Fiducia

Dammi il cinque

segnalato da Barbara G.

Governo Rosatellum

Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare – “sul presidente del Consiglio pressioni fortissime” – ma invita a salvare l’esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata

di Andrea Fabozzi – ilmanifesto.it, 26/10/2017

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta.
E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Rosatellum? Tirare le cuoia tirando a campare

segnalato da Barbara G.

di Tommaso Cerno – espresso.repubblica.it, 11/10/2017 

La politica rischia di soccombere sotto i colpi di quella fiducia invocata proprio per salvare la politica stessa. Roba che farebbe rivoltare nella tomba Giulio Andreotti, perché il Pd è riuscito dove nessuno poté prima, rovesciare il celebre detto “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Qui si tirano le cuoia convinti di tirare a campare. Importa poco come sia andata a finire in Aula.

E poco le polemiche e i presidi dei giorni scorsi. Importa poco che il governo abbia tenuto o non tenuto. Ciò che importa è il graffio che lo scontro a colpi di fiducia sulla legge elettorale lascia sulla pelle della democrazia. Quello faremo fatica a coprirlo con del maquillage elettorale. Il bello è che sarebbe bastato portare la legislatura a una dignitosa conclusione.

Consegnare al Paese la bozza di riforma elettorale come il topolino partorito da una montagnola, il Monte Citorio, che altro non era in grado di partorire. Con la sobrietà di una classe dirigente che si rimette al giudizio di un Paese che non si fida di lei. No, perché nemmeno questo si può nell’Italia delle promesse a sei zeri e dei fatti a zero. È tale il convincimento che l’abuso di regole riesca dove le regole da sole non bastano, a fermare cioè l’avanzata della protesta, che la politica scafata a parole e ingenua nei fatti ci casca pure sul Rosatellum, un ghirigoro italico con nome scritto in latino. Nel solito tentativo di mascherare dietro il neutro della lingua dei Cesari, il neutro politico dell’oggi, il nostro vagare nella democrazia, il non andare né avanti, né indietro.

Ciò che colpisce non è dunque l’esito finale. Né le polemiche. È che ci siamo stupiti. Stupiti di come siamo sempre stati. È questo caos il finale giusto, capace di far deflagrare quel che resta del centrosinistra e di aiutare proprio i Cinque stelle adesso che sembravano normalizzarsi. E utile a mostrarci qui dalla terra la cometa Pisapia, che ha lampeggiato in cielo meno del tempo che si sta a pronunciarne il nome. Tutto talmente scontato da farci pensare che non sia vero. Nemmeno il Palazzo – ripetiamo dentro di noi – può essere così lontano dalla gente da non rendersi conto che è meglio perdere con le regole della democrazia, piuttosto che vincere con la forza, anzi la forte debolezza di chi esercita lo strumento della fiducia dove non andrebbe mai utilizzato: riscrivere le regole del gioco. Una scelta che presenterà alla sinistra un conto salato. E creerà un precedente inquietante, perché sfonda il guard rail della prassi parlamentare in un punto critico, quello dove il pilota Paolo Gentiloni, così distante dallo strafare di Renzi, colui che passò per essere la panacea contro populismo e rabbia, nulla può contro il più antidemocratico degli abusi: l’abuso di democrazia.

Poco importa il fatto tecnico, la fiducia usata come ariete per portare a casa qualche modifica al proporzionale uscito dalla Consulta. Quel che pesa è il vulnus politico: il Pd prova a forzare sulla legge elettorale, cioè sull’armatura esteriore che dovrebbe favorire le alleanze alle politiche 2018, perché in cuor suo sa di non essere in grado di far nascere quelle alleanze da dentro, aggregando cioè al nucleo dei democratici chi condivide – pur con dei distinguo – la natura del progetto. Ecco che come topolini, appunto, finiamo per rovistare nella Costituzione. Siamo alla ricerca di soluzioni arrangiate, il modo più sicuro per consegnare il Paese alle destre. Il Pd sembra non capire che l’algoritmo elettorale, anche se scritto meglio, si trasforma in flusso di voti e in maggioranza di governo solo se nasce dentro le regole comuni, senza sospetti, senza equivoci. Se i cittadini non provano questa sensazione, la nuova legge si rivolterà contro l’inventore come un Frankenstein. E anziché aggiustare il Consultellum e aumentare la rappresentanza, scaverà un nuovo solco fra politica e antipolitica. È l’errore più grossolano che avrà l’effetto di rafforzare Grillo e dividere ancora di più la sinistra. Perché così si spegne il nucleo già intermittente del progetto originario. Che se non è più un partito, deve restare almeno democratico. Come scrissero dieci anni fa su quel simbolo.

Premierato all’italiana

segnalato da Barbara G.

Leggi, con Renzi le fa solo il governo: così trionfa il “premierato all’italiana”

Secondo i dati Openpolis, nella XVII legislatura prosegue, inesorabile, il rafforzamento dell’esecutivo: un provvedimento proposto da un parlamentare ha una “speranza di successo” 36 volte inferiore di quella del governo. Renzi pone la fiducia due volte al mese, più di Berlusconi che veniva bollato a sinistra come “autoritario”

di Thomas Mackinson – ilfattoquotidiano.it, 05/01/2016

Italia esempio di repubblica parlamentare. Un tempo forse, oggi non più. Oggi è il tempo del “premierato all’italiana”, come titola in modo efficace e graffiante il rapporto di Openpolis (scarica) che mette sotto la lente di ingrandimento genesi, natura e tempi di approvazione delle leggi approvate nella XVII legislatura, quella iniziata tre anni fa con Letta e proseguita negli ultimi due con Renzi.

