guerra

In difesa dei Giusti

In difesa dei giusti, contro lo sterminio

Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio. La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: quei viaggi sono l’unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.

di Guido Viale – comune-info.net, 12 agosto 2017

Coloro che dalle coste della Libia si imbarcano su un gommone o una carretta del mare sono esseri umani in fuga da un paese dove per mesi o anni sono stati imprigionati in condizioni disumane, violati, comprati e venduti, torturati per estorcere riscatti dalle loro famiglie, aggrediti da scabbia e malattie; e dove hanno rischiato fino all’ultimo istante di venir uccisi.

Molti di loro non hanno mai visto il mare e non hanno idea di che cosa li aspetti, ma sanno benissimo che in quel viaggio stanno rischiando ancora una volta la vita. Chi fugge da un paese del genere avrebbe diritto alla protezione internazionale garantita dalla convenzione di Ginevra, ma solo se è “cittadino” di quel paese. Quei profughi non lo sono; sono arrivati lì da altre terre. Ma fermarli in mare e riportarli in Libia è un vero e proprio respingimento (refoulement, proibito dalla convenzione di Ginevra) di persone perseguitate, anche se materialmente a farlo è la Guardia costiera libica.

Una volta riportati in Libia verranno di nuovo imprigionati in una delle galere da cui sono appena usciti, subiranno le stesse torture, gli stessi ricatti, le stesse violenze, le stesse rapine a cui avevano appena cercato di sfuggire,fino a che non riusciranno a riprendere la via del mare. Alle Ong che cercano di sottrarre quei profughi a un simile destino di sofferenza e morte andrebbe riconosciuto il titolo di “Giusti” come si è fatto per coloro che ai tempi del nazismo si sono adoperati per salvare degli ebrei dallo sterminio.

Invece, ora come allora, vengono trattati come criminali: dai Governi, da molte forze politiche, dalla magistratura, dai media e da una parte crescente dell’opinione pubblica (i social!); sempre più spesso con un linguaggio che tratta le persone salvate e da salvare come ingombri, intrusi, parassiti e invasori da buttare a mare. Non ci si rende più conto che sono esseri umani: disumanizzare le persone come fossero cose o pidocchi è un percorso verso il razzismo e le sue conseguenze più spietate. Come quello che ha preceduto lo sterminio nazista.

Salvataggio in mare foto di Massimo Sestini/Polaris

Nessuno prova a mettersi nei panni di queste persone in fuga, per le quali gli scafisti che li sfruttano in modo cinico e feroce sono speranza di salvezza, l’ultima risorsa per sottrarsi a violenze e soprusi indicibili. La lotta agli scafisti indetta dal governo italiano e dall’Unione Europea è in realtà una guerra camuffata contro i profughi, contro degli esseri umani braccati. Ed è una guerra che moltiplica il numero e i guadagni di scafisti, autorità libiche corrotte e terroristi: unica alternativa ai canali di immigrazione legale che l’Europa ha chiuso fingendo di proteggere i propri cittadini.

Da tempo le imbarcazioni su cui vengono fatti salire i profughi non sono più in grado di raggiungere l’Italia: sono destinate ad affondare con il loro carico. Ma gli scafisti certo non se ne preoccupano: il viaggio è già stato pagato, e se il “carico” viene riportato in Libia, prima o dopo verrà pagato una seconda e una terza volta. In queste condizioni, non c’è bisogno che un gommone si sgonfi o che una carretta imbarchi acqua per renderne obbligatorio il salvataggio, anche in acque libiche: quegli esseri umani violati e derubati sono naufraghi fin dal momento in cui salpano e, se non si vuole farli annegare, vanno salvati appena possibile.

Gran parte di quei salvataggi è affidata alle Ong, perché le navi di Frontex e della marina italiana restano nelle retrovie per evitare di dover intervenire in base alla legge del mare; ma gli esseri umani che vengono raccolti in mare da alcune navi delle Ong devono essere trasbordati al più presto su un mezzo più capiente, più sicuro e più veloce; altrimenti le navi che eseguono il soccorso rischiano di affondare per eccesso di carico, oppure non riescono a raccogliere tutte le persone che sono in mare o, ancora, impiegherebbero giorni e giorni per raggiungere un porto, lasciando scoperto il campo di intervento.

Vietare i trasbordi è un delitto come lo è ingiungere alle Ong di imbarcare agenti armati: farlo impedirebbe alle organizzazioni impegnate in interventi in zone di guerra di respingere pretese analoghe delle parti in conflitto, facendo venir meno la neutralità che permette loro di operare. Né le Ong possono occuparsi delle barche abbandonate, soprattutto in presenza di uomini armati fino ai denti venuti a riprendersele. Solo i mezzi militari di Frontex potrebbero farlo: distruggendo altrettante speranze di chi aspetta ancora di imbarcarsi.

I problemi continuano quando queste persone vengono sbarcate: l’Unione europea appoggia la guerra ai profughi, ma poi se ne lava le mani. Sono problemi dell’Italia; la “selezione” tra sommersi e salvati se la veda lei… I rimpatri, oltre che crudeli e spesso illegali, sono per lo più infattibili e molto costosi. Così, dopo la selezione, quell’umanità dolente si accumula in Italia, divisa tra clandestinità, lavoro nero, prostituzione e criminalità: quanto basta a mettere ko la vita politica e sociale di tutto paese.

Ma cercare di fermare i profughi ai confini settentrionali o a quelli meridionali della Libia accresce solo il numero dei morti. Dobbiamo guardare in avanti, accogliere in tutta Europa come fratelli coloro che cercano da lei la loro salvezza; adoperarci per creare un grande movimento europeo che lavori e lotti per riportare la pace nei loro paesi (non lo faranno certo i governi impegnati in quelle guerre) e perché i profughi che sono tra noi possano farsi promotori della bonifica ambientale e sociale delle loro terre (non lo faranno certo le multinazionali impegnate nel loro saccheggio). L’alternativa è una notte buia che l’Europa ha già conosciuto e in cui sta per ricadere.

Siria, la guerra più lunga

segnalato da Barbara G.

Il 03/05/2017 a Cremona si è tenuto un incontro sul tema della guerra in Siria e dell’accoglienza, organizzato dalla Tavole della Pace e da altre associazioni. Gli ospiti erano Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo-siriana, e il sociologo Mauro Ferrari. La serata si è incentrata principalmente sulla testimonianza di Asmae. Di seguito riporto una intervista, pubblicata sul settimanale “Il Piccolo” di Cremona e ripresa dal portale Democratici nel Mondo, e il video dell’intervento della giornalista, pubblicato su welfarenetwork.it.

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Intervista ad Asmae Dachan, scrittrice e giornalista italo-siriana.

I suoi genitori sono nati ad Aleppo e lei ha tenuto un rapporto non solo affettivo, ma culturale e civile con il popolo siriano e il suo destino. Quando può, torna come giornalista in quelle aree martoriate e visita ai confini i campi profughi. ” La società siriana è stata spaccata in due, volutamente. Ma adesso è sbagliato descrivere quel dramma come una guerra civile. E’ un genocidio!” In questa intervista Asmae Dachan parla da musulmana, da teologa islamica, da pacifista, da ammiratrice di papa Francesco e sostenitrice del dialogo interreligioso. I negoziati internazionali in corso invece di spartirsi le aree di influenza dovrebbero assicurare prima di tutto il diritto del popolo siriano alla pace.

Il dramma della Siria può essere sintetizzato come “ la guerra più lunga” dei nostri tempi. Perchè sta durando così tanto e quali effetti sta producendo sulla stessa popolazione siriana?

