Governo

Quando le donne sono al potere possono fare la differenza

segnalato da Barbara G.

internazionale.it, 22/11/2017

“La prima volta che ho annunciato che mi sarei candidata per il parlamento si sono messi a ridere. Poi ci ho riprovato e alla fine ce l’ho fatta”, dice Peris Tobiko, la prima donna masai diventata parlamentare in Kenya.

Quando le donne sono al potere, a livello locale o nazionale, possono fare la differenza, soprattutto su temi come la parità e la violenza di genere. Ma la loro presenza in politica è ancora insufficiente.

Secondo i dati raccolti dall’Unione interparlamentare (Ipu) in 193 parlamenti di tutto il mondo, le donne siedono solo sul 23 per cento dei seggi. Appena un ministro su cinque è donna. Nel 2017 il numero delle donne capo di stato o di governo nel mondo è sceso da 17 a 15.

Il paese con maggiore presenza femminile in parlamento è il Ruanda, dove il 61 per cento dei seggi è occupato da donne. A seguire la Bolivia con il 53 per cento di parlamentari donne e Cuba con il 49 per cento.

I leader del mondo si sono impegnati a raggiungere l’equilibrio di genere nella rappresentanza politica entro il 2030, ma si teme che i progressi fatti in questa direzione siano troppo lenti per raggiungere l’obiettivo.

Il video della Thomson Reuters Foundation.

Questo progetto è stato cofinanziato dall’European journalism centre, tramite il programma Innovation in development reporting grant.

Dammi il cinque

segnalato da Barbara G.

Governo Rosatellum

Legge elettorale. Senza maggioranza, ma con cinque fiducie. Gentiloni si salva al senato grazie ai dissidenti Pd che non affondano il colpo e ai senatori di Verdini (e alla fine arriva anche il soccorso di Calderoli). Napolitano attacca la riforma e la decisione di Renzi di strappare – “sul presidente del Consiglio pressioni fortissime” – ma invita a salvare l’esecutivo. In aula tanta tattica, proteste, gestacci e una rissa sfiorata

di Andrea Fabozzi – ilmanifesto.it, 26/10/2017

I numeri dicono che il governo Gentiloni non ha la fiducia del senato. Alle sei di ieri sera nell’ultima votazione sulla legge elettorale è sceso fino a 145 voti, ai quali vanno tolti i 13 dei verdiniani che non sono formalmente in maggioranza. Ma che nei nei momenti drammatici, come questo sul Rosatellum, scattano in soccorso. La sostanza è però un’altra: la riforma elettorale, la seconda in questa legislatura, è cosa fatta (oggi il via libera definitivo). «Siamo sicuri che possa reggere a lungo?» è la domanda che ha rivolto all’aula Giorgio Napolitano. La sua risposta evidentemente è no.

In una pausa dei lavori d’aula, il senatore Calderoli spiega di condividere la preoccupazione: «Anche di questa legge si occuperà la Corte costituzionale». Autore della prima riforma elettorale bocciata dalla Consulta – il celebre Porcellum – non ha smesso di detestare politicamente l’ex capo dello stato, ma è l’unico leghista seduto al suo posto quando Napolitano interviene. L’aula ha un raro momento di silenzio, il presidente emerito – 92 anni – parla da seduto: per lui una lampada speciale, un bicchiere d’acqua, fazzoletti e una lente d’ingrandimento. Il testo del discorso è scritto in caratteri molto grandi, le parole di critica sono molto forti ma controllate negli effetti. «Gentiloni è stato soggetto a forti pressioni, mi rammarico della decisione di porre la fiducia ma lo sostengo». Per il presidente che accompagnò Renzi durante tutte le forzature su Italicum e riforma costituzionale nessuna autocritica: il problema della «drastica compressione dei diritti e del ruolo dell’istituzione e dei singoli parlamentari» è una questione «delle ultime settimane». L’ex capo dello stato si preoccupa di non mettere in imbarazzo l’attuale, che presto dovrà promulgare la legge. Lo cita, eppure demolisce la persistenza nel Rosatellum della figura del capo della forza politica che «adombra un’elezione diretta del capo del governo». E giustamente corregge tante chiacchiere: «Non è mai stata affrontata di fronte alla Consulta l’obiezione di incostituzionalità sulla fiducia» per le leggi elettorali. Come dire: succederà.

Nel frattempo le fiducie scivolano via una dopo l’altra, grazie all’articolato sistema di protezione messo in piedi da Pd, Lega e Forza Italia. Per ogni votazione abbassano il numero legale una quarantina di senatori in congedo (malati) o in missione: la metà sono forzisti e leghisti che hanno l’alibi dei lavori della neonata commissione sulle banche, l’unica autorizzata a convocarsi anche durante le fiducie. In questo modo aiutano la maggioranza a tenere basso il numero legale che resta fissato a 143 senatori. Aiuta anche la decisione di sette senatori dissidenti Pd (Chiti, Manconi, Micheloni, Mucchetti, Ruta, Tocci e Turano), diventati nove nell’ultima votazione (con l’aggiunta di Longo e Giacobbe), di dissentire senza sabotare: sfilano sotto la presidenza segnalando la loro presenza in aula (e quindi contribuendo al numero legale) ma l’intenzione di non votare. Serve anche il definitivo approdo alla maggioranza di tre senatori ex Si e M5S (Stefano, Uras e Orellana). Ma più di tutti contribuisce la scelta dei verdiniani di votare sempre la fiducia: su 14 senatori di Ala 13 votano sì e uno è in congedo. Senza il gruppo Verdini e la «fazione Chiti» il numero legale sarebbe mancato ad ogni votazione. Salvo che nell’ultima – la quinta fiducia – quando è arrivato anche il soccorso di otto senatori leghisti e sei forzisti (tra i quali l’eterno Scilipoti) comandati in aula a votare no da Calderoli, messo in allarme dalla decisione di M5S, Sinistra italiana e Mdp di uscire dall’aula.

