dopo la borsa greca salì del 12% e le partecipazioni bancarie più del 20%. Il giorno dopo ancora, la BCE annunciò che avrebbe limitato l’accesso delle nostre banche al suo meccanismo di liquidità. La borsa crollò ancora. Perché la BCE faceva questo al nostro nuovo governo?

La risposta ufficiale fu che il “programma” greco scadeva alla fine di febbraio “sollevando dubbi riguardo le garanzie delle banche greche”. In realtà la BCE stava strizzando il nostro governo per stoppare il sogno di riaccendere la speranza e farci accettare il programma fallito della Troika così com’era – al limite con alcuni cambiamenti cosmetici.

È interessante confrontare quello che la BCE ha fatto a noi e quel che fece nell’estate del 2012 quando un altro nuovo governo era stato eletto e, di nuovo, il “programma” greco era nel limbo: allora la BCE incrementò la liquidità delle banche a livelli enormi in solo colpo e incrementò il massimale della “carta di credito” (detta anche T-Bill) del governo greco da 15 miliardi a 18,3 miliardi. Nel nostro caso? Nel nostro caso la BCE ha aumentato la liquidità poco a poco, giorno per giorno, creando la paura nei depositanti che magari domani il limite non sarebbe stato alzato e le banche sarebbero andate a secco. Naturalmente la corsa agli sportelli peggiorò.

Per quanto riguarda il massimale della “carta di credito” del governo, invece che aumentarlo da 15 a 18,3 miliardi, la BCE lo abbasò, usando un trucco legale mai visto prima, da 15 a 9 miliardi. E tutto questo in un momento in cui dovevo trovare 7 miliardi per effettuare i pagamenti al Fondo Monetario, pagamenti che avrebbero dovuto essere fatti, in base agli accordi precedenti, da prestiti freschi che non ci sono mai stati dati.

La loro strategia era molto, molto semplice: ritardare ogni accordo con noi, dare la colpa a noi e alla mancanza di “credibilità” delle nostre proposte per i ritardi finché il nostro governo, lo stato, avesse finito la liquidità. Poi sbatterci in faccia un ultimatum sotto minaccia di immediata chiusura delle banche. Questo non è nient’altro che un colpo di stato.

Come dicevo, nel 1967 c’erano i tank e nel 2015 c’erano le banche. Ma il risultato è lo stesso, nel senso di aver rovesciato il governo o aver forzato lo stesso a rovesciarsi da solo – come il primo ministro Tsipras sfortunatamente ha deciso di fare nella notte del nostro magnifico referendum, la notte in cui mi sono dimesso da ministro, e poi di nuovo il 12 luglio.

Un pesce più grande

Tornando a febbraio, potevo vedere il disastro arrivare. Potevo vedere che la Troika non era interessata a riforme che toccassero l’oligarchia, in parte perché avevano una intima relazione con gli oligarchi (la cui stampa ha sostenuto in tutto e per tutto la Troika nella sua lotta contro di noi) e in parte perché avevano altri obiettivi in mente, di cui la Francia era il più grande.

Cosa potevo fare per rendere difficile per loro ignorare le nostre proposte? Feci due cose. Suggerii quel che pensavo fosse un sensato e soddisfacente compromesso riguardante il processo negoziale. Dissi loro: definiamo tre o quattro importanti riforme sulle quali siamo d’accordo, come il sistema fiscale, come l’Iva, come un sistema per contrastare la corruzione nell’aprovvigionamento governativo e mettiamole in pratica immediatamente mentre la BCE rilassa le restrizioni sulla nostra liquidità. Volete un accordo onnicomprensivo? Continuiamo a trattare per farlo – ma nel frattempo lasciateci introdurre queste riforme in parlamento in modo concordato.

La loro risposta? “no, no, no questa dev’essere une revisione omnicomprensiva. Niente sarà messo in pratica se voi osate introdurre qualunque legislazione. Verrà considerata azione unilaterale nemica del processo di raggiungimento di un accordo”.

Così, in risposta, provai qualcos’altro, qualcosa che mi era stato raccomandato da una persona molto in alto nel Fondo Monetario. Usando una squadra di esperti di talento preparammo un voluminoso (60 pagine) Piano per la ripresa della Grecia, un Programma di Riforme per la Grecia, un Progetto per far finire la crisi greca. Per quel lavoro mi affidai al consiglio di esperti non-greci di fama. Larry Summers, ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Lord Lamont, mio amico e ex ministro delle finanze britannico (Lord Lamont è un conservatore ed ha servito nei governi di Margaret Thatcher e John Major, n.d.t.), Thomas Mayer, ex capo economista della Deutsche Bank, il mio grande amico Jamie Galbraith dell’università del Texas e Mariana Mazzuccato dell’università del Sussex. Infine Jeffrey Sachs della Columbia university, che ha collaborato a formare molti programmi di riforme nazionali per conto del Fondo Monetario Internazionale, mi aiutò a editare il documento.

Consegnai quel documento agli altri ministri delle finanze, fu mandato a governi e funzionari delle istituzioni. Pensate che qualcuno abbia prestato attenzione? Naturalmente no. Perfino il mio primo ministro era troppo timoroso per sottomettere il nostro documento onnicomprensivo agli altri capi di governo, impaurito che la Troika considerasse il nostro documento onnicomprensivo una sfida alla sua autorità, al suo “processo di revisione omnicomprensivo”.

Nel frattempo la Troika, varia gente della Commissione, del ministero delle finanze tedesco e altre fonti del potere, facevano trapelare sempre più spesso ai media che noi stavamo rifiutando di riformare il paese, che stavamo perdendo tempo, che non avevamo niente di credibile da offrire!

Vi invito caldamente a guardare il mio sito, dove ho caricato quel documento e, se avete tempo ed energia, confrontarlo con l’ “accordo” che è stato alla fine imposto al primo ministro Tsipras. Quello che nessuno ha discusso, quello che perfino il governo greco ha mancato di pubblicizzare, farebbe finire la crisi greca, diversamente dalle condizioni di resa dettate il 12 luglio, che il nostro parlamento ha approvato recentemente e che alimenteranno ulteriormente la crisi con effetti calamitosi sui più deboli tra i cittadini greci.

Fine dei giochi

E così gli infiniti negoziati continuarono finchè la nostra liquidità statale finì completamente. All’ultimo minuto, il 25 giugno, quattro giorni prima che le banche greche fossero chiuse dalla BCE, la Troika ci diede la sua proposta di accordo. Era un ultimatum. Prendetelo o le vostre banche non riapriranno mai più le porte.