I numeri del rapporto dicono che è un tempo di dominio indiscusso dell’esecutivo su un Parlamento italiano ridotto a funzione gregaria, nonostante costituzionalmente (art. 70 Cost.) siano proprio Camera e Senato i titolari del potere legislativo. Nel corso degli anni i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d’azione, tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Nelle ultime due legislature sono state proposte 14mila leggi ma quelle approvate sono state 565 e in percentuale, tra quelle che sono poi riuscite a completare l’iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e solo due del Parlamento italiano. E il governo in carica non ha invertito la tendenza, anzi.

Anche i tempi di approvazione sono molto diversi. Se potessimo fare un paragone, per il governo c’è il Frecciarossa, mentre il Parlamentoviaggia su convogli locali lentissimi. In media, un provvedimento di iniziativa parlamentare, necessita del triplo del tempo di uno di iniziativa governativa. Esempi? In questa legislatura, per dire, sono bastati 13 giorni per la ratifica del “Trattato di risoluzione unica”, quello contestatissimo dai risparmiatori sul risanamento bancario e il salvataggio interno. Ma ce ne sono voluti ben 871 per licenziare il ddl sull’agricoltura sociale che ha impiegato la bellezza di due anni e mezzo a diventare legge. Idem per lo svuota carceri, i decreti sul lavoro, i fallimenti e la riforma della Pa che hanno visto la luce in poco più di un mese (in media 44 giorni). Dall’altra parte si ritrovano l’Italicum, il divorzio breve, gli ecoreati, l’anti-corruzione che hanno impiegato tra i 664 e i 764 giorni per ottenere il via libera finale. Ogni giudizio su urgenza e platea degli interessati è superfluo.

Il ruolo già subalterno di Camera e Senato viene acuito, se possibile, dalla corsa ai voti di fiducia da parte del governo che di fatto tronca la discussione in Parlamento e fa decadere qualunque proposta di modifica. Uso e abuso dei tempi moderni non trova argini, nonostante impegni e promesse dei capi governo ad ogni rintocco di campanella. Se con Letta il 27% delle leggi ha necessitato di un voto di fiducia, la percentuale è salita al 34% con Renzi: da inizio legislatura si è votato la fiducia mediamente due volte al mese. Numeri che fanno impallidire perfino chi, comeSilvio Berlusconi, fu tacciato di autoritarismo dal centrosinistra per esservi ricorso in proporzione assai meno. Nell’ultimo ventennio, a eccezione di Mario Monti che dovette fronteggiare una situazione eccezionale di emergenza, nessun governo ha utilizzato la fiducia in misura così massiccia.  Non proprio un segno di forza per chi sta al governo. Neppure di compattezza per chi lo esprime e sostiene.

In proposito il dossier ricostruisce il “chi-vota-cosa”, rilevando dinamiche e comportamento dei gruppi in aula rispetto all’esecutivo. “Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all’interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari“. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd. “Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall’altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione”.

Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di ‘trincea’ fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l’opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d’Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.

 

Partita di giro

segnalato da Barbara G.

Alcune considerazioni sulla legge di stabilità e il voto di fiducia.

Nb gli articoli sono di un paio di giorni fa.

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Stabilità 2016, una colossale partita di giro

L’ammontare reale della legge presentata dal governo la settimana scorsa si aggira intorno ai 14 miliardi di euro; i 16 miliardi che permetterebbero una manovra nominale di trenta dipendono dal giudizio della Commissione europea. Il taglio fiscale sulla prima casa rappresenta la principale, e forse unica, scommessa. Numerose le copertura “in prospettiva”, che non paiono esistere.

Di Alessandro Volpi (Università di Pisa) – altreconomia.it, 19/10/2015

C’è una nota molto assurda nella legge di stabilità varata dal Consiglio dei ministri, ed è forse la prova più lampante dei limiti delle politiche di bilancio imposte dall’Europa: nell’insieme infatti la manovra assomma a 27-30 miliardi, una forbice che dipende dalla possibilità o meno per il governo italiano di ottenere dalla Commissione europea uno “sconto” dello 0,2% del Pil, circa 3 miliardi, rispetto ai vincoli previsti per riportare il rapporto tra deficit e Pil vicino allo zero. In altre parole, non esiste ancora un’unica cifra complessiva della manovra per il 2016, in quanto è necessario attendere il responso della stessa Commissione a cui l’Italia ha spedito i propri conti perché venissero preventivamente esaminati.

Ma l’aspetto ancora più cervellotico è un altro: il nostro Paese dovrebbe deliberare aumenti del carico fiscale, tra Iva e accise, pari nel 2016 a circa 17 miliardi di euro, nel caso in cui non rispettasse i già ricordati vincoli imposti dall’Europa. Per scongiurare tale, insostenibile, rischio, il governo Renzi ha deciso di utilizzare poco più di 13 miliardi di euro, derivanti dalla differenza fra l’1,4% nel rapporto deficit-Pil, che rappresenta il limite fissato dai trattati europei, e il 2,2% che il medesimo governo ritiene “più giusto” dato lo sforzo sostenuto nel percorso di risanamento.