L’appoggio del gruppo di Verdini, politicamente assai rilevante, non si può dire che sia stato numericamente determinante per il numero legale. Le due votazioni più delicate per il governo sono state la terza e l’ultima. Alla terza votazione hanno partecipato 217 senatori, così divisi: 148 sì, 61 no, 8 presenti e non votanti di cui sette con Chiti e uno il presidente Grasso. Se i 13 verdiniani non avessero partecipato, e i 61 contrari, avendolo notato dopo la prima chiama, avessero deciso di non rispondere per tentare lo sgambetto, il numero legale si sarebbe fermato a 143 (135 più 8), cioè esattamente al minimo necessario. Dunque votazione comunque valida. Ma è un calcolo teorico, perché tra i 61 contrari ci sono alcuni senatori (uno di Fratelli d’Italia, una di Gal e uno del Pd) che non avrebbero partecipato alla tattica dell’uscita dall’aula. Al quinto voto di fiducia, invece, hanno partecipato 172 senatori, così divisi: 145 a favore, dieci presenti e non votanti (9 con Chiti e uno il presidente Grasso) e 17 contrari. Con i senatori di Ala fuori dall’aula avremmo avuto 132 voti a favore, ma comunque 159 partecipanti al voto (e dunque il numero legale) perché il gruppo Chiti non sarebbe uscito e tra i 17 contrari stavolta, oltre ai tre già citati, ci sono stati 8 leghisti e 6 di Forza Italia arrivati proprio per garantire il numero legale. In precedenza, sulle altre fiducie, grillini e sinistre hanno aspettato che il numero legale fosse raggiunto prima di scendere nell’emiciclo a votare no (con qualche senatore disattento inseguito e fisicamente bloccati dai colleghi che tenevano la conta).

A questa tattica i grillini hanno aggiunto un bel po’ del consueto colore, compresa una semi aggressione al segretario d’aula del Pd Russo in favore di telecamera (collegata in diretta con la piazza di Grillo). Diversi senatori a 5 Stelle, infatti, hanno votato coprendosi gli occhi con le mani, o addirittura bendati, o stracciando una copia della legge elettorale, o gridando contro Verdini; il senatore Giarrusso ha direttamente fatto il gesto dell’ombrello verso i banchi di Ala – al senatore D’Anna non è parso vero poter replicare con gli interessi. A quel punto Russo ha gridato «siate seri» ai grillini e i senatori Cioffi, Lucidi e Santangelo gli si sono avvicinati minacciosi (in mezzo i commessi). In precedenza gli ultimi due si erano limitati a gesti più composti, come ripetere cinque volte lo stesso discorso (visto che ai senatori non è stato concesso di fare le dichiarazioni di voto per ognuno dei cinque voti di fiducia) o slacciare il nodo della cravatta.
E più volte, nel corso della lunga giornata, i 5 Stelle hanno chiesto a Grasso di fare come Paratore, che nel 1953 si dimise da presidente del senato per la fiducia sulla legge truffa. Grasso ci ha tenuto sempre a replicare. «Ho studiato, Paratore si dimise dopo la fiducia e non per impedirla», ha detto una prima volta. E poi, più esplicito, «a volte è più duro restare per il senso delle istituzioni, e continuare nonostante il malessere». Parole chiare che resteranno a verbale, e solo lì.

Rosatellum? Tirare le cuoia tirando a campare

segnalato da Barbara G.

di Tommaso Cerno – espresso.repubblica.it, 11/10/2017 

La politica rischia di soccombere sotto i colpi di quella fiducia invocata proprio per salvare la politica stessa. Roba che farebbe rivoltare nella tomba Giulio Andreotti, perché il Pd è riuscito dove nessuno poté prima, rovesciare il celebre detto “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Qui si tirano le cuoia convinti di tirare a campare. Importa poco come sia andata a finire in Aula.

E poco le polemiche e i presidi dei giorni scorsi. Importa poco che il governo abbia tenuto o non tenuto. Ciò che importa è il graffio che lo scontro a colpi di fiducia sulla legge elettorale lascia sulla pelle della democrazia. Quello faremo fatica a coprirlo con del maquillage elettorale. Il bello è che sarebbe bastato portare la legislatura a una dignitosa conclusione.

