giovani

“Non sta sfruttando me”

di Barbara G.

“Se Michele si è suicidato è anche colpa di noi giovani, egoisti senza coscienza sociale”

“Partecipo attivamente alla vita di questo Paese da 10 anni e a ogni incontro, manifestazione e dibattito a mancare sono i miei coetanei. Toccano anche a noi le riflessioni su cosa stiamo facendo per questa società”. La lettera di una ragazza arrivata all’Espresso sposta il dibattito sulla condizione giovanile nel nostro Paese riaperto dal messaggio del trentenne che si è tolto la vita

di Veronica Andrea Sauchelli (*) – espresso.repubblica.it, 08/02/2017

Un giovane uomo si suicida perché non ha il lavoro che desidera e scoppia l’urto di accuse . Ovviamente la maggior parte sono commenti alla “governo ladro”, “sistema bastardo” e “povera vittima”. Non voglio tentare neanche per un secondo di commentare il gesto di chi se n’è andato perché non ne ho né il diritto né l’interesse.

Quello che mi preme dire, invece, è che io non mi sento follemente arrabbiata solo con un “sistema” generico, impersonale, intangibile; io mi sento arrabbiata col sistema reale, e mi dispiace sottolinearlo, ma del sistema reale fanno parte anche tutti quei miei coetanei che adesso puntano il dito verso un responsabile invisibile. Siamo tutti responsabili. Tutti: dal primo all’ultimo, e non solo chi arriva nei palazzoni con le auto blu.

Partecipo più o meno attivamente alla vita di questo Paese da quando avevo 15 anni, ora ne ho venticinque e sono già stanca, amareggiata e stufa. Non dalla classe politica, ma dalla mia generazione. Sì, lo sono anche dalla prima categoria, però da quella te l’aspetti, dalla seconda no. Ero rappresentante del mio liceo e organizzavo conferenze a cui non veniva nessuno perché “meglio i tornei di calcetto e pallavolo”.  Alle manifestazioni talvolta un po’ di gente c’era, ma il più delle volte per saltare scuola o per vivere un pizzico di quell’atmosfera sessantottina di cui abbiamo sentito solo parlare. Poi sono cresciuta ed ho iniziato ad andare all’università e ad altri incontri pubblici: sulla questione dell’acqua, conflitti vari, giornalismo, crisi giovanile, complesso di Telemaco, Costituzione italiana… indifferente l’argomento, c’era sempre una sola costante: ero l’unica (o quasi) a non avere la testa grigia. I miei coetanei non ci sono mai, li si vede in massa solo quando c’è da fare aperitivo.

l festival di Internazionale ho assistito ad un incontro sul (non) futuro giovanile in cui l’attempato relatore si è consumato in un sentitissimo mea culpa perché loro, i nostri nonni, ce l’hanno rubato, il divenire. Beh, questa frase fatta – che ormai si sente troppo spesso – sortisce come unico effetto quello di assecondare il nostro volerci sentire vittime. Magari in parte lo siamo, ma non possiamo usare questo come scusa per redimerci dalla responsabilità di costruire quello che vogliamo. Non abbiamo una coscienza sociale, questo è il vero problema. Ognuno è a testa china sulla propria strada, in mezzo a smartphone, ambizioni, menefreghismo e bicchieri di vino. È una grossa generalizzazione, sicuramente, ma che siamo imbottiti di un individualismo spesso quanto le nostre speranze è innegabile.

Spesso ho fatto la pendolare coi miei colleghi di studio, ed è stato sempre un penoso lungo viaggio fatto scivolando sulla superficie delle cose. Uno solo l’argomento di conversazione, puntuale: l’esame e la mole di studio. Non riesce a preoccuparsi d’altro se non dei suoi problemucci quotidiani, questa nuova maggioranza; compresa la più istruita, “l’élite”. Gente che anche quando si lamenta perché il libro scritto (e inflitto) dal professore non è nemmeno in italiano corretto e a studiarlo ci si sente presi per il sedere, sorride compiacente all’autore perché c’è un voto da portare a casa. Come si può pretendere da un insieme di persone incapace d’unirsi anche solo per ottenere un libro dignitoso da studiare, che sappia creare una forza sociale in grado di far valere i propri diritti?

Una persona molto cara a me (laureata) aveva trovato un posto in cui veniva pagata cinque euro l’ora (in nero) come responsabile di sala, e se avesse voluto bere o mangiare qualsiasi cosa  avrebbe dovuto pagarlo a prezzo intero. «Non andateci», ho detto ad alcuni amici «non dobbiamo sostenere il nostro sfruttamento», «mi dispiace, ma la birra lì è buona!», mi hanno risposto. Stesso tipo di risposta quando ho riportato il medesimo suggerimento per un’altra situazione analoga di sfruttamento vaucheriano giovanile, «ma non sta sfruttando mica me!», già. Non oggi, non lì.

Quindi la riflessione prima ancora che ai poteri forti spetta a noi. Noi abbiamo la forza fisica, mentale e anagrafica per proporre e reggere uno scontro tangibile con questa realtà. La società non si fa da sola, e in questo momento noi giovani stiamo lasciando che subisca se stessa. Noi abbiamo il diritto e il dovere di partecipare, di creare un tessuto, al posto di un pettine di fili paralleli, destinati a non incontrarsi mai. Siamo noi che ci stiamo annegando a vicenda in un assordante silenzio di contenuti. Siamo noi che dobbiamo (ri)costruire  per primi un ambiente vitale, vivace, fatto di braccia salde e responsabili. Chi altri sennò? La cosa pubblica non si fa da sé. Michele s’è ammazzato da solo eppure l’abbiamo ammazzato un po’ tutti, col disinteresse, la critica altero-diretta e l’incapacità di essere un gruppo. Sinergia, questa dovrebbe essere la parola d’ordine per arrivare tutti da qualche parte. Sempre che ci interessi.

