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Referendum, un Sì a sostegno di finanza e grandi opere

di Salvatore Altiero (*) – ilfattoquotidiano.it, 22/11/2016

È come il passaggio del Mar Rosso, un evento dal pathos biblico, di più, è come Italia-Germania 4-3: il 4 dicembre si cambia o si torna indietro, rispetto a cosa non importa granché nella vaghezza sconclusionata delle indicazioni di voto.

Il fronte del No è quel caos politico che spazia da Berlusconi a Fassina, passando per Calderoli, Brunetta e Salvini. La benemerenza politica dei sostenitori del Sì è stata sublimata dalla sfavillante settimana del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, che prima apostrofa Rosy Bindi come “infame, da uccidere” e poi viene registrato mentre organizza militarmente il rastrellamento di voti per il Sì nei Comuni campani, elogiando le capacità di “uno notoriamente clientelare come Franco Alfieri”, sindaco di Agropoli, “che sa fare la clientela bene come Cristo comanda” e incitandolo a “portare 4000 cittadini a votare, vedi tu come madonna devi fare, offrigli una frittura di pesce”.

Occorre allora mettersi al riparo da questo spettacolo gramo, leggere il testo della riforma costituzionale, anche un po’ alla volta, magari un ciclo di incontri con amici e parenti tutti a parlare di Costituzione.

Gli italiani all’estero, invece, si sono visti recapitare una lettera firmata da Matteo Renzi in cui la svolta epocale che la vittoria del Sì imprimerebbe al sistema-Paese trova fondamento sulle solite affermazioni tautologiche. Degno di nota il passaggio in cui il Premier assume le sembianze di Giorgio Mastrota e gli ultimi due anni e mezzo di politica internazionale quelle di una fiera in cui ha provato “ogni volta, con tutte le [sue] forze, a dare dell’Italia un’immagine diversa. A raccontare dei successi degli italiani nel mondo, a promuovere le nostre bellezze”.

L’epistola affronta poi un tema cruciale per il futuro del Paese: “la mortificazione dei soliti luoghi comuni”. Nessuno meglio degli italiani all’estero, infatti, sa “quanto sia importante che il nostro Paese sia rispettato fuori dai confini nazionali”. Dunque, se vince il Sì, dal 5 dicembre saremo più credibili e rispettabili. “Basta risolini di scherno” ha promesso il Premier agli studenti Erasmus di tutta Italia.

Perché il problema principale del sistema politico italiano non è che personaggi come Vincenzo De Luca arrivino a governare una Regione. All’estero ridono di noi perché, tra tutti i luoghi comuni, ce n’è “uno durissimo a morire. Quello per cui siamo un Paese dalla politica debole”. Insomma non importa quale sia la qualità della classe politica, i luoghi comuni si superano con governi stabili e superando il bicameralismo perfetto.

Quelli spesi per l’invio delle lettere sono certo fondi distratti da opere più utili, ma ad offendere è anche la convinzione sottesa di poter portare milioni di persone a votare Sì utilizzando simili argomenti. Più che baluardo contro l’avanzata dei populismi destrorsi in Europa, il governo Renzi si consolida come un esperimento di “populismo democratico” tutto italiano.

D’altronde fondamento politico più che giuridico ha la “clausola di supremazia” con la quale, su proposta del governo e in nome della “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica” o dell’“interesse nazionale”, a Costituzione riformata il Parlamento potrà avocare a sé il potere legislativo anche nelle competenze regionali. Sarà il governo stesso a decidere cosa sia di “interesse nazionale” o tuteli l’unità giuridica o economica, al di là di cosa ne pensino i cittadini e le amministrazioni regionali coinvolte.