Leggemmo le loro proposte. Erano assolutamente velenose…totalmente non attuabili e tossiche. Loro volevano che promettessimo una spropositata quantità di nuova austerità, che incrementassimo l’Iva agli alberghi delle nostre isole dell’Egeo dal 6 al 23%, quando in Turchia è il 7%, che tagliassimo di un terzo le pensioni ai pensionati più poveri. La lista degli orrori su cui insistevano era infinita. Per mesi loro hanno asfissiato il nostro governo e la nostra economia con una simultanea corsa agli sportelli e una stretta della liquidità, hanno insistito che il nostro stato stressato continuasse a ripagare il Fondo Monetario Internazionale dalle proprie casse esauste e loro ritardavano i negoziati finché noi abbiamo raggiunto l’orlo dell’abisso. E a quel punto hanno fatto il tipo di proposte che uno fa quando non vuole un accordo. La questione è: perché hanno voluto fare questo?

Lo hanno fatto per indurci a concordare sulle riforme? Naturalmente no. Noi volevamo disperatamente introdurre riforme. Quando parlavano di riforme non hanno mai inteso quello. Non è una riforma tagliare la pensione di un pensionato a 300 euro al mese giù fino a 200 euro al mese. Le nostre proposte di riforma del sistema pensionistico erano riforme genuine – avevamo un piano per fare leva su beni pubblici allo scopo di creare investimenti che avrebbero pagato dividendi che avrebbero, a loro volta, sostenuto i fondi pensione. Abbiamo proposto una ristrutturazione dei fondi pensione e drastiche restrizioni sui pensionamenti anticipati. Ma loro non erano interessati.

Lasciatemi ora andare alla questione del debito. Lo scopo di ristrutturare il debito è ridurre i nuovi prestiti necessari per salvare un debitore in bancarotta. I creditori offrono uno sgravio del debito per avere di ritorno più valore e conferire all’entità in difficoltà meno nuovi finanziamenti possibili. I creditori della Grecia hanno fatto l’opposto. Loro hanno rifiutato di ristrutturare il debito e insistito che noi dovevamo accettarne ancora e ancora con condizioni che garantivano che non potesse essere ripagato.

Durante il negoziato, non ho mai smesso di suggerire ai nostri creditori una serie di brillanti “swap del debito” che miravano a due obiettivi: minimizzare i nuovi prestiti e assicurarsi che la Grecia fosse qualificata per il tipo di sostegno che la BCE da giornalmente al resto degli stati membri dell’Eurozona, come il miglior modo di smettere di prendere a prestito dai contribuenti europei. Loro hanno rigettato le mie proposte e ora hanno imposto un nuovo prestito che è il doppio di quel che era necessario.

Le nostre proposte non furono in effetti rigettate. Questo è quel che veramente importa: le nostre proposte non sono mai state discusse! Perfino se noi abbiamo avuto assicurazioni da alte autorità che esse erano tecnicamente rigorose e legalmente ben fatte, la volontà politica dell’Eurogruppo era di ignorare le nostre proposte, lasciare che il negoziato fallisse, per chiudere le nostre banche e forzare il governo greco ad arrendersi su tutto – incluso un enorme nuovo prestito assai più grande di quello che avevamo proposto.

Perchè?

Quindi torniamo alla terribile domanda: perché i creditori della Grecia preferiscono un nuovo pacchetto di prestiti molto più grande del necessario? Perché hanno ignorato le nostre proposte di riforma che loro sapevano che avremmo potuto e voluto mettere in pratica? Perché hanno sprecato la grande opportunità che gli abbiamo presentato in quanto solo governo che aveva il sostegno della gran parte del popolo greco? Non hanno “capito” che noi eravamo nella miglior posizione possibile per chiedere ai greci di prendere un’amara, sebbene non tossica, medicina riformista? Perché hanno insistito perché la medicina fosse velenosa e non terapeutica?

Non c’è una risposta economica qui. La sola risposta è quella che sta fermamente nel regno della politica di potere. La più grande paura della Troika era che il nostro governo potesse avere successo. Che la superiore saggezza e autorità della Troika fosse poi messa in discussione da voi cari amici, dai popoli d’Europa. Alla Troika non dispiace la Grecia come una ferita che si infetta continuamente. Il ministro delle finanze tedesco non è nemmeno così tanto preoccupato di riavere indietro i soldi dei contribuenti tedeschi.

Quelli che controllano il gioco in Europa sono pronti a riversare ancora molto altro denaro dei loro contribuenti in un pozzo greco senza fondo, mentre il popolo greco soffre, se questo è il solo modo che hanno di perpetuare il loro controllo sui loro popoli.

  • Il debito è il potere dei creditori e un debito insostenibile da ai creditori ancor più potere.
  • Loro non volevano di ritorno il vostro denaro.
  • Loro volevano rovesciare il nostro governo a vostre spese.
  • Ancor di più, loro volevano che ci preparassimo un letto di chiodi e che poi ci stendessimo sopra volontariamente, ringraziandoli per avercelo lasciato fare.
  • Loro volevano umiliare il solo governo che aveva osato discutere la logica di una politica economica illogica.

    I nostri cinque mesi di negoziato sono stati una competizione tra il diritto dei creditori di governare una nazione debitrice e il diritto democratico dei cittadini di quella nazione di auto-governarsi. Non c’è mai stato un negoziato tra l’UE e la Grecia come stato membro dell’UE.

    Ecco perché sono qui. Sono qui perché quel che è successo a noi sta cominciando a succedere a voi. La Grecia è il campo di battaglia sul quale una guerra contro la democrazia europea, contro la democrazia francese, viene provata e testata.

    Tornando a maggio, a margine di un ennesimo vertice dell’Eurogruppo, ho avuto il privilegio di una affascinante conversazione con il dottor Schäuble. Abbiamo parlato ampiamente sia a proposito della Grecia che del futuro dell’Eurozona. Più tardi quel giorno, l’ordine del giorno dell’incontro dell’Eurogruppo comprendeva una voce su futuri cambiamenti istituzionali per rafforzare l’Eurozona. In quelle conversazioni diventò chiaro ad abundantiam che cosa il dottor Schäuble stava pianificando per l’Europa. Era anche chiaro che una larga maggioranza dei ministri delle finanze erano concordi. Michel Sapin non era uno di loro, ma, tuttavia, non riesco a ricordare che lui abbia contestato apertamente la visione del dottor Schäuble. La Francia non è chiaramente più quella di una volta…

E quale è il piano? Francois Mitterrand sapeva che l’Eurozona era mal costruita. Lui credeva che la prima grande crisi dell’euro avrebbe forzato i suoi successori ad introdurre l’unione politica necessaria per salvare l’Europa da una frammentazione stile anni ’30. Si sbagliava.

