Immigrazione

Tutti i danni del vicepremier

segnalato da Barbara G.

Tutti i danni che causerà il decreto Salvini sull’immigrazione

di Stefano Catone – possibile.com, 25/09/2018

L’approvazione all’unanimità in Consiglio dei ministri dei decreti voluti da Matteo Salvini, riguardanti sicurezza e immigrazione, confermano almeno due cose: la prima è che Matteo Salvini si è messo in tasca tutto il Movimento 5 Stelle, incapace di esprimere una sola voce in dissenso; la seconda è che la Lega cambia nome e segretario, ma come già successo con la legge Bossi-Fini si conferma campione del mondo nel creare problemi al nostro paese in maniera scientifica, articolo dopo articolo, comma dopo comma.

Il decreto Salvini parte da un assunto falso e cioè che coloro che hanno diritto alla protezione umanitaria siano dei “falsi profughi”, “finti rifugiati”, come ama chiamarli. Questo perché scappano da paesi nei quali “non c’è nessuna guerra”, come ripete ossessivamente. Il diritto a ricevere protezione, però, non è subordinato all’esistenza di guerre nel paese dal quale si scappa, ma alla storia individuale del richiedente asilo. L’articolo 10 della nostra Costituzione prescrive infatti che ha diritto d’asilo in Italia il cittadino straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», mentre il diritto internazionale, citando l’articolo 33 della Convenzione di Ginevra, ha consolidato il divieto di espellere o respingere «in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate». Per queste ragioni, per dare piena attuazione a queste prescrizioni e in accordo con la normativa europea, l’Italia ha introdotto l’istituto della «protezione umanitaria», riconosciuta nel caso in cui non vi siano gli estremi per riconoscere l’asilo o la protezione sussidiaria, ma ricorrano comunque «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano». Il decreto Salvini, al primo articolo, cancella la protezione umanitaria e la sostituisce con un coacervo di altre protezioni, circoscritte e confusionarie, di difficile interpretazione e quindi di difficile applicazione.

Partendo sempre dal medesimo assunto, la seconda applicazione non poteva che essere la cancellazione del Sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), e cioè il sistema di accoglienza pubblico che offre maggiori garanzie, sia dal punto di vista della presa in carico della persona e della sua autonomia, che dal punto di vista amministrativo ed economico. Lo Sprar non esisterà più perché verranno espulsi dal sistema tutti i richiedenti asilo, anche coloro che sono considerati vulnerabili: «i disabili, gli anziani, le donne in stato di gravidanza, i genitori singoli con figli minori, le vittime della tratta di esseri umani, le persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, le persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legata all’orientamento sessuale o all’identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali». Dallo Sprar vengono espulsi anche coloro che saranno titolari delle sei fattispecie che sostituiranno la protezione umanitaria. Tutti questi soggetti sono destinati a strutture di fatto affidate ai privati, sulle quali si sono concentrati scandali e indagini, a partire dai Cara e dai Cas. Nello Sprar resteranno solamente titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati.

Il decreto prevede inoltre una stretta virtuale sulle espulsioni, aumentando i periodi di detenzione per l’accertamento dell’identità e per il rimpatrio, prevedendo procedure accelerate, spostando risorse dai rimpatri volontari assistiti ai rimpatri forzati. «Virtuale», dicevamo, perché tra il detenere una persona in un centro per il rimpatrio e procedere all’effettivo rimpatrio c’è di mezzo il mare.

Tra eliminazione della protezione internazionale, smantellamento dello Sprar, investimento nelle espulsioni, ampliamento delle fattispecie per cui può essere revocata la protezione internazionale (vi rientra la minaccia a pubblico ufficiale: se minacci un pubblico ufficiale puoi essere torturato in patria) il finale sembra già scritto: maggiore irregolarità, più persone che cadranno in situazioni di marginalità.

Per concludere, in spregio alla mobilitazione che negli anni scorsi ha percorso l’Italia da sud a nord, il decreto estremizza il concetto di ius sanguinis introducendo la «revoca della cittadinanza», da applicarsi a chi compie reati connessi con il terrorismo. Ma non a tutti: solo a coloro che non sono nati italiani, ma che lo sono diventati. Pensare che la cittadinanza sia una concessione allo straniero e non un diritto acquisito e da riconoscere svela il disegno di fondo: uno straniero non potrà mai essere veramente italiano perché non è nato italiano, perché non ha sangue italiano. Vengono inoltre ampliate le tempistiche e inasprito il tributo dovuto per il riconoscimento della cittadinanza.

Infine, un altro mostro giuridico: al richiedente asilo che dovessero essere investito da un procedimento penale per ipotesi di reato legate alla sicurezza dello Stato (non condannato!) viene bloccato l’iter per il riconoscimento dell’asilo ed è tenuto ad abbandonare il paese. Si configura in primo luogo una violazione dell’art. 27 della Costituzione secondo il quale «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» e, inoltre, non si capisce per quale ragione – se il soggetto dovesse realmente rivelarsi colpevole e quindi essere una minaccia per lo Stato – nel frattempo sia stato costretto a lasciare il paese.

Profili di incostituzionalità e la volontà, nemmeno tanto nascosta, di fare a pezzi la parte migliore del sistema di accoglienza, per investire decisamente sulla gestione emergenziale e straordinaria che negli anni scorsi ha creato problemi di tutti i tipi. Ed è proprio sguazzando tra questi problemi che l’attuale ministro dell’Interno ha costruito il proprio consenso.

La solidarietà si tinge di rosso

segnalato da Barbara G.

La solidarietà si tinge di rosso: una maglietta contro l’indifferenza e il cinismo dilagante

Mettersi nei panni degli altri, soprattutto dei bambini. Il 7 luglio Anpi, Arci, Libera e Legambiente lanciano l’appello per manifestare la propria vicinanza a chi fugge dalle guerra e dalla miseria

espresso.repubblica.it, 03/07/2018

Una maglietta rossa per fermare l’emorragia di umanità, sabato 7 Luglio indossiamo una maglietta rossa per un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà”. È l’appello dei presidenti di Anpi, Arci, Libera e Legambiente.

Il rosso, si legge nel comunicato, è il colore che ci invita a sostare, ma anche il rosso delle magliette dei bambini che muoiono in mare e che a volte il Mediterraneo riversa sulle nostre spiagge.

Mentre l’Europa si accorda sulla accoglienza su base volontaria i numeri dei morti e dispersi, nel Mediterraneo, cresce. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni le persone che hanno perso la vita nel weekend trascorso sono 218 in totale.

“Di rosso erano vestiti i tre bambini annegati l’altro giorno davanti le coste libiche. Di rosso ne verranno vestiti altri dalle madri, nella speranza che, in caso di naufragio – prosegue l’appello – quel colore richiami l’attenzione dei soccorritori”, rosse sono le coperte delle protezione civile che avvolgono i migranti a terra dopo il viaggio in mare.

