Gentiloni

Dammi il cinque

segnalato da Barbara G.

Governo Rosatellum

Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare – “sul presidente del Consiglio pressioni fortissime” – ma invita a salvare l’esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata

di Andrea Fabozzi – ilmanifesto.it, 26/10/2017

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta.
E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Studiare da premier

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premier

Nessun partito riuscirà a mandare a Palazzo Chigi il suo leader alle prossime elezioni. Così fioriscono le diverse ipotesi di mediazione tra i partiti. Ma alla fine a scegliere sarà Mattarella.

di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 23 agosto 2017

Minniti, Amato, Calenda o la Boschi: ecco chi sta lavorando per diventare il prossimo premierNon c’erano i migranti nel Mediterraneo, ma i boat-people del Vietnam. Non c’era la ripresina, ma l’inflazione al 14,5 per cento. E quell’anno fu inaugurata l’ottava legislatura repubblicana, mentre nel 2018 sarà eletta la diciottesima.

Ma per il resto tutto riporta la politica italiana a somigliare incredibilmente al 1979, con un salto all’indietro di quasi quarant’anni. Quando “L’Espresso”, il 15 luglio, per la penna di Guido Quaranta, pronosticava l’avvento di «capi di governo entranti, balneari, in pectore, recidivi», avvertendo che «la rosa di Palazzo Chigi è sempre più spinosa». Faceva i nomi dei candidati alla presidenza del Consiglio: Andreotti, Piccoli, Saragat, Forlani, Pandolfi, Visentini. E si domandava sconsolato: «Da quale di questi uomini comprereste un’auto usata?».

Sarà meglio cominciare ad abituarsi: cambiati i nomi, sembra un retroscena dell’estate 2017. Stagione di roventi battaglie sotto il pelo dell’acqua per la politica italiana, in vista di una campagna elettorale con pochissime certezze.

La prima: senza una nuova legge nessuno vincerà nelle urne e nessun partito avrà da solo la maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Non succede da un quarto di secolo: nel 2013 la coalizione Italia bene comune guidata dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani aveva la maggioranza dei seggi alla Camera per effetto del premio garantito dal Porcellum, ma non al Senato. La seconda certezza: in assenza di vincitore toccherà a Sergio Mattarella individuare il nome del prescelto per Palazzo Chigi sulla base di due valutazioni, la capacità di formare un governo di coalizione con partiti che in campagna elettorale si sono dichiarati alternativi e la possibilità di garantire un periodo di stabilità non solo politica ma anche istituzionale, come stanno chiedendo in queste settimane i settori più esposti sui fronti caldi, da quello mediterraneo in politica estera a quello europeo in politica economica. Per questo le lobby si sono messe già in movimento, sponsorizzando sotto traccia, ma neppure più di tanto, questo o quel nome.

Nel 2018, a complicare la situazione, arriveranno a scadenza tutti i vertici degli apparati di sicurezza e ordine pubblico, al centro in questi mesi di tutte le vicende più delicate, dall’inchiesta Consip in cui è indagato il comandante generale uscente dell’Arma dei Carabinieri Tullio Del Sette al caso Regeni in cui è impegnata da due anni l’intelligence italiana, per non parlare dello scacchiere libico.

Scadono tutti insieme il capo della Polizia Franco Gabrielli (nominato dal governo Renzi con un mandato di soli due anni), il capo del Dis Alessandro Pansa, i numero uno dell’Aisi Mario Parente e dell’Aise Alberto Manenti, i vertici della Guardia di Finanza Giorgio Toschi, della Marina Valter Girardelli, dell’Aeronautica Enzo Vecciarelli, oltre al capo di Stato maggiore della Difesa generale Claudio Graziano e dell’Esercito Danilo Errico.

Un risiko senza precedenti. E nel Palazzo, in modo sotterraneo, si discute se sia opportuno che un governo in scadenza, e per di più nato come provvisorio e a termine, come quello di Paolo Gentiloni, metta mano a una simile tornata di nomine, dopo aver già indicato gli amministratori degli enti partecipati (Eni, Enel, Leonardo-Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna), il direttore generale della Rai Mario Orfeo e, nelle prossime settimane, il governatore di Banca d’Italia (favorito per il secondo mandato l’uscente Ignazio Visco).

Paolo Gentiloni

In rari casi un governo ha avuto un potere così grande per incidere con le nomine sugli equilibri futuri. C’è chi fa notare che si tratta di pura apparenza, perché in realtà Palazzo Chigi non fa altro che ratificare, e in molti casi prorogare, decisioni giù prese, avvicendamenti scontati, filiere che si auto-riproducono in base alle logiche interne a ciascuna arma o apparato.

E infatti anche in questo caso girano i nomi dei successori, quasi sempre i numeri due che salgono a numero uno. Anche in questo caso, quindi, il governo Gentiloni si comporterebbe da facilitatore, come si definì il premier durante la presentazione alle Camere del suo programma, più che da decisionista, come è stato nel caso del predecessore Matteo Renzi. Ma è un’osservazione che conferma l’ipotesi di partenza: nei prossimi mesi le due partite, per le nomine in arrivo e per la poltronissima di Palazzo Chigi, finiranno per incrociarsi. E ogni candidato sta chiamando a raccolta i suoi sponsor: in passato servivano le tessere, il peso della corrente nel partito di maggioranza relativa, l’eterna Dc. Oggi, finita la fase del nome indicato sulla scheda elettorale, la corsa per Palazzo Chigi somiglia a quella per il Quirinale: il candidato viene selezionato sulla base dei suoi appoggi istituzionali e sulla trasversalità, il consenso che arriva fuori dal partito di appartenenza.