Crisi su larga scala sono naturalmente inevitabili quando il controllo sul denaro di nazioni differenti è deferito a “tecnocrati” svincolati da un processo parlamentare per tenerli sotto controllo o per sostenerli quando necessario. Una volta che la inevitabile crisi colpisce, gli interessi nazionali risalgono in superficie e si vendicano. La storia ha dimostrato che Mitterrand si sbagliava: la crisi ha messo orgogliose nazioni una contro l’altra e spinto la soluzione federale più in là, in un futuro distante.

Il che ci lascia con il piano del dottor Schäuble: un padrone del bilancio dell’Eurozona (verosimilmente una versione glorificata del presidente dell’Eurogruppo) equipaggiato solo con poteri negativi, o di veto, sui bilanci nazionali. Sul bilancio della Francia, per essere precisi. Un Eurogruppo che diventa sempre più potente mentre la Commissione Europea sbiadisce sullo sfondo, limitata ad occuparsi di materie di minore importanza.

A quelli che parlano di “più Europa” o in favore di una “unione politica”, io dico: State attenti! Anche l’Unione Sovietica era un’unione politica. La questione è: che tipo di unione politica? Un regno democratico di prosperità condivisa? O una gabbia di ferro per i popoli d’Europa?

Una democrazia federale, lasciate che vi ricordi, come la Germania, gli Stati Uniti o l’Australia, è fondata sulla sovranità dei suoi cittadini come viene riflessa nel potere positivo dei loro rappresentanti federali di legiferare quel che deve essere fatto in nome del popolo sovrano.

In acuto contrasto, il Piano Schäuble prevede solo poteri negativi: un signore del bilancio che può solo dire “No”, ma ha una capacità molto limitata di riciclare i surplus dalle regioni in avanzo a quelle in deficit in Europa – che è quello che un sistema federale farebbe.

Il problema con questo piano è duplice. Primo, non aiuterebbe a salvaguardare e gestire la macro economia dell’Eurozona. Secondo, violerebbe principi basilari della democrazia liberale occidentale.

Allora, perché la Grecia è rilevante in tutto questo? Perché è parte del piano usare la Grecia come un esempio morale, come una dimostrazione a voi gente di quel che vi aspetta se resistete a questa rigida versione di unione politica. La Grexit è intesa come una minaccia che forza il popolo di Francia ad accettare come mali minori una permanente austerità, una crisi permanente e un diretto controllo sul vostro destino da parte di pseudo-tecnocrati che non rispondono a nessuno, senza faccia ed economicamente analfabeti.

State attenti a questo: il nostro governo è stato stritolato perché abbiamo osato dire no alla Troika in un momento in cui erano in atto i piani perché la Troika arrivasse a Parigi. Non dite che non siete stati avvertiti. “Noi siamo tutti greci, ora” non perché ci sia qualcosa di superiore nei greci, ma perché la Primavera di Atene ha acceso una piccola candela che manda speranza a tutti gli europei. Una candela che la Troika doveva spegnere ad ogni costo, per timore che la sua autorità venisse sfidata dallo spettro della democrazia.

Perdita di sovranità su dipartimenti chiave dello stato

Una delle scoperte scioccanti, dopo aver assunto il ministero delle finanze, è stata il modo in cui cinque anni di governo della Troika aveva trasformato lo stato greco in un formaggio svizzero. Interi pezzi del nostro governo erano stati ingurgitati dalla Troika, rispondendo direttamente a loro, non più tenuti a rispondere ai ministri o perfino al Parlamento.

E non era solo la Banca di Grecia, che era stata incorporata nella BCE – la stessa banca centrale che, invece di aiutare il nostro governo (come le banche centrali erano inizialmente nate per fare) ci stava asfissiando. No, mi riferisco ad altre istituzioni cruciali come la Hellenic Financial Stability facility – HFSF – (che possiede, in nome dello stato, tutte le banche) l’entità che tratta tutte le privatizzazioni, l’Ufficio statistico e, naturalmente, il Segretariato delle pubbliche entrate del mio ministero.

Quando decisi di ridurre gli enormi stipendi dei manager dell’HFSF, nominati principalmente dalla Troika, ricevetti una lettera dal signor Thomas Wieser, il presidente dell’Euro Working Group, un funzionario chiave della Troika, il quale mi disse che non potevo farlo senza l’approvazione del suo ufficio. In un paese dove la Troika pretende costanti tagli a pensioni e stipendi, il ministro non poteva ridurre gli esorbitanti salari dei ragazzi e ragazze prediletti della Troika – salari pagati dalla nostra nazione in bancarotta.

In un’altra occasione cercai di interrogare il segretario delle pubbliche entrate del mio ministero sul perché aveva ritardato di quattro mesi l’apertura di una applicazione web con cui le società presentano la denuncia dei redditi – lo stesso periodo di quattro mesi in cui il nostro stato veniva asfissiato ed aveva disperato bisogno di entrate fiscali. Mi hanno detto che io, il ministro, non avevo autorità sul segretariato delle pubbliche entrate che era, effettivamente, direttamente collegato con la Troika. Presto, durante i negoziati, la Troika … (manca il verbo in originale, n.d.t.) di fare una legge per dare maggiore autonomia al segretario generale che stava dando una mano nell’asfissiare il nostro stato!

E quando, dopo le mie dimissioni, dissi ad un gruppo di finanzieri del mio piano per ristabilire la sovranità nazionale su quel particolare segretariato, d’improvviso mi trovai a fronteggiare una campagna, da parte dei media greci amici della Troika, per mandarmi sotto processo per…alto tradimento.

Vi dico tutto questo così che siate avvertiti. Quando la Troika arriva a Parigi, in persona o in spirito, sappiate questo: una esecrabile carenza di democrazia nazionale verrà imposta anche sui ministeri francesi – se non è già stata imposta.

Deficit democratico

Lasciatemi ora riportavi indietro alla fine di giugno. Il primo ministro Tsipras aveva annunciato il referendum in base al fatto che non avevamo nè un mandato per accettare un accordo non attuabile, nè per scontraci con l’Europa. Allora noi presentammo l’ultimatum della Troika al popolo greco.