Consegnare al Paese la bozza di riforma elettorale come il topolino partorito da una montagnola, il Monte Citorio, che altro non era in grado di partorire. Con la sobrietà di una classe dirigente che si rimette al giudizio di un Paese che non si fida di lei. No, perché nemmeno questo si può nell’Italia delle promesse a sei zeri e dei fatti a zero. È tale il convincimento che l’abuso di regole riesca dove le regole da sole non bastano, a fermare cioè l’avanzata della protesta, che la politica scafata a parole e ingenua nei fatti ci casca pure sul Rosatellum, un ghirigoro italico con nome scritto in latino. Nel solito tentativo di mascherare dietro il neutro della lingua dei Cesari, il neutro politico dell’oggi, il nostro vagare nella democrazia, il non andare né avanti, né indietro.

Ciò che colpisce non è dunque l’esito finale. Né le polemiche. È che ci siamo stupiti. Stupiti di come siamo sempre stati. È questo caos il finale giusto, capace di far deflagrare quel che resta del centrosinistra e di aiutare proprio i Cinque stelle adesso che sembravano normalizzarsi. E utile a mostrarci qui dalla terra la cometa Pisapia, che ha lampeggiato in cielo meno del tempo che si sta a pronunciarne il nome. Tutto talmente scontato da farci pensare che non sia vero. Nemmeno il Palazzo – ripetiamo dentro di noi – può essere così lontano dalla gente da non rendersi conto che è meglio perdere con le regole della democrazia, piuttosto che vincere con la forza, anzi la forte debolezza di chi esercita lo strumento della fiducia dove non andrebbe mai utilizzato: riscrivere le regole del gioco. Una scelta che presenterà alla sinistra un conto salato. E creerà un precedente inquietante, perché sfonda il guard rail della prassi parlamentare in un punto critico, quello dove il pilota Paolo Gentiloni, così distante dallo strafare di Renzi, colui che passò per essere la panacea contro populismo e rabbia, nulla può contro il più antidemocratico degli abusi: l’abuso di democrazia.

Poco importa il fatto tecnico, la fiducia usata come ariete per portare a casa qualche modifica al proporzionale uscito dalla Consulta. Quel che pesa è il vulnus politico: il Pd prova a forzare sulla legge elettorale, cioè sull’armatura esteriore che dovrebbe favorire le alleanze alle politiche 2018, perché in cuor suo sa di non essere in grado di far nascere quelle alleanze da dentro, aggregando cioè al nucleo dei democratici chi condivide – pur con dei distinguo – la natura del progetto. Ecco che come topolini, appunto, finiamo per rovistare nella Costituzione. Siamo alla ricerca di soluzioni arrangiate, il modo più sicuro per consegnare il Paese alle destre. Il Pd sembra non capire che l’algoritmo elettorale, anche se scritto meglio, si trasforma in flusso di voti e in maggioranza di governo solo se nasce dentro le regole comuni, senza sospetti, senza equivoci. Se i cittadini non provano questa sensazione, la nuova legge si rivolterà contro l’inventore come un Frankenstein. E anziché aggiustare il Consultellum e aumentare la rappresentanza, scaverà un nuovo solco fra politica e antipolitica. È l’errore più grossolano che avrà l’effetto di rafforzare Grillo e dividere ancora di più la sinistra. Perché così si spegne il nucleo già intermittente del progetto originario. Che se non è più un partito, deve restare almeno democratico. Come scrissero dieci anni fa su quel simbolo.

A questo punto discutiamo se restare in maggioranza

segnalato da Barbara G.

L’ex relatrice della legge Doris Lo Moro (Mdp). «Facendo slittare la riforma Gentiloni è andato oltre le sue facoltà di capo del governo. E’ una decisione che spetta solo al parlamento»

di Carlo Lania – ilmanifesto.it, 18/07/2017

«Rimandando lo ius soli in autounno Gentiloni è andato oltre le sue facoltà di capo del governo. Penso che adesso Mdp debba discutere seriamente se rimanere ancora nella maggioranza oppure no». La senatrice Doris Lo Moro è stata relatrice della riforma della cittadinanza fino a quando il testo è rimasto in commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama .

Senatrice è rimasta delusa dalla decisione di non discutere lo ius soli?
Molto. Sono delusa, amareggiata e sorpresa. Non me l’aspettavo perché non avevo mai messo in conto che su una questione che coinvolge la sensibilità e la vita di centinaia di migliaia di persone, di giovani, si potesse arrivare a prendere decisioni non previste all’ultimo momento, fare calcoli politici.

Ormai si può considerare lo ius soli come definitivamente perso?
Guardi io sono una parlamentare, una senatrice della Repubblica. Gentiloni esprime la sua opinione e può farlo legittimamente sul fatto se mettere o meno la fiducia. E’ il Senato che però dovrà decidere se la pratica verrà trattata o meno. Da questo punto di vista credo ancora nella separazione tra governo e parlamento come previsto dalla Costituzione. Aspetto di capire cosa succede in parlamento, lì non c’è Gentiloni. Penso sia successa una cosa molto grave: il capo del governo non ha detto «Non metto la fiducia». Ha detto non trattiamo il provvedimento. Questo non era nelle sue facoltà, è andato oltre.

Il premier dice: dello ius soli se ne riparlerà in autunno. Però a novembre ci sono le elezioni in Sicilia, poi c’è la manovra, i tempi sono davvero stretti.
Ho sempre detto che un rinvio avrebbe fatto naufragare il provvedimento e lo penso ancora. Naturalmente non lavorerò perché questo accada, ma penso che sia fortemente a rischio.

