inquinamento

Scusate il ritardo.

Emissioni inquinanti, Italia inadempiente sui dati del 2015: ‘Comunicati fuori tempo per problemi tecnici’. Unico Paese dell’Ue

Triskel182

Roma non ha fornito a Bruxelles informazioni relative a oltre 3.000 stabilimenti. Lo si legge sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Non sono state comunicate entro la data richiesta”, marzo 2017.

L’Italia è l’unico Paese a non aver fornito alla Commissione europea i dati relativi al 2015 sulle emissioni inquinanti di oltre 3.000 stabilimenti nei tempi stabiliti dal Regolamento comunitario. Così, ora che il registro è pubblico, nella mappa delle circa 30mila industrie dei Paesi membri e di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia e Svizzera, la Penisola è un buco nero senza alcuna informazione. E la situazione non cambierà almeno fino a novembre.

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Gli Ikebiri denunciano ENI

segnalato da Barbara G.

greenpeace.org, 04/05/2017

Per la prima volta in Italia, una piccola comunità africana, stanca di subire l’inquinamento degli sversamenti petroliferi nel Delta del Niger, porta in tribunale una multinazionale: il gigante del petrolio ENI.

Siamo in Nigeria, nello Stato di Bayelsa. Qui vive la comunità Ikebiri che, sostenuta dall’Associazione Friends of the Earth (Amici della Terra*) Europe e da Environmental Rights Action/FoE Nigeria, ha deciso di portare davanti a un tribunale italiano il gigante del petrolio ENI.

L’accusa è relativa ad un incidente verificatosi nel 2010, in seguito ad un guasto dell’impianto estrattivo (ammesso dalla stessa ENI) che ha causato uno sversamento di petrolio nell’area del Delta del Niger dove vive la comunità.

ENI, che opera in Nigeria attraverso la sua controllata Nigeria Agip Oil Company (NAOC), sostiene di aver già ripulito il sito ma la comunità locale contesta che il petrolio fuoriuscito sia stato semplicemente bruciato, e per di più senza il loro consenso e senza una completa bonifica.
Gli Ikebiri portano adesso ENI in tribunale per chiedere di completare la pulizia del sito inquinato e ottenere un risarcimento danni.

Francis Temi Ododo, capo della Comunità Ikebiri, racconta: “La nostra comunità non può aspettare. Abbiamo subito l’inquinamento di Eni per troppo tempo. Le nostre attività di pesca hanno subito danni, la nostra agricoltura ha subito danni. Le nostre vite hanno subito danni”.

Di fatto, le comunità che abitano nel delta del Niger subiscono da decenni gli effetti degli sversamenti di petrolio, con sversamenti che si succedono ogni settimana. Dell’enorme businnes del petrolio in Nigeria di giganti come ENI e Shell, la popolazione locale subisce solo gli effetti disastrosi, come l’inquinamento dell’acqua e della terra.

Secondo FoE Europe, fino ad oggi 11 milioni di barili di petrolio sono stati sversati nel Delta del Niger, che corrispondono al doppio della quantità sversate durante il disastro Deepwater Horizon nel Golfo del Messico.

*****

*Il nome “Amici della Terra” è riportato a titolo di semplice traduzione dall’inglese. L’associazione italiana “Amici della Terra” a seguito di una decisione dell’Assemblea Generale (http://www.foei.org/no-category/italy) non fa più parte, dall’Ottobre 2014, di Friends of the Earth International.

Renzi promette miliardi, ma il Tesoro confessa: “Niente soldi contro il dissesto idrogeologico”

Tanto fumo…

Triskel182

dissesto

Ieri Matteo Renzi è andato a Genova: “Stasera presentiamo i lavori sul Bisagno (il fiume esondato nel 2014, ndr): la lotta al dissesto non si fa con le parole ma coi cantieri. E sono molto fiero dei passi in avanti giganteschi che sono stati fatti. Ma non basta”. I passi avanti giganteschi sono parte del Grande Piano contro il dissesto idrogeologico 2015-2020 da 9 miliardi: “Una rivoluzione copernicana – la definì il premier l’anno scorso –. Abbiamo già stanziato 1,2 miliardi. Ci rimbocchiamo le maniche e sistemiamo tutto”. Su Italiasicura.it si possono vedere i cantieri in una graziosa mappa multimediale. Poi, però, c’è la realtà.

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I velENI del Pertusillo

segnalato da Barbara G.

“Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”

In un colloquio con Il Fatto Quotidiano lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull’inquinamento all’invaso del Pertusillo

di Antonello Caporale – ilfattoquotidiano.it, 04/04/2016

“Mi chiamo Giuseppe Di Bello, sono tenente della polizia provinciale ma attualmente faccio il custode del Museo di Potenza. Da sei anni sono stato messo alla guardia dei muri, trasferito per punizione perché ho disonorato la divisa che porto. L’ho disonorata nel gennaio del 2010 quando mi accorgo che la ghiaia dell’invaso del Pertusillo si tinge di un colore opaco. Da bianca che era la ritrovo marrone. Affiora qualche pesciolino morto. L’invaso disseta la Puglia e irriga i campi della Lucania. Decido, nel mio giorno di riposo dal lavoro, di procedere con le analisi chimiche. Evito di far fare i prelievi all’Arpab, l’azienda regionale che tutela la salute, perché non ho fiducia nel suo operato. Dichiara sempre che tutto è lindo, che i parametri sono rispettati e io so che non è così. L’Eni pompa petrolio nelle proprie tasche, e lascia a noi lucani i suoi veleni. Chiedo la consulenza di un centro che sia terzo e abbia tecnologia affidabile e validata. Pago con soldi miei. Infatti le analisi confermano i miei sospetti. C’è traccia robusta di bario, c’è una enorme concentrazione di metalli pesanti, tutti derivati da idrocarburi. E’ in gioco la salute di tutti e scelgo di non attendere, temo che quei documenti in mano alla burocrazia vadano sotterrati, perduti, nascosti. Perciò le analisi le affido a Maurizio Bolognetti, segretario dei radicali lucani, affinché le divulghi subito. Tutti devono sapere, e prima possibile!

Decido di denunciare i fatti alla magistratura accludendo le analisi che ho fatto insieme a quelle precedenti e ufficiali dell’Arpab molto più ottimistiche e tranquillizzanti ma comunque anch’esse costrette a rilevare delle anomalie. Alla magistratura si rivolge anche l’assessore regionale all’Ambiente che mi denuncia per procurato allarme. Il presidente della Regione, l’attuale sottosegretario alla Salute Vito De Filippo, dichiara pubblicamente che serve il pugno duro. Infatti così sarà. I giudici perquisiscono l’abitazione di Bolognetti alla ricerca delle analisi, che divengono corpo di reato. Io vengo denunciato per violazione del segreto d’ufficio, sospeso immediatamente dall’incarico e dallo stipendio (il prefetto mi revocherà per “disonore” anche la qualifica di agente di pubblica sicurezza) mentre l’invaso del Pertusillo si colora improvvisamente di rosso, con una morìa di pesci impensabile e incredibile. Al termine dei due mesi di sospensione vengo obbligato a consumare le ferie. Parte il procedimento disciplinare, mi contestano la lesione dell’immagine dell’ente pubblico e mi pongono davanti a un’alternativa: andare a fare l’addetto alla sicurezza del museo o attendere a casa la conclusione del processo. E’ un decreto di umiliazione pubblica. Ma non mi conoscono e non sanno cosa farò.

Infatti accetto l’imposizione, vado al museo a osservare il nulla, ma nel tempo libero continuo a fare quel che facevo prima. Costituisco un’associazione insieme a una geologa, una biologa e a un ingegnere ambientale e procedo nelle verifiche volontarie. Vado col canotto sotto al costone che ospita il pozzo naturale dove l’Eni inietta le acque di scarto delle estrazioni petrolifere. In linea d’aria sono cento metri di dislivello. Facciamo le analisi dei sedimenti, la radiografia di quel che giunge sul letto dell’invaso. Troviamo l’impossibile! Idrocarburi pari a 559 milligrammi per chilo, alluminio pari a 14500 milligrammi per chilo. E poi manganese, piombo, nichel, cadmio. E’ evidente che il pozzo dove l’Eni inietta i rifiuti non è impermeabile. Anzi, a volerla dire tutta è un colabrodo!

La striscia di contaminazione giunge fino a Pisticci, novanta chilometri a est, e tracce di radioattività molto superiori al normale e molto pericolose sono rintracciate nei pozzi rurali da dove i contadini traggono l’acqua per i campi, per dissetare gli animali quando non proprio loro stessi. La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?”.

Le multiutility e l’inceneritore

segnalato da Barbara G.

Inquinamento, qui più che viver bene si muore bene

artventuno.it, 17/12/2015

Cremona è una piccola città con una grande storia. Cremona è una piccola città con tante storie. Una di queste è quella della sua locazione, in mezzo alla pianura padana e dove non tira un filo di vento; un clima perfetto per una vocazione agricola e dell’allevamento; un clima perfetto per produrre vegetali ed allevare i bovini da latte, dai quali si ricava buona parte del latte consumato nell’Italia intera.

A Cremona c’era una raffineria, che per circa 60 anni ha inquinato la nostra aria e le nostre falde acquifere. Finalmente si è riusciti a chiuderla, ma nessuno parla di bonifica per paura di dover dichiarare che tutta la citta poggia su metri di profondità di terreni da buttare.