*Veronica Andrea Sauchelli è una fotografa di 25 anni di Udine.

Perché Renzi non ama i giovani

di Andrea Colombo – ilmanifesto.info, 23/10/2016

Chiederselo è inevitabile: ma Renzi odia i giovani? A sentirlo si direbbe il contrario. Anzi, è tutto uno sproloquio giovanilista, pur se di maniera. Ma le parole costano poco, e i fatti raccontano una storia opposta. Il grande rottamatore, oltre ai suoi nemici politici, ha rottamato soltanto i giovani. È inutile che il ministro Poletti strepiti. Quando il presidente dell’Inps Boeri dice che la manovra massacra ulteriormente i giovani fotografa lo stato delle cose. Non è una novità.

Il Jobs Act sembra davvero un piano diabolico partorito da un mad doctor incarognito con chiunque sia sotto i 30. Gli incentivi studiati per consentire il trucco della trasformazione di contratto e dell’assunzione a tempo indeterminato spogliata di ogni sostanza erano fatti apposta per regalare briciole ai lavoratori attempati senza lasciare agli imberbi neanche quelle: si accontentassero dei voucher. I risultati vengono periodicamente immortalati dalla rilevazioni statistiche e ci vuole la faccia di bronzo del nostro premier per rivenderseli come una vittoria.

Su poco più di 500mila nuovi assunti reali, 402mila sono ultracinquantenni, e se il tasso di disoccupazione, almeno quello nominale, scende nel complesso, tra i giovani non si vede neppure uno spiraglietto. Così finisce che un giorno sì e l’altro pure ci scappa qualche titolone, una volta sui 100mila giovani che ogni anno lasciano il Paese, l’altra, proprio ieri, sulla scoperta che il 67,3% dei concittadini tra i 18 e i 34 anni campa a casa con mamma e papà.

C’è solo da sperare che non aggiunga la beffa al danno qualche dotto, come Elsa Fornero o il compianto Padoa-Schioppa, sentenziando che i fanciulli sono «troppo choosy» e forse decisamente «bamboccioni». Non sarà antipatia generazionale, figurarsi, ma solo incapacità e solerzia nell’avvantaggiare chi di vantaggi già ne conta a mazzi, come le aziende o le banche, e se di mezzo ci vanno «i ragazzi» è solo per effetto collaterale. Non che siano peccati veniali, però. Il riflesso si coglie con precisione millimetrica nei sondaggi sul referendum. La riforma del giovanilista va fortissimo tra gli over 65, precipita nella fascia mediana, cola a picco tra i giovani, che le meraviglie del renzismo le sperimentano ogni giorno e si fidano dei Tg addomesticati un po’ meno dei nonni.

Sbirciando la legge di bilancio, pardon le slides sulla medesima perché la legge rimane fantasmatica e vai a sapere cosa ci sarà scritto davvero, sorge tuttavia il dubbio che almeno in quest’ultimo passaggio un po’ di consapevole malignità ci sia stata. La manovra, lo sanno tutti tranne Padoan e lo scrivono persino i giornali ridotti spesso a fanzines di palazzo Chigi, è una specie di befana anticipata.

I pacchetti sono piccoli, è vero, ma in compenso sono tanti.

Il materiale non è eccelso, i doni si scasseranno presto rivelandosi mezze fregature o peggio, ma intanto regaleranno un attimo di gioia a molti giusto in tempo per spingerli a votare come conviene.

Eppure in tanta abbondanza i soliti giovani sono rimasti con in mano il classico carbone. Per loro non c’è neppure l’illusione di un miglioramento. Giusto la conferma di quel bonus cultura di 500 euro per i diciottenni che solo a nominarlo viene da ridere, o da piangere.

In un recente consiglio dei ministri Matteo Renzi l’ha spiattellata chiara: «Il voto di sinistra è perso, bisogna conquistare quello di destra». Vuoi vedere che si è anche detto: «Il voto dei giovani, con le mazzate che gli abbiamo dato, è perso. Meglio rinsaldare il consenso nelle fasce dove andiamo forte».

E se qualcuno trova strano che il futuro disegnato da Renzi piaccia solo a chi ha più passato che futuro, sarà pure giovane ma resta gufo.

Coltiva la memoria

Umberto Eco: “Caro nipote, studia a memoria”

Il semiologo e scrittore scrive al nipotino. Con una riflessione sulla tecnologia e un consiglio per il futuro: mandare a mente ‘La vispa Teresa’, ma anche la formazione della Roma o i nomi dei domestici dei tre moschettieri. Perché Internet non può sostituirsi alla conoscenza né il computer al nostro cervello

di Umberto Eco – espresso.repubblica.it, 03 gennaio 2014
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Umberto Eco: Caro nipote, studia a memoria

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Caro nipotino mio,

non vorrei che questa lettera natalizia suonasse troppo deamicisiana, ed esibisse consigli circa l’amore per i nostri simili, per la patria, per il mondo, e cose del genere. Non vi daresti ascolto e, al momento di metterla in pratica (tu adulto e io trapassato) il sistema di valori sarà così cambiato che probabilmente le mie raccomandazioni risulterebbero datate.

Quindi vorrei soffermarmi su una sola raccomandazione, che sarai in grado di mettere in pratica anche ora, mentre navighi sul tuo iPad, né commetterò l’errore di sconsigliartelo, non tanto perché sembrerei un nonno barbogio ma perché lo faccio anch’io. Al massimo posso raccomandarti, se per caso capiti sulle centinaia di siti porno che mostrano il rapporto tra due esseri umani, o tra un essere umano e un animale, in mille modi, cerca di non credere che il sesso sia quello, tra l’altro abbastanza monotono, perché si tratta di una messa in scena per costringerti a non uscire di casa e guardare le vere ragazze. Parto dal principio che tu sia eterosessuale, altrimenti adatta le mie raccomandazioni al tuo caso: ma guarda le ragazze, a scuola o dove vai a giocare, perché sono meglio quelle vere che quelle televisive e un giorno ti daranno soddisfazioni maggiori di quelle on line. Credi a chi ha più esperienza di te (e se avessi guardato solo il sesso al computer tuo padre non sarebbe mai nato, e tu chissà dove saresti, anzi non saresti per nulla).