È un aspetto della riforma che ha molto a che fare con l’autorizzazione e il finanziamento di grandi opere. Per questo vi ruotano intorno tanto le motivazioni ambientali del No quanto il sostegno al Sì da parte di gruppi di interessi molto potenti. In un servizio andato in onda su La7, ad esempio, appaiono chiari i possibili vantaggi per BlackRock, il gigante della finanza presente in Italia con 53 miliardi di investimenti. Nella lettera agli italiani, Renzi compare in foto accanto ad Obama e ricorda che l’ex Presidente Usa ha dedicato all’Italia la sua ultima cena di Stato. Viene omesso però che, in quella occasione, Renzi incontrò proprio i rappresentanti di BlackRock tra i cui investimenti c’è Terna, monopolista italiano delle reti elettriche. La riforma del Titolo V assicurerebbe una più spedita approvazione dei progetti infrastrutturali di Terna a prescindere dal fatto che ne sia stata provata l’utilità. Dalle “semplificazioni” costituzionali dipende dunque anche la possibilità di assicurare dividendi ai capitali investiti. Occupare il territorio con nuove grandi opere, magari sacrificarne le bellezze paesaggistiche, per garantire profitti all’estero. Anche così saremo un Paese più credibile e rispettabile, ma questo nella lettera di Renzi non c’è scritto.

(*) Associazione A Sud – Centro di documentazione sui conflitti ambientali

La riforma che fa bene alla crescita

di Francesco Gesualdi (*) – comune-info.net, 05/10/2016

Che la riforma della Costituzione rappresenti un picconamento della democrazia è fuor di dubbio. C’è chi si ostina a pensare, tuttavia, che si tratterebbe di un male minore, un prezzo da pagare in nome di due grandi obiettivi: stabilità di governo e leggi veloci, due condizioni ritenute indispensabili al bene massimo, la crescita, la medicina miracolosa che, secondo imprenditori, politici e sindacati, potrebbe curarci da ogni male. Che si tratti di debito pubblico, pensioni, disoccupazione, degrado ambientale, povertà, la ricetta è sempre la stessa: crescita. Ce lo ripetono settanta volte al giorno. Sulle capacità miracolose della ricetta, tuttavia, esistono molti dubbi. Non solo per i risultati niente affatto garantiti sul piano sociale ma, soprattutto, per i sicuri effetti indesiderati sul piano ambientale. E tuttavia, perfino ammesso che la crescita fosse in grado di salvarci dal baratro, perché per inseguirla è così essenziale cambiare la Costituzione? Che sia perché lo sport nazionale di ogni governo è diventato la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese?

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Sulle ragioni per cui la riforma della Costituzione sarebbe ormai diventata una questione di vita o di morte, se ne sono sentite di tutti i colori. Da chi la vuole per risparmiare sui costi della politica, a chi la pretende per essere  al passo coi tempi. Come se concetti come democrazia, sovranità parlamentare, partecipazione, potessero essere variabili dipendenti dai contesti che mutano.

L’innovazione tecnologica ci ha abituato a rottamare stili di vita, modi di lavorare e di comunicare, ma certi principi hanno valore assoluto: non invecchiano col tempo che passa, né sono messi fuori moda dall’incalzare di  nuovi ritmi, nuove tecnologie e nuovi interessi economici. La democrazia non ha come obiettivo la fretta, ma scelte meditate e partecipate finalizzate ad ottenere leggi giuste. Leggi, cioè, varate, nel rispetto della volontà popolare a favore di equità, libertà, sostenibilità, dignità per tutti, come sancito dalla Costituzione. Per questo i nostri padri costituenti avevano progettato un assetto istituzionale che intendeva avvicinare i  livelli decisionali   ai cittadini tramite gli enti locali, che affermava la sovranità del Parlamento sul governo, che prevedeva oculatezza attraverso un doppio passaggio legislativo.