“Muoiono, questi bambini, mentre l’Europa gioca allo scaricabarile con il problema dell’immigrazione – cioè con la vita di migliaia di persone – e per non affrontarlo in modo politicamente degno arriva a colpevolizzare chi presta soccorsi o chi auspica un’accoglienza capace di coniugare sicurezza e solidarietà. Bisogna contrastare questa emorragia di umanità, questo cinismo dilagante alimentato dagli imprenditori della paura.

L’Europa moderna non è questa.

L’Europa moderna è libertà, uguaglianza, fraternità. Fermiamoci allora un giorno, sabato 7 luglio, e indossiamo tutti una maglietta, un indumento rosso, come quei bambini. Perché mettersi nei panni degli altri – cominciando da quelli dei bambini, che sono patrimonio dell’umanità – è il primo passo per costruire un mondo più giusto, dove riconoscersi diversi come persone e uguali come cittadini”.

Save lives, change Dublin

Solidarietà europea: il 28 giugno tutti i Governi facciano la propria parte per l’accoglienza!

Il 28 giugno il Consiglio europeo discute di immigrazione: i Governi hanno la responsabilità storica di dare sostanza al principio di solidarietà su cui si è fondata l’Unione europea.Chiedere asilo in Europa è un diritto, ma regole e politiche ingiuste continuano a far pagare a chi cerca rifugio l’incapacità dei Governi di affrontare sfide comuni con risposte comuni, come successo alle 629 persone bloccate in mare sull’Aquarius. La battaglia per la solidarietà europea non si fa sulla pelle delle persone in mare ma cambiando le regole sbagliate come il Regolamento di Dublino, che lasciano le maggiori responsabilità sui Paesi di Confine. Il Parlamento europeo ha già votato a larga maggioranza per superare l’ingiusto criterio del “primo Paese di accesso” e sostituirlo con un sistema di ricollocamento automatico che valorizza i legami significativi dei richiedenti e impone a tutti i Paesi di fare la propria parte, come già chiedono i Trattati europei.

Un’altra Europa c’è già, un’Europa che accoglie, aperta e solidale: facciamola vedere!
Il 27 giugno riempiamo le piazze d’Europa con barchette di carta per chiedere a tutti i Governi europei di fare la propria parte, di cambiare il Regolamento di Dublino nella direzione già indicata dal Parlamento europeo e di aprire vie legali e sicure per l’accesso in tutti i Paesi UE.

Aderite alla mobilitazione e il 27 giugno diamo vita alla prima grande mobilitazione europea per la solidarietà!

Tre azioni per chiedere #solidarietàeuropea:
– Aderisci alla mobilitazione e segna sulla mappa la piazza europea dove porterai le barchette il 27 giugno.
– Scrivi al tuo Capo di Governo per chiedere che il Consiglio europeo del 28 cambi il Regolamento di Dublino per assicurare equa condivisione delle responsabilità sull’accoglienza
– Condividi sui social con l’hashtag #changeDublin #EuropeanSolidarityPer le associazioni e organizzazioni che vogliono aderire, scrivere a : info@europeansolidarity.eu

Per  adesioni:

Clicca qui europeansolidariety.eu/it

Promotori

Organizzazioni:

Save the children – Oxfam – Amnesty International Italia – Emergency Onlus – CGIL Nazionale – ARCI nazionale – Tavolo Nazionale Asilo – ASGI – Forum per cambiare l’Ordine delle Cose – Zalab – Train of hope (Wien) – Mediterranean Hope (Programma Rifugiati e Migranti della FCEI) – Comunità di Sant’Egidio – Baobab Experience – ProActiva Open Arms – Caritas Italiana – ACLI nazionale – A buon diritto – EP Progressive Caucus – CIAC ONLUS – Intersos – CIR – MEDU (Medici per i diritti umani) – Fondazione Migrantes – Diaconia Valdese – Rete nazionale Europasilo – I.C.S.(Consorzio Italiano di Solidarietà) – Possibile – Coalizione civica Bologna – GVC – Fondazione Finanza etica – Comitato Giustizia e verità per i nuovi Desaparecidos – Casa dei diritti sociali – ARCS – AOI – Centro sociale “Ex Canapificio” e Movimento Migranti e Rifugiati di Caserta – Osservatorio Solidarietà – ADIF Associazione Diritti e Frontiere – Associazione Laudato Si’ – Casa della carità – Ospiti in arrivo – Progetto Melting Pot Europa – Coalizione Civica Padova – Campagna LasciateCIEntrare – Associazione Soomaaliya Onlus – Gruppo Educhiamoci alla Pace di Bari – Giuristi Democratici – Centro Astalli – GLR Bari (Gruppo lavoro rifugiati) – Camelot – Green Italia – Asilo in Europa – Associazione OPTI’ POBA’ – Fondazione Benvenuti in Italia – Hayat Onlus – Passwork impresa sociale scs Onlus – Januaforum APS – Unica Terra, Ass. di Volontariato Onlus – EquaMente – Ass. Culturale e di Solidarietà – Ass. culturale “Le Seppie” – Ass. culturale Lottodognimese Padova – Concord Italia – Oxfam Italia – Medici Senza Frontiere Italia – GiulioSiamoNoi – Ass. Culturale eralavò – Agedo Puglia sez. Bari – Refugees Welcome Italia Onlus – Associazione per la Pace (nazionale) –  Ass. di promozione sociale Pace e Convivenza di Sesto Calende – Collectif Ganges Hospitalité – Ass. Cenci casa-laboratorio – Missionari Comboniani Palermo – Coordinamento “Non solo asilo” – Ass. Rosa Bianca – Solidaritat Ubaye – Federazione Italiana Comunità Terapeutiche FICT  – Legambiente – Sinistra Italiana – Partito della Rifondazione Comunista (S.E) – Ass. di volontariato Ohana – International Support Human Rights – Ass. Orizzonti Il Futuro Insieme – C.N.G.E.I. Sezione di Velletri – Lunaria – Ass.interculturale GRAMMELOT – MoVI Movimento di Volontariato Italiano – Rete Radié Resch – Libertà e Giustizia Rimini – IFE Italia – Diem25 DSC Genova

Persone:

Elly Schlein (MEP Italy), Andrea Segre (director), Alessandra Ballerini (lawyer), Valerio Mastandrea (actor), Florent Marcellesi (MEP Spain), Guillaume Balas (MEP France), Martin Schirdewan (MEP Germany), Curzio Maltese (MEP Italy), Dimitrios Papadimoulis (MEP Greece), Ernest Urtasun (MEP Spain), Georgi Pirinski (MEP Bulgaria), Eva Joly (MEP France), Sergio Cofferati (MEP Italy), Terry Reintke (MEP Germany), Barbara Spinelli (MEP Italy), Ska Keller (MEP Germany), Udo Bullmann (MEP Germany),  Eleonora Forenza (MEP Italy), Monica Frassoni (politician), Emiliano Rubbi (producer), Malin Bjoerk (MEP Sweden), Cécile Kyenge (MEP, Italy), Cornelia Ernst (MEP Germany)

A loro insaputa

segnalato da Barbara G.