Ma non è di questo che volevo parlarti, bensì di una malattia che ha colpito la tua generazione e persino quella dei ragazzi più grandi di te, che magari vanno già all’Università: la perdita della memoria.
È vero che se ti viene il desiderio di sapere chi fosse Carlo Magno o dove stia Kuala Lumpur non hai che da premere qualche tasto e Internet te lo dice subito. Fallo quando serve, ma dopo che lo hai fatto cerca di ricordare quanto ti è stato detto per non essere obbligato a cercarlo una seconda volta se per caso te ne venisse il bisogno impellente, magari per una ricerca a scuola. Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa. Sarebbe un poco come se, avendo imparato che per andare da via Tale a via Talaltra, ci sono l’autobus o il metro che ti permettono di spostarti senza fatica (il che è comodissimo e fallo pure ogni volta che hai fretta) tu pensi che così non hai più bisogno di camminare. Ma se non cammini abbastanza diventi poi “diversamente abile”, come si dice oggi per indicare chi è costretto a muoversi in carrozzella. Va bene, lo so che fai dello sport e quindi sai muovere il tuo corpo, ma torniamo al tuo cervello.La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria.Quindi ecco la mia dieta. Ogni mattina impara qualche verso, una breve poesia, o come hanno fatto fare a noi, “La Cavallina Storna” o “Il sabato del villaggio”. E magari fai a gara con gli amici per sapere chi ricorda meglio. Se non piace la poesia fallo con le formazioni dei calciatori, ma attento che non devi solo sapere chi sono i giocatori della Roma di oggi, ma anche quelli di altre squadre, e magari di squadre del passato (figurati che io ricordo la formazione del Torino quando il loro aereo si era schiantato a Superga con tutti i giocatori a bordo: Bacigalupo, Ballarin, Maroso eccetera). Fai gare di memoria, magari sui libri che hai letto (chi era a bordo della Hispaniola alla ricerca dell’isola del tesoro? Lord Trelawney, il capitano Smollet, il dottor Livesey, Long John Silver, Jim…) Vedi se i tuoi amici ricorderanno chi erano i domestici dei tre moschettieri e di D’Artagnan (Grimaud, Bazin, Mousqueton e Planchet)… E se non vorrai leggere “I tre moschettieri” (e non sai che cosa avrai perso) fallo, che so, con una delle storie che hai letto.

Sembra un gioco (ed è un gioco) ma vedrai come la tua testa si popolerà di personaggi, storie, ricordi di ogni tipo. Ti sarai chiesto perché i computer si chiamavano un tempo cervelli elettronici: è perché sono stati concepiti sul modello del tuo (del nostro) cervello, ma il nostro cervello ha più connessioni di un computer, è una specie di computer che ti porti dietro e che cresce e s’irrobustisce con l’esercizio, mentre il computer che hai sul tavolo più lo usi e più perde velocità e dopo qualche anno lo devi cambiare. Invece il tuo cervello può oggi durare sino a novant’anni e a novant’anni (se lo avrai tenuto in esercizio) ricorderà più cose di quelle che ricordi adesso. E gratis.C’è poi la memoria storica, quella che non riguarda i fatti della tua vita o le cose che hai letto, ma quello che è accaduto prima che tu nascessi.

Oggi se vai al cinema devi entrare a un’ora fissa, quando il film incomincia, e appena incomincia qualcuno ti prende per così dire per mano e ti dice cosa succede. Ai miei tempi si poteva entrare al cinema a ogni momento, voglio dire anche a metà dello spettacolo, si arrivava mentre stavano succedendo alcune cose e si cercava di capire che cosa era accaduto prima (poi, quando il film ricominciava dall’inizio, si vedeva se si era capito tutto bene – a parte il fatto che se il film ci era piaciuto si poteva restare e rivedere anche quello che si era già visto). Ecco, la vita è come un film dei tempi miei. Noi entriamo nella vita quando molte cose sono già successe, da centinaia di migliaia di anni, ed è importante apprendere quello che è accaduto prima che noi nascessimo; serve per capire meglio perché oggi succedono molte cose nuove.

Ora la scuola (oltre alle tue letture personali) dovrebbe insegnarti a memorizzare quello che è accaduto prima della tua nascita, ma si vede che non lo fa bene, perché varie inchieste ci dicono che i ragazzi di oggi, anche quelli grandi che vanno già all’Università, se sono nati per caso nel 1990 non sanno (e forse non vogliono sapere) che cosa era accaduto nel 1980 (e non parliamo di quello che è accaduto cinquant’anni fa). Ci dicono le statistiche che se chiedi ad alcuni chi era Aldo Moro rispondono che era il capo delle Brigate Rosse – e invece è stato ucciso dalle Brigate Rosse.

Non parliamo delle Brigate Rosse, rimangono qualcosa di misterioso per molti, eppure erano il presente poco più di trent’anni fa. Io sono nato nel 1932, dieci anni dopo l’ascesa al potere del fascismo ma sapevo persino chi era il primo ministro ai tempi dalla Marcia su Roma (che cos’è?). Forse la scuola fascista me lo aveva insegnato per spiegarmi come era stupido e cattivo quel ministro (“l’imbelle Facta”) che i fascisti avevano sostituito. Va bene, ma almeno lo sapevo. E poi, scuola a parte, un ragazzo d’oggi non sa chi erano le attrici del cinema di venti anni fa mentre io sapevo chi era Francesca Bertini, che recitava nei film muti venti anni prima della mia nascita. Forse perché sfogliavo vecchie riviste ammassate nello sgabuzzino di casa nostra, ma appunto ti invito a sfogliare anche vecchie riviste perché è un modo di imparare che cosa accadeva prima che tu nascessi.