Nel vertice dell’Eurogruppo che seguì il 27 giugno, fui fustigato da numerosi ministri delle finanze per aver osato porre a gente comune delle complesse questioni finanziarie. Cosa? Non è forse questo lo scopo della democrazia? Porre questioni complesse a gente comune, sulla base di una persona un voto? Avevo capito bene? L’Eurogruppo – l’organo della più grande economia del mondo dove tutte le decisioni che danno forma alle nostre economie sociali vengono prese – mi stava rigettando la democrazia in faccia?

In quel vertice, il presidente Djisselbloem annunciò che stava per convocare un secondo incontro più tardi quella sera, senza di me; senza che la Grecia fosse rappresentata. Protestai che non poteva, decidendo da solo, escludere il ministro delle finanze di uno stato membro dell’Eurozona e chiesi una consulenza legale sulla questione.

Dopo una breve sospensione, la consulenza venne dal Segretariato dell’Eurogruppo: “l’Eurogruppo non esiste nella legge europea. È un gruppo informale e perciò non ci sono regole scritte per limitare il suo presidente”. Nessuna regola scritta, nessun verbale (cosicchè i cittadini possano vedere quel che è stato detto in loro nome), nessun rispetto per la democrazia. Questa è l’istituzione che decide per voi e per me, per i vostri figli e per i miei. È questa l’Europa per cui avevano lavorato Adenauer, de Gaulle, Brandt, Giscard, Schmidt, Kohl, Mitterrand eccetera? O è l’epitaffio dell’Europa che abbiamo sempre pensato essere il nostro punto di riferimento, la nostra bussola?

Circa una settimana più tardi il popolo di Grecia, nonostante le banche chiuse e gli allarmismi dei corrotti media greci, pronunciò un fragoroso NO nel referendum. Il giorno seguente l’Euro Summit rispose imponendo al nostro primo ministro un accordo che può solo essere descritto come le condizioni di resa del nostro governo. E l’arma scelta dall’Euro Summit? La minaccia illegale di amputare la Grecia dall’Eurozona.

Qualunque cosa uno pensi del nostro governo, e nonostante le divisioni tra di noi provocate da quella resa, questo episodio resterà nella storia europea come

il momento in cui l’Europa ufficiale dichiarò guerra alla democrazia europea. La Grecia ha capitolato, ma è l’Europa ad essere stata sconfitta.

Il nostro scontento

Come forse avete sentito, quella notte io dissentii con il primo ministro Tsipras e mi dimisi. Non eravamo stati d’accordo su svariate questioni prima di allora.

Concedere alla Troika, a fine aprile, avanzi primari assurdamente alti, senza il mio consenso, aveva prevedibilmente imbaldanzito i nostri creditori. Una volta che acconsenti ad avanzi primari alti, questo significa che accetti nuova austerità, segnali che non sei veramente serio a proposito della ristrutturazione del debito. E una volta che hai ceduto sull’austerità e sul debito, la Troika sa che sei battuto. Tutto quello che dovevano fare era attendere la nostra capitolazione.

La ragione per cui non mi dimisi allora, a fine aprile o all’inizio di maggio, era che ero sicuro che la Troika non avrebbe dato al mio primo ministro nessun accordo minimamente decente dopo che lui aveva concesso loro quasi tutto quello che avevano chiesto. Perché il loro scopo era la nostra umiliazione, piuttosto che un duro, austero accordo. E quindi attesi che Alexis irrigidisse i toni. Il referendum gli dava quell’opportunità.

Quando l’Eurogruppo segnalò alla BCE di chiudere le nostre banche per rappresaglia contro il nostro referendum – le stesse banche che la BCE aveva ripetutamente dichiarato solventi – io raccomandai due o tre atti di ritorsione da parte nostra. Quando andai in minoranza nel nostro gabinetto di guerra, capii che era finita.

Ma poi il coraggioso, impavido popolo di Grecia, nonostante la propaganda martellata dalle tv e dalle radio degli oligarchi, ignorando le banche chiuse, votò un fragoroso “No” alla resa. Quella notte Danae ed io sentimmo che avevamo un’altra chance. O che, come minimo noi avremmo dovuto rassegnarci solo se avessimo pensato che le nostre armi erano tutte esaurite, scendendo in strada con la nostra coraggiosa gente. “Non nel nostro nome”, avrebbe dovuto essere la nostra sprezzante risposta alle domande della Troika di firmare il suo catastrofico “nuovo” piano.

Questi disaccordi tra Alexis Tsipras e me sono ormai acqua passata. Mi rattrista che le nostre strade si siano divise. In particolare mi rattrista sentire il mio compagno sforzarsi di trovare parole per sostenere un programma che lui sa che non si può far funzionare.

Possiamo andare avanti uniti nella differenza? La Sinistra non è stata brava a fare questo in passato. È meglio che migliori adesso. Abbiamo bisogno di lasciare la porta aperta per tutti coloro che hanno l’urgenza e la capacità di unirsi a noi nella Lotta per Recuperare l’Integrità e l’Anima dell’Europa. Per democratizzare l’Eurozona.

Una falsa, ma divertente, storia dell’euro

Perchè noi europei abbiamo creato l’Euro? Una risposta analiticamente sbagliata, ma divertente la racconta così:

I francesi avevano paura dei tedeschi

Gli irlandesi volevano fuggire dai britannici

I greci erano terrorizzati dai turchi

Gli spagnoli volevano diventare come i francesi

Gli italiani del sud desideravano ardentemente il diritto di migrare in…Germania

Gli italiani del nord volevano diventare tedeschi

Gli olandesi e gli austriaci erano diventati nient’altro che tedeschi

I belgi cercavano di guarire le loro acute divisioni congiungendosi sia con l’Olanda che con la Francia sotto gli auspici di un Marco tedesco riconfigurato

I baltici tremavano al pensiero di una risorgente Russia

Gli slovacchi non avevano nessun altro posto dove andare dopo la separazione dai loro fratelli cèchi

La Slovenia scappava dai Balcani
La Finlandia doveva fare qualcosa che la Svezia non facesse E, finalmente, i tedeschi avevano paura dei…tedeschi!

Come tutte le grandi bugie, questo racconto contiene importanti piccole verità. I francesi avevano veramente paura dei tedeschi. E i tedeschi avevano ragioni per temere quella paura, così come la capacità della loro stessa nazione di auto-distruggersi.