Se si sommano i due dati qui citati, e dunque il rapporto tra deficit e Pil salisse al 2,4, con il consenso della Commissione, ben 16 dei 17 miliardi necessari per evitare che scattino le ricordate clausole di salvaguardia deriverebbero dal mero allentamento dei parametri europei.
Per essere ancora più chiari, su una manovra nominale di 30 miliardi, 16 sono una colossale partita di giro dettata dalle strampalate regole europee. Per di più dal giudizio della Commissione europea discende la possibilità di realizzare questa stessa partita di giro, che con l’economia reale davvero non ha nessuna relazione.

Dunque l’ammontare reale della legge di stabilità, al netto degli astratti “europeismi”, si aggira intorno ai 14 miliardi di euro, una cifra decisamente più modesta, in gran parte destinata  a finanziare il taglio fiscale sulla prima casa, che costituisce la principale, e forse unica, scommessa della manovra. Una parte di questa cifra dovrebbe trovare le proprie coperture in una spending review drasticamente ridotta a poco meno di 6 miliardi, che rappresentano peraltro la più certa delle risorse a cui si unisce la riduzione della de-contribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato.

Più incerti sono invece i 3,1 miliardi derivanti dalla generica dizione “ulteriori efficientamenti” e i circa 2 miliardi che dovrebbero provenire dal rientro volontario dei capitali dall’estero, una misura ovviamente una tantum. In questo senso, la legge di Stabilità 2016 rappresenta una sorta di manifesto della fine del rigore da un duplice punto di vista. Da un lato, infatti, si procede alla sterilizzazione dell’effetto dei vincoli europei attingendo a piene mani alle rimodulazione degli impegni già assunti in materia di riduzione del deficit, mentre dall’altro si utilizzano numerose coperture “in prospettiva”, che non paiono esistere nel momento in cui la legge viene disegnata e spedita in Europa.

La dimostrazione ancora più evidente di una simile impostazione emerge dai numeri del bilancio pluriennale che contengono tutte le clausole di salvaguardia imposte dai più volte citati vincoli europei e che non sono, al momento, in alcun modo rimovibili; l’impressione è, in sintesi, quella di una manovra che procede con una rotta descritta per il brevissimo periodo e che si affida alla forza della stabilità politica piuttosto che a quella delle cifre. Del resto, qualora la scelta fosse quella di costruire una manovra con le risorse reali, sarebbe davvero inevitabile dichiarare che la crisi è tutt’altro che finita. Appare dunque doveroso aggiungere un aggettivo molto esplicito al documento fondamentale in materia di finanza per il 2016, qualificandolo come “legge di Stabilità politica”; solo così risulta possibile comprendere la sua vera natura.

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La minoranza dem: ‘Non possiamo far cadere Renzi sulla manovra’

Il premier pensa al voto di fiducia. E così la sinistra del partito spera in qualche modifica, per giustificare il voto, dopo le accuse che parlano di una manovra «di destra» e addirittura «anticostituzionale»

Di Luca Sappino – espresso.repubblica.it, 20/10/2015

Mentre il ministro Gian Carlo Padoan deve spiegare al Sole24ore perché abbia cambiato idea (lui come molti renziani) sul limite per i pagamenti in contanti («Ho cambiato idea e rivendico il diritto a farlo», dice, «l’evidenza mi dice adesso che non c’è una correlazione tra il limite al contante e la dimensione dell’economia sommersa») nel Pd continuano i malumori sulla finanziaria del governo Renzi.

Ultimo punto di frizione è il ritardo sull’invio, a cinque giorni dall’annuncio, di un testo della manovra, di tabelle e schede da spulciare. L’hanno notato le opposizioni, come Forza Italia, l’hanno notato alcuni giornali, e l’hanno notato nella minoranza del Partito democratico. Si ricorda giustamente che la legge di stabilità andrebbe per legge consegnata alle camere entro il 15 ottobre di ogni anno, insieme al bilancio dello Stato.

E per rispondere all’obbligo di legge non bastano le slide mostrate in conferenza stampa, che sono l’unica cosa licenziata dal Consiglio dei ministri, però, evidentemente, almeno stando a quanto ammette lo stesso Padoan, che durante un convegno, sabato – come riporta il Fatto quotidiano – ha ringraziato i tecnici della ragioneria che starebbero lavorando giorno e notte per limare il testo. Sarebbero bastati gli annunci di Renzi, comunque, ad alimentare per settimane il dibattito nel Pd. Dall’abolizione indiscriminata della Tasi e dell’Imu, all’aumento del limite per i contanti, fino a canone Rai e al miliardo che il governo vuole tirare su autorizzando altre 22mila sale per i giochi d’azzardo, sono diversi i punti dove si registra una distanza.

Ma tra l’annuncio di una controfinanziaria e decine di interviste rilasciate ai giornali, cosa farà, questa volta, la minoranza dem? «Finirà come al Senato dove sulla riforma costituzionale si sono fatti approvare una scialuppa di salvataggio che non risolve il problema dell’elezione dei senatori e poi hanno votato disciplinati», dice un senatore polemico del gruppo misto. In realtà qualcosa di più è già successo.