Il governo del Niger non sapeva della missione italiana. Ed è contrario

“Non siamo stati né consultati né informati”, fanno sapere fonti dell’esecutivo di Niamey

agi.it, 31/01/2018

Il Niger non è stato informato ufficialmente dall’Italia riguardo la prossima missione militare nel paese africano, il cui governo ha appreso del dispiegamento del contingente italiano da un lancio dell’agenzia di stampa Afp. Secondo quanto riferisce l’emittente Radio France Internationale, che cita le dichiarazioni di diverse fonti anonime interne al governo di Niamey, le autorità del paese africano hanno già informato il governo italiano di non essere d’accordo con tale missione. “Non siamo stati consultati né informati”, ha detto una fonte del governo nigerino a Radio France Internationale, “siamo rimasti sorpresi”. “Abbiamo detto agli italiani attraverso il nostro ministro degli esteri che non siamo d’accordo”, ha aggiunto un’altra fonte dell’amministrazione di Niamey. Angelino Alfano, il ministro degli Esteri italiano, ha visitato il Niger dal 3 al 5 gennaio di quest’anno, incontrando il suo omologo nigerino, Ibrahim Yacouba, e il presidente del paese, Mahamadou Issoufou, in occasione dell’inaugurazione della prima ambasciata d’Italia nel paese africano e nell’intera regione del Sahel. Secondo il governo, l’invio di soldati in Niger serve a “rafforzare le misure di sicurezza sul territorio, i confini del paese africano e a sostenere le forze di polizia locale”.

“Ci bastano già gli addestratori francesi e Usa”

Fonti di Rfi sostengono però che la formazione dei militari e delle forze di sicurezza del Niger sia già affidata ad altre nazioni e che il governo di Niamey ne sia soddisfatto. “Riceviamo già quello che ci serve dagli americani e ci siamo anche coordinati con i francesi”, ha detto una fonte del governo nigerino all’emittente francese. Queste fonti hanno comunque confermato a Radio France Internationale l’esistenza di un dialogo in materia di sicurezza e coordinamento tecnico con l’Italia, ma tutto ciò “non implica in alcun modo che il Niger possa ospitare tale missione”. Il 17 gennaio, il parlamento italiano ha approvato il dispiegamento della missione “di supporto nella Repubblica del Niger”, una missione che secondo il ministero della Difesa è “non combat ma di addestramento”. Questo intervento prevede lo schieramento di un contingente di 120 uomini nel primo semestre di quest’anno per poi raggiungere il numero massimo di 470 militari entro fine anno, non impiegati però contemporaneamente ma a rotazione. La media annuale dovrebbe essere infatti di “circa 250 soldati”. Oltre al personale militare, verranno poi inviati in Niger anche 130 mezzi terrestri e due aerei, per una spesa complessiva totale di 49,5 milioni di euro per tutto il 2018.

L’Italia alla ricerca di un ruolo in Africa

La missione italiana in Niger, così come l’aumento del numero di militari impegnati nella missione in Libia, nella missione Nato di supporto in Tunisia, nella missione Onu per il Sahara occidentale e in quella dell’Unione europea di addestramento delle forze armate locali nella Repubblica Centrafricana, mostra come l’Italia stia cercando una propria dimensione in Africa. All’inizio dell’anno, durante il suo tour africano, il ministro degli Esteri italiano ha affermato che i paesi a sud del Sahara sono considerati una priorità dell’agenda del governo italiano per il 2018. Il 5 gennaio, proprio durante la sua visita a Niamey, Alfano ha quindi annunciato che l’Italia destinerà al Niger il 40 per cento dei fondi governativi di assistenza per l’Africa. Il Niger è uno dei cinque paesi della regione del Sahel, insieme a Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania, ad aver costituito una forza congiunta anti-terrorismo per affrontare la minaccia jihadista che affligge questi paesi da anni. L’anno scorso, l’Unione europea ha stanziato piu’ di 50 milioni di euro per finanziare questo corpo militare, che ha ricevuto finanziamenti anche da Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

 

Il futuro è un’ipotesi

segnalato da Barbara G.

“Nessuno in Italia pensa al futuro, tra 40 anni sarà un disastro”

Parla Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica di Milano: «La politica pensa all’immediato. E i giovani hanno sospeso il giudizio sul futuro. La popolazione inattiva aumenta, mentre la fascia più produttiva si riduce»

Pensare al futuro non è lo sport più amato dagli italiani. Siamo puntualmente travolti dalle “emergenze”, dall’immigrazione al dissesto idrogeologico alla precarietà. Che vuol dire che non siamo in grado (o non vogliamo) prevederle, anche quando i sintomi sono sotto gli occhi di tutti. Ogni annuncio o decisione sono fatti per avere effetti elettorali immediati. Qui e ora. Che ce ne frega dell’Italia tra dieci anni. Altrimenti non si spiegherebbe perché diamo 500 euro ora a una mandria di 18enni, dei quali quattro su dieci non troveranno un lavoro.

Guardare le dinamiche demografiche in corso, però, aiuta a capire dove stiamo andando. E l’immagine dell’Italia che ci arriva dal futuro è quella di un Paese dominato dai capelli grigi. Entro il 2030 ci sarà una regione in più, grande quanto la Toscana, composta solo da over 65. Che saranno ancora al lavoro, mentre i 40enni manderanno ancora curriculum. «La popolazione italiana diventa anziana. E anche l’immigrazione, che finora ha in parte bilanciato l’invecchiamento, va via via diminuendo per via della crisi economica», dice Alessandro Rosina, demografo dell’Università Cattolica di Milano. «Qui nessuno pensa al futuro. Non ci pensano i politici, e i giovani per forza di cose hanno sospeso il giudizio. Ma tra quarant’anni sarà un disastro».

Professore, quali sono le principali tendenze demografiche in corso in Italia?
La popolazione italiana invecchia. Questo è il frutto di due fattori. Da un lato, viviamo sempre più a lungo: insieme al Giappone siamo tra i più longevi al mondo. Dall’altro, assistiamo a un declino costante delle nascite (1,39 bambini per donna nel 2014, ndr).