A questo punto non mi trovo d’accordo con quelli che accusano la Germania e “i” tedeschi per la crisi dell’Europa. Mi sono sempre opposto a questa tendenza per due ragioni.

Primo, non c’è una cosa chiamata “i” tedeschi. O “i” greci. O “i” francesi. Chiunque conosca la società tedesca, greca o francese saprà anche che c’è più divergenza di caratteri, virtù e opinioni tra i greci, tra i francesi e tra i tedeschi di quante differenze ci siano tra tedeschi, francesi e greci.

La seconda ragione per cui mi oppongo alla censura della Germania è che Parigi porta una responsabilità maggiore di Berlino per il nostro caos attuale. Lasciatemi riportarvi al 18 settembre del 1992. Quel giorno, due giorni prima che il popolo francese votasse il referendum sul trattato di Maastricht, Le Figaro aveva questo da dire:

“Gli oppositori del trattato di Maastricht hanno paura che la nostra valuta comune e la nuova banca centrale rafforzeranno la superiorità del Marco tedesco e della Bundesbank. Ma accadrà l’esatto opposto. Con Maastricht la Germania dovrà condividere la sua potenza finanziaria con altri. “La Germania pagherà” dicevano negli anni ’20. Oggi la Germania paga. Maastricht è il trattato di Versailles senza una guerra”.

Nessun tedesco poteva perdonare una tale insensibilità. Non era una buona scusa che l’establishment francese stesse lottando per persuadere uno scettico elettorato francese a votare “Sì” al referendum.

Nel 1919 il trattato di Versailles condannò la Germania ad indicibile miseria, umiliò l’orgogliosa nazione tedesca e la preparò per essere conquistata dai criminali nazisti. I nazisti sarebbero rimasti una nota a fondo pagina della storia se non fosse stato per gli impossibili risarcimenti del trattato di Versailles.

Questo non era solo un capriccioso editoriale di qualche giornale francese. Anche il presidente de Gaulle si era immaginato l’unione monetaria con la Germania come “guerra con altri mezzi” esattamente nello spirito dell’editoriale de Le Figaro. E poi, nel 1983, quando Francois Mitterrand decise di scaricare le politiche anti-austerità del governo socialista per placare i mercati e la Bundesbank, Jacques Delors disse che abbracciava l’austerità perché l’austerità poteva essere sconfitta solo a livello europeo. E come sarebbe accaduto questo? Il piano di Delors era di conquistare un’istituzione amata dal popolo tedesco, la Bundesbank, inglobarla in una banca centrale dominata dalla Francia ed estendere in Germania e nel resto d’Europa politiche vicine al cuore di Parigi.

Sì, è vero che ne ho abbastanza di sentire politici tedeschi, come Wolfgang Schäuble, continuare a parlare della santità delle regole non applicabili (traduzione letterale diunenforceable rules”, n.d.t.). Ma dobbiamo essere onesti: le elite francesi sono responsabili del fatto di aver messo le elite tedesche sulla difensiva. I diplomati delle Grand Ecoles francesi parlano tanto del Bene Comune Europeo, ma in realtà essi erano entusiasti di sacrificare gli interessi della maggioranza dei francesi sull’altare dei loro piccoli interessi personali. Loro costantemente hanno domandato che il loro popolo e il resto d’Europa facesse sacrifici cosicché la classe dirigente francese potesse prosperare, con marchi o euro nelle loro tasche.

L’euro ha cambiato tutto questo. Chiusi nel suo abbraccio di ferro, i sofisticati amministratori francesi stanno realizzando che l’unione monetaria non consegnerà loro la Germania su un piatto d’argento. In verità stanno realizzando che non solo non stanno vincendo sulla Germania, ma che stanno perdendo la Francia. Questo non offre a noi, umanisti europei impegnati, consolazione. I nostri popoli in Francia, in Grecia, in Germania, in Finlandia stanno soffrendo a causa della stupida gestione dell’inevitabile crisi da parte delle nostre cosiddette elites.

Formiche e cicale

Tornando indietro al vecchio manifesto col quale ho cominciato il mio discorso, resta vero che la storia dell’umanità è la storia della lotta di classe. La sola forza politica che lo ha dimenticato è la…Sinistra. La Destra non si è mai mossa dal perseguire una guerra di classe in pratica usando ogni crisi per mettere orgogliose nazioni una contro l’altra.

L’idea che le formiche vivano tutte nel Nord e le cicale tutte al Sud, oltre che in Irlanda, è assurda. Ci sono formiche e ci sono cicale in ognuna delle nostre nazioni. Durante i “bei” tempi dell’Eurozona, le cicale del Nord e le cicale del Sud si sono abbuffate a iosa. E quando i loro peccati hanno portato alla crisi, sono state le formiche del Nord e le formiche del Sud che hanno dovuto pagare il conto.

La Troika e l’Eurogruppo rappresentano l’adozione del programma delle cicale da parte dell’Europa ufficiale, dappertutto in Europa, mettendo le formiche del Nord contro le formiche del Sud in un’Europa che sta perdendo la sua anima a causa degli stereotipi, della negazione e a causa della ferrea determinazione di cosiddette elite infami di non lasciar andare le leve del potere che hanno acquisito illecitamente.

Nel 1929 un crollo a Wall Street cominciò il processo che smantellò la valuta comune di quel tempo – il Gold Standard. Nel 2008 un’altro crollo a Wall street cominciò il processo di frammentazione dell’Eurozona. In entrambe le occasioni i francesi si girarono contro i tedeschi, i tedeschi contro i francesi, prima che i francesi si mettessero contro i francesi, i greci contro greci e i tedeschi contro i tedeschi. In entrambe le occasioni, negli anni ’30 e ora, i soli beneficiari furono i fanatici, i nazionalisti, gli xenofobi, i misantropi. L’uovo del serpente non impiegò tanto tempo a schiudersi nelle circostanze che seguirono.

Anti-nazionalisti, anti-nazi

Ecco perché è così importante che noi evitiamo di cominciare le frasi con “I tedeschi questo” o “I francesi quello” o “I greci quell’altro”. Ecco perché è imperativo che noi capiamo che non c’è qualcosa come “I” tedeschi” “I” greci o “I” francesi. Che noi siamo tutti europei di fronte a una vera crisi europea.

