germania

A German Life

«Era così gentile, così elegante. Un gentiluomo». Che di nome faceva Joseph Goebbels, il ministro per la propaganda del nazismo, il numero due dopo Hitler. Ma per Brunhilde Pomsel lui era solo il suo capo: «Un bell’uomo, un po’ vanesio, aveva le mani curatissime», ricorda. Dettagli che a una segretaria perfetta come lei non sfuggivano.

Dal ’42 al ’45 al suo fianco, pronta ad eseguire ogni ordine, mai sfiorata dal dubbio se quel che faceva fosse giusto o no. «Era un lavoro come un altro, di quel che accadeva dietro la porta non sapevo nulla», è la tesi ribadita oggi da questa vecchia sorprendente per lucidità e memoria, che a 104 anni si è raccontata in A German Life , film-intervista di Christian Krönes, Olaf Müller, Roland Schrotthofer e Florian Weigensamer, in programma il 24 al Trieste Film Festival, e poi il 27 nelle sale per la Giornata della Memoria.

Due ore di filmato in bianco e nero con tante sfumature di grigio nascoste nel volto di Frau Pomsel. Spietata, la cinepresa indugia su quel paesaggio di rughe, sulle pupille scure di quella testimone oculare del male e della sua banalità. Tutto ciò che ha visto, sentito e negato affiora lì, in quel volto inguardabile da cui non si può staccare lo sguardo. «È un male se chi ricopre un certo ruolo cerca di fare qualcosa per sé, anche se danneggia altri?», si chiede. Certo che no, perché mettersi contro il potere, rischiare il posto e anche di più?

Lei era stata cresciuta alla prussiana: «Obbedire, mentire, imbrogliare», parole d’ordine della generazione ‘Nastro bianco’ di Haneke. Piccoli nazisti crescono. «Mi sono iscritta al partito nazista. Per la tessera ho pagato 10 marchi». Ben spesi. Prima il posto alla Radio, poi al Ministero di Goebbels, dove ogni giorno si spedivano nei campi ebrei, gay e ribelli. «Non sapevo nulla, io battevo a macchina». Tra le sue mani passano fascicoli scottanti. Come quello di Sophie Scholl della «Rosa bianca». «Morta per un volantino antinazista. Se avesse taciuto sarebbe ancora viva».

Certo, quando Goebbels si scatena dal palco incitando alla «guerra totale» anche lei resta sgomenta. «Un attore fenomenale, da persona civile si trasformava in un nano delirante». Lo seguirà anche nel bunker di Hitler. «Era la fine, si beveva per stordirsi. Poi i suicidi: il Führer, Goebbels e la moglie dopo aver avvelenato i bambini». Lei, Pomsel, se la cava con 5 anni di prigionia in Russia.

Poi torna in Germania, riprende il posto alla Radio, si sposa. «Nessun senso di colpa. Se sono colpevole io lo è anche il popolo tedesco». Nella sua casa in Baviera ha appena compiuto 106 anni.

 (testo di Giuseppina Manin – Corsera, 20 gennaio 2017 )

Primo quarto (parte 2)

di Boka

“Dimmi, come capirò che abbiamo raggiunto la nostra meta?” (Un cieco)

“Quando sarai tu a tenermi per mano!”

La Germania è stata in grado, nel contesto di questa costruzione europea, di affermare la propria egemonia. La sovranità tedesca (borghese/capitalistica) è stata eretta come sostituto di una sovranità europea inesistente. I partner europei sono stati invitati/costretti  ad allinearsi con le esigenze di questa sovranità superiore a quella degli altri. L’Europa è diventata un’Europa tedesca, in particolare nella zona euro dove Berlino gestisce le finanze in accordo con le esigenze dei Konzerns tedeschi e politici importanti come il ministro delle finanze Schäuble fanno leva sul ricatto permanente minacciando (in maniera esplicita e non) i partner europei con un “exit tedesco” (Gexit) nel caso in cui l’egemonia di Berlino venga messa in discussione.

La conclusione che possiamo trarre dai fatti è evidente: il modello tedesco avvelena l’Europa, Germania compresa. L’ordo-liberismo è la fonte della persistente stagnazione del continente in congiunzione alle politiche di austerità in corso. L’ordo-liberismo è un sistema irrazionale visto dal punto di vista della tutela degli interessi delle maggioranze popolari in tutti i paesi dell’Unione europea, tra cui la Germania. Esso conduce ad un ulteriore peggioramento delle  disuguaglianze tra i partner; è l’origine delle eccedenze commerciali della Germania e dei deficit simmetrici degli altri paesi. Ma l’ordo-liberismo è una scelta perfettamente razionale dal punto di vista dei monopoli finanziari a cui assicura la continua crescita delle loro rendite di monopolio. Questa è la vera contraddizione interna di questo sistema economico: la crescita della rendita dei monopoli impone la stagnazione e l’incessante deterioramento di partner fragili (come la Grecia ed altri).

L’azione e l’analisi politica sembrano essersi ridotte solo alla questione: “Restare nell’Unione Europea (e come?) o uscire (per andare dove?). I critici (tralasciamo gli esegeti del sistema con i loro chierici le cui ragioni per continuare lungo la stessa strada sono evidenti) del sistema europeo sono dibattuti tra due opzioni: la prima, continuare lungo la strada della costruzione europea ma in nuove direzioni che tengano conto degli interessi (e delle necessità) dei popoli europei nonostante storia passata e recente dimostrino le continue sconfitte di questa posizione; la seconda, lasciare l’Europa, ma per cosa? Un intero sistema di disinformazione manovrato (o almeno indirizzato ad arte) dal sistema ordo-liberista contribuisce a rendere la questione perlomeno confusa. Tutte le possibili forme di “ritorno” alla “sovranità nazionale” si sovrappongono e tutte sono presentate come demagogiche, populiste, scioviniste o non adeguate ai tempi e condizioni mutati della società europea. L’opinione pubblica viene accentrata sulla questione della sicurezza interna e dell’immigrazione mentre le responsabilità ordo-liberali per il peggioramento delle condizioni dei lavoratori sono lasciate in silenzio. Purtroppo, buona parte della sinistra europea è entrata in questo gioco in cui non ci sono vincitori ad esclusione del “banco”.

Credo che non ci sia più nulla da aspettarsi dal progetto europeo, che non può essere trasformato dal di dentro; dobbiamo decostruire per ricostruire eventualmente in un secondo momento su basi diverse. Molti si rifiutano di arrivare a questa conclusione nonostante siano in conflitto (per gli interessi rappresentati e per per progettualità politiche), purtroppo i dubbi riguardano gli obiettivi strategici: lasciare l’Europa o rimanere in essa (ed ancora con o senza euro?). In queste circostanze gli argomenti sollevati da entrambe le parti sono estremi, spesso su questioni banali, a volte su reali e drammatici problemi orchestrati dai media (sicurezza, immigrati), con conseguenti scelte demagogiche. Resta  il fatto che la marea montante che si esprime nel rifiuto dell’Europa (come in Brexit) riflette la distruzione delle illusioni sulla possibilità di una riforma.

Questa confusione, assenza di proposte chiare e quando chiare basate su pulsioni primitive (paura del diverso, paura di perdere completamente l’innegabile benessere  conquistato – comparato a situazioni sociali al di fuori del ristretto mondo occidentale. Tuttavia, la confusione spaventa le persone. La Gran Bretagna non ha certo intenzione di esercitare la propria sovranità per intraprendere un percorso che si discosti dall’ordo-liberismo. Piuttosto, Londra vuole maggiore apertura ed integrazione con gli Stati Uniti (infatti la la Gran Bretagna non condivide la diffidenza verso il TTIP di altri paesi europei). Questo è l’obiettivo di Brexit e certamente non un migliore (o almeno diverso) programma sociale.

Le destre europee (ed in molti casi, direi semplicemente, i fascisti europei) proclamano la loro ostilità verso l’Europa e l’euro, ma, il loro concetto di sovranità è quella della borghesia capitalistica, il loro progetto è la ricerca della competitività nazionale nel sistema ordo-liberale. Di certo non sono sostenitori o difensori  della democrazia elettorale (se non per opportunismo), per non parlare di una democrazia più avanzata. Di fronte a questa sfida delle destre, la classe dirigente (il famoso 1%) non esiterà: sarà dalla parte dell’ uscita dalla crisi di tipo fascista. Abbiamo già degli esempi: l’Ucraina.