Giuliano Amato

Ecco perché torna a girare il nome di Giuliano Amato: bocciato nel 2015 da Renzi per il Quirinale perché portato da Berlusconi e da Massimo D’Alema, potrebbe tornare utile per Palazzo Chigi. Ecco perché si stanno muovendo per tempo a caccia di alleanze i ministri in carica. Ognuno attento a costruire la sua candidatura tassello per tassello.

Per Marco Minniti, per esempio, il Viminale è stato il coronamento di una carriera politica, come fu per Francesco Cossiga, che dell’attuale ministro dell’Interno è stato amico: toccava a Minniti, sottosegretario a Palazzo Chigi, tenere i rapporti con l’ex presidente per conto di Massimo D’Alema presidente del Consiglio, le telefonate dal condominio di via Ennio Quirino Visconti arrivavano puntuali alle prime ore dell’alba.

Nel già citato 1979 Cossiga fu incaricato dal presidente della Repubblica Sandro Pertini di risolvere una crisi inestricabile, la più lunga della storia repubblicana, e in quel momento sembrava avviato al tramonto, un anno prima si era dimesso da ministro dell’Interno per non essere riuscito a salvare Aldo Moro. Invece quelle dimissioni furono il suo trampolino di lancio: divenne presidente del Consiglio, del Senato e della Repubblica nel giro di sei anni, senza poter contare su truppe e correnti, ma con il vistoso supporto di apparati interni e internazionali.

Marco Minniti

Minniti non vive una stagione di tramonto, anzi, è in continua ascesa. Celebrato dal “New York Times” e dai giornali berlusconiani, piace perfino al “Fatto quotidiano”, le polemiche sulle Ong nel Mediterraneo non sembrano fermarlo, «posso fare errori e cazzate, ma non per inconsapevolezza, so benissimo quello che faccio», ripete con tutti gli interlocutori, è il suo slogan. Nei tavoli di gestione dell’ordine pubblico si muove a suo agio, come un tecnico che però è dotato di sensibilità politica e di rapporti (mai sbandierati ma solidissimi) con la stampa. Gli apparati di sicurezza vedono in lui il vero capo, la sua parola sarà decisiva nella partita delle nomine. E qualcuno a questo punto si chiede se si fermerà qui: l’apprezzamento ricevuto da Quirinale, Palazzo Chigi e Vaticano fanno di lui uno tra i pochissimi ministri certo della riconferma (a meno che non ci sia un governo del Movimento 5 Stelle), ma non è detto che la sua scalata si fermi al Viminale.

Graziano Delrio

A sospettarlo, più di tutti, è stato Renzi che ha dato il via libera alla polemica ferragostana del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio contro Minniti in difesa del trasbordo nei porti italiani dei migranti a bordo delle navi delle Ong. Delrio, nel governo Gentiloni, rappresenta il renziano di rito ulivista. Reggiano, amico di Romano Prodi e di Arturo Parisi, sostiene la necessità di un’alleanza larga che va dai centristi di Angelino Alfano a Giuliano Pisapia, con cui ha lavorato all’epoca della presidenza dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani.

In caso di governo di coalizione sarebbe l’ipotesi della premiership di un renziano aperto alle altre forze del centrosinistra, compresi gli ex Pd di Bersani (sono ottimi i suoi rapporti con Vasco Errani). Un altro candidato in pectore, il ministro della Cultura Dario Franceschini, pensa di andare oltre e già da tempo manda segnali nel campo berlusconiano. «Bisogna separare i moderati dai populisti», è il suo mantra, ovvero accelerare il divorzio tra Berlusconi e Matteo Salvini. Anche se con Renzi i rapporti sono ai minimi termini, può contare su un antico rapporto con Mattarella. Il suo nome potrebbe uscire come punto di equilibrio in caso di sconfitta di Renzi.

Finito? No, perché nella lista dei ministri in carica che si muovono da candidati premier vanno inseriti almeno altri due nomi. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan è molto attivo nel rivendicare alle politiche del governo, a sé più che a Renzi, l’imprevista crescita in arrivo: sarebbe il nome più gradito a Bruxelles e a Francoforte. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda è sostenuto da ambienti confindustriali, Luca Cordero di Montezemolo ne ha rivendicato la scoperta nella lunga intervista al “Giornale” berlusconiano per i suoi settant’anni («Carlo sta facendo un gran lavoro al governo. È cresciuto con me in Ferrari e nella mia Confindustria, arrivò a Maranello che era un ragazzino»): il suo sarebbe un governo di larghe intese tecnico-politico.

C’è infine un’altra candidatura per ora coperta che potrebbe rappresentare la carta a sorpresa di Renzi. «Non saranno altri a escludermi da Palazzo Chigi, deciderò io», dice infatti l’ex premier. E se dovesse scegliere di fare il passo indietro di fronte ai veti incrociati potrebbe estrarre il nome della fedelissima. La sottosegretaria Maria Elena Boschi ha lavorato in questi mesi sottotraccia per rafforzare il suo potere nei ministeri e nel circuito dell’alta dirigenza statale, il club esclusivo dei commis di Stato che sorvegliano, promuovono o ostacolano le carriere dei politici. La Boschi può contare su una rete di protezione istituzionale, costruita attraverso gli uomini a lei più vicini, il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti, il suo braccio destro Cristiano Ceresani, capo dell’ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri.