E in Europa?
Nel panorama europeo siamo i più vecchi insieme alla Germania. I Paesi più giovani sono quelli scandinavi e la Francia, dove la fecondità è vicina ai due figli. Questo significa che c’è un equilibrio generazionale: due figli ogni due genitori. In Italia invece si fa meno di un figlio e mezzo. Così la popolazione tende non solo a ridursi, ma soprattutto a sbilanciarsi sui più vecchi, che per giunta vivono più a lungo.

Perché invecchiano tanto anche in Germania, dove stanno meglio di noi?
Il numero di figli desiderato in Italia è elevato. Si vorrebbero avere due figli o più, ma poi ci si accontenta di averne uno o nessuno perché si riesce a costruire una famiglia troppo tardi, o perché ci si stabilizza con il lavoro troppo avanti con l’età. In Germania, al contrario, non si fanno figli perché sono poco interessati a farli, non c’è un alto numero di figli desiderati. Ma ora anche in Germania ci si sta accorgendo della pericolosità dell’invecchiamento della popolazione. Da un lato si sta puntando sulla immigrazione di qualità, non solo aprendo ai rifugiati ma anche attraendo talenti da ogni parte del mondo. Inclusi quelli italiani. E poi si stanno creando maggiori servizi per la famiglia e la conciliazione tra vita privata e lavoro per incentivare le nuove nascite.

E in Italia stiamo pensando a come far fronte all’invecchiamento della popolazione?
L’unica cosa che abbiamo fatto in Italia è stato far andare le persone in pensione più tardi, senza pensare a diversi ruoli per i lavoratori anziani in azienda. Li abbiamo lasciati lì dove sono, senza alcuna forma di age management, senza investire nella produttività. Il risultato è che aumenta la popolazione in età lavorativa over 50 nei luoghi di lavoro, mentre mancano i 30-40enni più produttivi. In questa fascia l’occupazione cresce pochissimo.

Questo cosa comporterà?
Aumenterà la popolazione inattiva, i giovani saranno sempre meno. Negli Stati Uniti i millennial sono una delle generazioni più consistenti, quindi hanno un peso politico ed elettorale. In Italia i giovani sono pochi, quindi non hanno peso elettorale. Di conseguenza non ci sono politiche forti che siano indirizzate a loro. Se ci sono meno politiche giovanili e più politiche rivolte agli anziani, ci sarà meno innovazione e minori investimenti per contare nel sistema produttivo alla pari con altri Paesi. Questo genererà un impoverimento del Paese, producendo grossi sprechi nella fascia più produttiva della società. Non a caso abbiamo il numero di Neet più alto d’Europa: 2,4 milioni. E il 47% dei giovani dichiara di fare un lavoro per il quale servirebbe un titolo di studio più basso. Meno forza lavoro produttiva significa meno crescita.

Quale sarà il futuro da vecchi di questi giovani? Il presidente dell’Inps, Tito Boeri, ha già detto che si rischia la povertà dilagante…
Sarà un disastro. Le riforme pensionistiche hanno posticipato l’età pensionabile, legando la pensione ai contributi versati. Ma la crisi economica, la precarietà del lavoro e i redditi bassi fanno prospettare un futuro economico tutt’altro che roseo per i più giovani, con pensioni molto basse. I lavoratori precari del presente saranno precari anche nel futuro. Finora l’assicurazione sono state le famiglie, e del futuro dei 30enni non se ne è occupato nessuno. Tra 40 anni, quando non ci saranno neanche più le famiglie, sarà un disastro. La politica italiana non pensa al futuro dei giovani, perché quello che importa è sempre solo la prossima tornata elettorale. Intanto i giovani sul futuro sospendono il giudizio perché non hanno gli strumenti per farlo. Tutti dicono che dovrebbero farsi una pensione integrativa. Ma come fanno, se già fanno fatica a pagare l’affitto di casa con gli stipendi bassi che si ritrovano?

E l’immigrazione? Quale può essere l’apporto dei nuovi cittadini?
I nuovi arrivi per lavoro in Italia stanno diminuendo per via della crisi economica. Non abbiamo investito in politiche di integrazione. E l’immigrazione più preparata si sta spostando verso altre mete. Noi prendiamo un po’ quello che ci capita, che di solito sono lavoratori destinati a fare lavori poco qualificati. E anche gli immigrati più istruiti li mettiamo a fare lavori scarsamente qualificati. Chi ha ambizioni andrà in Paesi che offrono maggiori opportunità. Ci prendiamo la peggiore immigrazione e non attraiamo talenti.

Come si sposterà la popolazione nel prossimo futuro?
La parte Nord del Mediterraneo sarà composta da Paesi vecchi, la parte Sud da Paesi molto giovani in forte crescita. Nell’Africa subsahariana si registra una grande espansione demografica. Il che genererà sia spostamenti all’interno dei Paesi stessi dalle campagne alle città, sia al di fuori di questi Paesi. Secondo le ultime previsioni delle Nazioni Unite, in quest’area nella fascia 20-39 anni ci saranno oltre 200 milioni di individui in più nei prossimi vent’anni. Tutti giovani alla ricerca di lavoro. Se i governi non creeranno occasioni di lavoro in questi luoghi, gli spostamenti si dirigeranno verso l’Italia e verso l’Europa. A questo si aggiunge l’instabilità politica che renderà tutto più complicato.

Siamo avvisati.

 

Integrazione in via Padova

I nuovi residenti sono giovani coppie e neolaureati

di Anna Giorgi – ilgiorno.it, 18 settembre 2015

Raffaela ha trovato il posto con un datore di lavoro pachistano (Newpress)

Milano, 18 settembre 2015 – Non è facile raccontare via Padova, perché quella strada lunga poco più di tre chilometri, che nasce come naturale prolungamento della commercialissima Buenos Aires, è un viaggio tra cinquanta etnie, un mosaico di umanità, un luogo in cui il mondo ti viene addosso. I peruviani che friggono i polli, il bar del Bangladesh, un ristorante cinese, un meccanico, un pusher, l’estetista italiana, l’alimentari indiano, poi c’è il degrado in zona Transiti, ci sono la “piccola Lima” e “Casablanca due”. Luci e ombre dell’unico quartiere veramente multietnico di Milano, il melting pot ha punti forti e punti deboli che si intrecciano in un paradosso solo apparente, se c’è integrazione. E via Padova mostra i primi segni di un riscatto, di quella che in termini di sociologia urbana si chiama «gentrificazione», i segnali concreti di una maggiore e sempre più convinta integrazione a dispetto delle polemiche politiche sulla sicurezza. Lo raccontano i dati, non le opinioni.