Alfredo D’Attorre, ad esempio, ancor prima di vedere come andrà a finire la battaglia, ha alzato bandiera bianca e lasciato Renzi alla sua deriva, che fa così contenti Fabrizio Cicchitto e Angelino Alfano («La finanziaria è piena di nostre idee», dicono entrambi). «Il prossimo sarà un anno di campagna elettorale e noi dobbiamo costruire un nuovo soggetto di sinistra da presentare alle elezioni del 2017», dice D’Attorre a Goffredo De Marchis, su Repubblica: «Possiamo farlo solo partendo da una battaglia sulla Finanziaria e contro le ingiustizie sociali che porta con sé. Non potevamo farlo sulla riforma del Senato, non ci avrebbero capito».

D’Attorre, quindi, a giorni formalizzerà il ricongiungimento con gli altri ex Pd – Stefano Fassina, Sergio Cofferati e Giuseppe Civati – nel travagliato cantiere della Cosa Rossa, che però è per il deputato sempre meglio che votare l’ennesima fiducia. Già, perché da palazzo Chigi l’opzione fiducia è ormai data per certa. E questo però fa il vuoto attorno a Pier Luigi Bersani, che più di altri ha alzato i toni («Che cosa vogliamo fare dell’articolo 53 della Costituzione, che parla di progressività?», si è chiesto retorico: «Le norme sulla casa introducono per via di fatto un 53 bis: chi ha di più paga di meno»).

Da Roberto Speranza a Gianni Cuperlo, fino al presidente della commissione bilancio della Camera, Francesco Boccia, sono tutti al lavoro per «migliorare» la manovra. In particolare si punterà a strappare qualcosa sulla tassa sulla prima casa o forse, anche grazie all’intervento di Cantone, un parziale passo indietro sull’aumento del contante. Ma ancora Repubblica scrive ad esempio che il senatore Federico Fornaro, sempre della minoranza e componente della commissione Finanze, avrebbe schiettamente confidato al cronista che Renzi non può certo cadere sulla manovra. La fiducia, insomma, è la fiducia e pare Renzi se la meriti ancora. Nonostante le delusioni che la minoranza dem ha già avuto dall’Italicum, dal jobs act, dalla riforma del Senato. Nonostante Verdini e il ponte sullo Stretto.

Un elettore scrive tra l’allarmato e il provocatorio sulla bacheca facebook di Fornaro: «Corrisponde al vero quanto pubblicato da Repubblica stamattina, ovvero che il sen, Fornaro avrebbe detto che non si può fare cadere il governo sulla legge di stabilità, per cui se Renzi mette la fiducia, la sinistra del Pd mette la coda tra le gambe?». «Sull’eventuale voto di fiducia sulla legge stabilità è evidente che non si potrebbe invocare la libertà di coscienza», è l’educata risposta di Fornaro. Che poi rassicura: «Sarò tra quelli che lavorerà per migliorarla».

Lo stesso dice Roberto Speranza, con l’ufficialità di una comparsata ad Agorà, su Raitre: «Davanti ad una richiesta di fiducia al governo, io non penso ci siano le condizioni per far mancare la fiducia». Non si dica però che si rinuncia alla battaglia: «Ma non voglio partire da qui, perché altrimenti non c’è un dibattito possibile nel partito», continua l’ex capogruppo, «l’alternativa non può essere o esci dal Pd o mi fai l’applauso anche quando faccio qualcosa che non va bene».

Il giorno della spaccatura

segnalato da barbarasiberiana

ITALICUM, IL GIORNO DELLA SPACCATURA DEL PD. BERSANI, SPERANZA E LETTA VOTANO CONTRO RENZI

La giornata che era iniziata con la bocciatura delle pregiudiziali delle opposizioni si chiude nel caos per i democratici dopo la decisione di porre la fiducia. E ora il premier vuole asfaltare i suoi oppositori.

Di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 28/04/2015

C’è un seggio vuoto nell’aula di Montecitorio, accanto a quello occupato dal vice-segretario del Pd, il renziano Lorenzo Guerini, e resterà a lungo senza occupante. È il posto del capogruppo dimissionario Roberto Speranza, in dissenso con il segretario-premier Matteo Renzi. Alle tre e venti del pomeriggio, quando la ministra (così la chiama anche il circuito interno della Camera) delle Riforme Maria Elena Boschi dichiara che il governo metterà la fiducia sulla legge elettorale Italicum, Speranza non c’è.

Arriva più tardi, verso le quattro, mentre l’aula ribolle di rabbia: crisantemi lanciati contro i banchi del governo, urla contro la presidente della Camera Laura Boldrini («venduta!») e contro il governo («maiali, rottinculo», grida il forzista Maurizio Bianconi), sottili disquisizioni («Renzi fascista», esclama il forzista Renato Brunetta). Speranza si siede, imbarazzo con Guerini, i due quasi non si parlano, immagine chiave di una giornata che non potrà essere dimenticata.

Qualche minuto dopo, infatti, il mite, riflessivo, posato ex capogruppo annuncia il suo strappo: non voterà la fiducia al governo Renzi. Il Pd si spacca, sul provvedimento decisivo, la legge elettorale. A furia di tirare di qui e di là, la forzatura di Renzi produce un risultato certo, l’Italicum approvato a passo di carica, e una drammatica spaccatura nel Pd dove un’ala parla di Renzi come Enrico Berlinguer parlava di Bettino Craxi nel 1984, ai tempi della scala mobile. «È in gioco la democrazia», alza la voce Pier Luigi Bersani. Anche lui non voterà la fiducia, come Rosy Bindi. La minoranza del Pd passa all’opposizione. E in serata si aggiunge un altro no pesante: quello dell’ex premier Enrico Letta.