 

Un circuito pronto a sorreggere l’ascesa al gradino superiore nel 2018: la presidenza della Camera, al posto di Laura Boldrini, o addirittura il grande salto, l’ambizione mai nascosta dalla Boschi di diventare la prima donna premier della storia nazionale.

Bisognerà vedere cosa ne pensa Renzi, che assiste al valzer delle candidature e auto-candidature con un misto di inquietudine e di compiacimento, nella speranza che alla fine portino alla conclusione che l’unico ad avere le carte in regola per guidare il governo resta lui, anche se non è ancora chiaro con quale maggioranza. Bisognerà seguire le mosse di Gentiloni, che nonostante la debolezza politica e il limite di leadership continua a essere il principale candidato alla successione di se stesso. E poi certo, più di tutto, bisognerà capire cosa ne pensa il signore che vive nel palazzo sul Colle più alto, da cui passa la scelta dell’incaricato per la guida del governo. Domani più di oggi.

Homo Gentilonianus

segnalato da transiberiana9

Homo Gentilonianus, così Paolo Gentiloni è diventato l’alternativa al renzismo

Altro che “supplente”. Il presidente del Consiglio rappresenta un modello che si contrappone a quello di Matteo Renzi. E attraverso inclusione, mediazioni e ascolto ha l’ambizione di durare.

Paolo Gentiloni e Matteo Renzi

di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 30/01/2017

Dal solista all’uomo-squadra. Dal rottamatore al ricucitore. Dall’uomo delle rotture a quello delle inclusioni. Non appare a occhi nudi, perché nel nuovo corso l’apparire è gesto sconsigliato, ma a Palazzo Chigi, in meno di cinquanta giorni, è cambiato tutto. Le porte che prima erano chiuse, ora si aprono. I ministri che prima vivevano come assessori di una media città, nel terrore di contrariare il Principe, ora riprendono a parlare. E laddove vigeva il caos come regola, perché era dalla confusione che nasceva la stella danzante, l’intuizione creativa, ora c’è un ordine che assomiglia alla normalità.

Paolo Gentiloni, nelle intenzioni, doveva essere un semplice reggente, un supplente invernale in attesa del ritorno in cattedra del titolare, Matteo Renzi. Un capo di governo stagionale. Invece allunga il suo percorso, dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum. E con la cronaca terribile dell’inverno, il terremoto, le valanghe, i morti in Abruzzo, che costringe l’agenda della politica a rimettere i piedi a terra, dopo un anno di acrobazie attorno al referendum costituzionale.

E alla guida di governo si assiste, in modo felpato, a qualcosa di più di un avvicendamento tra due esponenti dello stesso partito, anzi, della stessa corrente. Dal renzismo al gentilonismo, che nei libri di storia era il patto elettorale tra i cattolici e i liberali di un secolo fa, e che ora può rappresentare l’accordo per non tornare a votare, è in corso un cambio di specie. Dall’Homo Renzianus, ben conosciuto e alla fine respinto da una grande maggioranza degli italiani, all’Homo Gentilonianus. Tutto da scoprire, dietro l’aspetto glaciale, l’apparente ibernazione.

Il leader impopulista

«Un leader impopulista», ha scritto di lui su “Repubblica” Ilvo Diamanti, una definizione che Gentiloni ha apprezzato molto. Dunque fuori corso nell’epoca della ricerca del Capo. Lui, il premier, nella vita politica è stato tante cose: eminenza grigia, ideologo, regista di campagne elettorali, candidature, convenzioni. Ma capo mai. Ha partecipato a costruire le leadership degli altri: da protagonista con Francesco Rutelli nel 2000-2001, quando il sindaco di Roma si candidò a premier contro Silvio Berlusconi e Gentiloni, il suo coach, dichiarava: «Faremo pesare creatività e fantasia contro i trucchi da nomenclatura sovietica di Berlusconi».

Era vicino anche a Walter Veltroni e avrebbe voluto candidarlo premier almeno tre anni prima del 2008: «C’era la guida rossa per accoglierlo, ma lui non è mai sceso». Rutelli e Veltroni però non sono mai diventati premier, Gentiloni sì. Per quindici anni il futuro inquilino di Palazzo Chigi si è messo al servizio delle leadership altrui, nella scelta dei consulenti per la comunicazione e l’immagine, a partire dall’americano Stanley Greenberg per Rutelli, delle colonne sonore, “Una vita da mediano” di Ligabue per la riuscita convention di Roma del 2004 che tornò a incoronare Romano Prodi candidato premier del centrosinistra, dell’identità ideologica, l’idea della Margherita negli anni Duemila come partito liberal, occidentale, blairiano, e non solo come erede della stirpe democristiana-popolare. Da responsabile comunicazione della Margherita, e poi da ministro, ha frequentato tutti i piani alti di Rai, Mediaset, Sky come interlocutore privilegiato, ma nei talk-show risultava un preparato e sempre disponibile ospite al massimo di seconda fascia.

Sedersi in prima serata nel salotto tv di Fabio Fazio da premier, per uno che ha sempre suggerito le battute, i messaggi degli altri, è stato uno strappo con il predecessore che equivale al giuramento del governo al Quirinale o alla fiducia delle Camere. Davanti alle telecamere, ha dato la sensazione di voler durare: «I governi non devono avere l’attitudine psicologica di essere all’ultimo giorno. Abbiamo tante cose da fare e finché avremo la fiducia…».