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La riforma di oggi va in direzione opposta: vuole espropriare le Regioni rispetto a temi  cruciali come la salvaguardia dei territori e dei beni comuni, vuole ridurre il potere elettivo del popolo impedendogli di eleggere il Senato, vuole azzoppare il Parlamento riservando la piena potestà legislativa alla sola Camera dei deputati, vuole trasformare l’unica Camera pienamente legiferante in un leggificio al servizio del governo, vuole ridurre i momenti di confronto fra governo e Parlamento  mantenendo in vita un Senato che  fra i propri compiti non ha più quello di accordare la fiducia al governo.  In una parola è una riforma che non solo punta ad accentrare le decisioni a livello nazionale ma anche a spostare l’asse del potere dal Parlamento al governo, impedendo sempre di più al popolo di esprimere la propria rappresentanza. E lo dimostra non solo la decisione di non farci più eleggere il Senato, ma di accompagnare la riforma costituzionale con una legge elettorale che garantisce la maggioranza parlamentare  al partito   che  in rapporto agli altri ottiene più voti, non importa quanti. Il che, considerato l’astensionismo crescente che si va affermando nel paese, ci condurrà a maggioranze parlamentari che rappresentano solo una  parte molto esigua dell’elettorato.

Che la riforma in atto rappresenti un picconamento della democrazia è fuori di dubbio. Ma secondo molti si tratterebbe di un male  da accettare in nome di due grandi obiettivi: stabilità di governo e leggi veloci.  Il tutto come precondizione per raggiungere quello che oggi è ritenuto  il massimo bene. Per chi non l’avesse capito stiamo parlando della crescita,   la medicina miracolosa che secondo l’accordo unanime di imprenditori, politici e sindacati sarebbe capace di curarci da ogni male. Che si tratti di debito pubblico, di pensioni, di disoccupazione, di degrado ambientale, di povertà, la ricetta è sempre la stessa: crescita. Ce lo ripetono all’unisono settanta volte al giorno. Ma sulla miracolosità della ricetta  esistono molti dubbi, non solo per i risultati non garantiti sul piano sociale, ma soprattutto per i sicuri effetti indesiderati sul piano ambientale.  E tuttavia, anche ammesso e non concesso che la ricetta sia corretta, una domanda continua a rimanere nell’aria: perché per avere la crescita è così importante riformare la Costituzione?

Il nesso non verrà mai afferrato finché non si mette a fuoco che nella testa dei politici non esiste altro soggetto economico se non le imprese private. Un tempo il ventaglio dei soggetti economici comprendeva anche la comunità, nelle sue varie articolazioni (Stato, Regioni, Comuni),  che poteva, anzi doveva intervenire per creare ricchezza al servizio dei cittadini nella sue componenti più nobili: la difesa dei beni comuni,  la garanzia dei servizi alla persona, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Ma il vento neoliberista ha fatto piazza pulita di ogni idea di comunità imprenditrice di se stessa convincendoci che solo le imprese orientate al mercato sono autorizzate ad avviare attività produttive. Oggi, però, non è facile trovarne di disposte ad investire in Italia perché nel tempo della globalizzazione le imprese hanno acquisito il privilegio  di poter sfarfallare da un paese all’altro alla ricerca di quello che offre le condizioni più vantaggiose. Ecco perché lo sport nazionale di ogni governo è diventato la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese per invogliarle ad investire nel proprio paese.

Sulle riforme da introdurre per attirare gli investimenti,  i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto Il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni, a gennaio, organizza l’incontro di Davos per dettare l’agenda politica  dell’anno che verrà. Nei suoi rapporti sono elencate le condizioni che piacciono alle imprese: non solo  un basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro, ma anche un assetto istituzionale sicuro e veloce. Che tradotto significa governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari. Del resto già nel 2013, la banca internazionale JP Morgan aveva messo nero su bianco il percorso di riforme per l’Italia: «I sistemi politici dell’Europa meridionale soffrono di esecutivi deboli, strutture statali centrali deboli rispetto alle Regioni, protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di costruzione del consenso che favoriscono il clientelismo politico, diritto di protestare se intervengono cambiamenti non graditi. (…) Il test più importante sarà per l’Italia dove il nuovo governo dovrà dimostrare di sapersi impegnare per una riforma politica significativa».