Per la Camera di commercio in via Padova ci sono circa 400 imprese straniere su un totale di 600. Gli egiziani sono il 30%, i cingalesi il 20-25%, i cinesi il 15-20%, queste le principali etnie di imprenditori. Ma il dato nuovo è che ogni impresa straniera dà lavoro in media a tre addetti, il 20% dei quali è italiano. I nuovi datori di lavoro, in questo contestato angolo di Milano, sono gli immigrati. Il dato in numeri assoluti: in via Padova si stimano circa 1.200 dipendenti di negozi o attività commerciali gestite da stranieri, di questi dipendenti – assunti a tempo indeterminato e con contratto regolare – 220 circa, sono italiani. Un numero che aumenta in media del 10% ogni anno. Se fino a una decina di anni fa lo schema, in questa zona, era il titolare italiano con dipendenti stranieri o il titolare straniero con dipendenti connazionali, ora la situazione sta cambiando. In meglio, se si considera nei termini di un processo di integrazione. E a confermare la tendenza c’è tutto un quadro di tessere che si incastrano a formare il puzzle di un quartiere che fino a qualche anno fa era decisamente «out».

I dati sulla criminalità, ad esempio. Nel 2008-2009 gli omicidi tra stranieri, rapine, furti e risse avevano imposto l’obbligo di servizi mirati da parte di polizia e carabinieri, a distanza di sette anni la situazione della criminalità da strada, quella che genera la percezione di maggiore insicurezza, ha subìto una brusca frenata. I furti, le rapine, le lesioni e le risse, cinque negli ultimi sei mesi, sono decisamente in calo, secondo prefettura e questura. Sganciandoci dai dati tecnici e dando un’occhiata anche agli studi delle agenzie immobiliari il fenomeno di ripopolamento di via Padova è in mano a giovani. Negli ultimi cinque anni, sette acquirenti di casa su dieci sono italiani. E il resto sono immigrati di seconda generazione, già socialmente inseriti.

«Via Padova è diventata più appetibile, il profilo del nuovo residente – spiegano gli agenti Tecnocasa della zona – è molto chiaro: neolaureato con impiego sicuro, coppia giovane di professionisti con figli piccoli». Oppure gli hipster, artisti amanti delle affascinanti e disordinate periferie multietcniche, che proprio periferie non sono perché a due passi da piazzale Loreto e dalle zone più servite. E se i prezzi degli appartamenti sono ancora abbordabili e quindi attirano, si crea un circolo virtuoso, perché chi compra oggi sarà poi la generazione del futuro di via Padova. Se tutti gli elementi vanno nella stessa direzione, si può sperare che la zona subisca quel processo che in altre città europee globalizzate è già avvenuto, come nella giamaicana Brixton a Londra, o come è stato per la più sofisticata Meatpacking a New York, dove la ferrovia sopraelevata, la high line che collegava tutte le fabbriche in disuso della zona, case di disperati fino agli anni Novanta, è diventata un giardino sospeso su Chelsea, una galleria di arte contemporanea open air.

 

Riflessioni di un italiano… svizzero

di Chicco

Cosa è l’integrazione? È mantenere la propria cultura e il proprio costume all’interno di un’altra società, o acquisire totalmente la cultura della società in cui si vive? Qual è il tempo “giusto” per definire l’integrazione un successo? Cosa è vera integrazione? Ponendomi queste domande ho provato a darmi delle risposte, che sono purtroppo labili. Sono labili perché basate su esperienze personali e quindi molto soggettive, ma soprattutto perché su questi temi “etici” ci sono più opinioni, che di certo non possono definirsi mai completamente sbagliate.

Innanzitutto ho provato a capire cosa significhi in realtà integrazione. Per quanto male possa addentrarmi nel cercare l’etimologia del termine, credo significhi “rendere integro”, aggiungere qualcosa in modo quasi impercettibile al fine di ottenere qualcosa di completo, ma quindi diverso rispetto alla partenza. A conferma della mia tesi, alcuni sinonimi ricorrenti sono completamento, perfezionamento, rinforzo, aggiunta. Insomma l’integrazione ci porta da uno stato di fatto a qualcosa di nuovo, e non può essere indolore né per chi quel qualcosa lo aggiunge né per chi faceva parte dell’intero.

Inevitabilmente qualcosa a cui siamo legati, qualche piccola tradizione verrà ad esempio sostituita da un mix di altre, portate da luoghi lontani, per la maggior parte di noi tradizioni peraltro quasi incomprensibili. Questo processo porta quindi con sé una domanda. Che non è solo accettare la convivenza con uno straniero e accettarne usi e costumi, ma anche che gli stessi, almeno in piccola parte, diventino miei, sostituendo qualcosa a cui potenzialmente potrei essere affezionato. Per integrarsi è necessario che le due parti in gioco abbiano la volontà di farlo, che gli “integranti” siano pazienti e benevoli quanto gli “integrati” (termini piuttosto ridicoli, lo ammetto, ma chiamarli in altro modo potrebbe portare ad altri pensieri), che si  trovino punti in comune da cui partire e che possano comunicare. Ovviamente è facile capire che bisogna essere molto fortunati, oltre che bendisposti, per completare un percorso di questo tipo in modo soddisfacente.

Per quel poco che vedo qui oltralpe, in un cantone tedesco della ordinata società svizzera, generalmente, con lo scarto di una generazione, l’integrazione (?) è quasi completa. Ma è un processo che non mi convince: se questa è l’integrazione alla quale si mira, forse si sta mirando male. I figli di immigrati, le seconde generazioni per intenderci, sono svizzeri in quasi tutti gli aspetti principali: parlano correttamente il dialetto locale, la lingua ufficiosa in ogni circostanza, partecipano alla vita locale come i cittadini “puri” e si ritengono svizzeri pur rimanendo legati, almeno a parole, alle realtà dei propri genitori. Dico ciò, perché i figli di italiani, per quanti almeno ne abbia conosciuti io, sono convinti di essere italiani solo perché usano parmigiano e bevono l’espresso, ma poi parlano un italiano imbastardito dallo schwizer dütch, non sanno cosa sia il pranzo domenicale e confondono facilmente un caffè lunghissimo con un espresso. Inoltre, non guardano alla loro nazione con nostalgia, ma con distacco e spesso malcelata disapprovazione… e chi ha qualche altro luogo comune da aggiungere a questi banali esempi faccia pure. La domanda è: sono integrati coloro che hanno perso il 95% della loro cultura madre, pur spacciando quel 5% per la parte dominante? È vera integrazione quella che piega la cultura dell’immigrante ad immagine e somiglianza di quella locale? Credo di sì, perché, come detto, “uno di seconda generazione” dirà di essere svizzero. Quindi farà parte del nucleo che ha inizialmente accolto la sua famiglia. Ma non sono sicuro che sia l’integrazione che vorrei io. O forse, ancora meglio, non è l’integrazione quello che voglio. Vorrei vivere in un paese libero davvero, dove la mia italianità non sia sbertucciata ad ogni angolo, dove non mi si chiami Schettino o BungaBunga giusto per farsi una risata. Dove, se parlo ad alta voce, non mi si guardi storto, o, se mangio più pane di tutto il resto dei commensali, non mi si dica sorridendo: “Sei italiano, ehhh?”.