Lo stile

Io non esisto, appare ripetere ogni volta il presidente del Consiglio, scatenando la sensazione contraria: una tenace volontà di esistenza. Quando parla di sé sembra “L’uomo che non c’era” dei fratelli Coen: «Sono stato tra i fondatori del Pd, ero nel comitato dei 45, ma non ho fatto nulla di particolare, intendiamoci…». «Se vuole una mia personale accentuazione…», ha risposto prudente a un giornalista durante la conferenza stampa di fine 2016, quasi temendo di avventurarsi sul terreno delle considerazioni personali. E subito dopo se n’è pentito: «La mia opinione non rileva, quindi non la dico».

l grigiore. La tristezza che ha fatto traslare su di lui il nomignolo affibbiato a papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI: Paolo Mesto. Qualcosa di meno della sobrietà esibita a Palazzo Chigi da Mario Monti, un atteggiamento più dimesso. Ma in questo tempo di sciagure la malinconia di Gentiloni, il suo rifiuto di trasformare la sua permanenza a Palazzo Chigi in un kolossal individuale, incrocia un sentire comune. Renzi con gli interlocutori procedeva a schiaffi, Gentiloni va a omaggi. Uno stile cortese, educato. Elegante.

La comunicazione

Renzi comunicava anche di aver respirato, nel suo governo c’era la coincidenza assoluta tra il fare e il comunicare di aver fatto. Nei consigli dei ministri la maggior parte del tempo veniva dedicata più a stabilire e istruire i ministri che avrebbero partecipato a conferenze stampa, interviste, trasmissioni. Poi, tanto, tutta la comunicazione ruotava su un personaggio solo: il premier.

Gli altri ministri dovevano allinearsi, in un ruolo secondario, da cassa di risonanza delle decisioni del premier, centralizzata nelle mani del portavoce Filippo Sensi, con pochi elogi e molti rimproveri per chi faceva di testa sua.

Nel governo Gentiloni succede l’opposto. Ogni ministro ha attivato una sua comunicazione, in particolare i più autonomi e in prima linea, Marco Minniti e Carlo Calenda, mentre il premier preferisce il silenzio. Su Twitter Gentiloni può contare su 127 mila follower contro i due milioni e ottocentomila di Renzi, cui spedisce tweet legati al ruolo istituzionale, strettamente impersonali.

Sensi, il portavoce che lavorò con Gentiloni già negli anni Novanta con Rutelli sindaco di Roma, si è adeguato: le foto agiografiche in bianco e nero in stile kennediano di Renzi sono cadute in disgrazia sui profili twitter e instagram: nei suoi tweet Nomfup rilancia la nota ufficiale di Palazzo Chigi sull’emergenza terremoto. Comunicazione istituzionale. E un po’ di musica.

Il linguaggio

Facilitare. Incoraggiare. Accompagnare. Più di tutto: sollecitare. Nel gentilonese abbondano espressioni come queste: trasmettere l’impressione di un potere che non pretende di guidare, dettare la direzione di marcia ma di affiancarsi a chi sta per via (Chi? Partiti, forze sociali, soccorritori, protezione civile, Parlamento, giovani, vecchi, poveri, quelli che non ce la fanno…).

Un lessico in cui contano le aggettivazioni: «Su Mediaset-Vivendi? Un’attenzione vigile». Gli eufemismi: «La manovra sui conti che chiede l’Europa? Un aggiustamento». Le tautologie: «In Medio Oriente il negoziato deve ripartire dal negoziato». E sulla legge elettorale «la nostra sarà una sollecitudine di servizio…», come parlava il papa ai tempi del suo avo, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni. Un linguaggio che tronca le polemiche, sopisce i conflitti, consola gli afflitti…

Il metodo

«La forza di Paolo è il metodo», ti ripetono gli amici. Il segreto del Metodo Gentiloni è racchiuso in due slogan: «la fenomenologia della decisione», ovvero decidere non basta, è importante come ci si arriva, e «l’inclusione selettiva», cioè ascoltare prima di prendere una decisione, purché gli interlocutori siano utili. In queste settimane più volte i ministri di punta sono stati convocati in riunioni con esperti, in cui dire la loro.

E sempre si sono trovati di fronte un premier in apparenza flessibile e pronto ad ascoltare tutti, in realtà determinato a portare la discussione dove vuole lui. Perché il metodo Gentiloni non è sinonimo di mollezza: il premier è fatto di quella gelatina che all’interno nasconde un nocciolo duro.

Lo staff

Più allenatore che bomber, Gentiloni si è fatto strada come costruttore di squadre. Quella delle giunte Rutelli di Roma, in collegamento con Goffredo Bettini nel primo mandato, ha prodotto futuri ministri e parlamentari, da Walter Tocci a Linda Lanzillotta a Roberto Giachetti, con una macchia difficile da cancellare, la tesoreria della Margherita affidata a Luigi Lusi. Un modello che il premier vuole replicare a Palazzo Chigi. Il principale collaboratore è il napoletano Antonio Funiciello, quarantenne, studioso dei sistemi politici americano e inglese, cresciuto tra i liberal Ds di Enrico Morando, idealmente legato a Giorgio Napolitano e a Walter Veltroni, una passione per il Renzi prima maniera, collaboratore nel precedente governo del sottosegretario renziano Luca Lotti. Più che un capo staff è un capo di gabinetto: un ruolo assente nella squadra di Renzi.