La guerra in Siria è effettivamente la più lunga dell’ultimo secolo, sta durando più della Seconda Guerra mondiale. Sono passati 6 anni e ancora non se ne vede la fine. La stessa ONU la definisce la più grave crisi umanitaria dalla Seconda Guerra mondiale. Ma è una guerra di nuovo tipo: non c’è un esercito di uno Stato che combatte contro l’esercito di un altro Stato. La Siria non è invasa da uno Stato straniero. E’ lo stesso regime siriano di Bashar al Assad che combatte e bombarda il suo stesso popolo. La stessa opposizione armata, formata in un primo momento da militari siriani che si sono rifiutati di sparare sulla propria gente, hanno disertato e formato l’Esercito Libero Siriano, con l’andare del tempo sono stati ridimensionati se non sostituiti in ampie zone del Paese da formazioni estremiste e qaediste finanziate dagli Stati arabi del Golfo. Per questo sarebbe sbagliato analizzare il conflitto siriano solo con una interpretazione politica di parte: ha torto Bashar al Assad e hanno ragione i suoi oppositori. Oppure fa bene al Assad ad utilizzare la forza in una situazione di caos e hanno torto i suoi oppositori visto che, nel frattempo, in Siria si è infiltrato l’estremismo di radice islamica ed è nato l’Isis.

Qual’è allora il punto di vista che i negoziati sul futuro della Siria ma anche le opinioni pubbliche in Italia e in Europa dovrebbero privilegiare per capire meglio cosa sta succedendo in Siria ?

Adottare il punto di vista della società siriana, il punto di vista di una popolazione che nella sua grande maggioranza non ha voluto e non vuole ricorrere alla violenza, non vuole imbracciare per forza un fucile a sostegno o contro al Assad. Attenzione: non è una scelta di neutralità tra campi avversi. E’ la consapevolezza diffusa che la violenza speculare degli uni e degli altri non porta a nessuna liberazione. E’ soprattutto la consapevolezza che nel conflitto siriano sono entrati prepotentemente in gioco attori e interessi internazionali che ne hanno stravolto la portata: Iran e Russia da un lato, Arabia Saudita e Stati Uniti dall’altro non mostrano alcun interesse al destino e ai diritti umani del popolo siriano. Per non parlare della Turchia di Erdogan che ha fatto una sorta di doppio gioco: dichiararsi contro al Assad e poi bombardare i kurdi siriani; dichiararsi contro l’Isis e poi permettere che migliaia di giovani foreign fighters raggiungessero lo Stato Islamico. All’inizio non era così: nel marzo 2011, in coincidenza con le “primavere arabe” partite il 17 dicembre 2010 dalla Tunisia, gran parte dei giovani e degli intellettuali siriani si sono mobilitati pacificamente per chiedere democrazia e diritti. Per otto mesi in tutte le città siriane c’è stato un risveglio della società civile che chiedeva riforme e libertà. Il gesuita italiano padre Paolo dall’Oglio né è stato testimone e sostenitore, in coerenza con la tradizione siriana della convivenza e del dialogo tra le diverse religioni. Purtroppo il regime di al Assad ha deciso invece di ricorrere alla forza, di utilizzare l’esercito, ha scelto la repressione più violenta. Adesso quello che è sotto gli occhi degli osservatori che non si lasciano accecare dal tifo per gli uni o per gli altri è la realtà drammatica di un genocidio. In Siria non c’è una guerra civile, ma un genocidio.

Genocidio è un termine durissimo e ha anche una valenza giuridica importante nel Diritto internazionale: se c’è “genocidio” la Comunità internazionale avrebbe il “dovere” di fermarlo, di imporre almeno il cessate il fuoco. Che dati può fornire a proposito ?

Nel solo mese di aprile 2017 sono stati bombardati in Siria 24 obiettivi sanitari : ospedali, presidi da campo, banche del sangue, prontosoccorsi. Non si tratta di incidenti, ma di obiettivi scelti e ben individuati per terrorizzare la popolazione e costringerla ad andarsene. Il bilancio complessivo di questi 6 anni è spaventoso: non meno di 400.000 morti. In un Paese di circa 22 milioni di abitanti gli “sfollati” sono tra gli 8 e i 9 milioni. Attenzione: gli sfollati non sono i profughi. Sono siriani costretti ad abbandonare le loro case e che sono rimasti in Siria trovando riparo temporaneo in zone meno vicine alle linee di conflitto. A questi vanno aggiunti i siriani che, usciti dai confini, sono diventati “profughi”: almeno 6 milioni, 3 milioni dei quali in Turchia che per tenerli ha ottenuto il contributo finanziario dell’Unione Europea. Nel piccolo Libano che ha 3,5 milioni di abitanti i profughi siriani sono 1,2 milioni con enormi problemi di convivenza. Nella Giordania esiste in pieno deserto il più grande campo profughi che si possa immaginare, Zaatari: 80.000 siriani accampati nel nulla che sperano solo di andarsene e fuggire da scarsità di acqua, mancanza di servizi igienici, malattie infettive. In Siria è rimasta nelle proprie abitazioni un terzo della popolazione. E’ come se in Italia 40 milioni di abitanti su 60 fossero stati cacciati dalle proprie case. La violenza di questa guerra ha raggiunto livelli di disumanità spaventosi: bombe a grappolo, barili di esplosivo e acciaio, armi chimiche. I giovani costretti ad arruolarsi a forza da una parte o dall’altra. Per questo molti scappano. E poi l’uso dello stupro nei confronti di donne e persino dei bambini. E’ la logica di guerra che non è mai pulita né chirurgica. Infine l’adozione sistematica dello strumento militare dell’assedio di città, di quartieri, di villaggi per impaurire, cacciare o asservire. Dopo l’assedio di Sarajevo, tutti avevamo detto “mai più”. Invece….

Invece la storia si ripete in Siria in modo ancora più brutale, con ferite che sarà difficilissimo curare anche all’interno del mondo arabo e islamico. Oltre alle responsabiltà dell’Occidente, non c’è anche una responsabilità specifica dello stesso Islam soprattutto nei confronti dell’estremismo dell’Isis ?

Le reponsabilità storiche recenti e passate di Stati europei o degli Stati Uniti è evidente, ma preferisco non utilizzare mai il termine “Occidente” che lascia presagire come inevitabile lo scontro di civiltà. Francia e Gran Bretagna si sono spartite il Medio Oriente dopo la caduta dell’impero ottomano. La Siria e il Libano sono stati assegnati alla Francia. L’iniziale bandiera siriana è quella del 17 aprile 1946 quando la Siria diventa indipendente. La bandiera attuale è invece un’altra, quella preferita dalla famigli degli al Assad. In anni più recenti, gravissimo errore è stato quello di invadere l’Irak fortemente voluto dall’amministrazione Bush, ma non dall’ONU. Ci sono giovani irakeni che hanno vissuto solo in guerra, non sanno cosa sia vivere periodi di pace. La stessa cosa vale per molti giovani afghani e ceceni. L’Isis è riuscita ad arruolarli anche perchè la logica di guerra e del ricorso alla violenza è per loro più familiare della scuola, della libertà di giocare, della convivenza con altre etnie o religioni. La Siria dei miei genitori, originari di Aleppo, era composta da 47 etnie diverse e crocevia di molte religioni e correnti religiose. Adesso la possibilità di ricostruire quella convivenza su basi nuove, su basi democratiche è stata mandata in frantumi. Certo la Russia di Putin fa il suo gioco, visto che da decenni ha in Siria le proprie basi militari navali. Certo gli Stati Uniti pretendono di contare ancora in quello scacchiere così vitale per la produzione e il trasporto del petrolio. Ma c’è una responsabilità specifica gravissima di Stati come l’Arabia Saudita, sunnita, e l ‘Iran sciita che strumentalizzano la religione islamica per accrescere le proprie aspirazioni egemoniche. L’estremismo barbaro e folle dell’Isis è cresciuto in questo contesto fatto di ambiguità e rivalità tra Stati che invece di collaborare, mirano a indebilire l’altro. C’è infine una questione dottrinale all’interno dello stesso Islam. Come donna di fede islamica, laureata in teologia e Diritto islamico, come democratica sostengo che noi musulmani possiamo e dobbiamo delegittimare totalmente l’ isis e le sue giustificazioni e dichiarare incompatibili l’Islam e l’uso della violenza. Come dice papa Francesco le religioni possono e debbono essere solo religioni di pace e il Dio unico che preghiamo ammette un solo estremismo: quello della carità. Del resto la stessa parola islam deriva da salam che significa pace.