Ma perché è così importante sapere che cosa è accaduto prima? Perché molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi e in ogni caso, come per le formazioni dei calciatori, è un modo di arricchire la nostra memoria.

Bada bene che questo non lo puoi fare solo su libri e riviste, lo si fa benissimo anche su Internet. Che è da usare non solo per chattare con i tuoi amici ma anche per chattare (per così dire) con la storia del mondo. Chi erano gli ittiti? E i camisardi? E come si chiamavano le tre caravelle di Colombo? Quando sono scomparsi i dinosauri? L’arca di Noè poteva avere un timone? Come si chiamava l’antenato del bue? Esistevano più tigri cent’anni fa di oggi? Cos’era l’impero del Mali? E chi invece parlava dell’Impero del Male? Chi è stato il secondo papa della storia? Quando è apparso Topolino?

Potrei continuare all’infinito, e sarebbero tutte belle avventure di ricerca. E tutto da ricordare. Verrà il giorno in cui sarai anziano e ti sentirai come se avessi vissuto mille vite, perché sarà come se tu fossi stato presente alla battaglia di Waterloo, avessi assistito all’assassinio di Giulio Cesare e fossi a poca distanza dal luogo in cui Bertoldo il Nero, mescolando sostanze in un mortaio per trovare il modo di fabbricare l’oro, ha scoperto per sbaglio la polvere da sparo, ed è saltato in aria (e ben gli stava). Altri tuoi amici, che non avranno coltivato la loro memoria, avranno vissuto invece una sola vita, la loro, che dovrebbe essere stata assai malinconica e povera di grandi emozioni.

Coltiva la memoria, dunque, e da domani impara a memoria “La Vispa Teresa”.

Noi non siamo la Generazione Bataclan

segnalato da Barbara G.

di Andrea Coccia – linkiesta.it, 27/11/2015

Lunedì 16 novembre, il quotidiano Libération è uscito, come tutti, con una prima pagina dedicata alle stragi di Parigi della notte del 13 novembre. Questa:

Il titolo è “Generation Bataclan”. Nella foto, a tutta pagina, ci sono ragazzi, all’incirca della mia età, tra il 25 e i 35 anni. La generazione Bataclan, per l’appunto, descritta nel catenaccio come «giovane, festaiola, aperta e cosmopolita», un’etichetta che poi è rimbalzata dappertutto, dalle prime pagine di molti giornali, passando per le mille trasmissioni televisive dedicate alla tragedia, fino a permeare il discorso della mattina del 27 novembre, pronunciato all’Hotel des Invalides da monsieur le President, François Hollande. Un’etichetta che fa ridere.

Ho 32 anni, ne farò 33 tra poco. Come quasi tutti i miei amici, come quasi tutti i miei colleghi, come quasi tutte le persone che frequento, ci finisco in pieno in quella etichetta. Come tutti loro ero piccolo — come ha ricordato Hollande — quando è caduto il muro di Berlino. Insieme a tutti gli altri diventavo maggiorenne quando cadevano le torri gemelle a New York, o quando al G8 Genova marciavo — con terrore — davanti a polizia e carabinieri che battevano i passi e i manganelli contro gli scudi.

Avevo vent’anni quando andai a Parigi dormendo in palestre di quelle stesse banlieue di Parigi — dove altri nostri coetanei venivano emarginati e dimenticati mentre imparavano a sparare davanti alla Playstation — per andare a sentire i discorsi di qualche contadino coi baffoni al World Social Forum.

Avevo la stessa età quando gridavo per le strade di Roma — insieme a tutti gli altri — che la guerra in Iraq, a dispetto del parere di qualche vecchia giornalista incattivita dalla malattia, avrebbe portato solo guai.

Ho 32 anni, ne farò 33 tra poco. Ho fatto l’Erasmus, parlo tre lingue e ho amici in ognuna delle città in cui negli ultimi 15 giorni ci sono stati attentati. Avevo a chi scrivere a Beirut, come a Parigi, come a Bamako.

Come loro, come tantissimi dei miei coetanei che voi chiamate Generazione Bataclan e che oggi indentificate come le vittime del terrorismo, sono vittima della società che ci state lasciando in eredità. Ho un presente precario e avrò una vecchiaia infernale, senza pensione e con una società ingiusta e a brandelli.

Ho tanti amici di quella che chiamate Generazione Bataclan che hanno rischiato di essere coinvolti in questa fottutissima guerra in molte parti del mondo, al concerto degli Eagles of the death metal ci sarei potuto essere anch’io, come avrei potuto essere tranquillamente al Carillon, come spesso è accaduto.

Eppure quando sento Generazione Bataclan, a me viene da ridere. Perché? Perché noi non siamo la generazione che si è svegliata il 13 novembre dal bel sogno della felicità perpetua e delle birrette il venerdì sera. Noi siamo la generazione che vi aveva avvertiti 15 anni fa. E all’epoca non ci avete solo ignorato, ci avete irriso, a volte ci avete persino sparato, picchiato e terrorizzato.

«Monsieur le President», cantava nel 1954 quel campione di Boris Vian, «C’est pas pour vous fâcher il faut que je vous dise, ma décision est prise: je m’en vais déserter». Se volete fare di questa inutile e idiota follia una guerra civile globale, la guerra in nome della Generation Bataclan, allora la mia decisione è presa: io diserto.

La rivolta dell’islam e il fascino della violenza

Moschea di Parigi

Guido Caldiron intervista Vincent Geisser, presidente dell’Istituto di ricerca sul mondo arabo e islamico di Marsiglia

da il manifesto – 18 novembre 2015

Presidente dell’Istituto di ricerche e studi sul mondo arabo e musulmano dell’Università di Marsiglia e politologo del Cnrs di Parigi, Vincent Geisser è uno dei massimi conoscitori dell’Islam francese, cui ha dedicato numerosi studi, tra cui, Ethnicité républicaine, La Nouvelle islamophobieMarianne & Allah.