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JP Morgan è la sesta banca del mondo per valori amministrati, qualcosa come 2.500 miliardi di dollari. Lavora per l’1% del pianeta, quelli che da soli controllano il 50% della ricchezza mondiale. Amministra le loro ricchezze affinché ne abbiano sempre di più. E pur di servirli non si fa neanche scrupolo ad elaborare truffe che mandano in rovina i risparmiatori più sprovveduti. Dal 2012 al 2015 JP Morgan ha collezionato multe, per comportamenti illeciti, pari a 30 miliardi di dollari. Ma il suo amministratore delegato, Jamie Dimon guadagna sempre di più. Nel 2015 ha ottenuto compensi per 27 milioni di dollari, permettendogli l’ingresso trionfale nell’olimpo dei miliardari. Per queste imprese e questi personaggi stiamo rinunciando alla nostra democrazia, ma è davvero ciò che ci conviene?

La “Guida Partigiana alla riforma”, dossier grafico predisposto dal Centro Nuovo modello di Sviluppo, è disponibile QUI

Finanza stai serena

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Care Goldman Sachs, JpMorgan, Merryl Lynch e Morgan Stanley, cari Citigroup, Black Rock, Cerberus, Blackstone e Old Mutual, ma anche cari Wall Street Journal e Financial Times, insomma cari signori della famosa finanza mondiale, anche se non ci credete, qui fuori siamo persone educate.

E siccome ci hanno insegnato che quando qualcuno vive nel terrore è cosa giusta provare a tranquillizzarlo, crediamo che adesso sia venuto il momento di accarezzare il capino proprio a voi: per quanto nababbi e un po’ arrogantelli a volte siate.

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Riprendiamoci la sovranità!

segnalato da Barbara G.

Roma, 27 novembre: “Riprendiamoci la sovranità!” dibattito con Di Battista, Rodotà e Flores d’Arcais

È compatibile la democrazia con quest’Europa? E se fosse in crisi perché da decenni manca un partito dell’eguaglianza? Un confronto su quest’Europa senza bussola, ma anche sull’opposizione al renzismo e la necessità di ripartire dal giustizialismo e la difesa del welfare per una redistribuzione delle ricchezze e una rivoluzione all’insegna della legalità.

Come scrive nell’editoriale del nuovo numero di MicroMega Paolo Flores d’Arcais, “la vera antipolitica sono gli espropriatori di democrazia della gilda dei politici di professione ormai inestricabilmente impastati con i privilegiati della finanza, del management, della corruzione, cornucopia di impunità anche per la criminalità organizzata. È necessario ripartire dal realismo dei valori contro il realismo degli apparati, della coerenza anti-Casta e anti-privilegio contro la sudditanza all’establishment, dell’intransigenza morale e programmatica contro le sirene della mediazione: senza contrapposizione frontale un nuovo partito dell’eguaglianza non capitalizza credibilità”.

La Germania in Grecia

Segnalato da Barbara G.

LA GERMANIA IN GRECIA: COM’E’ NATA E COME SI PUO’ RISOLVERE LA CRISI DI ATENE

La vicenda ellenica è una questione di democrazia, Stato sociale, sovranità. Un paese cicala può diventare un paese formica, ma serve l’intelligenza politica – anche dei creditori.

di Giorgio Arfaras – limesonline, 26/06/2015

Proviamo a immaginare la Grecia in un mondo senza euro e senza Unione Europea.

Per cominciare, i trasferimenti di capitali che si sono avuti negli ultimi anni dai paesi dell’euro verso Atene non ci sarebbero stati.

La ragione è da cercarsi nella moneta ellenica: una moneta debole che nessuno avrebbe voluto, se non in cambio di interessi proibitivi. Non arrivando del denaro da fuori, la spesa pubblica in deficit – in deficit perché in Grecia non si raccoglievano le imposte nella misura necessaria – sarebbe stata finanziata con l’emissione di poche obbligazioni (che pochi, anche greci, avrebbero voluto) e soprattutto con l’emissione di moneta. La quale, se offerta in eccesso, avrebbe (come ha fatto) alimentato l’inflazione. Con dazi elevati e una moneta debole le importazioni di beni sarebbero state frenate. Le esportazioni greche di beni erano (e sono) poco importanti, mentre rilevano quelle dei servizi turistici. Insomma: la Grecia era un paese povero, con un equilibrio economico precario, la cui importanza dipendeva dalla collocazione geografica.