Nella mia prima visita a Berlino, alla conferenza stampa che abbiamo tenuto con il dottor Wolfgang Schäuble, ebbi questo da dire, in sua presenza:

Come ministro delle finanze di un governo che affronta circostanze d’emergenza causate da una selvaggia crisi debito-deflazionaria, sento che la nazione tedesca è colei che può capirci meglio di chiunque altro. Nessuno capisce meglio della gente di questa terra come un’economia gravemente depressa, combinata con una rituale umiliazione nazionale e un’infinita disperazione possa schiudere l’uovo del serpente all’interno della stessa società. Quando tornerò a casa stasera, mi troverò in un Parlamento in cui il terzo maggior partito è un partito nazista.

La Germania può essere orgogliosa del fatto che il nazismo è stato sradicato qui. Ma è una delle più crudeli ironie della storia che il nazismo stia risollevando la sua orrenda testa in Grecia, un paese che ha condotto una tale pregevole lotta contro di esso. Abbiamo bisogno che il popolo tedesco ci aiuti nella lotta contro la misantropia. Abbiamo bisogno che i nostri amici tedeschi rimangano saldi nel progetto dell’Europa post-guerra; e cioè non permettere mai più che una depressione come quella degli anni ’30 divida orgogliose nazioni europee. Dobbiamo fare il nostro dovere a questo riguardo. E sono convinto che altrettanto faranno i nostri partner europei.

Quindi, basta stereotipi a proposito dei greci, dei tedeschi, dei francesi. Stendiamo la mano a tutti quelli che vogliono rivendicare l’Europa come il regno democratico della prosperità condivisa.

Conclusione

Vi ho stancati a sufficienza. Lasciatemi finire con il profondo ringraziamento mio e di Danae ad Arnaud Montebourg e Aurelie Filippatti per la loro ospitalità, la loro amicizia e per averci permesso di incontrare tutti voi oggi – per questa opportunità di cominciare qualcosa di importante, qui a Frangy.

La Francia è il laboratorio d’Europa. Portando in Francia lo spirito della Primavera di Atene, si può dare un’altra occasione alla speranza.

Cari amici, la diversità e la differenza non sono mai state il problema dell’Europa.

Il nostro continente cominciò ad unirsi con molte differenti lingue e culture ed è finito diviso da una valuta comune.

Perché? Perché abbiamo lasciato che i nostri governanti provassero a fare qualcosa che non può essere fatto: de-politicizzare la moneta, trasformare Bruxelles, l’Eurogruppo, la BCE in zone libere dalla politica.

Quando la politica e la moneta sono de-politicizzate quel che accade è che la democrazia muore. E quando la democrazia muore, la prosperità è confinata ai pochissimi che non possono nemmeno godersela, dietro i cancelli e le recinzioni che devono costruire per proteggersi dalle loro vittime.

Per contrastare questa distopia, i popoli d’Europa devono credere di nuovo che la democrazia non è un lusso concesso ai creditori e rifiutato ai debitori.

Forse è il tempo di un network europeo che abbia l’esplicito proposito di democratizzare l’euro. Non un altro partito politico, ma una coalizione inclusiva pan-europea da Helsinki a Lisbona, da Dublino ad Atene, impegnata a muoversi dall’Europa del “Noi i governi” a quella del “Noi il popolo”. Impegnata a far finire lo scambio di accuse. Impegnata sull’affermazione che non c’è una cosa come “I” tedeschi, “I” francesi o “I” greci.

Il modello di partiti nazionali che formano fragili alleanze nel parlamento europeo è obsoleto. I democratici d’Europa devono riunirsi prima di tutto, formare un network, forgiare un programma comune e poi trovare modi di connetterlo con le comunità locali e al livello nazionale.

Il realismo ci chiede che il nostro nuovo network europeo cerchi modi di adattare le esistenti istituzioni europee ai bisogni del nostro popolo. Di essere modesti e di usare le istituzioni esistenti in modi creativi. Di scordarci, almeno per adesso, di cambiare i Trattati e di fare passi federali che possono solo seguire dopo che noi e lo spettro della democrazia avremmo fatto finire la crisi.

Prendete i quattro ambiti dove la crisi europea si sta dispiegando. Debito, banche, investimenti inadeguati e povertà. Tutti e quattro sono attualmente lasciati nelle mani di governi che sono privi di potere per agire. Rendiamoli europei! Lasciamo che le istituzioni esistenti gestiscano una parte dei debiti degli stati membri, mettiamo le banche che falliscono sotto una comune giurisdizione europea, diamo alla Banca Europea d’Investimento il compito di amministrare un programma pan-europeo di ripresa trainato dagli investimenti. E, da ultimo, usiamo i profitti dei conti (accounting profits in originale, n.d.t.) che si accumulano nel sistema europeo delle banche centrali per finanziare un programma di lotta alla povertà dappertutto in Europa – inclusa la Germania.

Chiamo questo programma onnicomprensivo “Europeizzazione decentralizzata” perché “europeizza” i nostri problemi comuni, ma non propone un tesoro federale, nessuna perdita di sovranità, nessun trasferimento fiscale, nessuna garanzia tedesca o francese per il debito irlandese o greco, nessun bisogno di modifiche ai trattati, nessuna nuova istituzione. Da più libertà ai governi eletti. Limita la loro impotenza. Restaura il funzionamento democratico dei nostri Parlamenti.

Alcuni anni fa Michel Rocard sostenne questa proposta, e ne scrisse perfino la prefazione. Può essere il punto di partenza delle discussioni del nostro network pan-europeo riunendo la Sinistra francese, i radicali di sinistra greci, una società tedesca più sicura di sé, perfino dei conservatori che concordano sul fatto che il presente sistema sta avvelenando la democrazia e deraglia le nostre economie.

Non dobbiamo essere d’accordo su ogni cosa. Cominciamo ad accordarci sul fatto che l’Eurozona ha bisogno di essere democratizzata.

Quando chiesero a Ghandi che cosa pensava della civiltà occidentale, lui notoriamente rispose: “…sarebbe una buona idea”.

Se ci chiedessero cosa noi pensiamo dell’Unione Europea oggi, dovremmo dire: “Che splendida idea! Se solo potessimo farla!”

Noi possiamo farla. Tutto quello di cui abbiamo bisogno è aiutare lo spettro della democrazia a perseguitare coloro che lo detestano.

Lasciatemi finire aggiungendo agli ideali francesi di libertà, fraternità ed eguaglianza alcune altre idee che la nostra Primavera ateniese ha messo al centro e che la nuova Europa deve abbracciare di nuovo: speranza, razionalità, diversità, tolleranza e, naturalmente, democrazia.