Eppure la seduta era partita più che soft: soporifera. E il voto sulle pregiudiziali di incostituzionalità , a voto segreto, alle due del pomeriggio avevano consegnato al governo il più schiacciante dei risultati. Più di centosettanta voti di scarto, 384 a 209 nel caso del primo voto, 385 a 208 nel secondo, nel segreto dell’urna, un baratro tra maggioranza e opposizione, a prova di qualunque imboscata di eventuali franchi tiratori. In Transatlantico, nella pausa pranzo, in molti scommettevano che con numeri così rassicuranti difficilmente Renzi avrebbe potuto mettere la fiducia per ammazzare il dibattito. Solo in due casi, infatti, la fiducia è stata utilizzata sulle leggi elettorali: nel 1923, governo Mussolini sulla legge Acerbo, e nel 1953, governo De Gasperi sulla legge Scelba, la legge-truffa. Altri tempi, di tragedia e di tensione. Oggi, 27 aprile 2015, il clima dentro e fuori l’aula era piuttosto grigio, di ferro e di fumo, di contrapposizioni arrugginite, di stanchezza.

Invece all’ora del supplì si è consumata una partita a poker con doppio bluff. Il bluff degli oppositori dell’Italicum: dimostrare che i numeri erano sicuri per poi tendere qualche trappola in qualche voto segreto su un emendamento minore. E quello di Renzi: fingere di credere alle buone intenzioni dichiarate della minoranza interna al Pd. Così il premier che aveva già vinto la partita ha proseguito nell’unico schema che gli è congeniale, come un giocatore costretto a ripetere all’infinito sempre la stessa mossa: stravincere. Asfaltare, come si dice su twitter, gli avversari. Non perdere un minuto. Correre, correre sempre. Si è vinto nei voti segreti? Bisogna stravincere.

Alle tre e venti tocca alla Boschi annunciare la fiducia che azzera il dibattito. L’aula esplode. Insulti, «non si tirano fiori in aula», si duole la Boldrini con i colleghi di Sel. «Non ci farete diventare un’aula di manipoli renziani. Diciamo no al fascismo di Renzi!», tuona Brunetta, beccandosi il rimprovero di Ignazio La Russa, «questa è una farsa, non è il fascismo!». «Questo voto è un’occasione perduta. Sarà lacerante. E sulla legge elettorale esiste l’eterogenesi dei fini, chi la fa per se stesso finisce per favorire qualcun altro», ragiona il decano di Montecitorio Pino Pisicchio, antica saggezza democristiana. La Lega non trattiene la contentezza. Il Movimento 5 Stelle alza il tono e promette due giorni di fuoco. Ma la polveriera è altrove. Nel Pd.

Il partito più grande, in questo momento, non ha neppure un capogruppo. A sostituirlo non è lo zelante Ettore Rosato, il vero capogruppo del Pd si chiama Matteo Renzi. Con la fiducia sull’Italicum ogni ponte è saltato. Il 15 gennaio di un anno fa il neo-eletto segretario del Pd aveva motivato l’incontro del Nazareno con Silvio Berlusconi con la necessità di una maggioranza larga per fare le riforme: «non è nel nostro stile farle da soli». Ah, che disgrazia le questioni di stile, dice la canzone di Ivano Fossati, al diavolo lo stile, domani l’Italicum sarà, forse, una buona legge elettorale invidiata da tutti, come promette Renzi, ma oggi è il nome di una divisione che attraversa quel che resta del Parlamento e spacca il Pd, rottama gli ultimi leader del passato. Per paura o per arroganza o per entrambe le cose. O per la coazione a ripetere di un leader costretto a interpretare sempre se stesso. Senza alternative.

QUI l’articolo completo di video.

Sui diritti del lavoro

segnalato da barbarasiberiana

SUI DIRITTI DEL LAVORO

di Walter Tocci – intervento al Senato, 07/10/2014

La richiesta del voto di fiducia sembra una prova di forza ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella stessa delega. Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale. Il Senato delega per sentito dire nelle televisioni, senza quei “principi e criteri direttivi” prescritti dalla Costituzione. È l’anticipazione di un metodo che diventerà normale con la revisione costituzionale in atto.

Si forzano le regole per paura di un libero dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio non è in grado di presentare gli emendamenti che ha proposto come segretario del suo partito. In questo modo, la legge delega sarà priva non soltanto di alcune garanzie ampiamente condivise, ma perfino della famosa questione della cancellazione dell’articolo 18. Se ne parla sui media, ma non risulta nei testi. D’altronde, a quanto pare, non conta più cosa decide il Parlamento – sarà poi il governo tra qualche mese a scrivere i veri decreti – l’importante è ora creare l’apparenza di una grande riforma.