Le destre, i fascisti sono diventati lo strumento per tenere a bada qualsiasi forma di rivolta o anche solo, timidamente, di rifiuto dell’ordo-liberismo. L’argomento spesso invocato è: come possiamo fare una causa comune contro l’Europa con i fascisti? Ora, in una sorta di circolo vizioso, il successo dei fascisti è proprio il prodotto della timidezza della sinistra radicale. Se quest’ultima avesse coraggiosamente difeso un progetto di sovranità, popolare e democratica, accompagnata dalla denuncia del progetto fasullo e demagogico dei fascisti, forse avrebbe guadagnato i voti che oggi vanno ai fascisti. La difesa della illusione di una possibile riforma dell’Europa non impedisce la sua implosione. Il progetto europeo sembra dipanarsi intorno ad una trama che, in maniera sinistra, sembra ricordare l’Europa degli anni 1930 e 1940: un’Europa tedesca – la Gran Bretagna e la Russia al di fuori di essa, una Francia esitante tra Vichy e De Gaulle, la Spagna e l’Italia sulla scia di Londra o Berlino, etc.

(continua…)

LEAVE

Brexit, i risultati in diretta: vince il Leave col 52%. Regno Unito fuori da Ue. Farage: “Indipendence Day, via Cameron”

Inghilterra e Galles votano per uscire dall’Unione, Scozia e Irlanda del Nord per restare. Il leader storico degli euroscettici dell’Ukip canta vittoria: “Questa è l’alba di un Regno Unito indipendente, è arrivato il momento di liberarci da Bruxelles. Ora il premier si dimetta”. Male le Borse, crollano le asiatiche. Spread in forte rialzo.

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Il Regno Unito è fuori dall’Unione Europea: nel referendum sulla cosiddetta Brexit i cittadini britannici hanno votato con il 52% per l’uscita dall’Ue. Il leader storico degli euroscettici dell’Ukip, Nigel Farage, canta vittoria: “Questa è l’alba di un Regno Unito indipendente, oggi è il nostro Independence Day, è arrivato il momento di liberarci da Bruxelles”. Alla domanda se Cameron, che ha indetto il referendum nel 2013 e una campagna per rimanere nella Ue, dovrebbe dimettersi Farage ha detto: “Immediatamente“. Ma dal governo arrivano segnali in senso contrario: Cameron “resterà primo ministro e darà seguito alla volontà del popolo britannico”, ha detto il ministro degli Esteri Philip Hammond, secondo un tweet dellaBbc.

I primi dati e le prime analisi avevano fatto pensare ad una vittoria del fronte Remain. Poi, via via che i numeri ufficiali hanno iniziato ad affluire, ci si è resi conto che la realtà era radicalmente diversa da quella prospettata da sondaggisti e analisti. I primi ad accorgersene sono stati i mercati che, dopo un apertura entusiastica, spinta dai sondaggi effettuati a urne aperte, hanno fatto segnare una netta inversione di tendenza facendo sprofondare la sterlina a livelli che non conosceva da metà anni ottanta.

Poi sono arrivati i broker, che hanno deprezzato la vittoria del Leave. Uno dopo l’altro sono arrivati i risultati delle periferie, delle campagne, di quelle zone del paese che maggiormente si trovano a dover fare i conti con un mercato del lavoro sempre più difficile, con la paura dell’immigrazione e la frustrazione di non riuscire a garantire un futuro dignitoso per i propri figli. Sono loro i fautori della vittoria del fronte Leave. Una classe popolare spaventata dal futuro, insoddisfatta dal proprio presente, che preferisce compiere un salto nel buio votando la Brexit.

Un evento deflagrante, che porta la firma della destra populista, quella dell’Ukip di Nigel Farage, quella dei conservatori euroscettici di Boris Johnson. Quella di chi ha condotto una campagna – a tratti violenta – contro l’immigrazione e contro l’integrazione. Una vittoria, quella del Leave, che è stata strappata con le unghie e con i denti contro il volere e le previsioni della finanza, contro il volere e le previsioni dei poteri forti, contro i sondaggi, contro gli appelli, contro l’opinione e gli sforzi dei principali partiti e dei leader internazionali. La Brexit ha vinto. Circa 17 milioni di britannici (il 52% degli elettori) hanno segnato il destino del Paese, aprendo una ferita profonda, destinata a far sentire le sue conseguenze anche nel resto del Continente, chiamato ora a fare i conti con un’ondata di euroscetticismo senza precedenti.

La realtà è che il risultato del referendum, consegna alla storia un Paese frammentato e c’è da immaginarsi che le conseguenze, prima ancora che su un piano internazionale, si faranno sentire in terra britannica. Scozia (dove il Remain ha vinto in tutti i 32 distretti in cui è suddiviso il Paese con 1.661.191 voti contro i 1.018.322 andati al Leave, con un’affluenza del 67,2%) e Irlanda del Nord (ha vinto il fonte degli euroconvinti con 440.437 voti, il 55,78% dei voti , contro i 349.442 andati agli euroscettici, con un’affluenza del 62,9%) hanno votato per rimanere, il Galles e l’Inghilterra per uscire. Una frattura che tornerà a far parlare di separazione.

Un’ipotesi ventilata nelle settimane della campagna elettorale, che ha trovato subito conferma nelle in dichiarazioni ufficiali pronunciate questa mattina, a risultati non ancora definitivi. Il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon ha prima espresso soddisfazione per il risultato del suo Paese, sottolineando che “Tutta la Scozia è per il Remain”, aggiungendo poi che vede il futuro del proprio Paese “come parte dell’Unione Europea”.”La Scozia – ha ricordato, parlando prima dell’ufficializzazione della vittoria della Brexit – ha contribuito in modo significativo al voto per restare. Questo riflette la campagna positiva che il Partito nazionale scozzese ha combattuto, sottolineando i benefici dell’adesione alla Ue, e la gente in Scozia ha risposto in modo positivo”.

Reazione speculare anche Irlanda del Nord, dove a parlare è lo Sinn Fein che non ha tardato a far sapere che l’esito del voto accelera il processo di separazione dal Regno Unito. Il presidente onorifico del partito repubblicano nordirlandese, Declan Kearney, ha fatto sapere che la vittoria della Brexit deve portare a un nuovo referendum sull’unità dell’Irlanda. “Il governo britannico ha perso ogni mandato che doveva rappresentare gli interessi economici o politici dell’Irlanda del Nord”, ha detto il leader della formazione, l’ex braccio politico dell’esercito repubblicano irlandese (IRA).

Male le Borse, crollano le asiatiche – La sorpresa è stata forte e i crolli sui mercati proporzionati: nelle ore dello spoglio i listini sono crollati (sterlina -10%, la Borsa di Tokyo ha toccato punte di calo dell’8%, i futures sull’avvio della Borsa di Londra sono arrivati a cedere il 9%), mentre i beni rifugio (oro e derivati sui titoli di Stato Usa) stanno ovviamente correndo.

Il mercato azionario di Tokyo – che ha applicato il ‘circuit breaker‘ per inibire le funzioni di immissione e modifica degli ordini limitando i ribassi troppo elevati – è il listino borsistico aperto durante lo spoglio del voto che ha accusato maggiormente il colpo, arrivando a perdere con l’indice Nikkei fino all’8,17%, lasciando sul terreno oltre 1.300 punti. La Banca del Giappone è pronta a fornire liquidità, se necessario, per garantire la stabilità dei mercati, ha detto il governatore, Haruhiko Kuroda.

Hong Kong scende oltre il 4%, con Seul, Sidney e Mumbai che cedono più del 3%. Meno accentuati (attorno ai due punti percentuali) i cali di Singapore, Bangkok e Jakarta, mentre anche le Borse cinesi – che in un primo momento hanno provato a tenere – dopo la la pausa di metà seduta raddoppiano le perdite: Shanghai perde scende di oltre il 2% e Shenzhen più del 3%.

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ASPIRAPOLVERE VS BAZOOKA, QUESTO È IL DILEMMA CHE VA OLTRE LA BREXIT

di Marco Gaiazzi – glistatigenerali.com, 23 giugno 2016

“Mio padre ha combattuto i tedeschi non per farci dare ordini da loro 70 anni dopo”. Sta nella risposta di questa signora inglese il nocciolo vero della complessa partita in gioco con la Brexit.

Ed in effetti, se l’intero progetto europeo finisce per identificarsi con le desiderata di uno solo dei Paesi membri, significa che abbiamo un problema, che l’Europa, come progetto, ha un problema.

C’è voluto l’ex Governatore di Bankitalia Antonio Fazio a riportare al centro della discussione il ruolo che la Germania ha avuto e ha tutt’ora nelle dinamiche economiche nel vecchio continente. Fazio, ripreso da Libero in un articolo dell’ottimo Franco Bechis, stigmatizza senza mezzi termini il tema dei temi: il surplus tedesco, indicato come il killer dell’euro.

Se ne parla molto sul web ma poco o niente sui giornali o nei salotti tv. Forse perché materia ostica. Eppure serve ribadire il concetto perché “that is the question”: aspirapolvere contro Bazooka, chi la spunterà?