Fonte: https://varoufakis.files.wordpress.com/2015/08/frangy-2-23-aug-2015.pdf

traduzione di Lame

Reddito minimo garantito

segnalato da n.c.60

Reddito minimo garantito. Lo avremo mai in Italia (e in Emilia)?

Se ne discute da anni e anche se sul piatto ci sono diverse proposte, in Italia la possibilità di avere un “reddito minimo garantito” – presente in quasi tutta Europa – sembra ancora lontana. Eppure una simile misura potrebbe radicalmente cambiare un trend negativo – soprattutto a livello giovanile (ma non solo) – che risulta totalmente deprimente per la nostra economia e blocca la mobilità del mercato del lavoro.

Oggi, nel bel mezzo di una crisi economica, una misura a sostegno e garanzia del reddito con una riorganizzazione complessiva del sistema di tassazione che colpisca i grandi patrimoni e le rendite è tornata ad essere argomento di discussione: soprattutto in considerazione degli ultimi dati pubblicati sulla disoccupazione, che nel mese di novembre ha superato il 13,4% (mentre la disoccupazione giovanile è al 43,9%).

Dal 1992, e nuovamente in forma rafforzata nel 1999, è l’Unione Europea a raccomandare ai propri Stati membri di “riconoscere, nell’ambito di un piano di lotta contro l’esclusione sociale, il diritto fondamentale d’ogni individuo a vivere in conformità alla dignità umana” e “di dare accesso a tale diritto senza limiti temporali e di stabilire una quantità di risorse sufficienti in tale proposito”.

Il reddito, sia in forma diretta, come erogazione monetaria, che in forma indiretta, ossia comegaranzia della gratuità di una serie di servizi, è una misura in grado di garantire autonomia sociale a tutti, senza alcuna discriminazione e rappresenta lo strumento di politiche attive per eccellenza, contribuendo a rompere la ricattabilità della precarietà crescente.

Sono presenti diverse proposte relative al tema del Reddito minimo: il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle, il reddito minimo garantito di Sel, il sostegno di inclusione attiva (Sia), proposto dalla commissione di esperti coordinata dalla sen. Maria Cecilia Guerra su mandato del ministro Giovannini.

Le proposte presentate alla Commissione Lavoro e Politiche Sociali del Senato possono rappresentare un primo passo verso una maggior tutela della dignità umana e verso un sistema di welfare innovativo, basato sui principi dell’individualità e dell’universalità, anziché come è accaduto e perdura storicamente in Italia, sul familismo e sul workfare?
Non dimentichiamo che vi sono anche altre proposte sul tema, tra cui il reddito di inclusione attiva (Reis) proposto dalle Acli e il reddito minimo di inserimento proposto da Irs e Capp, che in qualche misura possono essere fatte confluire, come impianto complessivo, nel modello Sia.

Al di là delle nomenclature, si tratta pur sempre di proposte di sostegno al reddito per chi si trova in stato di povertà: non si tratta quindi né un reddito di cittadinanza garantito a tutti i cittadini a prescindere dal reddito disponibile, né di un sostegno destinato solo a particolari categorie di poveri, come la vecchia e nuova carta acquisti (destinate ad anziani e famiglie con figli), o l’assegno e pensione sociale (destinati rispettivamente a disabili e anziani poveri).

Esistono enormi differenze, in termini di costo, tra la proposta di M5S e il Sia. Le differenze sarebbero ancora maggiori nel caso della proposta di Sel, che prevede di assegnare l’intero importo e non la differenza tra reddito disponibile e soglia di povertà individuata, creando così disuguaglianze tra gli stessi beneficiari.
Il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle è una misura che, secondo la senatrice pentastellata Nunzia Catalfo, potrebbe essere applicata facilmente dal governo se si pensa che la stessa andrebbe ad incidere sul 2% della spesa pubblica.

Si tratta di un incentivo pari a circa 780 euro al mese, ma è passibile di variazioni in presenza di alcune condizioni: ad esempio se all’interno di un nucleo familiare ci sono più persone che ne usufruiscono, allora la somma percepita diminuirà, o se il cittadino inizia a guadagnare una cifra inferiore a quella indicata, allora percepirà dallo Stato la somma che manca per raggiungere i 780 euro. Potrebbero accedere al reddito di cittadinanza oltre disoccupati e inoccupati, anche chi ha un reddito inferiore alla somma indicata.

Si tratta di un’elargizione vincolata ad alcune condizioni:
1) i fruitori di questa misura non potrebbero rifiutare più di tre offerte di lavoro e devono rendersi disponibili a partecipare a corsi di formazione, per poter rispondere alla domanda dell’azienda con i requisiti richiesti.
2) Dovranno inoltre impegnarsi in lavori socialmente utili almeno otto ore a settimana e in almeno due ore al giorno nella ricerca di un lavoro su internet.

Secondo i grillini la spesa totale sarebbe di circa 17 miliardi di euro, destinati a una platea di circa10 milioni di persone.
Tuttavia sono molti a ritenere che il reddito di cittadinanza presenti alcuni punti deboli, come la mancanza di una sostenibilità finanziaria adeguata. A tal proposito sempre secondo la senatrice Nunzia Catalfo la questione è semplicemente la sussistenza della volontà politica di attuare determinate politiche.

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Ma è davvero così?

In via preliminare occorre chiarire che quando Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle parlano di reddito di cittadinanza fanno, in verità, un po’ di confusione.
Questo perché il reddito di cittadinanza è una misura che spetta a tutti, per il solo fatto di essere cittadini. Di conseguenza, un reddito di cittadinanza vero e proprio andrebbe indistintamente nelle tasche di tutti, ricchi e poveri, e sarebbe un reddito in più per chi ha già uno stipendio, indipendentemente dalla sua entità. Considerando che nella proposta di legge del M5S si parla esplicitamente di sostegno al reddito e di raggiungimento dei 780 euro minimi mensili “anche tramite integrazione”, è chiaro che quello a cui il M5S fa riferimento è invece il reddito minimo garantito.

Mentre il reddito di cittadinanza non esiste praticamente da nessuna parte al mondo, il reddito minimo garantito è una misura che si trova in molti paesi.
Si tratta però di una cifra, i 780 euro mensili calcolati dal M5S, che andrebbe versata integralmente ai soli disoccupati o inoccupati; versata parzialmente a chi ha un reddito inferiore a quella cifra e non versata affatto a chi guadagna di più di 780 euro al mese.