L’argomento è stato scelto ad arte per inscenare una contrapposizione simbolica. Ce la potevamo risparmiare questa guerra di religione sul diritto del lavoro. Non solo perché il Paese avrebbe bisogno di ritrovare coesione sociale intorno a un chiaro progetto di cambiamento. Non solo perché si dovrebbe evitare di lacerare la ferita già dolorosa della disoccupazione che segna la vita di milioni di italiani. Ma soprattutto perché non c’è alcun motivo pratico per ingaggiare l’ennesimo duello giuslavorista. E il primo ad esserne convinto sembrava proprio Matteo Renzi. Solo qualche mese fa riteneva che ridiscutere dell’articolo 18 fosse una fesseria. Si era addirittura impegnato di fronte al popolo delle primarie ad archiviare la questione. Come mai ha cambiato idea? Sarebbe doverosa una spiegazione. Altrimenti potrebbe alimentare il dubbio che la guerra di religione è ingaggiata per distrarre l’opinione pubblica, per coprire le evidenti difficoltà dell’azione di governo, per occultare gli scarsi risultati ottenuti nella trattativa europea.

Temo che si vada consolidando un metodo di governo basato sulla ricerca continua di un nemico. Può servire a creare un consenso effimero, ma non aiuta il paese a trovare una rotta; asseconda il rancore sociale ma non coagula le passioni civili per il cambiamento.

La furia distruttiva stavolta è indirizzata verso un bersaglio inesistente, un altro ceffone alle mosche. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non esiste più nella legislazione italiana, è stato cancellato da Monti due anni fa.

Si racconta ancora la bufala secondo cui nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della “giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero – o forse dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori meglio del governo a guida Pd.

In seguito alle nostre critiche è stato riproposto il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta un solo buco, non ne servono due.

In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente del Consiglio, Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali come strumento per la crescita del Pil.

Solo in Italia può accadere che dopo due anni si scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico di nuove regole.

Se si riflette onestamente su questa anomalia italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera negli errori del passato:

– Si continua a far credere che abbassando l’asticella dei diritti riprenda la crescita. L’esperienza dovrebbe averci convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di innovazione.

– Si continua a contrapporre i garantiti e i non garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio, come certifica ormai anche l’Ocse attribuendo all’Italia uno dei massimi indici di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai giovani neoassunti.

– Si continua nella politica dei due tempi – “ora aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di disoccupazione è incerto e insufficiente.

– Si continua a denunciare il freno del sindacato, quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di rappresentanza che desse voce ai lavoratori.

– Si continua nell’illusione che basti incentivare il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si innova la struttura produttiva?

Nel primo annuncio del Jobs Act subito dopo le primarie tutte queste leggende sembravano abbandonate, ma ora sono tornate in auge. La forza del passato ha preso il sopravvento, riducendo l’entusiasmo della novità a stanca retorica. Il Grande Rottamatore porta a compimento i programmi dei rottamati di destra e di sinistra.

Ben due generazioni hanno creduto agli annunci di una flessibilità coniugata ai diritti e sono rimaste ferite. La promessa di uscire dal buco nero della precarietà è troppo seria per essere delusa. Stavolta alle parole devono seguire i fatti. Solo da questa preoccupazione muove la mia critica.

Sento dire che il contratto a tutele crescenti dovrebbe eliminare la sacca della precarietà. Qualcuno mi sa indicare il comma che assicura il risultato? Purtroppo non esiste, poiché il nuovo contratto si aggiunge ai precedenti, adottando quindi la soluzione Ichino contro quella Boeri. Le imprese non ricorrono al tempo indeterminato se possono continuare a gestire rapporti di lavoro meno costosi e senza futuro. Anzi, questi sono stati ulteriormente incentivati con il decreto Poletti di luglio che ha abbassato le garanzie dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e in questa delega si amplia l’uso del voucher che nega perfino il rapporto tra lavoratore e impresa.

Si è annunciata l’eliminazione del cocopro, ma è molto difficile che da questa figura parasubodinata si approdi a un vero contratto di lavoro. Più facile invece che si regredisca nel sommerso delle partite Iva. D’altro canto, anche i critici di sinistra peccano di normativismo, illudendosi che basti togliere questa o quella figura contrattuale per migliorare la qualità del lavoro.

C’è un lavoro autonomo di seconda generazione che è legato alla trasformazione tecnologica e produttiva del nostro tempo. È una figura anfibia che non si può ingabbiare negli schemi tradizionali dell’imprenditore e del lavoratore, ma va riconosciuta nella sua peculiarità e sostenuta con strumenti non convenzionali. Dovremmo saperlo soprattutto in Italia, avendo sotto gli occhi quei sei milioni di nuclei produttivi con meno di tre dipendenti che ci ostiniamo a chiamare imprese per ragioni ideologiche, mentre costituiscono una mutazione della figura del lavoratore. L’armatura giuslavoristica di questa legge delega non riesce a contenere il fenomeno e anzi rischia di soffocarlo.

Il carattere anfibio del lavoro terziario richiede l’attivazione di tutele di tipo universalistico – pensionistiche, formative, di welfare territoriale – a prescindere dalle forme contrattuali. Perfino il sostegno al reddito deve essere legato allo status di cittadinanza e non può essere limitato solo al passaggio da un’occupazione all’altra, come invece è necessario e assolutamente prioritario per il lavoro dipendente.

La complessa flessibilità è quella del lavoro autonomo, per quello subordinato sarebbe molto più facile ricondurre l’ordinamento a poche e chiare figure contrattuali che prevedano un periodo di prova e di formazione prima dell’assunzione definitiva e forme di impiego temporaneo più costoso e legato a reali esigenze produttive. Questa semplificazione è credibile solo se si attua la riforma più difficile in Italia, cioè l’obbligo di rispettare la legge.