A Funiciello, autore nel 2012 del pamphlet “A vita” dal sottotitolo profetico («Come e perché nel Partito democratico i figli non riescono a uccidere i padri»), è stato affidato il compito di organizzare lo staff e di rappresentare il premier nei tavoli più delicati: durante il dramma dell’ultimo terremoto non è uscito da Palazzo Chigi per giorni. L’ex capo di gabinetto alla Farnesina di Gentiloni Raffaele Trombetta, già ambasciatore in Brasile, ha l’incarico di gestire per conto del premier il G7 di Taormina. Tra il portavoce Sensi e Gentiloni è quasi un romanzo di Dumas: vent’anni dopo, dal Campidoglio insieme a Palazzo Chigi.

Gli amici e i nemici

In Parlamento i gentiloniani sono una pattuglia ristretta ma agguerrita: Michele Anzaldi, l’implacabile Javert di Antonio Campo Dall’Orto, come l’ispettore di Victor Hugo scova e fustiga ogni minimo errore dei dirigenti di viale Mazzini. E poi Giachetti, Lorenza Bonaccorsi, Ermete Realacci. Al Senato l’amico che conta è il capogruppo del Pd Luigi Zanda, Gentiloni lo volle nel 2001 nel cda Rai in quota Margherita e poi senatore: toccherà a lui la complicata partita della legge elettorale.

In Rai, ci sono il consigliere di amministrazione Franco Siddi e l’ex direttore di lungo corso Nino Rizzo Nervo, probabile successore di Carlo Verdelli alla guida dell’informazione della tv di Stato. Tra gli amici ritrovati, il più importante è Romano Prodi, tornato a far visita a Palazzo Chigi dopo molto tempo, regolarmente consultato sulla politica internazionale, in particolare sulla polveriera Libia su cui si consumò la rottura tra il Professore e Renzi, quando il premier fiorentino rifiutò di dare il via libera del governo italiano alla nomina di Prodi come mediatore Onu richiesta dalle fazioni libiche. «Non è freddo, è calmo», ha detto di Gentiloni Prodi, con sottile perfidia nei confronti di chi c’era prima.

Anche il fondatore dell’Ulivo Arturo Parisi è tornato a visitare il capo del governo: con Gentiloni, nonostante anni di polemiche tra ulivisti e rutelliani, i rapporti non si sono mai interrotti. Impossibile trovare un nemico: «Paolo non ha mai litigato con nessuno», raccontano. Anche se ora ai gentiloniani viene un dubbio atroce: e se il primo nemico si chiamasse Matteo Renzi?

L’ambizione

In questi cinquanta giorni Renzi è stato assente perché non aveva ancora deciso che fare. La sentenza della Consulta sull’Italicum ha rotto la tregua. E c’è una forza delle cose che spinge i due ad andare su binari diversi. Gentiloni è un renziano leale con l’ex premier, ma non è una creatura del Giglio magico. Esisteva prima di Renzi e vuole continuare a camminare in modo autonomo. Ha già dato qualche segnale di indipendenza: ha tenuto per sé la delega più importante, il controllo dei servizi segreti, e ha cancellato in modo definitivo l’ipotesi di nominare Marco Carrai alla cybersecurity.

Ha evitato finora di assegnare a Luca Lotti la delega alla segreteria del Cipe, il comitato di programmazione economica. E in poche settimane di governo ha già gentilonizzato la super-renziana Maria Elena Boschi, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, non più così convinta della necessità di dover tornare al voto in tempi rapidi. Per le future nomine degli enti partecipati (Eni, Enel, Poste) Gentiloni medita di dare un segnale, con qualche cambiamento: per esempio ai vertici di Finmeccanica dove siedono Mauro Moretti e Gianni De Gennaro. Piano piano, in modo impercettibile, Gentiloni si muove. Fedele a quell’intento che ha ripetuto in anni lontani, quando faceva politica di partito. Spostarsi senza darlo a vedere. Come statue di cera, in apparenza immobili. Fingendo di essere innocui. E traduceva il proposito con un’espressione incomprensibile fuori dal raccordo anulare: «Cojoniamoli». Non esattamente degna del titolo nobiliare portato da Gentiloni, ma rende bene l’idea. Più efficace dell’ormai banale: Renzi stai sereno.

Il discorso del Presidente

Sergio Mattarella

Sergio Mattarella

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Mattarella, nel discorso di Capodanno critiche al renzismo. E sulla fuga dei cervelli cancella Poletti

Mattarella: – “La crescita è debole e il lavoro problema numero uno”. Il discorso del capo dello Stato fa a pezzi la narrazione dell’Italia felix.

di Fabrizio d’Esposito – ilfattoquotidiano.it, 2 gennaio 2017

Giunto al suo secondo messaggio di San Silvestro, Sergio Mattarella fa un discorso prettamente politico, e non solo per la parte finale sulla legge elettorale, e distrugge l’intera narrazione renziana dei mille giorni, il fatidico storytelling dell’Italia felix, in continuità con la visione berlusconiana dei “ristoranti sempre pieni”. Al contrario, Mattarella, seduto in poltrona senza scrivania, e circondato dal rosso delle stelle di Natale, s’ispira al principio di realtà e parla di una “comunità” che “va costruita, giorno per giorno, nella realtà”. Non nelle slide o nei tweet. La realtà come valore guida di ogni analisi seria.