Come Mdp vi sentite ancora parte di questa maggioranza?
Quella di uscire dalla maggioranza è una decisione che non abbiamo ancora assunto. Noi non siamo al governo, non abbiamo nessun rappresentante al governo, ma finora non abbiamo mai tolto l’appoggio a questo esecutivo. Spero che di questo si possa però anche discutere.

Sta auspicando una discussione in Mdp per uscire dalla maggioranza?
Mi sembra una discussione possibile. Come parlamentare non mi sento molto a mio agio pensando che nelle prossime settimane continuerò a dare il voto di fiducia a questo governo non votando l’unico provvedimento che mi interessava veramente.

Lei sarebbe pronta a uscire?
Io sono pronta a fare una discussione seria nel gruppo. Sono una persona che si misura con le responsabilità del gruppo.

Cucù, il referendum non esiste più

segnalato da Barbara G.

di Luciano Belli Paci, 20/06/2017

Dopo che la “Grande Riforma” è stata stroncata lo scorso 4 dicembre, finalmente Pd e soci una riforma costituzionale sono riusciti a farla: hanno abolito il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost.

Trattandosi di uno strumento di opposizione democratica che le minoranze possono utilizzare quando ritengono che su una determinata legge ad una maggioranza parlamentare non corrisponda la volontà del paese, è ovvio che la decisione se celebrarlo o no non possa essere rimessa alla stessa maggioranza, che altrimenti farebbe come Bertoldo nella scelta dell’albero a cui doveva essere impiccato.

Per questo la legge n. 352 del 1970 che regola il referendum ha affidato un ruolo determinante alla magistratura:  prima la Corte di Cassazione verifica la regolarità delle firme depositate dai proponenti, poi la Corte Costituzionale decide se il quesito referendario è ammissibile. Superati questi due passaggi, il governo è obbligato ad indire il referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Dopo che un referendum è stato indetto, la maggioranza ha di fronte tre strade alternative:

  1. può non intervenire sulle norme di cui è chiesta l’abrogazione e, se vuole difenderle, battersi perché nella consultazione prevalgano i “No” o non venga raggiunto il quorum del 50 % + 1;
  2. può abrogare le norme come volevano i proponenti;
  3. può modificare le norme oggetto di referendum.

La differenza tra queste ultime due scelte è di decisiva importanza.

Infatti, se le norme oggetto del referendum vengono abolite dal parlamento, l’Ufficio centrale presso la Cassazione si limita ad una presa d’atto e dichiara che il referendum non si celebra più (art. 39 L. 352/1970). In caso di modifica, invece, è riservato alla Cassazione il compito di analizzare se i cambiamenti sono così incisivi da avere recepito sostanzialmente le richieste dei promotori, nel qual caso dichiarerà superato il referendum, oppure se, al contrario, anche nella successiva disciplina sono riproposti i medesimi principi ispiratori delle norme che si volevano abrogare, nel qual caso stabilirà che il referendum si celebri ugualmente adattando il quesito alle nuove disposizioni legislative.

E veniamo alla vicenda dei referendum contro il Jobs Act promossi dalla CGIL con oltre 3 milioni di firme.

La Corte Costituzionale non ha ammesso il principale, quello sui licenziamenti (art. 18), ma solo gli altri due: quello per la completa eliminazione dei voucher per pagare prestazioni occasionali di lavoro e quello per l’estensione delle tutele per i lavoratori delle ditte che gestiscono appalti.

Il governo ha fissato il referendum per il 28.5.2017, ma subito dopo ha presentato un decreto-legge per abolire gli articoli 48, 49 e 50 del Jobs Act che erano oggetto dei quesiti referendari e in tutta fretta la sua maggioranza, con votazione definitiva al Senato il 19.4.2017, ha convertito in legge il decreto.

Di conseguenza, l’Ufficio della Cassazione, con ordinanza del 27.4.2017, ha dichiarato che i referendum già indetti non hanno più corso.

Dopo poche settimane, il 26 maggio in sede di esame del decreto di correzione della manovra economica alcuni deputati del Pd hanno presentato un emendamento per reintrodurre in forme diverse i voucher appena cancellati; e dopo pochi giorni l’emendamento è stato approvato da una maggioranza composta da Pd, centristi, Forza Italia e Lega. Passata la festa, gabbato lo santo.

A questo punto, come spesso accade nel nostro strano Paese, si apre la discussione sbagliata, perdendo di vista il nocciolo della questione.  Si apre cioè la discussione sul merito dei voucher: era un bene o un male abolirli? La loro reintroduzione è avvenuta con modifiche che soddisfano gli scopi del referendum o che costituiscono una mera riverniciatura, una furbata?

Invece il punto vero, la questione che ha conseguenze devastanti è quella di metodo, perché il trucco, la zingarata della mossa in due tempi non colpisce solo questo referendum della CGIL (e già non sarebbe poco!), ma apre la strada alla totale e definitiva eliminazione del referendum abrogativo come istituto costituzionale.