La gran parte della precarietà nel lavoro subordinato si regge su una pratica di illegalità ed elusione. In questa proposta si delega il governo a fare tutto, tranne che a organizzare un efficiente sistema di controlli sulle condizioni di lavoro. Basterebbe rafforzare il corpo degli ispettori del lavoro e incrociare le banche dati con la lotta all’evasione fiscale e previdenziale, con l’obiettivo di sopprimere il lavoro nero e aumentare la vigilanza sulla sicurezza.

Ma a dare il buon esempio dovrebbe essere prima di tutto lo Stato. Nella stragrande maggioranza i contratti precari della pubblica amministrazione sono illegali, perché utilizzano rapporti temporanei per funzioni continuative e in alcuni casi di delicato interesse pubblico. La recente promessa di assumere 150 mila insegnanti che attualmente hanno cattedre annuali va nella giusta direzione e dovrebbe riguardare le tante figure che si trovano in condizioni simili: ricercatori e archeologi, ingegneri e architetti, informatici e operatori sociali. Non solo per rispettare la dignità di quei lavoratori, ma anche perché la valorizzazione delle loro competenze aumenterebbe la qualità delle politiche pubbliche. Anche le gare di appalto a massimo ribasso oggi contribuiscono a diffondere l’illegalità e il precariato selvaggio, mentre la committenza pubblica dovrebbe prendersi cura del rispetto dei diritti del lavoro. È curioso che questa proposta di legge si occupi del mercato privato e ignori completamente le responsabilità dello Stato come datore di lavoro diretto e indiretto.

Tra le righe si legge una sfiducia nel futuro del paese. Si ritiene che l’Italia non possa essere diversa da come è oggi, non sia in grado di modificare la sua struttura economica tradizionale ormai messa fuori gioco dalla competizione internazionale. Si pretende di risolvere il problema eliminando i diritti e riducendo i salari, già oggi i più bassi in Europa, magari utilizzando gli 80 euro e il Tfr per pareggiare il conto.

Sembra una scelta di buon senso ma è una via senza uscita. I paesi emergenti saranno sempre nelle condizioni migliori di costo per vincere la concorrenza. L’unico modo per mantenere il rango di grande paese consiste invece nel migliorare il livello tecnologico, la specializzazione del tessuto produttivo, l’accesso nell’economia della conoscenza. Ma ci vorrebbe un’agenda di governo tutta diversa; bisognerebbe puntare sulla formazione permanente per migliorare le competenze, mentre qui si promuove per legge il demansionamento dei lavoratori; si dovrebbe puntare sulle politiche industriali della green economy mentre il decreto sblocca-Italia rilancia la rendita immobiliare; si dovrebbe puntare sulla ricerca scientifica e tecnologica, che invece subirà altri tagli con la legge di stabilità; si dovrebbe puntare sull’economia digitale non a parole ma con azioni concrete che ancora non si vedono.

Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si sono visti i passi indietro. Con le riforme istituzionali gli elettori contano meno di prima. Con il Job Act si intaccano le garanzie per i lavoratori. Queste scelte non erano previste nel programma elettorale del 2013 che abbiamo sottoscritto come parlamentari del Pd. Non siamo stati eletti per indebolire i diritti.

Pippology

di barbarasiberiana

Faccio una premessa: non sono iscritta al Pd, e sono incazzata nera per la fiducia a Renzi (nel caso non si fosse capito).

Ho avuto modo in questi giorni di parlare con alcune persone che sono state a Bologna domenica, queste però iscritte al partito: giovani ma in politica da sempre, che hanno partecipato alla fondazione del PD, e che ci hanno creduto fermamente.

Mi hanno parlato di un dibattito vivo, partecipato, in cui sono state analizzate le varie opzioni, i pro e i contro di una rottura che si sarebbe ovviamente rivelata definitiva. Un dibattito in cui c’era un sostanziale equilibrio, e chi è andato lì già con un’idea ben precisa l’ha comunque rimessa in discussione confrontando i propri punti di vista con quello degli altri. All’assemblea presumibilmente erano più gli iscritti al PD che i non iscritti, pertanto la discussione era un po’ più sbilanciata sul lato “si resta dentro” (almeno stando agli articoli di cronaca, ma questo è anche possibile immaginarlo), qualcuno ha addirittura proposto di votare contro la fiducia pur restando nel partito.

La soluzione a cui si è pervenuti, la fiducia (condizionata?), è quindi una sintesi delle opzioni, e dovrebbe avere la funzione di mantenere comunque un “presidio” di sinistra nel PD e far in modo che di temi cari alla sinistra si continui a parlare, perché uscendo anche la stampa avrebbe smesso di occuparsi del “problema civati” e, soprattutto, delle istanze portate avanti da quelle che ora sono le “frange di minoranza” (cit. Nardella, l’altra sera).

E questa soluzione non era quella prediletta dalle persone con cui ho parlato…. e nemmeno da Civati, secondo me. Loro erano disposti ad uscire e ricominciare a costruire qualcosa di nuovo, ma il gruppo ha deciso diversamente, quindi si lavora nell’ambito di questa cornice. Perché allo stato attuale, l’iniziativa del singolo non conta nulla, ci vuole una “massa critica” per ottenere qualcosa, in un senso o nell’altro.