A giudicare dal significato intrinseco di queste parole non può che vincere il bazooka. Purtroppo non è così. Lo vado dicendo da almeno un anno. Il Quantitive Easing di Draghi non serve a nulla, quanto meno non per l’obiettivo principale per cui, così ci hanno detto, è stato armato, ossia riportare l’inflazione al 2%. E non serve per una moltitudine di motivi, il più macroscopico dei quali è l’aspirapolvere di cui sopra.

Il bazooka di Draghi spara soldi, l’aspirapolvere della Merkel aspira tutto, annullandone l’effetto.

Come si può pensare di scaldare i prezzi (in soldoni con più domanda interna in ciascun Paese) se in Europa ci sono alcuni Stati, Germania in testa, che esportano centinaia di miliardi di euro di inflazione, creando così deflazione?

La Germania esporta molto più di quello che importa e lo fa sì verso gli altri Paesi europei ma, si badi, molto di più verso i Paesi non europei. In sostanza il surplus tedesco, in assoluta violazione dei trattati, da molti anni ormai viaggia ben al di sopra della soglia del 6% del Pil imposta dagli accordi. E per fare questo la Germania ha implementato politiche di austerità salariale molto marcate con l’obiettivo di mantenere stitica la domanda interna, di abbassare il costo per unità prodotto, di vendere sui mercati mondiali prodotti di qualità a bassi prezzi, con ricadute in termini di sostanziale piena occupazione. Non solo. E poi riuscita, forte del suo ruolo di locomotiva, ad imporre facendo pressing stretto su Bruxelles altrettanta austerità sui bilanci pubblici degli altri Paesi europei confinanti. Austerità che ha acuito le recessioni in corso, creando disoccupazione, riduzione dei salari e falcidiando la domanda.

L’insieme di queste pratiche ha permesso alla Merkel di affrancare le proprie esportazioni dell’area europea (ed esserne così meno dipendente) a vantaggio dell’export worldwide.

Queste politiche, in atto da anni, hanno creato degli squilibri di tale gravità che Berlino si meriterebbe non una ammonizione bensì un rosso diretto. Eppure, al di là di un blando richiamo, nessuno si è permesso di ammonire la Germania con la stessa decisione e veemenza verbale usate, ad esempio, dal ministro Schäuble contro Italia, Grecia o Spagna per altre questioni.

Per dirla ancora più chiaramente, il progetto era questo: la Bce taglia i tassi, stampa moneta e tra aste di liquidità e acquisto di bond corre in aiuto delle banche che, avendo più risorse, dovrebbero erogare più credito a imprese e famiglie, al fine di sostenere la domanda interna e generare inflazione e Pil. L’ultimo passaggio, quello forse più importante, come si è visto non ha funzionato e gli utilizzatori finali della moneta, cioè noi, questo flusso di capitali non lo hanno visto neanche col binocolo. Non solo, tutta quella moneta stampata con l’obiettivo di creare inflazione ha visto risucchiato il suo potenziale effetto da uno tsunami di dimensioni eccezionali rappresentato dal surplus tedesco che permette così alla Germania di ottenere, dal combinato disposto di tutti questi elementi, il massimo vantaggio.

Tutto questo è aberrante e non v’è chi non veda che in campo c’è una sola squadra che gioca una partita senza arbitro né rivali.

L’unica cosa saggia da fare sarebbe (ma bisognava farlo anni fa) implementare un grande piano Marshall europeo, un piano di investimenti pubblici-europei-comunitari di dimensioni bibliche. Al netto degli annunci fatti da Juncker il cui piano da 300 mld è fuori dai radar. Faccio sommessamente notare che Obama in 8 anni di mandato ha implementato periodicamente investimenti infrastrutturali per centinaia di miliardi di dollari, l’ultimo dei quali ammonta a 302 miliardi per l’esattezza per il triennio 2015-2018. A conferma del fatto che non basta avere i soldi nel portafoglio per far ripartire l’economia, i soldi vanno spesi e bene.

Tornando alla nostra signora inglese mi domando: perché stare in una Europa che sembra parlare solo tedesco? Per lo stesso motivo per cui 70 anni fa suo padre combattè sul campo. L’Europa di pace è stata una conquista di tutti, non va lasciata nelle mani di uno solo.

Autoritarismo emergenziale (ovvero fine della democrazia)

Luciano Gallino: “La fine della democrazia? Iniziò con Thatcher. E continua con Renzi”

Il voto dei cittadini conta sempre di meno, i margini di manovra dei governi eletti – quando sono davvero eletti – sono sempre più ridotti. La logica dell'”autoritarismo emergenziale” fa il resto. Un vizio che, secondo il sociologo, ha origine negli anni Ottanta e nell’avvento del neoliberismo. Così le riforme volute dal presidente del consiglio “rispetto alla gravità della crisi si collocano tra il dramma e la barzelletta”. Come venirne fuori? “Affiancando all’euro una moneta parallela. A meno che non sia la Gemania a buttarci fuori”.

“La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie”, spiegava Margaret Thatcher nel lontano 1980. L’inizio della fine della democrazia che l’Europa sta vivendo nel 2015, l’annus horribilis in cui Banca centrale Europea e Fmi piegano il volere di cittadini e governo greco, è lì. All’origine dell’applicazione pratica delle politiche neoliberiste, sostiene il sociologo Luciano Gallino. Fosse stato per la Scuola di Chicago di Milton Friedman, i Chicago Boys, i pensatori che costruirono l’impero teorizzando che il mercato si regola da solo, e che meno stato nell’economia meglio è, si sarebbe già potuto iniziare nei primi anni Settanta. Giusto il tempo degli ultimi fuochi keynesiani dei “Trente Glorieuses” (1945-75), quelli della ripresa economica improntata sul risparmio e sul welfare, sulle istituzioni statali indipendenti e sovrane rispetto ai fondi monetari, alle banche mondiali, alla rapacissima finanza. Il big bang lo fa deflagrare quella signora dalla permanente un po’ blasé, assieme all’ex attore hollywoodiano Ronald Reagan, che cominciano ad asfaltare sindacati e sindacalizzati, a cancellare il sistema di welfare a protezione delle fasce più deboli. Le tornate elettorali cominciano a diventare un optional. Governi conservatori o progressisti, europei o statunitensi, agiscono tutti verso la stessa direzione: smantellare lo stato sociale e privatizzare i servizi pubblici. Tanto ci pensa il mercato.

“Il potere economico nella forma che conosciamo si chiama capitalismo e per un certo periodo nel dopoguerra al capitalismo sfrenato si è potuto opporre qualche ostacolo favorendo prima di tutto la crescita economica e sociale di lavoratori e ceti medi”, spiega Gallino, ordinario di sociologia all’Università di Torino dal ’71 al 2002, e autore di un volume sul tema intitolato “Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” (Einaudi). Per lo stesso editore sta per pubblicare “Il Denaro, il debito, la doppia crisi”. “Dopo il 1980 però comincia la controffensiva neoliberale che ha avuto la meglio su tutti i governi d’Europa compresi quelli socialisti e socialdemocratici che non erano differenti nella pratica da quelli neoliberali e conservatori – continua Gallino –È stata una rivincita delle classi dominanti che ha avuto un successo straordinario. L’unico governo da allora ad oggi non allineato è forse quello greco di Tsipras”.

Ma come si è innescata la stessa dinamica impositiva del credo neoliberista nelle istituzioni e nel governo dell’Unione Europea?

A partire dagli anni Ottanta, a partire dagli Stati Uniti ma con un grosso contributo delle nazioni europee, si è affermato il processo cosiddetto della “finanziarizzazione”, per cui interessi e paradigmi finanziari hanno avuto la meglio su qualsiasi altro aspetto socio-economico. Il percorso di liberalizzazioni avviato in Usa da Reagan è avvenuto anche in Gran Bretagna con la Thatcher, e in Francia ad opera nientemeno che di un socialista come Mitterand. Tutto ciò ha fatto sì che il sistema ‘ombra’ delle banche, non assoggettabile in pratica ad alcune forma di regolazione, oggi valga quanto il sistema bancario che lavora per così dire alla ‘luce del sole’. Sono stati compiuti eccessi non immaginabili in campo finanziario, che hanno fortemente danneggiato l’economia reale. Qualunque dirigente o imprenditore di fronte alla possibilità di fare il 15% di utile speculando a livello finanziario o il 5% producendo beni reali, ha cominciato a scegliere la prima opzione senza stare più a pensarci troppo.