Il dito, la luna e il professor Panebianco

segnalato da Barbara G.

di Franco Berardi Bifo – comune-info.net, 24/02/2016

Tutti conoscono la storia del dito che indica la luna e dell’imbecille che guarda il dito. Sembra che in questi giorni a Bologna si sappia solo vedere il dito. Il dito è l’azione di un gruppo di studenti del Cua (Collettivo Universitario Autonomo) che hanno esposto un telo con su scritto “Fuori i baroni della guerra dall’università” durante la lezione del professor Panebianco. Si è trattato di una presa di parola le cui modalità non mi importa discutere, perché si tratta di minuscoli dettagli a confronto della luna. E la luna cos’è? La luna è quel che il professor Panebianco ha scritto in un editoriale pubblicato dal Corriere della sera. Egli scrive dapprima:

L’ennesima sentenza della magistratura ha dato ragione a mamme preoccupate e ambientalisti vari che cercano di impedire che il Muos, il sistema militare americano di comunicazioni satellitari entri in funzione a Niscemi, in Sicilia. Il Muos potrebbe essere uno strumento prezioso per anticipare eventuali attacchi missilistici ma c’è chi ipotizza che il suo funzionamento danneggerebbe la salute.

Fin qui niente di nuovo, si sa che i destini della patria sono più importanti delle preoccupazioni mammesche. Ma dopo aver ridicolizzato “mamme preoccupate e ambientalisti vari”, Panebianco dice qualcosa di enorme, che merita di essere preso in considerazione molto seriamente. Egli scrive:

Ciò che accade intorno a noi, dovrebbe convincerci di quanto inconsistenti siano le giaculatorie sulla necessità di una «Europa politica», la quale, come è noto, viene sempre evocata solo quando si parla di euro e di banche. Si dimentica che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni. Sono sempre state guerre e minacce geopolitiche a innescarle.

Ecco la luna da guardare con attenzione, altro che il ditino: come insegna la storia, dice il professor Panebianco, le nazioni si forgiano nella guerra e non sul burro, dunque ci si prepari, e i disfattisti vadano in galera.

È legittimo quello che scrive Panebianco? Certo che lo è, Panebianco ha diritto di dire quello che pensa, e lo dice con assoluta chiarezza: la crisi europea non si risolverà, perché l’Unione ha fallito. La sola maniera di rifondare il processo europeo è qualche milione di morti. Negli ultimi venticinque anni alcuni milioni sono già stati massacrati in Iraq, Siria, Palestina, e nel paese curdo. Ma Panebianco annuncia che adesso è il nostro turno: mettetevi in fila, ragazzi.

Dobbiamo stupirci se si è messo a strillare qualcuno degli studenti che stanno pagando con la precarietà e la miseria le scelte dell’Europa finanziaria, e che domani pagheranno con la vita le scelte dell’Europa militare? Mi preoccupano molto di più tutti quegli altri studenti, cui la disperazione ha tolto perfino la voce e la dignità di ribellarsi.

Da quindici anni le potenze impotenti dell’Occidente fanno una guerra dopo l’altra e alcuni professori (non tutti) hanno applaudito i bombardieri che partivano per l’Afghanistan, per l’Iraq, per la Libia. Con quali risultati lo sappiamo: centinaia di migliaia di morti, milioni di fuggiaschi che l’Europa respinge, intere regioni devastate, una generazione di giovani musulmani spinti dalla violenza e dall’umiliazione a impugnare un coltello per tagliar gole.

Forse a Panebianco nessuno gliel’ha detto, ma la guerra in Libia cui ci chiama l’abbiamo già combattuta, nel 1911, nel 1940, e infine nel 2011. Combattiamola ancora, ordina Panebianco. E qualcuno chiami le guardie per mettere a tacere studenti disfattisti, mamme preoccupate e ambientalisti vari.

Peggio di Bertone

segnalato da Barbara G.

Siete peggio di Bertone, siete il suo attico

di Saverio Tommasi – comune-info.net

Volevo sommessamente far notare che tutti i partiti contrari alla Stepchild adoption hanno votato tutte le guerre degli ultimi quindici anni. Perché la verità è che della vita e dei bambini, a questi ipocriti, non gli interessa un cazzo.

Se domani qualcuno bombardasse l’Italia questa gente userebbe i bambini come scudi umani, esattamente come hanno fatto in questi mesi per affossare una legge che avrebbe dato gli stessi diritti a tutte le famiglie.

Voi siete peggio di Bertone, voi siete il suo attico.

Con le armi nel sacco

segnalato da Barbara G.

PRESI…CON LE ARMI NEL SACCO!

Dal 2010 al 2014 l’Italia ha aumentato considerevolmente l’export di armi verso il Medio Oriente e il Nord Africa, teatri di guerre sanguinose. Smettiamo di chiudere gli occhi

di Alexis Myriel – terranuova.it, 06/02/2016

Che l’Italia esporti armi nel mondo e anche in Medio Oriente non è un segreto. Ma è una di quelle notizie che si è abituati ad ignorare perché tutto avviene lontano dai riflettori delle tv e le coscienze possono riposare tranquille. Poi, ecco che nel novembre scorso un deputato sardo pubblica sul suo profilo Facebook le fotografie delle bombe (appena uscite dalla fabbrica di Domusnovas) che vengono caricate sugli aerei e sulle navi per essere trasportate in Arabia Saudita. E scoppia lo scandalo. Che prontamente il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, cerca di liquidare con una manciata di parole: «È tutto regolare, non sono armi italiane, si tratta solo di transito».

Ma, allora, cerchiamo di capire cosa succede quando invece ad essere esportate sono proprio le armi italiane e quando ciò avviene in Paesi con regimi autoritari o impegnati in teatri di guerra. È realistico pensare, come qualcuno ha dichiarato di recente, che l’Italia venda direttamente le armi ai terroristi dell’Isis? O si innescano meccanismi differenti?

«Non abbiamo evidenze che l’Italia venda armi all’Isis» spiega Piergiulio Biatta, presidente di Opal Brescia, l’Osservatorio per le armi leggere. «Ma le armi, per arrivare in mano a gruppi incontrollabili o estremisti, non hanno bisogno di essere vendute direttamente. Se si esportano armi a regimi autoritari o a dittatori che poi magari vengono rovesciati, non si sa in che mani possano finire. Basti pensare all’esempio degli Stati Uniti: hanno inondato la regione mediorientale di armi e si sono ritrovati poi a combattere contro eserciti che usavano quelle di provenienza americana. Sollevammo la questione quando l’Italia fornì sistemi militari al regime di Bashar Al Assad, tanto da essere il maggior fornitore europeo di armamenti alla Siria; servivano per l’ammodernamento dei carri armati di fabbricazione sovietica. Ora questi carri armati a chi sono in mano? Qualcuno può rispondere? E ancora: le 11mila armi italiane vendute nel 2009 alla guardia di sicurezza di Gheddafi dove sono finite?».

In proposito, è utile ricordare che il giornalista del Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi, entrando nell’agosto del 2011 nel bunker di Gheddafi riportava testualmente:«Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane. Ricordano da vicino gli arsenali che avevamo trovato nella zona dei palazzi presidenziali di Saddam Hussein, dopo l’arrivo dei soldati americani, il 9 aprile del 2003».