Vediamo ora Atene nell’euro e nell’Ue. La moneta comune annulla il problema del cambio. Si investe in Grecia comprando il suo debito pubblico in euro, ed euro si ricevono alla scadenza dell’obbligazione. Annullato il rischio cambio, il rendimento delle obbligazioni scende. E scende molto, al punto da rendere attraente l’emissione di obbligazioni per finanziare il deficit pubblico. Il nuovo debito pubblico, infatti, costa molto poco. La spesa pubblica greca può così aumentare senza che vi sia una gran necessità di alzare le imposte. Allo stesso tempo, si ha la liberalizzazione dei mercati delle merci e dei capitali. Insomma, la crescita è trainata dalla spesa pubblica in deficit, finanziata dagli acquisti di obbligazioni del Tesoro ellenico soprattutto di origine estera.

Due numeri. Dal 1990 alla crisi del 2008, il pil greco senza inflazione passa da 100 a 165 – nello stesso periodo quello italiano e tedesco passano da 100 a 130. Il pil greco sale molto, ma la qualità dell’ascesa è modesta: la produttività totale dei fattori nel periodo resta, infatti, invariata – anche in Italia resta invariata nel 1990-2008, mentre in Germania cresce (pag. 5, qui). Scoppia la crisi e il pil greco si contrae da 165 a 125 – quello italiano cala da 130 a 115, mentre quello tedesco sale da 130 a 135.

Mentre cresceva il debito pubblico, non sorgevano le condizioni strutturali per onorarlo nel lungo termine, come si evince dalla dinamica della produttività. Dov’è finito il controvalore del gran debito? Nella spesa per i salari ai dipendenti pubblici, nelle pensioni, nelle opere pubbliche.

Sorge la domanda: possibile che dall’estero nessuno si sia accorto di niente e che quindi sia arrivata lo stesso una massa di denaro sproporzionata alla forza economica di lungo termine dell’Ellade? Il sistema bancario europeo era esposto verso la Grecia per 100 miliardi di euro nel 2005, miliardi che sono diventati ben 300 prima della crisi del 2008. Da allora l’esposizione è scesa a meno di 50 miliardi. Il sistema finanziario non si è perciò mostrato “lungimirante”, forse perché contava di essere salvato in caso di crisi grave. Sei “formica” quando crei le condizioni per la tua solvibilità, sei “cicala” se sperperi senza pensare ai tuoi obblighi verso i creditori.

Le formiche dell’Eurozona, in primis le banche francesi e tedesche, pensavano (o facevano finta di pensare) che anche i greci fossero delle formiche fino alla crisi, ma poi si sono (piuttosto) velocemente convinte che erano solo delle detestabili cicale.

Scoppia la crisi e Atene volens nolens tenta affannosamente di diventare una formica. In Grecia vi erano ben – considerando la popolazione nel complesso – 907.251 dipendenti pubblici nel 2009. A fine 2014 erano 651.717, ossia un 25% in meno (pag.290, qui). Immaginate l’impatto politico della stessa riduzione in altri paesi. Il deficit pubblico greco sul pil è passato dal 15% del 2009 al 2,5% l’anno scorso. Anche qui, immaginate l’impatto politico della stessa riduzione in altri paesi.

Insomma: la Grecia ultimamente si sta comportando da formica, ma la crescita non si è palesata, nonostante il debito pubblico durante la crisi del 2010-2012 sia all’80% finito in mano alla Trojka e costi solo il 2% – come quello tedesco, la metà di quello italiano. L’economia greca, già povera di suo, si è contratta al punto che i pur modesti debiti giunti a scadenza sono pari alla metà circa del pil di un mese. Da qui l’impossibilità di pagarli, in assenza di crescita, a meno che il debito giunto a scadenza non venga tosto rinnovato.

Assumiamo che il racconto fin qui fatto sia veritiero. Abbiamo esaurito l’argomento? No, perché vanno ancora osservate le problematiche nascoste, che sono quelle relative all’interazione fra integrazione economica, Stato nazionale e democrazia. Per evitare un discorso astratto, partiamo dalla vicenda pensionistica.