In questo, Mattarella, da democristiano di sinistra, archivia pure i nove annidella monarchia repubblicana di Giorgio Napolitano, comunista di destra fedele al principio togliattiano di usare il realismo per guidare i processi politici. Non proprio agli antipodi, ma quasi. Per il capo dello Stato, allora, “il problema numero uno del Paese resta il lavoro. Combattere la disoccupazione e, con essa, la povertà di tante famiglie è un obiettivo da perseguire con decisione. Questo è il primo orizzonte del bene comune”. Il presidente, la sera dell’ultimo dell’anno, pur senza citarlo, sfiducia di fatto davanti agli italiani anche l’improbabile ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, confermato da Gentiloni, e protagonista di un’oscena gaffe sui giovani che vanno via per lavoro: “Centomila giovani che vanno via per lavoro? Alcuni è meglio non averli tra i piedi”. Frase pronunciata nello stesso giorno in cui a Berlino è rimasta uccisa Fabrizia Di Lorenzo, altra giovane italiana morta ricordata sempre ieri da Mattarella.

Sui giovani che vanno via, il capo dello Stato ha pronunciato parole sinora mai sentite da un esponente di governo: “Molti di voi studiano o lavorano in altri Paesi d’Europa. Questa, spesso, è una grande opportunità. Ma deve essere una scelta libera. Se si è costretti a lasciare l’Italia per mancanza di occasioni, si è di fronte a una patologia, cui bisogna porre rimedio. I giovani che decidono di farlo meritano, sempre, rispetto e sostegno”. Altro che levarseli dai piedi, altro che Poletti, rimasto tranquillamente al suo posto. Dov’è, dunque, l’Italia felix tanto cara all’ex Rottamatore in esilio zen nella sua Pontassieve? Anche perché il principio di realtà mattarelliano riferisce di “una crescita debole”, di “ansie diffuse nella società”, di “diseguaglianze, marginalità, insicurezza” che “minano le possibilità di sviluppo”, infine della tradizionale frattura tra il Nord e il Sud del Paese, quest’ultimo afflitto da un atavico “affanno”.

L’analisi presidenziale non risparmia nessuno. Le varie sfumature dell’avanzante populismo investono innanzitutto le riflessioni del Colle sul “terrorismo internazionale di matrice islamista”. In ogni caso, pur assicurando “tutti gli sforzi” per la sicurezza, “l’equazione immigrato uguale terrorista è ingiusta e inaccettabile”. L’odio, poi, “come strumento di lotta politica” e in abbinamento al “ring permanente” del web, “dove verità e falsificazione finiscono per confondersi”. Chiari sia i riferimenti a Lega(immigrazione) e grillini (odio e uso del web), da inquadrare nella premessa di Mattarella dell’altra sera, quella di “una comunità di vita” che se divisa e rissosa “smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza”. Anche qui, rispetto al passato di Re Giorgio, la cesura è netta. Napolitano, da politicista, era interessato esclusivamente dalla sopravvivenza del Sistema, minacciato dalla “patologia eversiva” dell’antipolitica. Mattarella, invece, affida alla dinamica della comunità l’analisi delle questioni, senza fare sconti a nessuno. Non a caso, il capo dello Stato non ha mai citato la parola “riforme”, vero tormentone dei lustri scorsi.

E qui si arriva alla parte finale sulla legge elettorale, anticipata dal Fattosabato scorso. Ancora una volta, il presidente è entrato nel merito del problema, stavolta davanti agli italiani riuniti a tavola per il cenone di San Silvestro. In sostanza, un no secco definitivo all’ipotesi di votare senza una legge elettorale ma con il Consultellum per il Senato e l’Italicum per la Camera, come vorrebbero “i due Mattei”, sia Renzi sia Salvini: “Con regole contrastanti tra loro chiamare subito gli elettori al voto sarebbe stato, in realtà, poco rispettoso nei loro confronti e contrario agli interessi del Paese”. Proprio per questo la reazione del leader leghista, seguito dalla fasciolepenista Giorgia Meloni, è stata brutale: “Sergio Mattarella non mi rappresenta. Ha detto che si vota il più tardi possibile: sento aria di regime, aria di poltrone, di restaurazione, puzza di vecchio, di ritorno della veccia Dc. Noi non ci stiamo”. A Salvini, ha risposto per tutti il premier Gentiloni: “Vergognati”. Anche se “il plauso unanime” della maggioranza di governo a Mattarella ricorda lo sketch di Totò-Pasquale preso a schiaffi ma che rideva.

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Non basta la Consulta per le urne. Così il Colle ha respinto le critiche

La scelta di rispondere alle lettere dei cittadini (ma anche ai partiti). Per il presidente serve una legge elettorale, non una sentenza «autoapplicativa».

di Marzio Breda – corriere.it, 1 gennaio 2017

Ha capito che avrebbe dovuto riparlarne quando ha sfogliato le lettere arrivate al Quirinale a partire dal 21 dicembre, giorno in cui pensava di aver ormai definitivamente chiarito (davanti alle alte cariche dello Stato) perché non aveva chiuso la legislatura dopo le dimissioni del premier Matteo Renzi, ferito dalla sconfitta referendaria, fissando il voto già in febbraio. Quella corrispondenza gli dimostrava che troppi cittadini, disorientati da certi strampalati scenari disegnati in sede politica, coltivavano ancora la stessa «critica»: non avrebbe fatto meglio, invece d’insediare un nuovo governo, a sciogliere subito le Camere? No, considerati i suoi doveri costituzionali, meglio non era. Ecco perché l’altra sera Sergio Mattarella ha riproposto la questione, anche se avrebbe preferito non inserire nel messaggio di fine anno un tema così carico di polemiche e, in quanto tale, ansiogeno.