«Riguardo poi le armi che escono dall’Italia ma che vengono definite solo in transito, occorre comunque un’autorizzazione del Governo» prosegue Biatta. «Si pensi alle migliaia di bombe inviate dall’Italia alle forze armate dell’Arabia Saudita: le hanno impiegate per bombardare lo Yemen senza un mandato dell’Onu. L’azienda produttrice è la RWM Italia, azienda bresciana appartenente al gruppo tedesco Rheinmetall ma che opera con la piena  autorizzazione del governo italiano. Vogliamo continuare a nasconderci dietro l’ipocrisia, le mezze verità e le mezze risposte?».

Veniamo ai dati

«Se ci si concentra sul quinquennio dal 2010 al 2014, si vede che le esportazioni dall’Italia sono aumentate considerevolmente verso il Medio Oriente e il Nord Africa, cioè proprio le zone di guerra, aree che rappresentano oggi, con un 35,5%, il bacino maggiore per il nostro Paese» spiega Giorgio Beretta, analista Opal. «Nel quinquennio precedente, dal 2005 al 2009, non era così, il bacino maggiore era interno all’Unione Europea. La classifica è guidata dai regimi di Algeria e Arabia Saudita. Se non fosse per la presenza Usa, anche gli Emirati Arabi Uniti sarebbero sul podio».

Esportazioni italiane di armamenti. Autorizzazioni per zone geopolitiche. Confronto tra il quinquennio 2005-2009 e quello 2010-2014

L’informazione, poi, è sempre più carente. «La relazione che il governo Renzi ha inviato alle Camere nel marzo 2015 è corposa, due volumi per un ammontare di 1.281 pagine, ma manca di elementi fondamentali necessari al Parlamento per esercitare quel ruolo di controllo che gli compete. Ancora più carente, tanto da risultare non solo inutile ma addirittura fuorviante, è la sezione curata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze a seguito delle modifiche legislative introdotte negli anni scorsi. Più che un documento ufficiale sembra un testo di appunti di qualche svogliato funzionario».

Cosa fare

Cosa è possibile fare, dunque, per sollecitare il governo a cambiare rotta? Se non altro fare sentire la propria voce e tenersi informati. Può essere utile seguire e aderire alle campagne di sensibilizzazione della Rete per il Disarmo,  dell’Osservatorio Permanente per le armi leggere (www.opalbrescia.org/) e di Amnesty International Italia.

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Armi italiane in Yemen: otto domande a Matteo Renzi

di Giuseppe Civati – possibile.com, 19/02/2016

La situazione in Yemen è esplosiva, soprattutto da quando lacoalizione guidata dall’Arabia Saudita (senza alcun mandato o copertura della comunità internazionale) ha deciso di procedere abombardamenti su città e villaggi. Si parla di oltre 20.000 morti(tra cui diverse centinaia bambini) e di oltre l’80% della popolazione senza accesso ai servizi essenziali. Senza dimenticare i bombardamenti sugli ospedali.

Una condizione gravissima ed inaccettabile: lo ha sottolineato Ban Ki-moon, nei mesi scorsi aveva espresso preoccupazione la stessaFederica Mogherini, e lo ribadiscono molte prese di posizione di attori internazionali (Agenzie ONU e ONG che operano sul campo).

Matteo Renzi invece non ha mai preso posizione esplicita a riguardo, nemmeno durante la sua visita ufficiale di fine 2015 a Riyad.

Nei mesi scorsi dall’Italia sono partite bombe (almeno sei carichi)alla volta dell’Arabia Saudita. Abbiamo avuto conferma che tali ordigni siano stati usati direttamente in Yemen. Da tempo, diversi parlamentari e la società civile che si occupa di controllo delle armi chiedono conto al Governo di queste spedizioni, ricevendorisposte vaghe ed evasive (tanto che la Rete Disarmo sta presentando in diverse Procure d’Italia degli esposti per violazione della legge 185/90 che impedirebbe di vendere armi a Paesi in conflitto armato, oltre che per violazione del Trattato Internazionale sugli armamenti che anche l’Italia ha ratificato).

La prossima settimana il Parlamento Europeo sarà chiamato a votare (speriamo positivamente) una Risoluzione relativa allo Yemen, che comprende un emendamento favorevole ad un embargo di armi verso i sauditi.

Ma il tempo passa e i morti aumentano e, sia per il silenzio del Governo sia per la fornitura diretta di armi, il nostro Paese si sta rendendo complice di quella che è considerata una delle più gravi crisi umanitarie attuali. Non si può attendere oltre e dunque rivolgiamo al Governo di Matteo Renzi alcune semplici domande per cui chiediamo risposte chiare.

1) Chiediamo al Governo di chiarire tipologia di armi, valore e destinatari finali delle autorizzazioni rilasciate tra il 2012 e il 2014all’esportazione verso Paesi coinvolti nella coalizione Saudita che sta bombardando lo Yemen;

2) In particolare chiediamo al Governo di dettagliare tutti i singoli e specifici tipi di sistemi militari autorizzati e il periodo(anno/mese) di consegna di ciascuna delle esportazioni riportate nella “Tabella delle autorizzazioni” a Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait, Qatar e Egitto all’interno della Relazione al Parlamento ex Legge 185/90;

3) Chiediamo al Governo di sapere per quale motivo non siano state sospese le forniture di armi all’Arabia Saudita e ai suoi alleati dopo che, nel marzo 2015, si era resa evidente (per loro stessa ammissione) la partecipazione ad un conflitto armato(fatto che implica la proibizione all’export militare secondo l’articolo 1 della legge 185/90);

4) Poiché tali spedizioni non sono state sospese chiediamo al Governo informazioni precise su quante e quali nuove autorizzazioni siano state rilasciate ad aziende italiane nel corso del 2015 e di queste prime settimane del 2016; per ciascuna azienda e per ciascun specifico tipo di sistema militare chiediamo siano esplicitati quantità e valore, e quali consegne si sianoeffettivamente realizzate nel 2015 verso Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Kuwait, Qatar e Egitto (cioè quelli della coalizione sunnita che è intervenuta in Yemen senza mandato internazionale);

5) Chiediamo a Matteo Renzi il motivo per cui non abbia minimamente affrontato la questione yemenita (e delle forniture di armamenti) nella sua visita di fine 2015 in Arabia Saudita;

6) Chiediamo al Ministro degli Esteri Gentiloni (il MAECI ha il mandato di valutare l’export militare italiano) di spiegare i motivi per cui le consegne all’Arabia Saudita siano proseguite nel corso del 2015 nonostante gli impedimenti della 185/90. Non accetteremo le risposte evasive già fornite al Parlamento (come, ad esempio, che per l’Arabia Saudita possiamo non rispettare la Legge perché “ci aiuta contro il terrorismo”);

7) Chiediamo al Governo che senso abbia inviare bombe all’Arabia Saudita nel giorno stesso in cui il Parlamento Europeo assegnava per acclamazione il Premio Sakharov al dissidente saudita Raif Badawi (ricordando che le gravi violazioni dei diritti umani sono impedimento prescritto dalla Legge per le vendite di armi);

8) Chiediamo al Governo di rispondere alle richieste della società civile in merito alla perdita di trasparenza nelle Relazioni al Parlamento previste dalla legge 185/90. Ad esempio, dalla Relazione pubblicata nel 2015 si può conoscere solo il sistema militare di ogni singola autorizzazione e l’azienda a cui è stata rilasciata, ma non si può ricostruire (nemmeno incrociando tutte le tabelle) il destinatario finale di ciascuna di queste. Tutte cose chiaramente esplicitate, invece, nelle prime Relazioni del governo Andreotti e – seppur a fatica – ricostruibili fino all’avvento del Governo Renzi (cui si possono attribuire ultime due Relazioni).