Le pensioni – in un sistema detto “a ripartizione”, laddove lo Stato è intermediario fra chi lavora e chi si è ritirato, con i primi che versano le pensioni ai secondi – sono finanziate dai contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. In Grecia avviene lo stesso, ma i contributi erano pari a due terzi delle pensioni erogate prima della crisi e sono diventati pari a poco più della metà durante la crisi. Il sistema pensionistico greco ha anche dei beni reali e finanziari, che però rendono poco: alla fine, la differenza fra le entrate del sistema pensionistico e le sue spese – con le seconde che sono il doppio delle prime – è a carico del bilancio pubblico. Questa differenza è pari a 13 miliardi di euro l’anno ogni anno: un esborso pari al 15% delle entrate statali.

Come mai il sistema pensionistico è sottofinanziato? I contributi dei datori di lavoro sono in linea con quelli degli altri paesi, ma non lo sono quelli dei lavoratori. Come mai? I lavoratori autonomi sono molto numerosi e con un reddito modesto, come si può immaginare che siano in un paese di servizi turistici.

I greci “privati” non vanno in pensione molto prima degli altri europei, ma contribuiscono meno – quando sono attivi – al funzionamento del sistema pensionistico. I greci “pubblici” vanno, invece, in pensione molto prima degli altri europei. Perciò abbiamo un sistema incapace di finanziare le pensioni senza il contributo dello stato. Senza il contributo dello Stato le pensioni sarebbero dimezzate. Le pensioni in un paese per il quale si può parlare di “famiglia allargata” sono molto più che delle pensioni, perché compensano la mancanza di servizi pubblici estesi. I nonni mantengono i nipoti disoccupati, potremmo dire. Per tagliare la pensione ai nonni dovresti dare un sussidio di disoccupazione o un reddito di cittadinanza ai nipoti, potremmo aggiungere. Oppure ancora, dimezzare le pensioni e non offrire i servizi pubblici estesi. (Auguri alle prossime elezioni…)

Se la Grecia fosse in grado di finanziare agevolmente le pensioni pur con tutte le loro distorsioni – alcuni sono privilegiati, come i pensionati statali, e il sistema pensionistico nel complesso svolge anche il compito improprio di “Stato sociale” – nessuno potrebbe dire niente. Insomma, se i greci votano per dei governi che tengono in vita questo sistema pensionistico, essi esercitano la propria “sovranità”. Nel momento in cui diventano un paese insolvente – ossia incapace di pagare il debito pubblico, che si è potuto accumulare grazie all’integrazione economica – debbono soddisfare le richieste dei creditori. Questi vorrebbero un sistema pensionistico moderno, ossia che distribuisca solo pensioni e che non assolva altri compiti: un sistema che però esiste solo nelle economie con una base industriale forte e Stato sociale diffuso.

Insomma, i creditori vogliono la Germania in Grecia. La democrazia esercitata in uno Stato sovrano, in assenza di crisi economica, probabilmente manterrebbe il sistema pensionistico attuale, che serve molti e diffusi interessi. In questo caso, avremmo una “sovranità” che tiene in vita un sistema arcaico. La pressione a cambiare sistema spinge, invece, verso la “modernità”, ma limita la sovranità.

Dove sta l’intelligenza politica del debitore? Supponiamo che voglia modernizzare il paese, ma che non ne abbia la forza politica. L’occasione si presenta con i creditori che ti inseguono. Non puoi posporre le decisioni, pena la crisi finanziaria. Qual è allora la soluzione? Rendere – nella misura del possibile – morbida la modernizzazione. La sovranità la eserciti negoziando condizioni morbide per riformare il sistema.

Dove sta l’intelligenza politica del creditore? Nel concedere le condizioni morbide. Anche perché, se la Grecia diventasse insolvente, fra Germania e Francia andrebbero persi circa 150 miliardi di euro. Che cosa racconterebbero a quel punto Merkel e Hollande ai loro elettori? Che hanno prestato una montagna di denaro a un paese che era ultra-esposto con le banche estere, paese che poi è fallito?

Per approfondire: Moneta e impero