Poi c’è stata la crisi del 2007-2008…

Una crisi causata soprattutto dalla “finanziarizzazione”, non disgiunta dalla stagnazione dell’economia reale. A cui si dovevano far seguire serie riforme a livello bancario e finanziario, anche solo tornando alle regole, tipo la legge Glass-Steagall del ‘33, che avevano assicurato 50 anni di stabilità. Però non si è fatto nulla. Le banche e il sistema finanziario sono tornate più grosse, prepotenti e invadenti di prima della crisi. L’euro e la superiorità della Germania riflettono i risultati della finanziarizzazione. Va detto che la politica tedesca è stata quella di comprimere i salari dei propri lavoratori, e di utilizzare fiumi di forniture a basso prezzo dai paesi industriali dell’Est per favorire le proprie esportazioni in modo incredibile. Nel 2014 l’eccedenza degli incassi tra import ed export è stata di 200 miliardi di euro. I crediti di qualcuno sono però i debiti di qualcun altro: spesso dei paesi impoveriti sotto il predominio della Germania, alla quale l’euro ha giovato moltissimo, impedendo agli altri paesi di svalutare la propria moneta per stare dietro alla competitività tedesca.

Il caso greco sarà quindi il primo di tanti altri che arriveranno?

Sì. Con la Grecia i tedeschi hanno detto: “Umiliarne uno per educarne diciotto”, se parliamo dell’eurozona. Ne seguiranno altri. La Germania procede con decisione, la sua industria e le sue banche sono pesantemente coinvolte nel meccanismo infernale che hanno messo in moto. Dopo la Grecia toccherà all’Italia, alla Spagna, e anche alla Francia.

Eppure il presidente Renzi ogni giorno vara una nuova riforma…

Le riforme di Renzi si collocano tra il dramma e la barzelletta. Rispetto alle dimensioni del problema, alla gravità della crisi, il Jobs Act è una stanca ricucitura di vecchi testi dell’Ocse pubblicati nel 1994 e smentiti dalla stessa Ocse: la flessibilità non aumenta l’occupazione. Abbiamo perso il 25% della produzione industriale, il 10-11% di Pil, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono penosamente modesti. I giochetti delle riforme sono l’apoteosi preoccupante del fatto che il governo non ha la più pallida idea dei problemi reali del paese; o forse ce l’hanno ma procedono per la loro strada di passiva adesione alle politiche di austerità.

C’è chi vede la capitolazione greca di fronte alla fermezza Bce e Fmi come l’atto più antidemocratico avvenuto in Europa negli ultimi vent’anni. Che ne pensa?

“Il ministro Schauble, il mastino della Germania e dell’euro, sta preparando altre strettoie dittatoriali per rafforzare il dominio tedesco sugli altri paesi dell’eurozona. A me pare che per un paese che vale demograficamente un ottavo della Germania, tener testa per cinque mesi agli ottusi e feroci burocrati di Bruxelles, della Bce e del Fmi sia un altissimo riconoscimento, un grande esempio di dignità politica. L’Italia è lontana anni luce dalla Grecia. Siamo un paese economicamente molto più pesante e di fronte ai memorandum europei avremmo potuto ottenere risultati maggiori; ma questi neoliberali che ci governano rappresentano le classi sociali alleate con la finanza che ci domina.

Renzi un neoliberale come Reagan e la Thatcher?

Sì. Anche Monti arrivò da Bruxelles, grazie all’intervento di Napolitano, per fare il gendarme delle più grandi insensatezze mai immaginate in campo economico: il pareggio obbligatorio di bilancio inserito addirittura in Costituzione, le riforme regressive del lavoro, i tagli forsennati alle pensioni. La Commissione Europea e la Bce ci mandano lettere che assomigliano ai feroci memorandum mandati alla Grecia. Ci manca soltanto che ci mandino lettere con su scritto come confezionare il pane, proprio come suggerito nell’accordo dell’Eurogruppo con Tsipras il 12 luglio.

Che c’è scritto in materia di produzione del pane?

Si tratta di una indicazione dell’Ocse richiamata espressamente nel testo dell’accordo. Da sempre i panettieri greci vendono due tipi di pane: da mezzo e da un chilo. Nella “cassetta degli attrezzi” dell’Ocse (così si chiama) ci sono alcuni paragrafi dedicati ai fornai a cui viene imposto, al fine di allargare la liberalizzazione di un paese e bla bla bla, di introdurre varie altre pezzature di diverso peso delle pagnotte. E poi il pane dovrà essere venduto in qualunque posto, anche nei saloni di bellezza, se lo vogliono. Capirete bene cosa rappresenta un’imposizione del genere: si sta dicendo ad un paese intero come fare il pane. Pensiamo ai 30mila dipendenti della Cee a Bruxelles e alle migliaia che lavorano per l’Ocse e per l’Eurogruppo con le loro macchinette mentre calcolano migliaia di coefficienti e trovano il tempo e ritengono opportuno intervenire sul pane. Si è raggiunto un livello di imbecillità inaudito, ed è soprattutto una forma di dittatura che avanza.

Ci può spiegare il concetto di “autoritarismo emergenziale” che ha coniato?

Un governo che ha una vocazione autoritaria, ma è ancora soggetto al peso del voto, deve trovare buone ragioni per imporre le sue misure autoritarie. Per farlo ricorre allo “stato di eccezione”, un vecchio concetto politico che indica che una parte di uno stato che non ne avrebbe diritto si appropria di poteri non suoi. Lo stato di eccezione può essere costituito dalla guerra, da epidemie, da disastri naturali, dove s’impone che la Costituzione venga messa da parte. Ricordiamo la costituzione della repubblica di Weimar, la più liberale d’Europa. Conteneva un articolo sullo stato di eccezione che nel 1933 permise al capo di governo Adolf Hitler di appropriarsi del potere assoluto facendo fuori gli altri partiti e poi la costituzione stessa. In Europa con la crisi delle banche, non solo americane, e grazie alle folli liberalizzazioni sono emerse le montagne di debito a cui gli istituti si sono esposti. Quando queste procedure sono cadute come castelli di carta i governi si sono dissanguati per salvare le banche con fiumi di denaro che hanno indebolito i bilanci pubblici degli stati. Così il debito pubblico europeo è salito in due anni dal 65% all’85% e i governi hanno inventato uno stato di eccezione, quello della spesa eccessiva per la protezione sociale. Si è speso troppo? Bisogna tagliare i bilanci pubblici. Così s’impongono misure sempre più dittatoriali.

Secondo lei ci sono le condizioni per constrastare ideologicamente e culturalmente la vulgata neoliberista?

Il neoliberismo ha stravinto la battaglia culturale, ha conseguito un’egemonia a cui Gramsci poteva guardare con invidia: controlla 28 su 29 governi dei paesi dell’area europea, qualunque siano i nomi dei partiti al governo. Hanno il 95% della stampa a favore, il 99% delle tv, dominano nelle università, e hanno conquistato i governi. Sono piuttosto difficili oggi da sconfiggere. La sinistra come forza partitica poi non esiste più e quindi non ha la forza di opporre un ruolo di riflessione o denuncia paragonabile a quello all’attacco vincente dei neoliberisti. Inoltre non ci sono saggi, libri, testi da contrapporre all’egemonia culturale neoliberale, qualcosa che contrasti la favola dei mercati efficienti, della finanza che inaugura una nuova fase del capitalismo e altre amenità simili.

Le vecchie categorie di pensiero del Novecento non bastano più per comprendere la realtà politica attuale?

No, ce ne sono alcune che funzionano ancora bene. Il fatto è che non basta dire “proletari della UE unitevi”, o cambiando forma dire ‘precari’ o ‘classi medie impoverite della UE unitevi’. Qui bisogna fornire idee, documenti, possibilità di azione e controreazione. Possono esserci milioni di elettori che voterebbero una politica di sinistra, realmente progressista, per uscire dall’austerità, ma chi glielo spiega?

C’è chi indica il salvataggio nell’uscita dall’euro. Oppure secondo lei si può stare dentro e modificarne in qualche modo il pensiero dominante?

Al di là della demagogia di alcuni politici italiani, l’euro è una camicia di forza peggiore anche del ‘gold standard’. Ha giovato solo alla Germania, perfino la Francia ha perso punti nelle esportazioni e aumentato la disoccupazione. Così com’è l’euro non può più funzionare. Sia chiaro che uscire dall’oggi al domani non si può, sarebbe un disastro per i depositi bancari, la fuga dei capitali, la forte svalutazione della moneta sul mercato internazionale. Ma bisognerà affrontare presto la questione del “se e come uscirne”, perchè ciò vuol dire molti mesi di preparazione; oppure possiamo tentare di temperare questa uscita in qualche modo: affiancare all’euro una moneta parallela che permetta ai governi di avere libertà di bilancio, mentre con gli euro si continua a sottostare al giogo dei creditori internazionali. Purtroppo con la Germania al comando e l’inanità del nostro e degli altri governi non c’è molto da sperare. Intanto i muri della Ue scricchiolano e prima o poi sarà il peggioramento della crisi a imporci decisioni drastiche. Sempre che non arrivi Herr Schauble a dirci che non ci vuole più nell’euro. Non è una battuta, stando ai documenti che circolano”.