Un esposto contro le bombe

segnalato da Barbara G.

Le spedizioni contestate sono sei, la prima risale al maggio 2015. Ne avevamo parlato QUI.

Un esposto contro le bombe all’Arabia Saudita

La Rete italiana per il disarmo ha depositato nelle Procure di Roma, Brescia, Verona e Pisa una circostanziata denuncia delle violazioni della legge 185/1990 sul commercio di armamenti. Gli ordigni prodotti da RWM Italia, infatti, avrebbero raggiunto un Paese in conflitto armato non avvallato dalle Nazioni Unite, che sta producendo in Yemen una “catastrofe umanitaria”

Altreconomia.it, 28/01/2016

Le sei spedizioni di bombe aeree dall’Italia all’Arabia Saudita avvenute tra il 2015 e l’inizio di quest’anno finiscono all’attenzione della magistratura. La Rete Italiana per il Disarmo, infatti, ha presentato oggi un esposto in Procura a Roma per chiedere alle autorità competenti di “verificare l’osservanza della Legge n. 185 del 1990”.

Secondo la Rete, che ha monitorato gli invii (il primo dei sei risalirebbe al 2 maggio 2015), sarebbe in atto una continua “violazione dell’articolo 1 della legge 185, che vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi in stato di conflitto armato e che violano i diritti umani”.

Oltre a Roma, i rappresentanti della Rete depositeranno il testo dell’esposto anche a Brescia -dove ha sede l’azienda tedesca RWM Italia, fornitrice delle bombe aeree-, Verona e Pisa.

“È una decisione alla quale siamo giunti a seguito delle continue spedizioni di tonnellate di bombe dalla Sardegna all’Arabia Saudita -ha spiegato Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo-: bombe che servono a rifornire la Royal Saudi Air Force che dallo scorso marzo sta bombardando lo Yemen senza alcun mandato da parte delle Nazioni Unite, esacerbando un conflitto che ha portato a una ‘catastrofe umanitaria’ (ONU), a quasi 6mila morti di cui circa la metà tra la popolazione civile (tra cui 830 tra donne e bambini) e alla maggior crisi umanitaria in tutto il Medio Oriente”.

Dall’esposto emerge come la “dinamica di fornitura” degli ordigni sia totalmente cambiata durante l’autunno del 2015. “Il 29 ottobre 2015 -scrivono infatti i curatori- diverse tonnellate di bombe e munizioni sono state imbarcate all’aeroporto civile di Cagliari Elmas, su un cargo Boeing 747 della compagnia Silk Way dell’Azerbaigian, con destinazione diretta Arabia Saudita. Il cargo in questione, rintracciato dai sistemi di rilevamento, è giunto a Taif (Arabia Saudita) località in cui è situata un base militare della Royal Saudi Armed Forces”.

Il governo Renzi, che si è rifiutato di incontrare alcun rappresentante della Rete, avrebbe fornito risposte “evasive e contraddittorie”, equivocando sul concetto di “esportazione”. Il punto è che la 185, come ricordano gli autori dell’esposto, vieta espressamente non solo l’esportazione ma anche il transito, il trasferimento intracomunitario e l’intermediazione di materiali di armamento “verso i Paesi in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei Ministri, da adottare previo parere delle Camere”.
Le bombe, come detto, sarebbero prodotte dalla RWM Italia, azienda tedesca del gruppo Rheinmetall con sede legale a Ghedi (Brescia) e stabilimento a Domunovas (Carbonia-Iglesias), in Sardegna.

“Considerate le ingenti forniture di bombe aeree della RWM Italia avvenute in questi mesi –ha affermato Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio OPAL di Brescia– riteniamo che si tratti di nuove autorizzazioni all’esportazione rilasciate dall’attuale governo Renzi. Se è vero, infatti che le licenze rilasciate negli anni scorsi non erano state riscontrate nelle spedizioni fatte fino all’anno scorso, va però notato che in questi mesi abbiamo monitorato almeno 5 spedizioni via aerea e via mare. In ogni caso anche trattandosi di autorizzazioni rilasciate negli anni scorsi è espresso compito dell’esecutivo, e nello specifico dall’Unità per le Autorizzazioni di Materiali d’Armamento (UAMA) incardinata presso la Farnesina, verificare che sussistano le condizioni di legge per l’invio dei materiali militari. Saremmo perciò interessati a sapere se UAMA e ministero degli Esteri ritengono che l’intervento militare della coalizione a guida saudita in Yemen sia conforme all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e ai principi della nostra Costituzione”.

La violazione evidenziata dall’esposto, peraltro, sarebbe cristallizzata da un’autorevole opinione legale (allegata alla denuncia) pubblicata da Matrix Chambers, e dalla quale emergerebbe che le violazioni sia del Trattato Internazionale sugli Armamenti (ATT, ratificato dall’Italia) sia della Posizione Comune EU si potrebbero applicare anche al caso delle spedizioni italiane. Il parere è del dicembre 2015, ma le spedizioni non si sono fermate.

Non sono bastate infatti le prese di posizione del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon, che ha esplicitamente condannato i bombardamenti aerei sauditi su diversi ospedali e strutture sanitarie, o dell’Alto rappresentante per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che ha inviato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu un rapporto dove sono documentate “fondate accuse di violazioni del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani” di tutte le parti attive nel conflitto. “Nei giorni scorsi -scrivono gli autori dell’esposto- Ban Ki-moon ha ripetuto il suo appello a tutte le parti al ‘cessate il fuoco’. E per tutta risposta dall’Italia è partito un nuovo carico con migliaia di bombe”.

“Ci auguriamo che la magistratura (o chi di dovere) prenda presto in esame il nostro esposto -è il commento degli autori dell’esposto- e che, finché la materia non sia accertata, possa sospendere immediatamente l’invio di bombe e materiali militari verso l’Arabia Saudita”.

Noi non siamo la Generazione Bataclan

segnalato da Barbara G.

di Andrea Coccia – linkiesta.it, 27/11/2015

Lunedì 16 novembre, il quotidiano Libération è uscito, come tutti, con una prima pagina dedicata alle stragi di Parigi della notte del 13 novembre. Questa:

Il titolo è “Generation Bataclan”. Nella foto, a tutta pagina, ci sono ragazzi, all’incirca della mia età, tra il 25 e i 35 anni. La generazione Bataclan, per l’appunto, descritta nel catenaccio come «giovane, festaiola, aperta e cosmopolita», un’etichetta che poi è rimbalzata dappertutto, dalle prime pagine di molti giornali, passando per le mille trasmissioni televisive dedicate alla tragedia, fino a permeare il discorso della mattina del 27 novembre, pronunciato all’Hotel des Invalides da monsieur le President, François Hollande. Un’etichetta che fa ridere.

Ho 32 anni, ne farò 33 tra poco. Come quasi tutti i miei amici, come quasi tutti i miei colleghi, come quasi tutte le persone che frequento, ci finisco in pieno in quella etichetta. Come tutti loro ero piccolo — come ha ricordato Hollande — quando è caduto il muro di Berlino. Insieme a tutti gli altri diventavo maggiorenne quando cadevano le torri gemelle a New York, o quando al G8 Genova marciavo — con terrore — davanti a polizia e carabinieri che battevano i passi e i manganelli contro gli scudi.

Avevo vent’anni quando andai a Parigi dormendo in palestre di quelle stesse banlieue di Parigi — dove altri nostri coetanei venivano emarginati e dimenticati mentre imparavano a sparare davanti alla Playstation — per andare a sentire i discorsi di qualche contadino coi baffoni al World Social Forum.