Il ritorno alle urne

Ci è tornato sopra per due motivi: 1) perché giudica seria l’obiezione, e infatti non ha mai escluso che si debba votare nel 2017; 2) perché, per onestà, voleva sgombrare gli equivoci nel modo più diretto. Spiegandosi così: «Non c’è dubbio che, in alcuni particolari momenti, la parola agli elettori costituisca la strada maestra. Ma chiamare gli elettori al voto anticipato è una scelta molto seria. Occorre che vi siano regole elettorali chiare e adeguate perché gli elettori possano esprimere, con efficacia, la loro volontà e questa trovi realmente applicazione nel Parlamento che si elegge». E qui ha riaperto il punto politico: «Queste regole, oggi, non ci sono: al momento esiste, per la Camera, una legge fortemente maggioritaria e, per il Senato, una legge del tutto proporzionale». Insomma, «con regole contrastanti tra loro chiamare subito gli elettori al voto sarebbe stato, in realtà, poco rispettoso nei loro confronti e contrario all’interesse del Paese. Con alto rischio di ingovernabilità».

La legge elettorale

Parrebbe un quadro limpido e ineccepibile. Se non che, nonostante «alle consultazioni tutti i partiti si siano dichiarati d’accordo con l’esigenza di approvare un nuovo sistema di voto», un certo ambiguo gioco continua. Infatti, nell’attesa che il 24 gennaio la Corte costituzionale si pronunci sull’Italicum, qualcuno insiste per la corsa alle urne, immaginando ancora il voto a febbraio. La proposta è sempre la stessa: superiamo le difficoltà di trovare un accordo e accontentiamoci di applicare la «risultante di quelle sentenze». Un’ipotesi pericolosa (ad esempio per la valanga di potenziali ricorsi) ma soprattutto inaccettabile, dal punto di vista di Mattarella. Il quale, non a caso, si è richiamato ai «doveri» e alle «responsabilità» della politica. Per lui — e questo è il «non detto» del suo discorso — non si può affidare alla Consulta il compito di fare una legge elettorale. È il Parlamento che deve farla.

Internet e il lavoro

Il resto del messaggio ha legato insieme tutti i problemi su cui il capo dello Stato spende la propria sensibilità sociale. Per restare alla sfera pubblica, l’allarme per il diffondersi «dell’odio come strumento di lotta politica… odio e violenza verbale che si propagano nella società, intossicandola» e che rischiano di esser moltiplicati da un pur utile strumento come Internet. E poi le nostre ormai croniche emergenze. Dal lavoro, «problema numero uno», a tante altre «fratture da ricomporre», come il divario Nord-Sud; dalla corruzione all’evasione fiscale alle diverse forme d’illegalità. E, specie oggi, al «senso d’insicurezza» provocato dal terrorismo, contro il quale servono nuovi sforzi per «impedire che si radichino nel Paese presenze minacciose o predicatori di morte».

I giovani in fuga

Non basta. Nella sua idea di Stato-comunità, troppa gente resta in difficoltà e schiacciata da ansie che la politica farebbe bene a «non sottovalutare», perché «non ci devono essere cittadini di serie B». Infine, dopo aver certificato la crescita economica ancora «debole» e con un impatto che «stenta a esser percepito», Mattarella si concede un cenno che suona come un’aspra censura all’infelicissima sortita del ministro Poletti sui nostri giovani in fuga. Dice il presidente: «Molti studiano o lavorano in altri Paesi d’Europa. Questa spesso è una grande opportunità. Ma dev’essere una scelta libera. Se si è costretti a lasciare l’Italia per mancanza di occasioni, si è di fronte a una patologia, cui bisogna porre rimedio». Capita l’antifona, ministro?

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Orfini: urne anche prima di giugno Da Gentiloni a Renzi noi compatti

L’esponente Pd: il G7 e i trattati? La democrazia non è un problema. Sul Consultellum: «Se la trattativa fallisce si voterà con i sistemi indicati dalla Corte, non per colpa del Pd».

di Monica Guerzoni – corriere.it, 2 gennaio 2017

Votare è «urgente» e il mese limite per tornare alle urne è giugno. E se la trattativa sulla legge elettorale dovesse naufragare, Matteo Orfini pensa si possa votare già in primavera, senza drammatizzare le scadenze dei Trattati a marzo e del G7 a maggio: «La democrazia non è un problema».

Il Pd ha fretta di votare, ma Mattarella chiede regole «chiare e adeguate». 

«Noi condividiamo le parole del presidente Mattarella, tanto che ci siamo fatti carico di far nascere un altro governo, con l’obiettivo di armonizzare le leggi elettorali. Però questa responsabilità non può ricadere solo sul Pd, che non ha i numeri. La legislatura è politicamente terminata il 4 dicembre e solo il tentativo, difficile ma possibile, di armonizzare il sistema ipermaggioritario della Camera con quello proporzionale del Senato, può prolungarla ».

Perché Renzi preme per andare alle urne?

«Per le riforme abbiamo eccezionalmente accettato di stare al governo assieme a forze a noi alternative, prima Berlusconi e poi Alfano. Fallito il percorso costituente, viene meno la ragione».

Davvero Gentiloni non vede il voto come «minaccia»?

«È così per tutto il Pd. Non c’è alcuna differenza tra Renzi, Gentiloni e Orfini».

Non dobbiamo aspettarci mesi di #Paolostaisereno e cannoneggiamenti dal Nazareno su Palazzo Chigi?

«Assolutamente no. Gentiloni ha detto che il suo è un governo di servizio al Paese, ma una volta completato il percorso è giusto restituire la parola ai cittadini. E Mattarella ha segnalato la spinta del Paese verso il voto anticipato».

La road map di Renzi è votare a giugno, Politiche e Comunali assieme?