Con 6 milioni di fedeli, la Francia è uno dei paesi europei dove la presenza musulmana è più forte. Quale è stato l’effetto della strage di Parigi su questa vasta comunità?
Bisogna fare una premessa necessaria: i terroristi hanno scelto di colpire la Francia perché sperano che le loro azioni favoriscano un ulteriore sviluppo dell’islamofobia, una stigmatizzazione dell’intera comunità musulmana che li aiuti nell’opera di reclutamento. Detto questo, all’interno della comunità molto diversificata dei francesi di fede islamica, visto che vi convivono molti modi diversi di praticare la fede, mi sembra si possano cogliere due conseguenze immediate di quanto accaduto. Da un lato emerge la sensazione di sentirsi degli “osservati speciali», guardati con sospetto e, talvolta, assimilati tout cuort a degli jihadisti. Dall’altro, con il passare dei giorni sta però crescendo anche una mobilitazione per molti versi inedita: di fronte a quegli atti sanguinari è come se si stesse assistendo ad una sorta di rivolta morale proprio di quanti non accettano che i loro sentimenti religiosi siano così barbaramente associati alla violenza. I rappresentanti di associazioni, moschee, centri culturali stanno prendendo la parola in questi giorni per affermare il loro disgusto per il terrorismo proprio in quanto musulmani. A questo si aggiunge una forte rivendicazione di appartenenza alla Francia, ai suoi valori, perfino ai suoi simboli, a cominciare della bandiera. È qualcosa che si rende particolarmente visibile sui social network dove in molti hanno subito messo il tricolore sul loro profilo Facebook. In questi termini e in queste proporzioni mi sembra un fenomeno del tutto nuovo.

Dopo l’attacco a Charlie Hebdo e al supermercato kasher non si era visto nulla di simile. Lo Stato islamico ha forse commesso un errore nella sua strategia?
Sembra proprio di sì. Questa volta l’orrore allo stato puro si è imposto su qualunque esitazione o timidezza nella reazione. Molti musulmani avevano comunque condannato anche le stragi di gennaio, ma è certo che Charlie Hebdo era un simbolo controverso, divisivo, con cui molti fedeli faticavano a riconoscersi. Ora è diverso, tutti sono stati colpiti, tutti sono ugualmente vittime e il bagno di sangue a cui si è assistito ha prodotto una presa di coscienza collettiva, non ci sono state le manifestazioni di massa di allora, ma nessuno può più pensare che quanto accaduto non lo riguardi. Oggi i musulmani sono in prima linea contro il terrorismo.

Le biografie degli attentatori di Parigi, come già successo in passato, ci dicono che però anche i terroristi rivendicano la propria matrice islamica: che ruolo gioca la religione nel loro percorso?
Malgrado sia in nome della fede che dichiarano di passare all’azione, in realtà è la fascinazione per la violenza che sembra muoverli davvero. Dei militari francesi impiegati in Afghanistan mi spiegavano che secondo loro la vera religione di questi giovani europei che un tempo partivano per partecipare alla jihad a Kabul e oggi fanno lo stesso in Siria, non è l’Islam, ma la violenza. In alcuni casi si tratta di piccoli delinquenti che ad un certo punto vestono i panni dei «combattenti della fede», in altri di giovani incensurati ma in cui è forte e preponderante il desiderio di affermare se stessi attraverso il ricorso a dei metodi violenti. In questo senso, la loro alfabetizzazione religiosa è spesso molto superficiale e dopo un breve passaggio per le moschee o i centri culturali musulmani, si svolge prevalentemente a casa, attraverso la rete, o in piccoli gruppi che si riuniscono privatamente. Molti Imam dicono che la vera radicalizzazione non avviene mentre quei giovani frequentano ancora le moschee, ma quando smettono di andarci e iniziano a cercare messaggi più aggressivi: quello è il momento in cui si deve iniziare a preoccuparsi. E in cui entrano in gioco i reclutatori dei gruppi terroristi. Alla fine di questo percorso si sceglie di andare a combattere in Siria non solo per difendere il sedicente Stato islamico, ma anche per vivere un’avventura, per provare il brivido seducente del combattimento.

La strage di Parigi avviene a dieci anni esatti dalla grande rivolta delle banlieue: la deriva sanguinaria dei giovani jihadisti è anche frutto della sconfitta di quella stagione?
È difficile stabilire un qualche parallelo tra spinte che puntavano alla trasformazione della società e quelle che inseguono invece la sua completa distruzione. Nel 2005 i giovani delle banlieue bruciavano le macchine per farsi sentire, non certo le persone. Piuttosto, accanto all’indagine sulla radicalizzazione in termini religiosi di una fetta dei giovani delle classi popolari europee, bisognerebbe cominciare ad indagare il ruolo che forme di violenza sempre più distruttiva hanno assunto nei loro processi di socializzazione. Da questo punto di vista, non mi convincono le tesi sociologiche che attribuiscono all’islamismo radicale la patente di ideologia, per quanto disperata, degli “ultimi”. Qui è piuttosto con dei percorsi di autodistruzione che abbiamo a che fare.

fonte: http://ilmanifesto.info/lislamologo-geisser-finalmente-musulmani-in-rivolta/

Lavorare a Ferragosto?

Giovani: lavorare a Ferragosto? Meglio godersi le vacanze

Alcune notizie apparse sui giornali di agosto inducono perplessità. Operai occupati che si rifiutano di fare straordinari il giorno di Ferragosto; giovani disoccupati che accetterebbero un lavoro a patto che abbia inizio a settembre, perché “prima vogliono farsi le vacanze”.

Avevano ragione allora tutti coloro, Fornero in primis, che hanno accusato i giovani italiani di essere fannulloni, viziati, abituati a lavorare se e quando e come fa comodo a loro?