 

Trucchi Crucchi

Volkswagen, la caduta del mito tedesco che fa scendere Angela Merkel dall’Olimpo

Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Tanto più che il caso Vw è solo il più clamoroso di una lunga serie.

di Leonardo Coen – ilfattoquotidiano.it, 25 settembre 2015

Ah, la sublime arte della manipolazione alemanna! Chissà se Der Spiegel sbatterà in copertina un bel piatto di wurstel e crauti mettendo al posto della senape un gustoso modellino di Volkswagen, o se userà il cliché del Barone di Münchausen, il re dei contaballe, mostrandolo a cavalcioni di una Volkswagen, invece della celebre palla di cannone, mentre viene sparato nientepodimeno che sulla Luna. Lo dovrebbe. Almeno per coerenza. Nel luglio del 1997 il settimanale di Amburgo volle dire la sua sull’Italia con la choccante foto del piatto di spaghetti condito da una pistola. Poi toccò alla Spagna, sull’orlo dell’abisso. E la Grecia, povera derelitta. Per anni, gli austeri maestrini tedeschi ci hanno bacchettato a noi europei del Sud spendaccioni e furbastri. Cicale e Maggiolini. Loro onesti, noi furbi. Loro economicamente corretti. Noi sempre al di sopra dei nostri mezzi. Austeritaten über alles! La severità ed intransigenza luterana contro l’ipocrisia cattolica, prima pecchi e poi tanto c’è il perdono, basta una piccola penitenza…

Beh, qualche affinità con le madornali e mirabolanti avventure raccontate dal Barone di Münchausen la Volkswagen che impersonava la granitica certezza del German engineering – mito dell’indiscutibile primato ingegneristico tedesco molto in voga nel pianeta anglosassone – ce l’ha, eccome ce l’ha. Per esempio, ha basato per decenni gran parte delle sue campagne promozionali sulla fiducia e la verità, instaurando una sorta di complicità col consumatore, un legame che coinvolgeva cuore e testa. La Volkswagen “parla chiaro”. Sottinteso: gli altri no. Ci sono spot che oggi stanno spopolando sul web tanto sono ridicoli, rivisti col senno di poi. In uno la protagonista è una distinta e anziana signora che cerca di vendere la sua auto a un giovane, prudentemente accompagnato dal padre per evitare – ovviamente, non si sa mai – qualche brutta sorpresa. I due alla fine la comprano, dopo un intenso scambio di occhiate tipo per un dollaro d’onore con l’anziana donna: “Potete dubitare delle vecchie signore. Ma potete fidarvi di tutte le Golf”. Specie quelle a diesel: non ammorbano l’atmosfera perché noi della Volkswagen siamo i migliori. BlueMotion Polo. Nobody’s perfect, altro slogan per convincere che tuttavia, i prodotti Volkswagen puntano alla perfezione. E alla possibilità che tu ne possa fruire. Senza fatica. Think small. Pensa piccolo per avere grande. La Grande Germania: per la quale l’auto rappresenta il 20 per cento dell’export tedesco e il 14 per cento del Pil. Rappresenta o rappresentava?

Mai come in queste ultime ore Angela Merkel viene descritta così tanto a disagio, angustiata, preoccupata. Al vertice di Bruxelles per l’emergenza rifugiati è apparsa stanca, poco incisiva. Non ha nemmeno replicato alle solite invettive di Viktor Orban che ha detto: “Quello della Merkel è imperialismo morale”. Gli stessi suoi compatrioti cominciano ad essere delusi da lei, un sondaggio del 23 settembre le dava infatti il 49 per cento di popolarità. Il minimo, dall’inizio dell’anno. Lo scandalo – “crepuscolo di un’icona”, titola Le Monde – rimette in causa il modello di cogestione alla tedesca di cui la Vw era l’emblema. La descrivono pallida, non più sicura e determinata come prima. Per forza. Proprio all’apice della sua canonizzazione politica ed etica – pensate alla vicenda migranti, agli estenuanti bracci di ferro con Putin – nel giorno stesso in cui avrebbe dovuto festeggiare il decennale della sua vittoria elettorale (il 18 settembre 2005) che le avrebbe fatto conquistare la carica di Cancelliere del Paese più importante d’Europa, le è arrivata dagli Stati Uniti una bordata che dire devastante è minimizzare. Perché la Volkswagen è più di un grande gruppo industriale, “Volkswagen è la Germania”, ha detto Gitta Connemann, influente deputata Cdu. Lo ha del resto sottolineato Spiegel online: “Non sono i miliardi di multa che minacciano la Volkswagen, bensì il danno d’immagine (…) La giustizia americana segue una linea molto dura per combattere la criminalità economica”. Il vulnus è di proporzioni inaudite (come le avventure del Barone di Münchausen…) che non soltanto colpisce l’azienda di Wolfsburg ma la Germania intera e la sua credibilità planetaria. Piglia di mira la sua spocchia da prima della classe. Da imbrogliona come coloro che disprezzava. Altro che ruolo di “grande accusatore”, come ricorda Angelo Bolaffi. Adesso la Germania della Vw magliara si ritrova sullo stesso banco degli accusati “nello stesso giorno in cui Tsipras ‘il grande accusato’ (e con lui la Grecia) sembra forse esserne uscito. Insieme allo sconcerto per la rivelazione quasi epifanica della Grande Truffa, si cela la gioia maligna di chi ha subito gli strali dei supponenti leader germanici…

Persino la cancelliera è indirettamente coinvolta, come ha accusato il quotidiano Frankurter Rundschau, uno dei pochi giornali tedeschi a non avere circoscritto lo scandalo al mondo dell’industria automobilistica: “Angela Merkel da anni si posiziona come la lobbista in capo dei costruttori tedeschi d’auto. Il suo ministro dei Trasporti brilla per la febbrile attività di questi giorni e ciò avviene da anni, il suo ministero deve sapere che i costruttori imbrogliano sistematicamente sulle informazioni tecniche delle loro auto rispetto ai consumi e alle emissioni. Idem per il ministro-presidente della Bassa Sassonia dove si trova la sede della Vw. Il Land è il secondo azionista del gruppo. Nulla si fa alla Vw senza il suo consenso”. Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Dirty secrets of the car industry, titola l’ultimo The Economist. E per i tedeschi e gli americani la menzogna è un’aggravante particolarmente condannabile.

Adesso che il vaso di Pandora è scoperchiato e che le connivenze mediatiche – la pubblicità delle quattroruote è fondamentale per giornali e tv – sono state smascherate (da anni c’era chi inutilmente denunciava le sopercherie ma veniva ignorato: penso al rapporto“Mind the Gup! Why official car fuel economy figures don’t match up to reality” del 2013 di Transport&Environment, l’organizzazione europea che si occupa di sostenibilità ambientale dei trasporti), abbiamo l’effetto Domino. Vi siete dimenticati del caso Germanwings (gruppo Lufthansa)? Il 24 marzo scorso un suo Airbus A320 precipitò in Francia, causando la morte di 150 persone. Per un raptus di follia suicida del copilota Andreas Lubitz. Allora furono messi sotto accusa i test della compagnia. Vogliamo parlare del Berlin Brandenburg Flughafen? Dovevano aprirlo nel 2012. I tecnici scoprirono che i sistemi antincendio erano insufficienti. Dopo, fu la volta dei banchi del check-in ad essere insufficienti. Indi toccò al tetto della sala principale: non in grado di sopportare il peso e le sollecitazioni dei condizionatori. Comunque, avevano promesso di inaugurarlo a metà del 2016. Promessa rimangiata. Sarà aperto nel 2017: forse. Intanto i costi sono lievitati, passando da 3 a 6 miliardi di Euro. Tra sospetti di corruzione e pessima progettazione: “un aeroporto con 150mila difetti”, hanno scritto i giornali tedeschi. Se lo dicono loro…