Una proposta meno utopistica di quella relativa a un vero reddito di cittadinanza, che, invece, verrebbe a costare 450 miliardi l’anno, vale a dire circa il 25% del PIL italiano.
Si tratta di una misura che è molto improbabile venga realizzata. A questo si aggiunga poi che con l’introduzione del reddito minimo in Italia e stante l’assenza di un qualsiasi controllo delle frontiere e del territorio, si avrebbero ulteriori masse di diseredati, ai quali il sussidio verrebbe comunque esteso dalla giurisprudenza, che da tempo ha equiparato il cittadino italiano allo straniero.

Diverso il discorso per quanto riguarda i 780 euro al mese di reddito minimo, che, secondo alcuni calcoli, verrebbero a costare 17 miliardi l’anno. Tanti soldi, ma forse non troppi se si pensa che il contestato (dal M5S e non solo) bonus di 80 euro di Renzi è costato 10 miliardi. Se in quel caso si sono trovate le coperture non è escluso che si possano trovare anche per il reddito minimo garantito.

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È notizia recente l’approvazione della legge in Friuli Venezia-Giulia sulle misure di inclusione attiva e sostegno al reddito, grazie ai voti fondamentali del M5S; la governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ha dichiarato di volerne discutere con il premier Renzi per proporgli di estendere questa misura anche a livello nazionale.

La legge regionale prevede un sostegno integrativo per i cittadini friulani che abbiano entrate inferiori ai 6mila euro, una misura, secondo i Cinque Stelle, molto simile a quella contemplata nelle tre proposte di legge, a marchio M5S, già incardinate nella Commissione Lavoro del Senato, atte ad istituire il reddito di cittadinanza a livello nazionale.

La legge della Regione Friuli presenta delle differenze rilevanti rispetto alle proposte del M5S. Innanzitutto, la Serracchiani ha chiarito che la legge appena varata non va definita né come reddito di cittadinanza né come reddito minimo garantito, ma come misure di sostegno al reddito. La normativa regionale prevede un bonus di importo variabile, a seconda del reddito ISEE della persona o della famiglia, bonus che sarà riservato a chi ha un indicatore inferiore ai 6mila euro. La misura varata prescinde dalla dimensione del nucleo familiare e dalla cumulazione di redditi anche bassi. La proposta dei 5Stelle è, invece, proporzionale in base al numero di persone che vivono sotto lo stesso tetto. Molti avversari del M5S hanno criticato la proposta di legge dei grillini, perché la stessa sarebbe destinata ad una platea indistinta, con un forte accento assistenziale.

E in Emilia Romagna? “In consiglio regionale è stato depositato un ordine del giorno relativo al reddito minimo garantito a cui si auspica segua un dibattito di maggiore concretezza, senza dimenticare la limitatezza delle risorse. Occorre individuare il target da pensare per l’intervento di sperimentazione: l’Emilia Romagna può essere un laboratorio ideale per questo obiettivo” ha affermato il Cons. regionale PD Luca Sabattini, intervenuto all’iniziativa “ #Readytoreddito” organizzata a Modena dalle associazioni ACT! e Libera, nel maggio scorso.
L’evento è stato caratterizzato da riflessioni e testimonianze di volontari della società civile, liberi professionisti, docenti, ricercatori, comunicatori, studenti, sindacalisti e lavoratori precari.

La Comunità Economica Europea aveva già chiesto all’Italia di adeguarsi in questo senso con la Direttiva 441, in cui veniva chiesto di aiutare i cittadini a vivere dignitosamente, quindi richiedendo al governo di impegnarsi nella creazione di un ammortizzatore sociale per disoccupati o per coloro che erano in cerca di impiego.

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In molti altri paesi (Francia, Germania, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia…) chi non guadagna abbastanza ottiene un’integrazione del reddito, lo stesso vale per chi lavora part time.
L’esistenza di misure di integrazione del redito in Europa spiegano molte cose che in Italia vengono riproposte in altro modo: spiega la flessibilità europea, spiega l’assenza di lavoro nero, l’assenza delle massicce raccomandazioni, spiega anche il fatto che le persone competenti occupino in genere il posto che compete loro.

Nonostante l’Europa ne raccomandi l’introduzione dal lontano 1992 all’Italia, solo ora se ne comincia a discutere. La Francia è stata l’ultimo paese in Europa ad adottare una forma di sussidio ben vent’anni fa.

Leggendo la direttiva n. 441/1992 della CEE dunque l’Europa raccomanda a tutti gli stati membri:
“di riconoscere, nell’ambito d’un dispositivo globale e coerente di lotta all’emarginazione sociale, il diritto fondamentale della persona a risorse e a prestazioni sufficienti per vivere conformemente alla dignità umana e di adeguare di conseguenza, se e per quanto occorra, i propri sistemi di protezione sociale ai principi e agli orientamenti esposti in appresso”.

Questo significa che al reddito minimo garantito si può avere accesso senza limiti di durata, purché il titolare resti in possesso dei requisiti prescritti e nell’intesa che, in concreto, il diritto può essere previsto per periodi limitati, ma rinnovabili.
In tutti i Paesi dell’Europa questo è realtà. Solo in Italia e in Grecia questo non è previsto. L’impressione è che nessuno abbia realmente compreso che ciò che manca in Italia è quella sicurezza economica che viene dalla rete dei sussidi che permette alle persone di cambiare lavoro con relativa tranquillità, soprattutto da giovani.

Il significato di apertura del mercato e della protezione sociale è fare in modo che i giovani possano sperimentare le loro possibilità e le loro idee in un mercato aperto e non controllato dalle corporazioni e dalle varie rendite.

Una cosa è la precarietà con la certezza del reddito e dell’alloggio e un’altra è la precarietà con il vuoto.

Il reddito minimo garantito può essere il baricentro: diventare il punto d’appoggio di due concezioni della società completamente diverse.

Grecia sotto ricatto

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James Galbraith: “L’Europa si vergogni, ha ricattato la Grecia e l’ha resa disperata”

L’economista dell’Università del Texas: “Il piano approvato è una menzogna fin dalle prime righe. Va contro il volere del popolo ellenico”.

di Eugenio Occorsio – Repubblica.it, 15 agosto 2015

BRUXELLES. “Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale “. L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. “Leggete il documento approvato. È una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi”. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum”.

Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?

“Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento…”.

Andiamo avanti, allora.

“Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera”.

Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?

“Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?”

Ancora?

“Legga con me. Il successo del piano richiederà ” ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika”.

Perché Tsipras ha accettato?

“Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico”.

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http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/16/news/agenda_mercati-121071012/?ref=HRLV-5