In forza di questo precedente, infatti, di fronte a qualunque futuro referendum la maggioranza del momento potrà far sparire momentaneamente la legge, giusto per il tempo necessario per far disdire la consultazione referendaria, e subito dopo farla riapparire più o meno modificata.  E potrà farlo con assoluta discrezionalità perché la sfasatura temporale tra i due momenti ha l’effetto di eliminare il sindacato della Corte di Cassazione sulla conformità o meno delle modifiche alle istanze del comitato promotore del referendum.  In altre parole, la decisione se il referendum si debba celebrare a fronte di modifiche alla legge oggetto di richiesta di abrogazione viene sottratta al giudice (naturale e terzo), al quale viene esibita per il tempo necessario una abolizione tout court, e posta invece nella disponibilità esclusiva della maggioranza di governo che, “a referendum morto”, potrà decidere se e cosa graziosamente concedere nella nuova disciplina.

Cosa resta dell’art. 75 della Costituzione dopo questa operazione da magliari?  In pratica non resta nulla.

Se la cultura democratica degli italiani non fosse ormai scesa sotto il livello di guardia dovrebbero insorgere tutti, compresi i sostenitori della bellezza dei voucher, compresi quelli che hanno in odio la CGIL, compresi i seguaci del Pd.   Prima o poi anche a loro toccherà di essere all’opposizione e di promuovere un referendum contro le leggi approvate dai loro avversari.  E si accorgeranno, troppo tardi, che il referendum non esiste più.

I pugni sul tavolo

segnalato da Barbara G.

di Mattia Feltri – lastampa.it, 19/05/2017

Ieri a Bruxelles c’erano due riunioni, una del Consiglio dei ministri europei degli Interni e l’altra del Consiglio dei ministri europei della Difesa. Ministri italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Nella prima riunione si parlava di un tema di cui noi italiani dovremmo avere orecchiato qualcosa: l’immigrazione; nella seconda si parlava di un tema già più ignoto, ma a occhio, abbastanza interessante: il futuro della difesa unica. Sottosegretari italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Dopo le due riunioni, i partecipanti dell’una e dell’altra si sono ritrovati in un pranzo collettivo per parlare di un tema che potremmo avere incrociato in qualche cronaca di tg: il terrorismo. Ministri o sottosegretari italiani presenti al pranzo? Zero. Certo è un vero peccato, perché se i nostri uomini di governo avessero incontrato i colleghi comunitari, si sarebbero cavati il gusto di battere i pugni sul tavolo, come è stato ripetutamente promesso. Invece, così, gli sarà toccato di batterli dall’Italia, e il rimbombo dell’irritazione arriva al massimo nella stanza accanto. E poi non è nemmeno la prima volta, succede di frequente, e purtroppo. Avranno di meglio da fare, oppure capiterà di perdere l’aereo, o più probabilmente gli toccherà di onorare convegni e salotti televisivi in cui dire che l’Europa così com’è non va. Anche se invece va, ma senza di noi.

Ps. Uno dei danni collaterali del riciclaggio sedentario di intercettazioni è che si finisce col non parlare mai delle colpe vere.

La paura fa #novoucher

segnalato da Barbara G.

Voucher aboliti per evitare il referendum Cgil. Ma Gentiloni vuole riaprire la concertazione per cercare strumenti alternativi

di Angela Mauro – huffingtonpost.it, 16/03/2017

Una svolta così a sinistra non se l’aspettava nemmeno uno come Giorgio Airaudo, parlamentare di Sinistra Italiana in commissione Lavoro, padre dell’emendamento per l’abolizione totale dei voucher, l’unico così netto fino a qualche giorno fa. “E invece la maggioranza abolisce i voucher, hanno presentato un emendamento come il nostro… Il governo si è arreso, anzi direi che si è auto-affondato”, esulta Airaudo. Il governo in effetti domani eliminerà i voucher per decreto, nel tentativo di annullare il referendum chiesto dalla Cgil. Ma da qui alla fine dell’anno tornerà alla carica con altri strumenti. A differenza del governo Renzi però, Paolo Gentiloni lo farà aprendo un confronto con le parti sociali.

La commissione Lavoro è chiamata a votare l’emendamento della Dem Patrizia Maestri: abolizione totale dei voucher, con una norma transitoria. Vale a dire: chi li ha già acquistati potrà usarli fino al 31 dicembre. E’ l’unica differenza con l’emendamento di Airaudo, che proponeva una transizione fino a giugno. Tutti gli altri emendamenti presentati decadono. La sinistra esulta, dalla Cgil agli ex Pd e la sinistra tutta in Parlamento. I centristi di maggioranza sono arrabbiati, insieme al centrodestra e soprattutto Confindustria e anche Confesercenti. Il Pd si spacca, ma non scoppia la polemica. Perché l’obiettivo di tutti è annullare il referendum della Cgil calendarizzato per il 28 maggio. E in questo modo dal Nazareno a Palazzo Chigi pensano di esserci riusciti.

Domani il consiglio dei ministri recepirà il testo della commissione con un decreto che conterrà anche modifiche alla normativa sugli appalti, oggetto del secondo quesito referendario. Se ne sta occupando in prima persona il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Obiettivo: annullare proprio tutto il referendum.

Insomma, che succede? Paolo Gentiloni è diventato improvvisamente Che Guevara? La maggioranza di governo che ha approvato il Jobs Act ha improvvisamene cambiato colore, trasformandosi in avanguardia comunista? Niente di tutto ciò. Dietro la scelta di abolire i voucher c’è solo un calcolo politico: meglio battere in ritirata che rischiare un altro 4 dicembre.