In teoria la soluzione di “dare la fiducia” dovrebbe comunque comportare un lavoro finalizzato a far funzionare in maniera decente questo governo: non mettere continuamente i bastoni fra le ruote ma dare apporti costruttivi, e cercare di portare a casa qualcosa (in questo senso va quanto detto da Sandra Zampa, a proposito delle dimissioni in massa dal circolo Bolognese “Galvani”). Se però andiamo a vedere il tono dell’intervento di Tocci all’assemblea di Bologna, salta fuori un quadro un po’ diverso:

 Il segretario del partito diventa premier con una manovra di vertice senza passare per il responso elettorale, stracciando l’impegno preso con i suoi sostenitori. Le primarie cambiano quindi significato: non più un movimento di partecipazione popolare che prepara il progetto vincente del Pd per le prossime elezioni, ma un plebiscito che autorizza il leader a giocare l’ambizione personale in unione mistica con l’ambizione nazionale. Un partito che accetta questo ribaltamento di sovranità – addirittura con l’assenso di una minoranza – è già meno democratico di prima.[…] I pasdaran renziani hanno già proposto di togliere dal simbolo la parola “partito”, ma quella che rischia di diventare obsoleta è la parola “democratico”.

Chi ha rotto il patto con gli elettori e con il popolo delle primarie ora non può fare appello alla disciplina ai parlamentari. Se vengono meno i patti, in futuro saremo tutti meno legati.

Non hai rispettato gli impegni presi, quelli che ti hanno consentito di prendere i voti? E allora anche la disciplina di partito tout-court perde di significato. Si vada al voto sul singolo provvedimento. L’ipotesi di costituzione di un nuovo gruppo al senato (civatiani più transfughi del M5*) complica ancora di più le cose, ma va comunque nella direzione tracciata, ovvero quella di lavorare trasversalmente costruendo un’area culturale che vada a sopperire la mancanza di contenuti del PD, un gruppo di parlamentari (nel parlamento) e persone “comuni” (fuori dal parlamento) che condividono alcune idee di base…..perché del progetto Italia Bene Comune non è rimasto pressoché nulla. Lo stesso Tocci afferma:

 Non capisco perché abbiamo aperto questa discussione tra chi vuole stare dentro e chi fuori. Sarebbero due impoverimenti. La nostra forza è proprio nel doppio lavoro, all’interno per spostare l’asse politico del Pd, e all’esterno per allargare le alleanze sociali e politiche.

Civati ha fatto una scelta che lo penalizzerà sicuramente, perché ha finito per dar ragione a chi dice che non ha il coraggio di seguire fino in fondo quello in cui crede. Una scelta che probabilmente avrebbe voluto fosse diversa. Nelle interviste seguite al suo intervento a Bologna ha detto infatti:

 Devo fare la scelta giusta. Vedrò se avrò il coraggio di farla.

Ma sull’altro piatto della bilancia c’era l’opportunità di mantenere vivo un gruppo di lavoro all’interno del partito, che con una rottura immediata si sarebbe presumibilmente disfatto, senza avere la garanzia che chi c’è fuori dal partito fosse pronto a rimboccarsi le maniche. E non dimentichiamci pure quanto ha scritto qui Lame l’altro giorno, parlando della cosiddetta “eredità del nonno”.

Chi vivrà vedrà.

Io non sono poi così pessimista. Incazzata, si, ma non pessimista. Perché se c’è veramente la volontà di ricostruire una rete sul territorio per discutere di temi, di problemi e delle possibili soluzioni, allora la cosa si fa interessante. Indipendentemente da quello che possono fare Civati e i suoi. Anche perché dubito che il governo Renzi, e di conseguenza anche il Pd, dureranno molto. Troppe faide, troppi mal di pancia sia a livello locale che centrale. Il PD potrebbe sfasciarsi prima ancora che Civati attui una qualche exit strategy.

Caro Pippo ti scrivo….

Pippo oggi ha “ricevuto” molte lettere dai suoi sostenitori, da chi ha fatto la campagna per le Primarie accanto a lui.

Ferragina ci è andato giù proprio pesante.

Odio gli indifferenti, perché non serve a nulla alzare l’indice in segno di protesta, se poi nei passaggi decisivi si china il capo. Odio gli indifferenti, perché criticare, significa avere il coraggio di coniugare teoria e prassi battendo una strada diversa. Una strada isolata e senza posti al sole, ma la strada che la coerenza ci detta.

Giulio Laforenza nel suo blog è stato (un po’) più soft

La domanda allora è: quanto può penalizzarti la tua mancanza di coerenza?In generale la risposta è: dipende. Se tu hai costruito tutto il tuo successo politico e la tua credibilità sulla coerenza potrebbe pesare molto. Ed è certamente questo il caso di Civati. Certo, l’effetto di questa scelta viene in parte mitigato dall’esito del sondaggio tra i suoi sostenitori (a cui hanno/abbiamo aderito in più di 20.000) che ha indicato come maggioritaria l’ipotesi del “SI alla fiducia”. Bella mossa. Rimane il fatto che non ritengo accettabile che un leader politico deleghi scelte così delicate ai suoi sostenitori e che poi dica “Io avrei fatto diversamente, ma sai la Rete mi ha indicato di votare in questo modo”.

Ma noi che siamo un po’ cazzeggianti la sintetizziamo come Snoopy.