Magari no, questa non è accoglienza e nemmeno integrazione. O magari lo è, e devo solo accettare che per integrarsi bisogna far fatica, e bisogna smettere di essere italiani (stranieri), ma bisogna iniziare ad essere svizzeri con una piccola parte di italianità (integranti). Anche se pare che queste battute stiano lì solo a rimarcare ogni volta le mie differenze, sono invece uno strumento utile a ricordarmi che, se voglio far parte di questa società, ho da modellare me stesso, in modo da inserirmi laddove trovo uno spazio per me. Non mi piace, non riesco proprio a farmi piacere questa visione di “integrazione”, ma alla fine però funziona: agli svizzeri non crea problemi, ed entro una, al massimo due generazioni, svizzeri lo si diventa. L’unica obiezione è, se si vuole, che la Svizzera sfrutta economicamente questa situazione. Lavoro a basso costo che proviene da oltre frontiera garantendo un buon risparmio alle piccole aziende sul confine. Ma anche su questo, chi ne esce scontento? Nessuno, mi pare. E se funziona così bene, e l’unico a cui sembra sbagliato sono io, cosa c’è di davvero sbagliato? È giusto che qui non possa viverci chi non abbia lavoro o diritto d’asilo? È giusto che qui sia necessario potersi assicurare per esser residenti? È giusto che un residente svizzero da più di vent’anni possa non ottenere la cittadinanza per il solo fatto di non saper scrivere correttamente in tedesco (o italiano, o francese)? È giusto che un figlio di stranieri nato, vissuto e che abbia studiato in Svizzera ancora non sia svizzero? Normalmente mi verrebbe da dire di no, ma ho il forte dubbio di sbagliarmi.

Forse sono solo io ad insistere di voler vedere l’integrazione come libertà di far tutto quel che mi pare, ovunque io sia, purché non ci siano mai atti violenti in mezzo e nel pieno rispetto della legge.

Ma poi penso… urtare la sensibilità di qualcuno non è atto violento? Privare qualcuno della sua tranquillità non è meschino?

Provocando provocando… Se a mia nonna “ghe piasen mia gli zingari, perché viven nele baracche” è giusto che io comunque li faccia insediare a 2 km da casa sua (privandola della sua tranquillità e urtando la sua sensibilità)? Esagerando ancora un po’, cosa c’è di sbagliato nel “padroni a casa nostra”?

Sono concetti semplici coi quali un gradasso borioso come Salvini riesce a far presa ottimamente. Sarebbe il caso per me di capire cosa c’è di giusto nel difendere il proprio spazio, le proprie abitudini e come evitare che delle paure legate a semplici pregiudizi possano venire utilizzate in una campagna elettorale.

Da dove vivo porto il mio esempio, per dire che dal Ticino in su i pregiudizi marciano forti nelle menti della maggioranza. Ma quella stessa maggioranza è capace di accogliere e dar da vivere in modo dignitoso a un 30% di immigrati (sul totale di abitanti). Quella stessa maggioranza che ti piega a sua immagine e somiglianza ti rende svizzero, ma è in grado di includere in sé un numero spropositato di nazionalità… forse tutte al 5%.

Promesse elettorali

Uno su due non crede al taglio delle tasse

da ilfattoquotidiano.it (con modifiche), 24 luglio 2015

Più di un italiano su due non crede nell’annuncio di abbassamento delle tasse fatto da Renzi. Secondo il sondaggio il 61% degli italiani non crede a questa promessa. Il 33% ne è invece convinto. Fra gli elettori del Pd, il 59% crede che all’annuncio di sabato scorso seguiranno i fatti.

Sergio Mattarella è il leader più amato dagli italiani, con il 62% dei consensi, stabile rispetto al dato della settimana scorsa. Matteo Salvini è l’unico leader che cresce negli indici di popolarità. Tra gli elettori dei Cinque Stelle Luigi Di Maio batte Beppe Grillo. Sono gli elementi principali, in sintesi, di due sondaggi di Ixè e Swg.

I partiti
Per Ixè il Pd si attesta al 33,8 per cento, mentre il Movimento Cinque Stelle è a un distacco esatto di 10 punti (22,8). La Lega Nord si conferma terzo partito con il 15,7, mentre Forza Italia scende addirittura al limite della doppia cifra (10 per cento). Riuscirebbero a varcare la soglia di sbarramento Sel (4 per cento), Fratelli d’Italia (3,4) e Ncd e Udc se si presentassero davvero insieme alle elezioni come Area Popolare (metterebbero insieme rispettivamente il 2,8 e l’1,3, raggiungendo il 4,1).

Renzi stabile, sale la fiducia nel governo
Per le rilevazioni Ixè per Agorà Estate (Rai Tre) la popolarità di Matteo Renzi è stabile al 31 per cento, mentre Salvini è comunque terzo, passando dal 23 al 24 per cento in una settimana. Seguono Beppe Grillo (22%), Silvio Berlusconi (13%) e Angelino Alfano (11%). Sale, intanto, di un punto percentuale la fiducia nel governo, che passa dal 27% della settimana scorsa al 28. Per Swg, mentre il Movimento Cinque Stelle cresce dal 24,4 al 26 per cento in una settimana, il vicepresidente della Camera Di Maio piace più del leader M5s Grillo (28 contro 24 per cento).

Infine l’immigrazione: quasi un italiano su due (49%) accoglierebbe dei migranti nel quartiere in cui abita e non accoglierebbe un campo rom. Alla domanda: accoglierebbe dei migranti nel suo quartiere? Il 49% del campione si è detto favorevole; il 45% contrario. Risultato diverso alla domanda se accoglierebbe un campo rom nel suo quartiere: il 78% degli intervistati si è detto contrario, il 17% favorevole.

Siamo di tutti i colori

Celio Azzurro, l’asilo interculturale di Roma, compie 25 anni. Ma il futuro è a rischio

Nato nel 1990, la sua missione è quella di accogliere prima di tutto i nuclei familiari meno abbienti. Nel centro sono passati più di 1000 bambini da più di 80 paesi. Il fondatore Guidotti: “Abbiamo messo a punto un metodo, vorremmo mettere a disposizione la nostra esperienza di ricerca educativa”.

di Cinzia Gubbini – Repubblica.it, 28 giugno 2015

Celio Azzurro compie 25 anni. E forse la migliore dimostrazione del successo di questa straordinaria esperienza educativa, che sorge nella “selva” del Monte Celio a Roma, è la maestra Fayo. È uno dei dieci educatori che ogni mattina fanno scuola a 60 bambini tra i 3 e i 6 anni. Ma anche Fayo è stata una delle bambine di Celio Azzurro, anzi: una delle prime iscritte. Erano in cinque quando tutto cominciò.