Matteo Renzi ha cominciato a temere la concorrenza a sinistra sulle primarie. Il presidente della Commissione Cesare Damiano, che stava lavorando ad un compromesso di maggioranza, è stato completamente bypassato dalla scelta del governo di azzerare tutto: via i voucher tout court. E Damiano non a caso appoggia il candidato alla segreteria Andrea Orlando: domenica hanno in programma un’iniziativa pubblica proprio sul lavoro.

Insomma il rischio di contraccolpo c’era anche sulla corsa per le primarie Pd. Da qui la scelta netta che fa infuriare gli alleati di governo. “E’ schizofrenia legislativa”, tuona Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro di Palazzo Madama e senatore di Ncd. Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia insiste: “Meglio affrontare il referendum che eliminare del tutto i voucher!”.

Ma il quadro non resterà così per sempre. L’idea del governo è di lasciar passare la bufera e tornare sul tema, alla ricerca di un’alternativa ai voucher. Il capogruppo del Pd Ettore Rosato la mette così: “La scelta del Pd è stata di lavorare per superare il referendum con norme radicali con un breve periodo di transizione. In questo lasso di tempo lavoriamo per nuove norme che mettano uno strumento a disposizione delle famiglie per pagare ciò che oggi si paga con i voucher e delle imprese per accedere in modo più semplice al mercato del lavoro”. Lo si farà con un “confronto con le parti sociali” alla ricerca di “norme efficaci che evitino gli abusi registrati sui voucher”.

E’ la promessa di un’altra svolta. Se a sinistra, non si sa. Ma certo va a ripescare la concertazione con le parti sociali laddove l’ex premier Matteo Renzi l’aveva eliminata.

Homo Gentilonianus

segnalato da transiberiana9

Homo Gentilonianus, così Paolo Gentiloni è diventato l’alternativa al renzismo

Altro che “supplente”. Il presidente del Consiglio rappresenta un modello che si contrappone a quello di Matteo Renzi. E attraverso inclusione, mediazioni e ascolto ha l’ambizione di durare.

Paolo Gentiloni e Matteo Renzi

di Marco Damilano – espresso.repubblica.it, 30/01/2017

Dal solista all’uomo-squadra. Dal rottamatore al ricucitore. Dall’uomo delle rotture a quello delle inclusioni. Non appare a occhi nudi, perché nel nuovo corso l’apparire è gesto sconsigliato, ma a Palazzo Chigi, in meno di cinquanta giorni, è cambiato tutto. Le porte che prima erano chiuse, ora si aprono. I ministri che prima vivevano come assessori di una media città, nel terrore di contrariare il Principe, ora riprendono a parlare. E laddove vigeva il caos come regola, perché era dalla confusione che nasceva la stella danzante, l’intuizione creativa, ora c’è un ordine che assomiglia alla normalità.

Paolo Gentiloni, nelle intenzioni, doveva essere un semplice reggente, un supplente invernale in attesa del ritorno in cattedra del titolare, Matteo Renzi. Un capo di governo stagionale. Invece allunga il suo percorso, dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum. E con la cronaca terribile dell’inverno, il terremoto, le valanghe, i morti in Abruzzo, che costringe l’agenda della politica a rimettere i piedi a terra, dopo un anno di acrobazie attorno al referendum costituzionale.

E alla guida di governo si assiste, in modo felpato, a qualcosa di più di un avvicendamento tra due esponenti dello stesso partito, anzi, della stessa corrente. Dal renzismo al gentilonismo, che nei libri di storia era il patto elettorale tra i cattolici e i liberali di un secolo fa, e che ora può rappresentare l’accordo per non tornare a votare, è in corso un cambio di specie. Dall’Homo Renzianus, ben conosciuto e alla fine respinto da una grande maggioranza degli italiani, all’Homo Gentilonianus. Tutto da scoprire, dietro l’aspetto glaciale, l’apparente ibernazione.

Il leader impopulista

«Un leader impopulista», ha scritto di lui su “Repubblica” Ilvo Diamanti, una definizione che Gentiloni ha apprezzato molto. Dunque fuori corso nell’epoca della ricerca del Capo. Lui, il premier, nella vita politica è stato tante cose: eminenza grigia, ideologo, regista di campagne elettorali, candidature, convenzioni. Ma capo mai. Ha partecipato a costruire le leadership degli altri: da protagonista con Francesco Rutelli nel 2000-2001, quando il sindaco di Roma si candidò a premier contro Silvio Berlusconi e Gentiloni, il suo coach, dichiarava: «Faremo pesare creatività e fantasia contro i trucchi da nomenclatura sovietica di Berlusconi».

Era vicino anche a Walter Veltroni e avrebbe voluto candidarlo premier almeno tre anni prima del 2008: «C’era la guida rossa per accoglierlo, ma lui non è mai sceso». Rutelli e Veltroni però non sono mai diventati premier, Gentiloni sì. Per quindici anni il futuro inquilino di Palazzo Chigi si è messo al servizio delle leadership altrui, nella scelta dei consulenti per la comunicazione e l’immagine, a partire dall’americano Stanley Greenberg per Rutelli, delle colonne sonore, “Una vita da mediano” di Ligabue per la riuscita convention di Roma del 2004 che tornò a incoronare Romano Prodi candidato premier del centrosinistra, dell’identità ideologica, l’idea della Margherita negli anni Duemila come partito liberal, occidentale, blairiano, e non solo come erede della stirpe democristiana-popolare. Da responsabile comunicazione della Margherita, e poi da ministro, ha frequentato tutti i piani alti di Rai, Mediaset, Sky come interlocutore privilegiato, ma nei talk-show risultava un preparato e sempre disponibile ospite al massimo di seconda fascia.