No, non credo che sia così semplice. Nel caso degli operai occupati, la motivazione del rifiuto è stata rigorosamente e solidalmente sindacale: con gli straordinari si aumenta la produzione ma non si crea nuova occupazione. Se davvero la ripresa è cominciata e la domanda è in crescita, fate – voi padroni – nuove assunzioni. Posizione che a molti potrà non piacere, ma che ha un senso incontrovertibile.

Ma i ragazzi disoccupati che rifiutano di lavorare d’estate?

Se c’è una cosa che la crisi ha trasformato, è certamente – e in primissimo luogo – il lavoro. È stata predicata e imposta la trasformazione del lavoro. Ricordiamo tutti le dotte disquisizioni sulla necessità della flessibilità, sull’opportunità di cambiare spesso lavoro, addirittura sulla ricchezza di opportunità e sul fascino che il cambiamento occupazionale come sistema di vita offriva. Ci sono voluti alcuni anni e molto dolore perché fosse chiaro che non di flessibilità si trattava, ma di pura e semplice precarietà occupazionale di lavoratori sempre meno tutelati dalla legge nei loro diritti. Oggi, con una sorta di macabro umorismo, tutto questo è sancito per legge con il nome di “contratti a tempo indeterminato”.

Di fronte a questa situazione, è moralistico, se non addirittura stupido, pensare che l’unica cosa che non sia cambiata sia, soprattutto per i giovani, la concezione del lavoro, il modo di concepirlo e valorizzarlo. A fronte della precarietà strutturale, si pretenderebbe che i giovani amassero ancora il loro lavoro e si identificassero con esso come ai tempi in cui studio e lavoro erano duri ma efficienti ascensori sociali. E, comunque, essere un lavoratore significava avere, oltre il salario e una relativa sicurezza esistenziale, dignità, rispetto, considerazione, una rete di relazioni solidali, un posto nella società. La possibilità di pensare a costruirsi un futuro.

Oggi, ci si può identificare con un lavoro che puoi perdere tra sei mesi? Ci si può appassionare ad un’attività che tra un anno non sarà più tua? Ci si può impegnare a fare meglio un compito che può esserti tolto da un momento all’altro? O, paradossalmente, non è più saggio dirsi: “intanto posso andare in vacanza e ci vado e me la godo; poi…si vedrà”. Forse non è più saggio, ma sicuramente è una scelta migliore dal punto di vista dell’igiene mentale. Non fa bene a nessuno investire sistematicamente su scelte irrealizzabili e andare incontro, altrettanto sistematicamente, a cocenti delusioni.

Non voglio sostenere che questa sia attualmente la condizione di tutti i giovani – maschi e femmine – oggi in Italia. Ma dobbiamo riconoscere che non è possibile contare gli ottimisti, i fiduciosi, gli intraprendenti, anche perché chi intraprende oggi, ha non poche probabilità di ritrovarsi deluso domani. Le ricerche sociali dimostrano quanto sia grande, per un giovane esordiente nel mercato del lavoro, il peso del supporto familiare e delle relazioni sociali per fare una buona riuscita (oggi si dice: avere successo) nella società della precarietà. Ma qual è la percentuale di giovani italiani le cui famiglie hanno soldi, conoscenze, legami politici e sociali con chi conta e le informazioni utili per fare le scelte giuste? Tutti gli altri -sto parlando sempre per paradossi – forse fanno meglio a godersi le vacanze, finché possono.

E i neoliberisti, come tanti scriteriati apprendisti stregoni con l’intento di migliorare la società mettendo in moto meccanismi che la peggiorano tragicamente, farebbero meglio a prendersela con se stessi.

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http://www.repubblica.it/economia/2015/08/12/news/electrolux_lavoro_ferragosto-120859308/?ref=HREC1-3

Il Sistema Alimentare è criminale

segnalato da Ciarli P.

Passaparola: Il Sistema Alimentare è criminale, di Carlo Petrini #TTIP

www.beppegrillo.it, 20 aprile 2015

I prodotti alimentari italiani sono sottoposti a controlli rigorosi a garanzia della qualità del prodotto finale e della salute del consumatore. Grazie alla rigidità dei controlli e al duro lavoro dei piccoli allevatori, agricoltori e pescatori italiani, il cibo del nostro Paese è considerato un’eccellenza in tutto il mondo. Una delle poche che ci sono rimaste, ma che perderemo non appena sarà approvato il TTIP, un trattato che permetterà l’ingresso nelle nostre tavole di prodotti dagli USA con standard qualitativi e prezzi inferiori ai nostri. Con l’avanzare della crisi i consumatori abbasseranno le loro pretese e acquisteranno polli al cloro, carne bovina e suina cresciuta e pasciuta a ormoni, frutta e verdura con pesticidi. La loro salute ne risentirà, contadini, allevatori, pescatori chiuderanno baracca e del “Food Made in Italy” non resterà che uno sbiadito ricordo. Non possiamo permettere questo crimine contro la salute! Il mio amico Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, racconta come ognuno di noi, sostenendo i piccoli imprenditori italiani del cibo con la propria scelta di acquisto, possa far saltare in aria il Sistema Alimentare Criminale.

Blog  Che cosa è Slow Food?

Carlo Petrini – Slow food è un movimento internazionale che si occupa di cultura alimentare e di lavoro di informazione, educazione, non solo al cibo, ma anche verso l’agricoltura, la pesca, tutte quelle attività che garantiscono il cibo quotidiano.

Petrini durante l’intervista: “Fare un orto è un atto politico”

Blog Slow Food si presenta a Expo con questo claim: “SALVA LA BIODIVERSITA’. SALVA IL PIANETA”. Ci può spiegare perché la biodiversità è un valore così importante?

Carlo Petrini – La biodiversità è la vera forza creatrice della sapienza umana, quindi dobbiamo rispettarla, se noi continuiamo con questo modello alimentare, con questo sistema alimentare criminale, che distrugge la biodiversità in virtù del fatto che bisogna privilegiare razze forti, più produttive perché si pensa solo al profitto e mai alla Terra Madre, alla natura, noi consegneremo alle future generazioni un patrimonio genetico molto, ma molto più povero.