Già, corruzione. Se i Greci erano corrotti, come sbraitavano in Germania, c’era chi doveva corromperli. I tedeschi. Siemens, Daimler, Rheinmetall – fu Business Insider Uk a fare una rassegna circostanziata dei maggiori casi di corruzione – sono oggetto di inchieste giudiziarie. Secondo i giudici greci, la Siemens ha dispensato mazzette per 70 milioni di euro. Il fascicolo che la riguarda conta 2.300 pagine, l’indagine è durata nove anni. La statunitense CorpWatch – gli americani sono spettatori assai interessati alle vicende tedesche – definì il caso Siemens “il più grande scandalo aziendale della storia greca dal dopoguerra”. In questo, i tedeschi confermano la loro tendenza al gigantismo. Vw ha un gito d’affari annuo di oltre 200 miliardi di euro, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo (ci vuole genio per realizzare il software fregone). Eurointelligence aggiunge che la Vw ha un rapporto consolidato con la politica tedesca. Facile paragonare la sua vicenda con la crisi dei subprime del 2007-2008 e il crack Lehman Brothers. Allora la Casa Bianca decise che la banca andava salvata perché “troppo grande per fallire” (too big to fail). Analogo destino attenderà la Vw. È la sindrome del cigno nero. Con qualche postilla, tanto per capire i veleni del contesto. Intanto, chi acquistava le presunte virtuose vetture diesel taroccate godeva dei bonus statali e europei. Essendo frutto di truffa, dovrebbero essere rimborsati. Andateglielo a dire agli acquirenti … Dulcis in fundo, non è che gli americani si sono vendicati dopo che erano stati beccati loro con le mani nella marmellata, per le intercettazioni telefoniche abusive della NSA (National Security Agency) fatte ai danni di Angela Merkel e di altri 55 politici tedeschi, come rivelò il sito di Julian Assange? In una telefonata la Merkel criticava il piano del Segretario del Tesoro Usa che aveva posto l’eventualità di sollevare le banche dalla responsabilità per i titoli tossici. In un’altra sosteneva che la Cina avrebbe dovuto avere maggiore influenza nel Fondo Monetario Internazionale. È guerra. Senza esclusione di colpi. Muoia Sansonen con tutti i Filistei. Speriamo che noi della Grande Bellezza Mediterranea ce la caviamo.

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Grecia sotto ricatto

***

James Galbraith: “L’Europa si vergogni, ha ricattato la Grecia e l’ha resa disperata”

L’economista dell’Università del Texas: “Il piano approvato è una menzogna fin dalle prime righe. Va contro il volere del popolo ellenico”.

di Eugenio Occorsio – Repubblica.it, 15 agosto 2015

BRUXELLES. “Il piano approvato con tanta fanfara è una vergogna per l’Europa e per l’intera comunità internazionale “. L’irritazione di James Galbraith, economista dell’università del Texas, supera ogni immaginazione. “Leggete il documento approvato. È una menzogna fin dalla prima riga: “La Grecia – c’è scritto – ha chiesto aiuto ai suoi partner europei per risolvere i suoi problemi”. Niente di più falso. La Grecia è stata ricattata, spinta alla disperazione e poi costretta ad approvare un piano del genere, che va contro il volere del suo popolo espresso col referendum”.

Professore, non le sembrano un po’ forti, per usare un eufemismo, questi giudizi?

“Macché. Lo scopo, quasi dichiarato, della Germania e del potere costituito in Europa, era dimostrare che non c’è alternativa alla linea politico- economica prevalente, e che nessun Paese si può permettere di deviare perché viene schiacciato. Era sbarazzarsi di Syriza, e forse ci sono riusciti. Ma, la prego, continui a scorrere con me il documento…”.

Andiamo avanti, allora.

“Stiamo sempre sulle prime righe. C’è scritto che l’accordo servirà per ritrovare la crescita, per creare posti di lavoro, per ridurre le disuguaglianze e scongiurare i pericolo di instabilità finanziaria. Sono sconcertato. I risultati saranno esattamente l’opposto. Rilegga punto per punto e s’immagini il risultato opposto. La crescita sarà abbattuta, il lavoro diminuirà, le diseguaglianze si accentueranno, eccetera”.

Però come negare che l’instabilità della Grecia costituisca un problema?

“Ma certo. Però il modo per risolverlo era tutt’altro. Lo sanno tutti: andava finanziato un grande piano di investimenti in Grecia senza inseguire una solidità fiscale che comunque era perduta, solo allora si poteva pensare alla crescita. Ora tutto diventa più difficile. Ma l’ha letto il paragrafo successivo?”

Ancora?

“Legga con me. Il successo del piano richiederà ” ownership” delle misure da parte del governo greco. Vuol dire che Atene sarà padrona delle sue azioni e le deciderà liberamente. “Il governo perciò è pronto a prendere tutte le misure che riterrà opportune a seconda delle circostanze”. Quale menzogna. Per colmo d’ironia poche righe più sotto c’è scritto: “Il governo si impegna a consultarsi e concordare con l’Ue, l’Fmi e la Bce tutte le azioni rilevanti”. Eccola qui, la verità: a comandare sarà la Troika”.

Perché Tsipras ha accettato?

“Perché non aveva scelta. Voleva tenere la Grecia nell’euro ma era ricattato dalla Bce che minacciava di confiscare tutti i risparmi bancari e lasciare il Paese sul lastrico”.

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http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/16/news/agenda_mercati-121071012/?ref=HRLV-5

Se Atene piange, Berlino ride

Atene annuncia: “Raggiunto accordo con i creditori internazionali”

Nel 2015 il deficit primario sarà pari allo 0,25 % del Pil. Passerà allo 0,5 % nel 2016, all’1,75% nel 2017 e al 3,5% nel 2018

Repubblica.it, 11 agosto 2015

L’accordo sugli obiettivi finanziari è un primo passo importante verso un’ intesa globale sul terzo pacchetto di aiuti alla Grecia, per un valore di almeno 82 miliardi di euro, che Atene e i suoi creditori stanno negoziando con la Ue, la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale nell’ambito del meccanismo europeo di stabilità, da più di due settimane nella capitale greca, e che sperano di raggiungere molto rapidamente, forse nella giornata odierna.

Nel 2015 è stato deciso che la Grecia subirà un deficit primario (saldo di bilancio, esclusi i pagamenti di debito) pari allo 0,25% del PIL, un avanzo primario dello 0,5% del PIL nel 2016, 1,75% nel 2017 e 3,5% nel 2018, ha rivelato la fonte.

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Se Atene piange, Berlino ride

La crisi greca ha favorito i conti delle aziende e dello stato tedesco. In quattro anni e mezzo di crisi, i benefici economici per la Germania legati alle difficoltà elleniche sono stati calcolati in oltre 100 miliardi dall’istituto tedesco Leibnitz. 

Repubblica.it, 10 agosto 2015

MILANO – ll proverbio di Aristodemo che vuole legate Atene e Sparta sia nella buona che nella cattiva sorte non si addice ai rapporti tra la capitale greca e Berlino. La Germania, infatti, non è uscita danneggiata dalla crisi dell’euro quanto Sparta dopo le guerre del Peloponneso che se da una parte videro Atene soccombere dall’altra videro indebolirsi anche la storica rivale. I tedeschi, a partire da Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble, che seguono una linea dura nei confronti della crisi economica e finanziaria della Grecia, hanno ottenuto molti vantaggi dalle difficoltà di Atene.

Secondo uno studio dell’istituto tedesco di ricerca economica Iwh, la Germania è il Paese che più si è avvantaggiato economicamente dalla crisi ellenica. Dal 2010 Berlino avrebbe risparmiato circa 100 miliardi di euro di tassi d’interesse, grazie alle riduzioni decise a più riprese dalla Bce. “Questo risparmio supera i costi della crisi, anche se la Grecia non dovesse fare fronte ai propri debiti”, scrive l’istituto: “La Germania dunque, in ogni caso, ha tratto vantaggio dalla crisi greca”.

Insomma i falchi tedeschi che non mollano la linea dura nei confronti della crisi economica e finanziaria della Grecia, sono gli stessi che per anni hanno ottenuto molti vantaggi dalle difficoltà di Stene. Secondo l’istituto Leibnitz i risparmi di bilancio da parte di Berlino superano il 3% del Pil nazionale. Gli economisti hanno realizzato diverse simulazioni partendo dall’ipotesi che nel pieno di una crisi economica gli investitori realizzano gli investimenti più sicuri possibili.

“Durante la crisi europea del debito, la Germania ha tratto vantaggio da questo effetto in maniera sproporzionata”, afferma Iwh, che spiega “risultano tassi simulati sui bond tedeschi in media tra il 2010 e oggi del 3% più elevati che nella realtà, il che ha comportato risparmi di bilancio globali di almeno 100 miliardi di euro egli ultimi quattro anni e mezzo”. La Germania ha inoltre registrato importanti contratti a seguito della politica di privatizzazioni portata avanti da Atene dal 2011, tra cui l’acquisto da parte della società Fraport di 14 aeroporti regionali greci, incluso quello di Corfù, per circa un miliardo di euro.