Sedersi in prima serata nel salotto tv di Fabio Fazio da premier, per uno che ha sempre suggerito le battute, i messaggi degli altri, è stato uno strappo con il predecessore che equivale al giuramento del governo al Quirinale o alla fiducia delle Camere. Davanti alle telecamere, ha dato la sensazione di voler durare: «I governi non devono avere l’attitudine psicologica di essere all’ultimo giorno. Abbiamo tante cose da fare e finché avremo la fiducia…».

Lo stile

Io non esisto, appare ripetere ogni volta il presidente del Consiglio, scatenando la sensazione contraria: una tenace volontà di esistenza. Quando parla di sé sembra “L’uomo che non c’era” dei fratelli Coen: «Sono stato tra i fondatori del Pd, ero nel comitato dei 45, ma non ho fatto nulla di particolare, intendiamoci…». «Se vuole una mia personale accentuazione…», ha risposto prudente a un giornalista durante la conferenza stampa di fine 2016, quasi temendo di avventurarsi sul terreno delle considerazioni personali. E subito dopo se n’è pentito: «La mia opinione non rileva, quindi non la dico».

l grigiore. La tristezza che ha fatto traslare su di lui il nomignolo affibbiato a papa Giovanni Battista Montini, Paolo VI: Paolo Mesto. Qualcosa di meno della sobrietà esibita a Palazzo Chigi da Mario Monti, un atteggiamento più dimesso. Ma in questo tempo di sciagure la malinconia di Gentiloni, il suo rifiuto di trasformare la sua permanenza a Palazzo Chigi in un kolossal individuale, incrocia un sentire comune. Renzi con gli interlocutori procedeva a schiaffi, Gentiloni va a omaggi. Uno stile cortese, educato. Elegante.

La comunicazione

Renzi comunicava anche di aver respirato, nel suo governo c’era la coincidenza assoluta tra il fare e il comunicare di aver fatto. Nei consigli dei ministri la maggior parte del tempo veniva dedicata più a stabilire e istruire i ministri che avrebbero partecipato a conferenze stampa, interviste, trasmissioni. Poi, tanto, tutta la comunicazione ruotava su un personaggio solo: il premier.

Gli altri ministri dovevano allinearsi, in un ruolo secondario, da cassa di risonanza delle decisioni del premier, centralizzata nelle mani del portavoce Filippo Sensi, con pochi elogi e molti rimproveri per chi faceva di testa sua.

Nel governo Gentiloni succede l’opposto. Ogni ministro ha attivato una sua comunicazione, in particolare i più autonomi e in prima linea, Marco Minniti e Carlo Calenda, mentre il premier preferisce il silenzio. Su Twitter Gentiloni può contare su 127 mila follower contro i due milioni e ottocentomila di Renzi, cui spedisce tweet legati al ruolo istituzionale, strettamente impersonali.

Sensi, il portavoce che lavorò con Gentiloni già negli anni Novanta con Rutelli sindaco di Roma, si è adeguato: le foto agiografiche in bianco e nero in stile kennediano di Renzi sono cadute in disgrazia sui profili twitter e instagram: nei suoi tweet Nomfup rilancia la nota ufficiale di Palazzo Chigi sull’emergenza terremoto. Comunicazione istituzionale. E un po’ di musica.

Il linguaggio

Facilitare. Incoraggiare. Accompagnare. Più di tutto: sollecitare. Nel gentilonese abbondano espressioni come queste: trasmettere l’impressione di un potere che non pretende di guidare, dettare la direzione di marcia ma di affiancarsi a chi sta per via (Chi? Partiti, forze sociali, soccorritori, protezione civile, Parlamento, giovani, vecchi, poveri, quelli che non ce la fanno…).

Un lessico in cui contano le aggettivazioni: «Su Mediaset-Vivendi? Un’attenzione vigile». Gli eufemismi: «La manovra sui conti che chiede l’Europa? Un aggiustamento». Le tautologie: «In Medio Oriente il negoziato deve ripartire dal negoziato». E sulla legge elettorale «la nostra sarà una sollecitudine di servizio…», come parlava il papa ai tempi del suo avo, il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni. Un linguaggio che tronca le polemiche, sopisce i conflitti, consola gli afflitti…

Il metodo

«La forza di Paolo è il metodo», ti ripetono gli amici. Il segreto del Metodo Gentiloni è racchiuso in due slogan: «la fenomenologia della decisione», ovvero decidere non basta, è importante come ci si arriva, e «l’inclusione selettiva», cioè ascoltare prima di prendere una decisione, purché gli interlocutori siano utili. In queste settimane più volte i ministri di punta sono stati convocati in riunioni con esperti, in cui dire la loro.

E sempre si sono trovati di fronte un premier in apparenza flessibile e pronto ad ascoltare tutti, in realtà determinato a portare la discussione dove vuole lui. Perché il metodo Gentiloni non è sinonimo di mollezza: il premier è fatto di quella gelatina che all’interno nasconde un nocciolo duro.