Blog Parliamo del TTIP: lei ha più volte manifestato la sua preoccupazione per gli effetti che avrà sull’industria alimentare europea. Perché c’è tanta pressione affinché sia confermato in tempi brevi? Chi ci guadagna dal TTIP? Chi ci perde? Quali sono gli effetti nel lungo periodo per l’Italia? Per i consumatori? E per gli equilibri del pianeta? 

Carlo Petrini – Penso che è un atteggiamento disonesto e non corretto realizzare questi trattati nella più assoluta segretezza senza coinvolgere le comunità e quando si fanno le cose segrete in genere le fanno i disonesti! Non bisogna permettere che questi trattati si svolgano sulla pelle di milioni di contadini e di pescatori e di produttori che in ogni angolo del pianeta stanno lavorando e devono essere tutelati e hanno davanti un feticcio che si chiama libero mercato che libero non lo è e che spesso e volentieri distrugge la vita di queste comunità. Se in virtù del libero mercato faccio entrare prodotti a base di carne, allevata con criteri non così rigorosi come quelli che sono tenuti a applicare i nostri allevatori, prodotti fitofarmaci, antibiotici, anabolizzanti, ormoni per la crescita: tutte queste cose, vietate in Italia e in Europa, non sono vietate negli Stati Uniti.
Io faccio un’ingiustizia nei confronti dei nostri allevatori, la legge deve essere uguale per tutti. Noi cittadini possiamo diventare coproduttori perché le nostre scelte possono determinare delle scelte agricole, se mangio prodotti provenienti da un’agricoltura locale di piccola scala, che non utilizza pesticidi, pulita, aiuto quel tipo di agricoltura lì. Se io mangio e compro prodotti di multinazionali che arrivano magari da altre parti del mondo senza le regole che debbono seguire i nostri produttori, magari ottenuti attraverso forme di schiavismo della manodopera, aiuto quel tipo di agricoltura. La sovranità alimentare si coniuga attraverso un rapporto forte tra cittadini e produttori dello stesso Paese.

Petrini durante l’intervista: “Senza contadini Expo è costruita sulla sabbia”

Blog Durante l’evento “Expo per le idee” lei ha affermato: “Senza la partecipazione a Expo di pescatori, allevatori, agricoltori l’esposizione universale sarà costruita sulla sabbia”. Ci spiega che cosa intende con questa riflessione?

Carlo Petrini – Senza la presenza dei contadini, dei pescatori a Expo, l’esposizione è costruita sulla sabbia, cosa intendo dire? Intendo dire che i veri protagonisti di queste tematiche sono loro, e pensare a un Expo solo come una grande opportunità per turisti anonimi da ogni parte del mondo che portano risorse e ricchezza al sistema milanese, sì è giusto, ma non è il senso profondo del significato di questa Expo. Perché questa Expo era chiamata a diventare un luogo di discussione delle tematiche del cibo e anche di cambiamenti di alcuni paradigmi in grado di mutare questo sistema alimentare ingiusto. Noi abbiamo uno spreco alimentare di proporzioni bibliche, è per questo che io amo dire che questo sistema alimentare è criminale, perché fa convivere lo spreco con la morte per fame, basterebbe questo per dire che è sufficiente.

Blog – Quale è la sua opinione in merito ai lavori di costruzione dei padiglioni Expo? Lei ritiene che siano stati pensati e realizzati nel rispetto dell’ambiente? Si poteva fare diversamente? 

Carlo Petrini – Quando ho creduto nella fase iniziale, nelle potenzialità di questo Expo, lo immaginavo impostato in maniera tale che il focus principale potesse essere una grande opportunità di discussione planetaria sui destini dell’alimentazione. Purtroppo devo prendere atto che sarà in minima parte, non tutto, però avrebbe potuto essere molto di più da questo punto di vista. Ma un’altra delle questioni, così come l’avevo concepita io, era che avrebbe dovuto avere un suo disegno, una sua logica per cui alla fine dell’evento i terreni tornavano a essere terreni agricoli. Quale più grande messaggio che riconsegnare quello spazio all’agricoltura? Purtroppo questo non è passato e non sto lì a aprire il capitolo non solo dell’incongruenza di queste cose, ma anche di atteggiamenti di vero e proprio ladrocinio.

Petrini durante l’intervista: “Questo sistema alimentare è criminale perché fa convivere lo spreco con la morte per fame”

Blog – Anche McDonald’s e Coca Cola saranno presenti a Expo per “nutrire il pianeta”. Qual è la sua opinione in merito? Non teme di essere criticato per la scelta di partecipare nonostante la presenza di questi grandi colossi?

Carlo Petrini – Le dico cosa mi ha detto un contadino marocchino della rete di Terra madre: “Le sedie vuote non hanno mai contribuito a far cambiare le cose“. Non lascio la sedia vuota per non parlare delle nostre tematiche. Siamo vittime di ore e ore di pubblicità dove non ha accesso a questa pubblicità il piccolo contadino del territorio, il piccolo produttore che produce il miele, che produce i formaggi, questi non hanno accesso. Noi dobbiamo fare il modo che attraverso i mercati contadini, la ricostruzione degli orti, gli orti nelle scuole, nei villaggi, negli ospedali, nelle case di riposo perché quello è un atto politico, fare un orto oggi è un atto politico, altissimo!
Vorrei che queste idee all’Expo ci fossero e ci impegneremo a farle sentire. In più la rete giovani di Slow Food ha fatto questa grande scommessa: una moltitudine di giovani che arrivano da ogni angolo del pianeta e anche attraverso un rapporto anche di intelligenza affettiva, empatica, saprà essere un potenziale straordinario, quella è la più grande multinazionale virtuosa del cibo.
Agli amici del Blog del mio amico Beppe Grillo, vi chiedo Passate Parola, passate parola di Terra Madre Giovani e diamo una mano perché questi giovani, specialmente quelli che arrivano dai Paesi africani del sud del mondo possano avere il diritto al viaggio come ce lo abbiamo tutti noi.