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Non è colpa dei tedeschi

Unione monetaria. Il successo di pubblico della politica teutonica in Europa deriva dall’aver convinto i cittadini tedeschi a considerarsi in primo luogo “azionisti” del ministero guidato da Wolfgang Schaeuble
La cancelliera Angela Merkel e il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble / Foto Reuters

Pochi giorni fa, incon­trando for­tu­na­ta­mente una dif­fusa resi­stenza, la Con­fin­du­stria tede­sca chie­deva di supe­rare il limite di 8 ore della gior­nata lavo­ra­tiva, in nome della fles­si­bi­lità. E’ il segno ine­qui­vo­ca­bile di come la dot­trina della com­pe­ti­ti­vità non con­tem­pli alcun prin­ci­pio di equi­li­brio o di auto­re­go­la­zione. Non da ieri, nume­rosi eco­no­mi­sti sot­to­li­neano come l’avanzo com­mer­ciale e di bilan­cio tede­sco (8 per cento del Pil quest’anno) costi­tui­scano per l’Europa un pro­blema ben più serio del debito greco. L’eccesso di rispar­mio comin­cia a pre­oc­cu­pare per­fino i ver­tici della Deu­tsche Bank.

Come è pos­si­bile che una eco­no­mia fio­rente si arroc­chi nel respin­gere qual­siasi ripresa della dina­mica sala­riale, qual­siasi miglio­ra­mento dei diritti e dei red­diti del lavoro pre­ca­rio, qual­siasi ripresa della spesa pub­blica, tali da ridurre i for­tis­simi squi­li­bri che afflig­gono il Vec­chio con­ti­nente, oltre a miglio­rare il livello di vita dei tede­schi? A par­tire da que­sta domanda, in molti lamen­tano un anti­ger­ma­ne­simo di comodo che impu­te­rebbe a Ber­lino ciò che in realtà è l’essenza del capi­ta­li­smo glo­bale. La Ger­ma­nia, insomma, sot­to­stà, sia pure con qual­che eccesso di zelo e qual­che spe­ci­fica osses­sione, alle leggi del neo­li­be­ri­smo, non le crea.

Il peri­colo non pro­ver­rebbe dun­que da una ripresa del nazio­na­li­smo tede­sco (del tutto evi­dente nei toni del dibat­tito pub­blico in Ger­ma­nia) ma dalla dit­ta­tura dei mer­cati. Inu­tile pren­der­sela con una pre­sunta voca­zione sto­rica della Ger­ma­nia al comando. Se que­sta affer­ma­zione non teme smen­tite defi­ni­tive, essa con­tiene tut­ta­via una inge­nuità e un peri­colo. La prima con­si­ste in una idea del tutto astratta e disin­car­nata del mer­cato (dimen­tica del fatto che quest’ultimo è un rap­porto sociale con le sue espres­sioni poli­ti­che) che non esi­ste­rebbe nelle forme attuali senza i suoi inter­preti “sovrani”, i suoi guar­diani e i suoi retori. Il suc­cesso di pub­blico della poli­tica teu­to­nica in Europa deriva dall’aver con­vinto i cit­ta­dini tede­schi a con­si­de­rarsi in primo luogo “azio­ni­sti” del mini­stero gui­dato da Wol­fgang Schaeuble.

Il secondo risiede nell’insidiosa illu­sione che la sovra­nità nazio­nale (e dun­que il nazio­na­li­smo che fre­quen­te­mente ne discende) possa essere con­trap­po­sta alla glo­ba­liz­za­zione capi­ta­li­stica, sia pure come argine par­ziale. L’illusione river­bera sulla que­stione della moneta distin­guendo tra paesi con la voca­zione all’export e paesi orien­tati al mer­cato interno. Gli uni favo­riti, gli altri svan­tag­giati dalla moneta unica. Fatto sta che non si tratta affatto di “voca­zioni”, o di “carat­teri nazio­nali”, ma di rap­porti di forza tra le classi che non dipen­dono dall’appartenenza o meno all’Unione euro­pea e dai suoi trat­tati, come dimo­stra, per esem­pio, l’esplosione dell’export made in China con le con­di­zioni poli­ti­che e poli­zie­sche che la hanno resa possibile.

Il nazio­na­li­smo tede­sco, dun­que, è una delle con­di­zioni del mec­ca­ni­smo di accu­mu­la­zione in Europa, tanto è vero che esso è per­fino in grado di ripro­porsi in una ver­sione più fede­rale e inte­grata, che ha tra i suoi pro­mo­tori lo stesso Wol­fgang Schaeu­ble, a con­di­zione che la gover­nance venga messa al riparo da qua­lun­que inter­fe­renza di carat­tere demo­cra­tico e si attenga stret­ta­mente alle regole date. Regole sal­da­mente radi­cate nella tra­di­zione ordo­li­be­rale tede­sca. Que­sta forma di inte­gra­zione saprebbe avvan­tag­giarsi, inol­tre, di uno sfol­ti­mento dell’unione mone­ta­ria senza nes­suna per­dita signi­fi­ca­tiva di ege­mo­nia o di sovra­nità, con­ti­nuando a con­di­zio­nare pesan­te­mente le eco­no­mie euro­pee sospinte ai mar­gini dell’eurozona.

In que­ste con­di­zioni un “atter­rag­gio mor­bido” fuori dalla moneta unica non è che il sogno mal­sano dei nostal­gici della sovra­nità nazio­nale. Il para­ca­dute non si aprirà, come il governo di Tsi­pras sem­bra avere intuito per tempo. Del resto, la stessa alter­na­tiva tra la per­ma­nenza nell’euro o l’abbandono volon­ta­rio della moneta unica si pre­senta come una ope­ra­zione di deci­sio­ni­smo gover­na­tivo, estra­neo a qual­si­vo­glia movi­mento di massa, come ci sug­ge­ri­sce l’esigua mino­ranza di greci dispo­sti a uscire dall’euro. La messa in scena di una rivin­cita, del tutto illu­so­ria, della poli­tica sull’economia, nel cui campo e secondo i cui schemi si gioca per intero la partita.

Fuori dall’ euro­zona, non meno che al suo interno, non c’è infatti libertà di azione, c’è il ter­reno minato dell’economia glo­bale. Di fronte alla quale, sulla scala ridotta dello stato nazio­nale (per­fino la Ger­ma­nia è troppo pic­cola per il “grande gioco”), si aprono due strade. O quella di uno sfrut­ta­mento intenso del lavoro e uno sman­tel­la­mento radi­cale dello stato sociale, se pos­si­bile ancor più dra­co­niano di quello pre­teso da Bru­xel­les, ma que­sta volta sotto il segno infetto dell’“orgoglio nazio­nale”, per soste­nere la com­pe­ti­ti­vità, oppure la via del pro­te­zio­ni­smo, dell’isolazionismo, delle poli­ti­che diri­gi­ste di svi­luppo nazio­nale, degli ate­liers nato­naux e del lavoro fit­ti­zio. Per non voler pen­sare a vere e pro­prie derive di natura autarchica.

Da destra e da sini­stra vi sono in Europa diverse ten­denze che sem­brano con­ver­gere verso simili esiti. Gli uni nella spe­ranza di restau­rare un’idea forte di “Nazione”, gli altri nell’illusione che que­sto pas­sag­gio con­duca a una tra­sfor­ma­zione in senso più demo­cra­tico e ugua­li­ta­rio della società. Que­sti ultimi muo­vono da un tra­gico errore di fondo: il socia­li­smo euro­peo non è fal­lito per­ché si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo, ma si è con­ver­tito al neo­li­be­ri­smo per­ché era fal­lito. Per­ché il modello di stato, di wel­fare, di lavoro, di iden­tità sin­go­lari e col­let­tive che esso pro­po­neva non cor­ri­spon­de­vano più alle aspi­ra­zioni di sog­get­ti­vità sociali pro­fon­da­mente tra­sfor­mate. Se non si parte da que­sto pre­sup­po­sto la par­tita con le pro­messe, sia pur disat­tese, del neo­li­be­ri­smo è irri­me­dia­bil­mente perduta.

E uno stu­dio del Deu­tsches Insti­tut fuer Wir­ts­chaf­tsfor­schung può trion­fal­mente rive­lare che la grande mag­gio­ranza dei lavo­ra­tori tede­schi, anche in con­di­zioni di pre­ca­rietà, bassi salari e scarsi diritti, è ben con­tenta del lavoro che ha. Gli insod­di­sfatti natu­ral­mente esi­stono, ma sono pochi e di cat­tivo carattere.

fonte: http://ilmanifesto.info/dove-trova-consenso-il-nazionalismo-tedesco/

La regina è nuda

segnalato da Barbara G.