Lo staff

Più allenatore che bomber, Gentiloni si è fatto strada come costruttore di squadre. Quella delle giunte Rutelli di Roma, in collegamento con Goffredo Bettini nel primo mandato, ha prodotto futuri ministri e parlamentari, da Walter Tocci a Linda Lanzillotta a Roberto Giachetti, con una macchia difficile da cancellare, la tesoreria della Margherita affidata a Luigi Lusi. Un modello che il premier vuole replicare a Palazzo Chigi. Il principale collaboratore è il napoletano Antonio Funiciello, quarantenne, studioso dei sistemi politici americano e inglese, cresciuto tra i liberal Ds di Enrico Morando, idealmente legato a Giorgio Napolitano e a Walter Veltroni, una passione per il Renzi prima maniera, collaboratore nel precedente governo del sottosegretario renziano Luca Lotti. Più che un capo staff è un capo di gabinetto: un ruolo assente nella squadra di Renzi.

A Funiciello, autore nel 2012 del pamphlet “A vita” dal sottotitolo profetico («Come e perché nel Partito democratico i figli non riescono a uccidere i padri»), è stato affidato il compito di organizzare lo staff e di rappresentare il premier nei tavoli più delicati: durante il dramma dell’ultimo terremoto non è uscito da Palazzo Chigi per giorni. L’ex capo di gabinetto alla Farnesina di Gentiloni Raffaele Trombetta, già ambasciatore in Brasile, ha l’incarico di gestire per conto del premier il G7 di Taormina. Tra il portavoce Sensi e Gentiloni è quasi un romanzo di Dumas: vent’anni dopo, dal Campidoglio insieme a Palazzo Chigi.

Gli amici e i nemici

In Parlamento i gentiloniani sono una pattuglia ristretta ma agguerrita: Michele Anzaldi, l’implacabile Javert di Antonio Campo Dall’Orto, come l’ispettore di Victor Hugo scova e fustiga ogni minimo errore dei dirigenti di viale Mazzini. E poi Giachetti, Lorenza Bonaccorsi, Ermete Realacci. Al Senato l’amico che conta è il capogruppo del Pd Luigi Zanda, Gentiloni lo volle nel 2001 nel cda Rai in quota Margherita e poi senatore: toccherà a lui la complicata partita della legge elettorale.

In Rai, ci sono il consigliere di amministrazione Franco Siddi e l’ex direttore di lungo corso Nino Rizzo Nervo, probabile successore di Carlo Verdelli alla guida dell’informazione della tv di Stato. Tra gli amici ritrovati, il più importante è Romano Prodi, tornato a far visita a Palazzo Chigi dopo molto tempo, regolarmente consultato sulla politica internazionale, in particolare sulla polveriera Libia su cui si consumò la rottura tra il Professore e Renzi, quando il premier fiorentino rifiutò di dare il via libera del governo italiano alla nomina di Prodi come mediatore Onu richiesta dalle fazioni libiche. «Non è freddo, è calmo», ha detto di Gentiloni Prodi, con sottile perfidia nei confronti di chi c’era prima.

Anche il fondatore dell’Ulivo Arturo Parisi è tornato a visitare il capo del governo: con Gentiloni, nonostante anni di polemiche tra ulivisti e rutelliani, i rapporti non si sono mai interrotti. Impossibile trovare un nemico: «Paolo non ha mai litigato con nessuno», raccontano. Anche se ora ai gentiloniani viene un dubbio atroce: e se il primo nemico si chiamasse Matteo Renzi?

L’ambizione

In questi cinquanta giorni Renzi è stato assente perché non aveva ancora deciso che fare. La sentenza della Consulta sull’Italicum ha rotto la tregua. E c’è una forza delle cose che spinge i due ad andare su binari diversi. Gentiloni è un renziano leale con l’ex premier, ma non è una creatura del Giglio magico. Esisteva prima di Renzi e vuole continuare a camminare in modo autonomo. Ha già dato qualche segnale di indipendenza: ha tenuto per sé la delega più importante, il controllo dei servizi segreti, e ha cancellato in modo definitivo l’ipotesi di nominare Marco Carrai alla cybersecurity.

Ha evitato finora di assegnare a Luca Lotti la delega alla segreteria del Cipe, il comitato di programmazione economica. E in poche settimane di governo ha già gentilonizzato la super-renziana Maria Elena Boschi, sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, non più così convinta della necessità di dover tornare al voto in tempi rapidi. Per le future nomine degli enti partecipati (Eni, Enel, Poste) Gentiloni medita di dare un segnale, con qualche cambiamento: per esempio ai vertici di Finmeccanica dove siedono Mauro Moretti e Gianni De Gennaro. Piano piano, in modo impercettibile, Gentiloni si muove. Fedele a quell’intento che ha ripetuto in anni lontani, quando faceva politica di partito. Spostarsi senza darlo a vedere. Come statue di cera, in apparenza immobili. Fingendo di essere innocui. E traduceva il proposito con un’espressione incomprensibile fuori dal raccordo anulare: «Cojoniamoli». Non esattamente degna del titolo nobiliare portato da Gentiloni, ma rende bene l’idea. Più efficace dell’ormai banale: Renzi stai sereno.