Giugno 1990. Per un gruppo di maestri, giovani e idealisti, arriva l’ok della Provincia di Roma: possono aprire un centro interculturale in una piccola struttura di legno, quasi una baita, che rischia di marcire sotto una fitta vegetazione. Collaborano con la Caritas Diocesana di Don Luigi Di Liegro. In quegli anni l’immigrazione non è ancora un’emergenza in Italia. Ma alla Caritas sanno che la società sta cambiando, vogliono fare qualcosa per i bambini. Proprio nel ’90 nella Capitale arriva un flusso di profughi somali e eritrei. L’amministrazione li piazza in alcuni hotel in periferia. I maestri di Celio Azzurro vanno a bussare alle porte di quelle famiglie spaventate e disorientate, cercano di far capire loro che possono fidarsi e che per i figli andare all’asilo, anche se non è obbligatorio, è importante. La pagano subito cara: nel gennaio del 1991 il centro viene dato alle fiamme. Rinasce solo grazie a una campagna di stampa.

Oggi, a due passi dal Colosseo, il Monte Celio è un ambiente molto “in”. Celio Azzurro però resta una “struttura resistente”, fedele alla missione di accogliere prima di tutto i nuclei familiari meno abbienti. Per loro la scuola è gratuita. Gli altri pagano una retta, inferiore a quella della maggior parte degli asili privati. In 25 anni qui sono passati circa 1000 bambini da più di 80 paesi, miscelando sapientemente famiglie fragili con quelle socialmente più agiate. Ogni anno Celio Azzuro deve dire di no a decine di famiglie che vengono a sostenere il colloquio sperando di far crescere il pargolo nel famoso giardino dell’asilo, in mezzo a bambini di ogni paese del mondo, dargli la possibilità di frequentare una scuola che non si vergogna di avere un progetto educativo forte e orientato alla diversità culturale.

L’esclusione delle famiglie che si candidano per entrare al Celio è il primo cruccio – ma non il solo – di Massimo Guidotti, l’unico superstite del gruppo originario dei fondatori, oggi direttore educativo del centro. Guidotti assomiglia un po’ alla sua creatura: struttura massiccia, modi semplici e spicci che nascondono una profonda e continua riflessione sul ruolo del maestro, sulla sorte della scuola oggi e su quel che resterà in futuro di un’esperienza come il Celio, arrivata a un quarto di secolo.

La previsione è amara: “Credo che Celio Azzurro morirà con noi”, dice Guidotti. Il pessimismo è dovuto ovviamente alla precarietà del finanziamento comunale con cui ogni anno deve lottare la cooperativa. Ma non solo: a “uccidere” il Celio è anche l’indifferenza. Il più bel regalo di compleanno per il centro interculturale sarebbe diventare oggetto di studio di qualche istituto di ricerca. Finora non è mai accaduto, benché il centro sia sbarcato addirittura nelle sale cinematografiche grazie al documentario “Sotto il Celio Azzurro”, di Edoardo Winspeare.  “Per carità, ci invitano ai convegni – racconta Guidotti – Ma vorremmo mettere a disposizione la nostra esperienza di ricerca educativa. Pensiamo ce ne sia un gran bisogno. Ormai possiamo dire senza presunzione di aver messo a punto un metodo. Non tutto è esportabile nella scuola pubblica, che è quella che ci sta a cuore. Ma molte cose sì”.

Quali sono allora i capisaldi del “metodo Celio”? Pochi, semplici, ma in effetti “alieni”. Prima di tutto gli orari: flessibili. “Ovviamente non vuol dire che ognuno viene e va quando vuole. Ma se un genitore si vuole fermare a prendere un caffè o a chiacchierare, vedere cosa fa il figlio, ci fa piacere. Nessuno resta fuori dalla porta, non abbiamo nulla da nascondere”, spiega Guidotti . D’altronde il secondo punto è proprio la presa in carico delle famiglie, e non solo del bambino: “La scuola non può riflettere se sia il caso di farlo o no, lo deve fare e basta. La famiglia va orientata, ascoltata, lo spazio della scuola o viene inteso come comunità oppure si creano i fenomeni di contrapposizione in cui l’insegnante perde completamente autorevolezza”.

Terzo punto: il rispetto dei tempi dei bambini: “Celio Azzurro è una scuola che va piano – dice Guidotti – qui innanzitutto si gioca. Non si sta seduti. Non si colora rispettando le cornici perché sennò c’è un problema cognitivo. Il bambino ha bisogno di correre e di saltare, ha bisogno di colorare come gli va, ha bisogno innanzitutto di relazionarsi con gli altri. Siamo sicuri – chiede il direttore del Celio – che a sei anni, in prima elementare, per un bambino sia naturale stare otto ore seduto? È un’esigenza degli insegnanti e dei genitori, o del bambino? Figuriamoci prima”. Quarto punto: la presenza di figure maschili. Per il Celio Azzurro l’educatore maschio insieme alle educatrici femmine è irrinunciabile: “Il problema è che sono sempre di meno – dice Guidotti – ormai l’insegnamento, soprattutto nell’infanzia e alle elementari, è esclusivamente femminile. E questo è un grosso guaio, perché la scuola dovrebbe rispecchiare la realtà della società. I bambini quando sono a scuola dovrebbero essere nel mondo. E nel mondo ci sono maschi e femmine”.

Ovviamente, nel mondo ci sono anche culture e lingue diverse. Ed ecco l’ultimo e più importante caposaldo del “metodo Celio”, cioè l’interculturalità: “Questa scuola è nata come profilassi a un problema sociale che secondo noi si sarebbe creato presto, e mi sembra che la storia ci abbia dato ragione. Ma anche qui: come si fa interculturalità? Vogliamo conoscere l’altro attraverso la cucina del suo paese o vogliamo conoscerlo come persona? Per noi l’interculturalità non è una materia disciplinare, ma è incontro reale – dice Guidotti – e non ci interessa partire dalle differenze, ma dalle somiglianze”.

Per ora, non è andata a buon fine neanche la richiesta di aprire una succursale di Celio Azzurro, vista la quantità di richieste. Soldi per il sociale non ce ne sono. “È sempre così: né soldi, né tempo per parlare delle problematiche di fondo”, è l’opinione di Guidotti. Che dice di sentirsi qualche volta come il Galileo di Brecht, che pensava di mettere a tacere le obiezioni degli aristotelici semplicemente invitandoli a guardare nel cannocchiale. Ma, come è noto, rifiutarono.