«Ci sono due scenari. Se si coglie negli incontri la disponibilità delle altre forze a cambiare l’Italicum, si può iniziare a lavorare nel merito senza aspettare la Consulta. Altrimenti si prende atto della indisponibilità e vengono meno le ragioni per proseguire».

Con il secondo scenario si vota anche prima? Aprile?

«Se riusciamo a far partire la nostra road map si può votare a giugno con una nuova legge, fermo restando che la data la decide il presidente della Repubblica. Qualora invece gli altri partiti ci lasciassero soli nel tentativo sincero di cambiarla, dovremmo sperare che il doppio Consultellum sia il più possibile omogeneo. Inevitabilmente si voterebbe con i sistemi indicati dalla Corte costituzionale e non certo per responsabilità del Pd».

Non è decisivo consentire a Gentiloni di partecipare ai Trattati di Roma il 25 marzo e al G7 di maggio?

«Ci sono sicuramente delle scadenze importanti, ma non drammatizzerei. Per chi come noi crede nella democrazia, dare la parola agli elettori non è mai un problema».

La minoranza insinua che stiate cercando una «scorciatoia» per votare con il Consultellum al Senato e con l’Italicum corretto alla Camera, è così?

«Non stiamo aspettando la Consulta il 24 gennaio, stiamo proponendo a tutte le forze politiche di vederci già nei prossimi giorni, al Nazareno o in una sede neutra. Rispondere, come Forza Italia, che l’unico luogo di discussione possibile sono le commissioni parlamentari, significa fare melina. Vogliamo perdere mesi o iniziare una discussione? E su quale testo?».

Non vede frenatori anche nel Pd, per il vitalizio o per ragioni politiche?

«La proposta unitaria del Pd è stata accettata responsabilmente anche da chi, come me, non ama il Mattarellum. Abbiamo chiarito che, cambiato l’Italicum, si va al voto e questa posizione ha unito il Pd».

Ir-responsabilità

segnalato da Barbara G.

Pensando bene alle conseguenze

di Alessandro Gilioli – gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it, 13/12/2016

Anche Paolo Gentiloni, nel presentarsi alla Camera, ha usato quella mitica parola lì: “responsabilità”.

In politica è un sempreverde dalle radici antiche, s’intende, ma è diventato vocabolo mainstream soprattutto a partire dai tempi del governo Letta. In quell’occasione fu usata da tutti, da Berlusconi a Fassina. Per giustificare quel mezzo obbrobrio chiamato larghe intese si fece ricorso a piene mani alla “responsabilità”.

Nella tag cloud dei discorsi di Napolitano, lo ricorderete, era poi la parola in corpo più grosso.

Anche per Mattarella è una parola ricorrente, quelle poche volte in cui ha fatto conoscere il suo pensiero.

E in questi giorni, eccola ancora qui – la responsabilità – a giustificare il grigiore di un governo fotocopia, di un ring around the table in cui alla fine si sono ripresi quasi tutti la stessa poltrona.

Nella sua funzione politica, dire che «è un governo di responsabilità» significa dire che è la soluzione realisticamente migliore, magari non la più sexy ma la più assennata, affidabile, coscienziosa. Un po’ come “guida in modo responsabile”, “bevi in modo responsabile”, insomma fai le cose pensando bene alle conseguenze

Ecco. Pensando bene alle conseguenze.

Pensando bene alle conseguenze, è stato responsabile tutto lo svolgimento di questa legislatura? È stato responsabile, per le sue conseguenze sul Paese, tutto quello che abbiamo visto fare?

È responsabile sfasciare il mondo del lavoro con il Jobs Act, l’abolizione dell’articolo 18 e i voucher?

È responsabile sfasciare la scuola con una riforma oggi rimasta senza padre e senza madre?

È responsabile dividere il Paese nel suo tessuto profondo passando come caterpillar su tutto e tutti, in nome di un radioso storytelling nuovista e vincista che poi si è pure impiantato lasciando il vuoto?

È responsabile forzare la mano su una riforma costituzionale utile solo come legittimazione plebiscitaria al suo ideatore, ma capace di bloccare la politica per sei mesi prima di impiantarsi contro la grande maggioranza dei cittadini?

È responsabile fare una legge elettorale per la Camera che prima è invidiata da tutta Europa, poi si può rimaneggiare, ma comunque è pensata per funzionare solo in caso di vittoria del Sì, senza nemmeno un piano B?

È responsabile infischiarsene di fare una legge elettorale per il Senato, perché tanto sarebbe stato regolato tutto dalla Riforma costituzionale?

È responsabile personalizzare il referendum fino a farlo diventare un Armageddon e poi mandare a gestire il naufragio le proprie seconde linee?

È responsabile rifiutare qualsiasi ipotesi di autocritica e di analisi di eventuali errori commessi, dopo essersi spiaccicati al referendum – tanto la colpa è sempre degli altri, anche se a guidare il Paese non erano gli altri?

È responsabile dire che si lascia la politica per poi pretendere una promozione a una carica più alta del governo?

È responsabile ascoltare così poco la bocciatura secca e totale dell’elettorato e riproporre lo stesso governo identico a quello appena bocciato?

È responsabile, insomma, allontanare in questo modo la cittadinanza dalle istituzioni, dalla rappresentanza?

È responsabile fingere che nulla succeda là fuori?

Non è tutto questo profondamente e radicalmente irresponsabile, cioè appuntoindifferente alle conseguenze?

E non è che allora per caso, in politica, “responsabilità” sta diventando una parola ipocrita, che finisce per nascondere il suo contrario?