Un operaio ripara la scultura dedicata all’euro davanti alla Banca centrale europea, a Francoforte, il 6 luglio 2015. (Tim Wegner, Laif/Contrasto)

La Germania non è un modello da seguire

di Nicolò Cavalli – Internazionale.it,  27 luglio 2015

“Il sud Europa deve essere più tedesco?”. La domanda, posta dallo Spiegel nel 2012, ritorna oggi, dopo che la chiusura delle trattative greche ha restituito un mix di riforme e austerità ispirato al cosiddetto consenso Berlino-Washington e un piano di privatizzazioni ritagliato sull’esperienza della riunificazione tedesca. Guidata, alla fine degli anni ottanta, dall’attuale ministro delle finanze di Berlino e dominus delle trattative europee, Wolfgang Schäuble.

Per molti, compreso il premier italiano Matteo Renzi, la risposta è sì. Considerata alla fine degli anni novanta “la malata d’Europa”, da quel momento la Germania non conosce crisi. La sua economia è cresciuta del 10 per cento tra il 2009 e il 2014. Il tasso di disoccupazione è al 4,7 per cento, quello giovanile al 7,1.

L’export supera l’import di circa 300 miliardi di euro all’anno, per un surplus commerciale pari al record dell’8,4 per cento del prodotto interno lordo (pil). Il governo ha ottenuto il pareggio assoluto di bilancio e prevede di abbattere il rapporto debito/pil al 60 per cento entro il 2020.

Un sistema dell’istruzione non competitivo

Eppure, da quindici anni l’economia tedesca ha smesso di investire a tassi accettabili, ipotecando negativamente il suo futuro. All’appello mancano 103 miliardi all’anno, necessari per mantenere stabile lo stock di capitale dell’industria.

Le imprese hanno 500 miliardi chiusi in cassaforte, così l’investimento privato è sceso dal 21 per cento del 2000 al 17 per cento del 2013. I governi hanno la loro parte di responsabilità. Nonostante bassi tassi d’interesse sui titoli di stato, che rendono conveniente prendere a prestito, gli investimenti pubblici sono al 2 per cento del pil e servirebbero dieci miliardi in più all’anno per mantenere agibili le infrastrutture in futuro.

Anche il sistema dell’istruzione è colpito dal “divario di investimento”. Le università tedesche non riescono a competere con i migliori atenei al livello globale e rimangono indietro nelle classifiche internazionali. Solo un terzo delle persone tra i 30 e i 34 anni è laureato, una quota inferiore alla media Ocse.

Tutto ciò contribuisce al ritardo del paese nella corsa all’innovazione. Decima nell’Unione europea per livello di digitalizzazione, nel settore la Germania non sforna concorrenti al livello globale dalla fondazione della Sap) nel 1972. Ora che l’information technology aumenta il suo peso nell’industria tradizionale, compresa quella automobilistica, il timore è che questo possa diventare il tallone d’Achille della competitività tedesca.

Ma, quando il governo ha tentato di incoraggiare le iscrizioni all’università, ha generato le resistenze delle imprese manifatturiere, preoccupate dal declino delle immatricolazioni al sistema apprendistato, che oggi rappresenta il principale canale di passaggio scuola-lavoro.

Un paese sempre più anziano

La coperta, d’altro canto, è corta: la fertilità tedesca è la più bassa del mondo, con otto neonati ogni mille abitanti. Nel 2035, le persone di più di 65 anni saranno 24 milioni, con un aumento del 50 per cento. Entro il 2100, ci saranno 25 milioni di tedeschi in meno e la Germania avràcessato di essere la superpotenza demografica d’Europa.

A Lohberg, periferia nord di Dinslaken, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 28 gennaio 2015. - Dominik Asbach, Laif/Contrasto
A Lohberg, periferia nord di Dinslaken, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 28 gennaio 2015. (Dominik Asbach, Laif/Contrasto)

La soluzione, rappresentata fino a questo momento da un vero e proprio boom dell’immigrazione (400mila migranti netti nel solo 2012), è osteggiata in maniera crescente dalla politica, pronta ad alzare barriere anche per chi arriva dagli altri paesi dell’Unione. Eppure, la Germania nel 2020 avrà bisogno di 1,7 milioni di immigrati e, senza un mercato del lavoro in salute, non potrà mantenere a lungo la sua posizione di preminenza economica.

Le riforme Hartz, concluse dai socialdemocratici nel 2005, sono spesso indicate come la ragione del crollo della disoccupazione. In realtà, l’aumento della competitività tedesca è stato generato da una drastica “moderazione salariale”, interrotta solo negli ultimi anni: prima della grande recessione, gli stipendi sono cresciuti meno della produttività, abbassando i costi di produzione e i prezzi dei prodotti.

Questo è stato permesso dalla struttura di contrattazione tra imprese e sindacati più che dalle riforme, che pure hanno contribuito all’abbattimento del potere contrattuale dei lavoratori attraverso una diminuzione dei sussidi di disoccupazione e la creazione di una sacca da cinque milioni di “impiegati marginali” grazie ai cosiddetti minilavori.

L’effetto aggregato è stato l’abbattimento della “quota lavoro” sul reddito nazionale e un aumento della disuguaglianza nella ricchezza fino ai livelli più alti dell’area euro. Oggi, i poveri sono 12,5 milioni – la quota più elevata dalla riunificazione del paese.

Il sistema bancario peggiore del mondo

Aiutata dall’euro, che rende i suoi prodotti più convenienti, la Germania ha potuto esportare verso il resto del mondo (Asia in testa) quando l’Europa è entrata in crisi. Prima di quel momento, il boom dell’export verso i partner del vecchio continente era stato spinto da un intreccio di relazioni finanziarie che faceva perno sul sistema bancario tedesco.

“Uno dei peggiori al mondo”,secondo l’analista Paul Gambles. La scarsa capitalizzazione delle banche, compresa la Deutsche Bank, lascia il sistema vulnerabile a potenziali crolli.

Circa la metà delle piccole banche europee, lasciate fuori dalla supervisione della Bce, si trova proprioin Germania. Si tratta di banche regionali e municipali con un rapporto in molti casi di dipendenza dalla politica. Queste hanno in pancia debiti garantiti dallo stato pari al 145 per cento del pil tedesco, debiti che in futuro potrebbero finire per pesare sul bilancio pubblico.

Questa implicita garanzia di salvataggio ha spinto le banche a comportamenti azzardati per tutti gli anni 2000. Prestando denaro ai paesi periferici a rischio in cerca di facili ritorni, le banche hanno generato un flusso di capitali in grado di alimentare i deficit commerciali dei paesi del Mediterraneo, che riutilizzavano il denaro per comprare beni e servizi tedeschi, stimolando il boom della Germania mentre accumulavano squilibri insostenibili.

L’attacco dell’uomo Bce

Nel 2010, quando il castello di carte è crollato, l’Europa si è affrettata a salvare il sistema bancario trasferendo le potenziali perdite dal bilancio delle banche a quello dell’eurozona nel suo complesso attraverso il sistema Target2.

Beeck, nel distretto di Duisburg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 25 novembre 2014. - Oliver Tjaden, Laif/Contrasto
Beeck, nel distretto di Duisburg, nella Renania Settentrionale-Vestfalia, il 25 novembre 2014. (Oliver Tjaden, Laif/Contrasto)

La stoccata più dura è arrivata nelle scorse settimane da Yves Mersch, uomo della Bce, durante l’assemblea annuale della DZ Bank, quarto gruppo bancario del paese.

Un’economia che non ha abbastanza lavoratori qualificati e che non ristruttura ponti e strade consuma la sua ricchezza e non è credibile quando afferma di voler crescere in maniera dinamica e sostenibile. Una società in cui gli ottantenni aumenteranno del 50 per cento nei prossimi quindici anni rischia di perdere la sua volontà di riformare e di integrare. Questo crea una tendenza a proteggere i diritti acquisiti e a sposare il conservatorismo di una società chiusa. Per questo i governi non dovrebbero solo richiedere riforme altrove ma innanzitutto attuarle nel proprio paese.

A Berlino, che secondo le classifiche Ocse negli anni di Angela Merkel è caduta al 28º posto su 34 per propensione alle riforme, saranno fischiate molte orecchie.

I problemi sottolineati da Mersch non sono solamente tedeschi. Ma la soluzione del “consenso Berlino-Washington”, la medicina amara fatta trangugiare a Tsipras, equivale alla richiesta di barattare stabilità domestica con competitività estera.

Il modello è quello di un’eurozona con crescenti disuguaglianze, ampie sacche di disoccupazione soprattutto al sud e salari moderati con il solo scopo di aumentare l’export. Un’idea neomercantilista dell’economia che rischia di porre una pressione recessiva su tutta l’economia globale, dando nello stesso tempo fiato a elementi di destabilizzazione interna al continente.

Quello tedesco non è un modello da seguire.