Oltre all’intervista integrale a Carlo Petrini ti proponiamo alcune video-pillole sintetiche che approfondiscono tematiche specifiche:

VIDEO: Che cosa è Slow Food?
VIDEO: Biodiversità: perché è un valore così importante?
VIDEO: Industria alimentare criminale: l’Italia è pronta a cambiare?
VIDEO: Cementificazione Expo, l’opinione di Petrini

ARTICOLO: Cibi senza controllo sulle nostre tavole grazie al #TTIP
ARTICOLO: Il pollo al cloro #TTIP

 

La Resistenza, il partigiano, i giovani.

segnalato da n.c.60

un filo rosso

Ieri sera, capitato per caso su Ballarò, ho visto e sentito una delle più belle testimonianze della Resistenza e, poco dopo, una delle più amare e tristi conferme di come non si sia stati capaci di mantenerne col ricordo l’eredità culturale e civile e di curarne il patrimonio di coraggio, passione, amor patrio. Settant’anni di ministri dell’istruzione e della scuola che non hanno mai fatto nulla per esaltare le pagine della Resistenza, belle quanto quelle del Risorgimento, settant’anni in cui sono state quasi nascoste, disperdendo colpevolmente un capitale di orgoglio nazionale e senso civile.

Giannini ha presentato in apertura il partigiano Umberto Lorenzoni, 89 anni, nome di battaglia Eros, da Nervesa della Battaglia, che ha raccontato come e perchè decise di combattere e l’episodio in cui fu ferito. Dopo di che è andato in onda un servizio di Eva Giovannini che ha intervistato alcuni giovani di Roma e Livorno. La…

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Coccoloni, alias Bamboccioni

10-01-1821

 

Ecco i Coccoloni, bamboccioni tedeschi che vogliono famiglia e posto fisso

Nel Paese della piena occupazione, i ragazzi lasciano casa sempre più tardi.

da La Stampa (21/08/2014) – di Tonia Mastrobuoni (inviata a Berlino)

I bamboccioni fenomeno italiano, figlio del mammismo e della scarsa propensione a lavarsi il bucato da soli? Neanche per sogno. La ricca e potente Germania, paradiso della piena occupazione, dove chi perde un lavoro ne trova un altro in mezz’ora, ha scoperto di aver tirato su una generazione di «coccoloni».

Così li ha descritti l’«Handelsblatt», citando alcuni studi che dimostrano la scarsa propensione al rischio degli under 25. La generazione di tedeschi che sta uscendo ora dall’Università erediterà anche il più grande patrimonio della storia da genitori e nonni. Eppure, invece di lanciarsi nella mischia, manifesta una fortissima preferenza per il posto fisso.

Ma come, si obietterà, giovani senza l’incubo della disoccupazione e con le spalle coperte da montagne di ricchezze che non hanno coraggio di osare? Proprio così. Il motivo è semplice: è la generazione cresciuta con la più grave crisi di sempre, ha visto genitori e nonni prepensionati o licenziati e ne ha tratto l’unica lezione possibile.

Carriera, soldi, ambizione? Nein danke: meglio il posto fisso, magari nel pubblico, e la possibilità di fondare una famiglia. L’istituto Rheingold, che ha redatto uno degli studi sui «bamboccioni» tedeschi, la chiama «generazione Biedermeier», giovani già vecchi.

La società di consulenza EY (ex Ernst & Young) ha scoperto che tre studenti tedeschi su dieci sognano un posto da statali, e che «sicurezza» è il criterio più importante, nella scelta di un lavoro. Scende il numero di coloro che scelgono un soggiorno all’estero, mentre cresce quello di chi fa un mutuo – comprare casa non è mai stata una tradizione, in Germania, lo è diventata con il costo del denaro in cantina e gli tsunami finanziari.

Soprattutto, sale la propensione a restare a casa dei genitori: le donne vanno via in media a 22 anni, gli uomini a 26 – quattro anni più tardi rispetto a dieci anni fa. «Mai essere giovani è stato così comodo e privo di rischi – commenta Handelsblatt – Eppure: era molto tempo che non si osservava una generazione così preoccupata del posto sicuro come quella attuale».

Secondo l’istituto Rheingold, la «Generazione Biedermeier» costantemente alla ricerca di un contesto sicuro, è figlia di «un ragionamento logico, che i giovani hanno fatto in base alla propria esperienza: hanno osservato i genitori che faticavano per fare carriera e poi venivano comunque prepensionati prima dei sessant’anni. La nostalgia di sicurezza è anche qualcosa di tipico di tutte le generazioni: una reazione».

La tesi è che chi è cresciuto con il crollo delle Torri gemelle, le crisi finanziarie mondiali, il rischio della fine dell’euro, dunque in un contesto di incertezza assoluta, ha altre priorità rispetto a chi è cresciuto nel «piccolo mondo antico» dei decenni precedenti.

Uno dei motivi del disorientamento e della voglia di «tana», insinuano gli studi, potrebbe essere anche il cursus studiorum, che in questi ultimi anni è cambiato molto. La maturità anticipata al 12° anno di scuola, la fine della leva obbligatoria e il vecchio sistema universitario quadriennale sostituito dai bachelor triennali significa che a 21 anni un tedesco medio dovrebbe già partire lancia in resta per una carriera.

I giovani, poi, fanno richieste contraddittorie: «Dicono che le imprese dovrebbero prenderli per mano, offrire orientamento, ma allo stesso tempo vogliono lavorare in autonomia e avere spazio per la creatività. Infine, vogliono essere sicuri che non perderanno il posto e che avranno tempo per la famiglia».

Per non dire altro, diciamo: molto Biedermeier.