QUI il sito di Celio Azzurro

 

Causa, effetto. Rimedio?

Segnalato da Barbara G. e transiberiana9

Riportiamo due articoli sul tema dei migranti. Il primo è un’intervista a Marek Halter, il secondo un post di Cecilia Strada. Due punti di vista complementari…ma fino ad un certo punto.

MAREK HALTER: “L’OCCIDENTE RISPONDE SOLO CON RIFIUTI MA LE DISEGUAGLIANZE LE ABBIAMO CREATE NOI”

Anais Ginori intervista Marek Halter: «Oggi il problema non è più redistribuire i disperati alle frontiere ma pensare ai milioni che seguiranno» Comprendere questo è solo un primo passo per capire che cosa occorre fare. Ma proseguire il ragionamento è molto faticoso e scomodo.

Di Marek Halter – LaRepubblica, 14/06/2015 (tramite eddyburg.it)    

Fuori da una chiesa, quante persone si fermano per dare una moneta al mendicante? Pochissime. Eppure sarebbe un dovere prescritto in tutte le religioni, anche nell’Islam. Allo stesso modo, i governi si sottraggono alla loro responsabilità morale: non esiste una legge che obbliga a essere generosi». Lo scrittore francese Marek Halter ha vissuto per dieci anni come ebreo polacco sans papiers e poi trent’anni da rifugiato politico. «Porto con me la memoria delle mie origini. Ma non voglio essere un demagogo, né un sognatore», avverte. «L’immigrazione è un tema sul quale anche noi intellettuali dobbiamo provare a ragione in modo pratico».

Cosa pensa di due paesi europei che si rimpallano migranti al confine, come accade in queste ore a Ventimiglia?

«Non è un bello spettacolo ma il governo francese non lo fa per ragioni ideologiche. È sotto pressione dell’opinione pubblica che ha paura. Dagli anni ‘60 agli anni ‘90 l’Europa viveva in una relativa tranquillità sociale. La Francia ha accolto più di un milione di francesi di Algeria. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la crisi, esistono tre milioni di disoccupati che vivono con i sussidi. Come può reagire un francese, o un italiano, che ha paura per l’avvenire dei suoi figli vedendo arrivare migliaia di migranti?».

Si può sconfiggere il discorso della paura?

«Dovremmo tutti farci una domanda: sono pronto ad accogliere una famiglia di rifugiati a casa mia? Io lo farei, perché mi ricordo nel 1938 quando Hitler non aveva ancora deciso di massacrare tutti gli ebrei ma voleva già sbarazzarsene. Ci fu la conferenza internazionale di Evian per sapere quali paesi erano disposti ad accogliere ebrei. La sola nazione che ha risposto positivamente è stata la Repubblica Dominicana. In fondo oggi accade la stessa cosa. La reazione dei governi a Bruxelles, davanti al piano della Commissione che prevede la redistribuzione dei rifugiati, è stata la stessa di Evian: una serie di rifiuti».

Il ruolo di chi governa non dovrebbe essere proprio affrontare con lucidità emergenze come queste?

«Oggi il problema non è più redistribuire i migranti che sono a Calais o Lampedusa. Bisogna pensare ai milioni che seguiranno. Dobbiamo essere capaci di immaginare una soluzione globale per l’Africa. Abbiamo lasciato che la miseria devastasse un continente e ne paghiamo le conseguenze».

Si può trovare un’alternativa alla retorica del ritorno delle frontiere?

«Come aveva già previsto Karl Marx, il mondo è diventato uno. Ma dentro a questo mondo abbiamo creato delle disuguaglianze sociali ed economiche immense. La redistribuzione della ricchezza si fa attraverso ondate di immigrazione non controllata anche se prevedibile. Ho parlato qualche giorno fa con il presidente del Congo. Proponeva di riunire alcuni paesi africani per creare in Libia una zona sicura nella quale accogliere i rifugiati. Non sono sicuro che sia una buona idea. Ma bisogna ragionare su piccoli passi».

I campi di migranti evacuati nelle capitali, i piani Ue rifiutati, i muri anti-migranti ai confini. Qual è la differenza tra sinistra e destra sull’immigrazione?

«Magari non nelle azioni, ma almeno nelle parole. La destra non ha bisogno di trovare giustificazioni morali. La sinistra è costretta a fare dei gesti. La Francia è pronta a mandare coperte e cibo per dei migranti a patto che rimangano in Italia. Se il governo decidesse di aprire la frontiera a Ventimiglia, sa con matematica certezza che perderebbe le elezioni. E comunque la questione è complessa. Anne Hidalgo (sindaco socialista di Parigi, ndr) ha chiesto di aprire un centro in cui accogliere i migranti. Ma per quanto tempo, e chi penserà al loro futuro? Non si tratta solo di accoglierli, bisogna anche sapere come integrarli nella società. Sono dilemmi umani che esistono dalla notte dei tempi. Caino si domanda se deve essere il guardiano di suo fratello. Di sicuro non deve essere il suo genitore».

Perché si sente così poco la voce degli intellettuali?

«Prima erano battaglie politiche: dovevamo salvare vittime dei gulag, del regime in Cambogia o dell’apartheid in Sudafrica. Era facile. Si lanciavano campagne di boicottaggio, petizioni e manifestazioni. Erano battaglie da fare per persone che volevano la libertà. Oggi ci troviamo in una situazione imprevista: dobbiamo immaginare la condivisione della ricchezza del mondo. Certo, potremmo organizzare una manifestazione di solidarietà con i migranti a Ventimiglia. Ma sarebbe solo per darci una buona coscienza. Dovremmo tutti farci una domanda: saremmo pronti ad accogliere una famiglia di rifugiati?»

CECILIA STRADA: “PERCHE’ NON OSPITO UN PROFUO A CASA MIA? PAGO LE TASSE: OSPITARE E’ GENTILEZZA, PREFERISCO LA GIUSTIZIA

huffingtonpost.it, 14/06/2015

“Risposta collettiva per tutti quelli che “perché non ospiti i profughi a casa tua, eh?”. A rispondere dal suo profilo Facebook è Cecilia Strada, figlia di Gino Strada, fondatore di Emergency. A chiare lettere e senza mezzi termini: “E perché dovrei? Vivo in una società e pago le tasse. Pago le tasse così non devo allestire una sala operatoria in cucina quando mia madre sta male. Pago le tasse e non devo costruire una scuola in ripostiglio per dare un’istruzione ai miei figli”

E continua: “Pago le tasse e non mi compro un’autobotte per spegnere gli incendi. E pago le tasse per aiutare chi ha bisogno. Ospitare un profugo in casa è gentilezza, carità. Creare – con le mie tasse – un sistema di accoglienza dignitoso è giustizia. Mi piace la gentilezza, ma preferisco la giustizia”.