Avevo la stessa età quando gridavo per le strade di Roma — insieme a tutti gli altri — che la guerra in Iraq, a dispetto del parere di qualche vecchia giornalista incattivita dalla malattia, avrebbe portato solo guai.

Ho 32 anni, ne farò 33 tra poco. Ho fatto l’Erasmus, parlo tre lingue e ho amici in ognuna delle città in cui negli ultimi 15 giorni ci sono stati attentati. Avevo a chi scrivere a Beirut, come a Parigi, come a Bamako.

Come loro, come tantissimi dei miei coetanei che voi chiamate Generazione Bataclan e che oggi indentificate come le vittime del terrorismo, sono vittima della società che ci state lasciando in eredità. Ho un presente precario e avrò una vecchiaia infernale, senza pensione e con una società ingiusta e a brandelli.

Ho tanti amici di quella che chiamate Generazione Bataclan che hanno rischiato di essere coinvolti in questa fottutissima guerra in molte parti del mondo, al concerto degli Eagles of the death metal ci sarei potuto essere anch’io, come avrei potuto essere tranquillamente al Carillon, come spesso è accaduto.

Eppure quando sento Generazione Bataclan, a me viene da ridere. Perché? Perché noi non siamo la generazione che si è svegliata il 13 novembre dal bel sogno della felicità perpetua e delle birrette il venerdì sera. Noi siamo la generazione che vi aveva avvertiti 15 anni fa. E all’epoca non ci avete solo ignorato, ci avete irriso, a volte ci avete persino sparato, picchiato e terrorizzato.

«Monsieur le President», cantava nel 1954 quel campione di Boris Vian, «C’est pas pour vous fâcher il faut que je vous dise, ma décision est prise: je m’en vais déserter». Se volete fare di questa inutile e idiota follia una guerra civile globale, la guerra in nome della Generation Bataclan, allora la mia decisione è presa: io diserto.

Guerra e droghe

Il terrorismo non si nutre di Corano ma di Captagon

di Marco Perduca – huffingtonpost.it, 19 novembre 2015

In uno dei vari raid di mercoledì 17 novembre effettuati dalle forze speciali francesi a seguito degli attacchi a Parigi, in una stanza d’albergo di Alfortville, una delle banlieue della capitale francese, sono state ritrovati aghi e fili da intubazione. La camera era stata presa in affitto dal pluriricercato 26enne belga Salah Abdeslam. Le analisi della scientifica non hanno ancora determinato se il materiale medico sia stato utilizzato per confezionare le cinture esplosive dei kamikaze o se sia servito a iniezioni ipodermiche. O, magari, per entrambe le cose.

È noto che in tutte le guerre le prime linee usino stimolanti per affrontare in un pieno d’euforia il combattimento (vi siete mai chiesti perché l’eroina si chiami così?), ma era meno noto che queste, anche se chimiche, fossero prodotte là dove sono maggiormente utilizzate. Negli ultimi 10 anni, sia che si tratti di additivo per lo spasso dei giovani ricchi che di stimolante per chi combatte, in Medio Oriente c’è stata un’invasione di amfetamine e in particolare di Captagon.

Se prima della guerra in Iraq del 2003 la produzione era prevalentemente nel sud-est dell’Europa, principalmente in Bulgaria, mentre Turchia, Siria, Giordania e Libano, ma alle volte anche il Paraguay, erano vie del traffico verso i paesi del Golfo, da qualche anno la Siria è diventato il centro di raffinazione di Captagon per tutta l’area. Come la storia del proibizionismo ci insegna, le droghe, oltre a esser sostanze con effetti psicotropi e intossicanti, sono anche delle vere e proprie monete parallele. In tutto il Medio Oriente questa nuova stupefacente moneta si chiama, appunto, Captagon.

Il Captagon è un tipo di fenetillina (nota anche come amfetaminoetilteofillina o amfetillina), cioè uno psicostimolante sintetizzato per la prima volta nel 1961 dalla tedesca Degussa AG e utilizzata per circa 25 anni come farmaco alternativo, e più blando rispetto all’amfetamina nella cura della narcolessia, della sindrome da iperattività e, in alcuni casi, della depressione. Tanto gli importanti effetti collaterali, dovuti ad assunzioni prolungate, quanto l’abuso registrato all’inizio degli anni Ottanta negli Usa, l’hanno fatta inserire dall’Organizzazione Mondiale della Salute nelle tabelle della convenzione Onu sulle droghe del 1988. Reperite la materia prima, e mischiatala a dovere, con poche attrezzature si ottengono della pillole che sul mercato vanno dai 5 ai 20 dollari. Se assunte con la caffeina sono un potente stimolante che garantisce una significativa fonte di entrate di liquidità molto meno complessa da gestire del petrolio e dei reperti archeologici – o degli esseri umani.

Il 26 ottobre scorso all’aeroporto internazionale di Beirut sono state sequestrate due tonnellate di pillole Captagon nascoste in quaranta borse su un jet privato diretto in Arabia Saudita; pare che le autorità di Riyad ne abbiano sequestrate 55 milioni di pasticche nel solo 2014 – che per 5 o 20 dollari fanno… Se, com’è molto probabile, verrà confermato che si tratta anche di sostanze stupefacenti assunte dagli attentatori per doparsi, in aggiunta a tutte le restrizioni alle libertà personali che ci aspettano nelle prossime settimane, ci sarà anche da metter in conto un rilancio allarmista e proibizionista. Non sarebbe la prima volta.

Quel che però non verrà sottolineato con la dovuta attenzione è che non è per via del Corano che si accende la rabbia o si fomenta l’odio, ma piuttosto che senza un prodotto come il Captagon, una soluzione chimica che più laica non si può, non si accendono le furie omicide di un’organizzazione di criminali. Lo dico da antiproibizionsta, cioè da qualcuno che ritiene che anche queste sostanze debbano esser legalizzate per tentare di toglier loro il valore aggiunto della proibizione e, semmai, per creare una possibilità di controllo meno fallimentare, anche per quanto riguarda gli aspetti socio-sanitari, della produzione e commercio di roba come questa.

Come detto, il Captagon ha anche dei potenti effetti collaterali, ma prima che questi possano mettere in ginocchio i terroristi è auspicabile che la comunità internazionale trovi una risposta politica coordinata per “curarli” e “difenderci”.

http://video.huffingtonpost.it/embed/cronaca/droghe-e-guerra-5-cose-che-non-sai/5941/5933?responsive=true&generation=onclick&el=video991065640933811700

 

La colpa è dell’Islam (?)

Parigi sotto attacco: la colpa è dell’Islam (?)

di Shady Hamadi – ilfattoquotidiano.it, 14 novembre 2015

“È l’Islam il problema. La violenza che vediamo è il naturale frutto di una religione violenta” è questa l’idea che si diffonde a macchia d’olio in queste ore. Era la stessa idea che dilagava nelle ore, e nei giorni, dopo la strage di Charlie Hebdo. Tutte le responsabilità sono affidate a questa fede che sarebbe in antitesi con tutte le cose belle (democrazia, libertà e illuminismo – una parola molto ricorrente) dell’Occidente. La nuova strage a Parigi, dove hanno perso la vita 127 persone, sarebbe l’ennesima conferma dell’idea all’inizio. Allora si può cominciare a dare la responsabilità di quello che succede a oltre un miliardo di persone.

Le forze reazionarie in Europa, i paladini dell’identitarismo, non aspettavano altro per cominciare il loro proselitismo politico: la raccolta del consenso. «Più sicurezza contro il nemico esterno, l’Islam» gridano in questi istanti gli imprenditori della paura in tutta Europa. E come potrebbero avere torto? Perfino persone che sono sempre state disposte al dialogo si arrendono di fronte a quella che pare l’evidenza: l’Islam è una religione dell’odio. Ripongono il dialogo nell’armadio dei ricordi e da moderati passano al gruppo di chi vuole la chiusura delle frontiere. “Questi musulmani”, ci diranno fra un po’, “sono tutti pericolosi. Il fondamentalista islamico è il nostro vicino di casa. Obblighiamoli a indossare un segno di riconoscimento. Magari una mezza luna”. Qualcuno potrebbe proporre di ritirare la cittadinanza a chi è nato e cresciuto nei nostri paesi da genitori musulmani perché potenzialmente pericoloso. Sarebbe sbagliata una scelta del genere? No, se viene generalizzato il problema e la colpa diventa di tutti indistintamente. Alla fine sono “Bastardi islamici” come titola Libero. Di fronte alla facilità di cadere nel bacino, sempre più capiente, dei partiti xenofobi europei l’unica cura pare quella difficile dell’analisi di quello che è il Medioriente oggi e la rilettura della nostra Storia, quella europea. Scopriremmo molte cose interessanti e, fra le tante, che, in alcuni periodi storici, quando è stata generalizzata la colpa a una etnia o gruppo religioso si sono aperti gli anni bui che sono terminati con i massacri di questi capri espiatori.

Buttare le colpe sull’Islam, questa entità vuota, sconosciuta a troppi, è un gioco estremamente semplice che si alimenta grazie all’ignoranza e che ci impedisce di ragionare su quali sono i motivi che creano il fondamentalismi. Dico fondamentalismi perché Boko Haram è differente da Isis; l’Isis è differente da Al Qaida. I contesti sociali, linguistici, storici dove sono nati questi fenomeni non hanno nulla in comune fra di loro se non l’estrema povertà causata dallo sfruttamento di risorse e lo strapotere di élite politiche e economiche che creano dislivelli di ricchezza enormi.

Al fondamentalismo islamico c’è chi, come le formazioni di estrema destra, invoca il ritorno allo status quo precedente al 2010, alle primavere arabe. “Bisogna far tornare i vecchi regimi perché davano stabilità!”, dichiarano, “perché Saddam, Asad, Gheddafi ecc… sono il male minore”. Ai musulmani servirebbero dei tutori, dei massacratori. Poco importa se chi li aiuta a instaurarsi al potere si definisce democratico. La morale qui non vale. Non vediamo invece che la maggior parte dei giovani arabi che entrano nelle formazioni fondamentaliste hanno 30 anni e sono cresciuti educati e formati proprio sotto questi governi considerati “mali minori e laici”. Con questo intendo che dobbiamo domandarci “cosa spinge alcuni giovani nati e cresciuti sotto i regimi – buoni, come li considera qualcuno – a propendere verso il fanatismo?”. La risposta è la costante mancanza di libertà, l’asfissia sociale, la consapevolezza di non poter cambiare le cose e l’accettazione – da parte di alcuni di loro − della morte come eventualità quotidiana.

Quest’ultimo punto è stato per me evidente due giorni fa. Camminavo nel centro di Beirut con un mio amico e da qualche ora c’era stato l’attentato che aveva causato quasi 50 morti. Intorno a noi la gente riempiva i bar e la vita procedeva tranquilla. Questo amico mi ha chiesto che cosa pensassi: “non ti sembra strano che tutto proceda come se nulla fosse”? “È la temporaneità”, gli ho risposto, «”la concezione che nulla sia duraturo. È tutto fragile. Domani può arrivare un aereo di chissà quale Stato, sganciare una bomba e andarsene. Tutti sanno che non ci sarà nessuna reazione. La vita si è plasmata qui, e in altri luoghi del mondo arabo, intorno alla costante insicurezza”. Non è una concezione vittimistica della vita ma direi l’accettazione dell’eventualità della morte. Così, noi in Europa, non capiamo che le vittime di Beirut sono vicine, insieme a quelle in Siria, in Palestina, Israele, Iraq e Yemen a quelle di Parigi.

Ma solo le ultime raggiungono lo status di vittime perchè ci identifichiamo con loro mentre le altre sono numeri. Quando proveremo empatia verso tutti; quando la smetteremo di chiedere a ogni musulmano vicino di casa di sentirsi in colpa e condannare gli attentati; quando proveremo tutti insieme, musulmani, cristiani, ebrei – tutti noi – la solidarietà a prescindere dalla nazionalità, allora il fondamentalismo avrà fine. Questo sforzo deve arrivare da tutte le parti. Preme però sottolineare che il punto essenziale, oggi, è capire che la Siria e la guerra (incompresa) che si combatte lì, ha ripercussioni dirette nelle nostre società. Solo la risoluzione di quella catastrofe, che miete centinaia di morti al giorno, può dare un contributo fondamentale alla stabilità dell’area. Ma la scelta per risolverlo non deve essere fra un regime e il fondamentalismo: dobbiamo scegliere il popolo, la gente.

Solo il dialogo ci salva dai tempi bui, ma questa strada è sempre la più difficile.

AYOTZINAPA

segnalato da crvenazvezda76

Ayotzinapa. Cronaca di un delitto di Stato

Partendo dalla sparizione dei 43 normalisti nello stato del Guerrero, il cineasta Xavier Robles presenta Ayotzinapa. Cronaca di un delitto di Stato, documentario che contestualizza i fatti accaduti lo scorso settembre nell’ambito dell’“economia criminale” che si sviluppa in Messico. Presentato come una “dichiarazione di principi” a favore di Ayotzinapa, il film asserisce che la sparizione è stato un “delitto di Stato”, e la collega al clima di impunità che prevale in tutto il paese.

Quella del Messico è una “politica criminale e di genocidio, che porta a molte migliaia di desaparecidos e di morti”, non soltanto durante il governo di Enrique Peña Nieto, bensì anche dei suoi predecessori, afferma il direttore. Il documentario prende le mosse dai fatti avvenuti lo scorso 26 settembre nella località di Iguala, dove 43 alunni della Scuola Normale Rurale di Ayotzinapa sono stati fatti sparire, teoricamente ad opera di criminali con la complicità delle autorità locali.

L’équipe del film si è recata durante i primi giorni di novembre dell’anno scorso a Ayotzinapa ed è stata a contatto con i sopravvissuti dei fatti violenti avvenuti quel giorno e con i parenti degli studenti. Le loro testimonianze si aggiungono a quelle di personaggi come Luis Hernández Navarro (direttore della sezione degli articoli di fondo del quotidiano “La Jornada”), José Reveles (giornalista e analista politico) e Jorge Gálvez (direttore del Museo Casa della Memoria Indomita), tra altri. Robles, autore di copioni cinematografici di film come Rojo Amanecer e Bajo la metralla, asserisce che il documentario dimostra “ciò che significa” Ayotzinapa in maniera “integrale”, e lo mette in rapporto con la realtà messicana.

“C’è un patto di impunità tra tutti i partiti politici messicani, che coinvolge grandi settori di riciclaggio di denaro sporco del narcotraffico e dell’economia criminale”, afferma il regista. Anche se il film riflette soltanto gli sviluppi del caso fino a gennaio 2015, si incarica di lanciare alcune previsioni su come si svilupperanno i fatti. Le istituzioni “hanno dimostrato un indurimento a fianco di Peña Nieto” e “non possiamo aspettarci altro” se non una progressione in questo senso, mentre l’Esecutivo manterrà “la pretesa che il caso venga dimenticato”, dichiara Robles.

Quando è uscito il documentario, erano già passati otto mesi dai fatti, ma il “movimento continua”, così come “la lotta popolare” affinché appaiano; perciò “niente è più opportuno” che far vedere il documentario adesso, sia a livello nazionale che internazionale, sostiene il cineasta. Promosso dalla cooperativa El Principio, il documentario non si presenta con il fine di essere lanciato nelle grandi sale, bensì in luoghi come sale pubbliche, Ong, scuole medie inferiori e superiori, ecc. Malgrado la distribuzione sarà gratuita a livello nazionale – anche sulle reti sociali -, i responsabili del film aprono le loro porte alle apportazioni volontarie, la cui metà sarà destinata alla Normale Rurale di Ayotzinapa.

In molti paesi del mondo, come in Francia, Svizzera, Costa Rica, Argentina, ecc., ci sono istituzioni che hanno espresso il proprio interesse per la pellicola, che sarà presentata anche in festival internazionali di cinema, anticipa il direttore.

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Ayotzinapa, il luogo della speranza

di Gustavo Esteva – comune-info.net, 26 febbraio 2015

Ogni due ore, ogni centoventi minuti. Non bastano certo i numeri a raccontare il dolore che accompagna l’incredibile frequenza con la quale in Messico le persone vengono fatte scomparire. I soli numeri però lasciano senza parole. Anche perché oltre ai desaparecidos c’è l’infinità di vittime accertate degli omicidi e ci sono milioni di migranti ed esuli: un terzo dei Messicani è costretto ad andar via per molte e diverse ragioni tra le quali spesso c’è la minaccia di essere uccisi. Il massacro degli studenti di Ayotzinapa è parte di questa enorme tragedia. Solo che in questo caso la grande determinazione, la tenacia e la fantasia dei familiari e di chi ha scelto di sostenere la loro ricerca della verità e della giustizia ha svegliato milioni di persone dentro e fuori il Messico. Molti non sanno cosa fare, altri affidano ancora alle istituzioni, che sono parte del problema, le speranze di cambiare ma si estende la lotta per cambiare davvero e in profondità non solo i governi ma l’insopportabile stato di cose. La lotta per affermare la dignità delle persone è un fiume che ha varcato con impeto gli argini. Non sarà facile riportarla alle ragioni di sempre, quelle di chi finge di voler cambiare tutto per non cambiare niente. Si nutre così, ogni giorno, la speranza di dare piena realtà alla nostra emancipazione.

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La sparizione di una persona amata è uno dei mali peggiori che si possano soffrire. Non solo per l’incertezza che provoca, ma perché ci si ritrova ogni giorno a chiedersi se non le stia succedendo quello che è accaduto a molti di quelli che sono ricomparsi, i cui cadaveri mostrano i segni di una tortura selvaggia e atroce, inflitta prima che venissero assassinati. Come evitare la disperazione? Come affrontare serenamente il mistero del male, questo male opprimente che ci toglie il fiato?

Negli ultimi due anni, in Messico, scompare una persona ogni due ore. Ogni due ore. Oggi ci sono decine di migliaia di famiglie che vivono questo dramma. Ci sono poi molti altri le cui persone amate sono state barbaramente uccise, e ci sono milioni di esuli. Un terzo della popolazione si è vista costretta a vivere fuori dal paese.

I familiari degli studenti di Ayotzinapa ci hanno permesso di vivere insieme a loro questo dramma che turba profondamente, sperimentando al loro fianco una forma di risposta che non sprofondi nella disperazione. Hanno svegliato milioni di persone, dentro e fuori il paese. Con sorprendente energia, con tanto coraggio e altrettanta fantasia, non lasciano in pace nessuno. Non vogliono che gli addormentati riprendano sonno, non vogliono che torni l’indifferenza, che si propaghi l’oblio, che quelli che stanno in alto se ne lavino le mani.

palestina

Persino l’ONU, con le mani e la lingua legate dalla struttura e dalle regole che definiscono tale organismo, ha dovuto reagire. Il Comitato delle Nazioni Unite contro le sparizioni forzate non solo comincia a riconoscere formalmente questo stato di cose, ma ha anche criticato il governo messicano per l’impunità prevalente di fronte a questi delitti quotidiani e per il fatto di non dare la necessaria priorità alla ricerca degli scomparsi. Gli ha imposto di indagare tutti gli agenti e gli organi statali che potrebbero essere stati coinvolti, così come di utilizzare tutte le linee investigative. Il Comitato ha formulato una raccomandazione cruciale ricordando la responsabilità dei gradi superiori di coloro che commettono delitti.

Persiste la combinazione di cecità e cinismo in coloro che si occupano dell’affare di governare e dei loro amici e complici. Persiste anche l’indifferenza, l’apatia o il terrore di molta gente. Persiste ugualmente l’entusiastica adesione a qualche leader carismatico e alle sue schiere da parte di coloro che credono ancora che potrebbe innanzitutto fermare l’orrore, e poi seguire il cammino progressista di altri dirigenti dell’America Latina. Sebbene lo scontento sia sempre più generale, anche fra i patrocinatori e i beneficiari dell’attuale governo, molti non sanno che fare, altri non considerano realistiche le vie che non passano per l’esercizio elettorale e altri ancora sono disposti a cambiare tutto… perché non cambi niente: che si sostituiscano tutti i responsabili del nostro dramma, che si diano bruschi colpi di timone e che ci sia un gran chiasso, ma il tutto all’interno del quadro vigente, nello Stato-nazione, la democrazia rappresentativa, la società economica, lo sviluppo, il capitalismo… Ritengono che sia illusorio o pericoloso tentare altre vie.

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Nello stesso tempo, si estende e acquista vigore e organicità la mobilitazione cittadina. Il 5 febbraio sono state avviate due iniziative parallele che cammin facendo potrebbero intrecciarsi per portare avanti varie cose. È impressionante la coincidenza delle loro diagnosi sulla crisi politica attuale, anche se appaiono notevoli differenze nella portata e nello stile delle loro proposte. Entrambe illustrano, ciascuna a suo modo, il desiderio e la capacità di dare forma organica al malcontento generalizzato, alla resistenza, alla ribellione e all’impeto trasformatore. Invece di paralisi e disperazione, il dramma nazionale sta generando reazioni lucide, vigorose e organizzate.

Un’altra di queste iniziative prenderà forma oggi (16/2, ndt) con l’installazione a Cuernavaca di una Commissione poliedrica composta da universitari, attivisti e membri del Congresso Nazionale Indigeno. Si propone di contribuire al dialogo e all’armonia fra le diverse culture a cui apparteniamo. Noi componenti di questa Commissione siamo convinti che non ci sarà giustizia, pace e sicurezza nel paese finché l’ordine sociale non sarà costruito sulla diversità. Si tratta di dare un senso concreto ed efficace all’idea formulata dagli zapatisti vent’anni or sono: abbiamo bisogno di costruire un mondo in cui trovino spazio molti mondi.

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L’attuale effervescenza ha già permeato tutte le fasce sociali e raggiunge gli angoli più isolati del paese. I nostri demoni si sono scatenati da tempo e hanno creato questo insopportabile stato di cose in cui siamo immersi. Ora si sono messe in moto le forze che potranno fermarli, avanzando serenamente nella ricostruzione nazionale. Il genio è uscito dalla bottiglia e non sarà possibile rimetterlo dentro. Si nutre così, ogni giorno, la speranza di dare piena realtà alla nostra emancipazione.

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Fonte: la Jornada

traduzione per Comune-info: Camminar domandando

Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.

L’adesione di Gustavo Esteva alla campagna Ribellarsi facendo di Comune-info

Tutti gli altri articoli di Gustavo Esteva usciti su Comune-info sono qui

Un piccolo nucleo di amici italiani di Esteva, autodenominatosi “camminar domandando”, nei mesi scorsi ha stampato il testo della conversazione tenuta da Esteva a Bologna nell’aprile 2012 (i temi in parte sono gli stessi degli incontri tenutisi nell’occasione a Lucca, in Val di Susa, Torino, Milano, Venezia, Padova, Firenze e Roma):  “Crisi sociale e alternative dal basso. Difesa del territorio, beni comuni, convivialità”. (chi vuole, può scaricarlo su www.camminardomandando.wordpress.com).