A Cremona, a pochi chilometri, esiste una delle più grandi acciaierie d’Europa. Che illumina la notte cremonese (la luce delle sue siviere si vede a km di distanza) e che, nonostante si tratti di un impianto di recente costruzioni e quindi all’avanguardia, da un certo punto di vista, non può non inquinare e regalare dei begli strati di depositi bruni sui campi circostanti. E nei nostri polmoni.

A Cremona esiste un inceneritore. Nel 1994 i cittadini avevano votato contro, ma a Cremona hanno costruito un inceneritore. Che dovrebbe essere spento perché è obsoleto. Perché inquina. Perché indirettamente ha ucciso molta gente (a Cremona non tira un filo di vento ed il prodotto della termovalorizzazione ristagna). Perché a Cremona la raccolta differenziata dei rifiuti è stata propriamente implementata e quindi nel giro di 2-3 anni l’inceneritore potrebbe essere spento. Come da programma. Come da piano e cavallo di battaglia elettorale della attuale Amministrazione comunale.

La multiutility che gestisce l’inceneritore a Cremona e province limitrofe si chiama Lgh. L’altro grande gestore lombardo si chiama A2A che gestisce, tra gli altri, anche l’inceneritore di Brescia. A Brescia e Cremona si respira l’aria peggiore della Lombardia; la Lombardia è in Pianura Padana; la Pianura Padana è una delle aree più inquinate al mondo. A2A detiene delle quote di Lgh, la maggioranza delle quali è di proprietà della municipalità. A2A vuole acquisire il 51% delle quote di Lgh; il Comune dice che questo renderebbe tutto, diciamo, più vantaggioso per la comunità; più smart.

Se si cede il 51% delle quote si perderà la sovranità ed A2A, come da programma, importerà rifiuti dal Sud, soprattutto dalla Campania per bruciarli nell’inceneritore e per produrre utile; la produzione dell’utile è l’obbiettivo di ogni impresa. La salute dei cittadini non è l’obbiettivo di ogni impresa.
I rifiuti verranno bruciati appresso ad una città dove non tira un filo di vento; in un impianto dove il Comune più nulla fondamentalmente potrà (il caso di quanto sta accadendo a Brescia, dovutamente il suo inceneritore, in questi giorni mi sembra emblematico). I rifiuti verranno bruciati appresso ad una città dove potremmo cominciare a pensare di dismettere l’inceneritore. Appresso ad una città inquinata.

A Cremona abbiamo avuto la raffineria, abbiamo l’acciaieria ed un inceneritore. A Cremona si muore di tumore. Si muore tanto di tumore. Inceneritore fa rima con tumore. L’inceneritore potremmo spegnerlo; e potremmo risparmiare sui reparti di terapia del dolore all’avanguardia, che mi fa più che altro pensare che a Cremona si muoia bene, più che viverci.

Ed i nostri politici locali ci dicono che sarà un’operazione vantaggiosa per la comunità. Un’operazione che ci esproprierebbe del controllo locale e diretto dell’inceneritore ma, nel contempo (e non ci vuole un economista per capirlo; io non lo sono), ci caricherebbe degli eventuali oneri di perdite azionarie nella misura del 49% sul totale. I guadagni non li considero, perché è ovunque ampiamente e chiaramente dimostrato che questo tipo di impianti di guadagni non ne produce. Questa operazione vantaggiosa lederebbe eventualmente, a discrezione di A2A, anche i diritti di chi lavora in Lgh.

E non si potrebbe decidere direttamente dello spegnimento dell’impianto, che funzionerebbe ancora per anni. Inquinando le nostre terre i cui prodotti agricoli, mi vien da dire (sarebbe opportuno qualcuno sollevasse l’argomento, prima o poi), non saranno poi così sani.
Inquinando le nostre terre, la nostra aria, e forme tumorali di vario genere.

E la nostra Amministrazione ha fatto di tutto per non informare. E la gente si sta lamentando, sta capendo, ma la nostra Amministrazione finge che tutto vada bene. che tutti siano d’accordo. Felici. E questa cosa mi rattrista davvero perché potrebbe davvero essere tutto diverso. Migliore. Migliorabile.

Domani i nostri amministratori, anche chi ha fatto dell’ecologia la sua bandiera, si incontreranno per discutere e firmare la cessione del 51% ad A2A. i giochi sembrano fatti.
Io lavoro in un’altra città, ma vivo a Cremona dove sono nato. E sto pensando di andarmene. Perché a Cremona si muore bene. Aiuto.

Trucchi Crucchi

Volkswagen, la caduta del mito tedesco che fa scendere Angela Merkel dall’Olimpo

Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Tanto più che il caso Vw è solo il più clamoroso di una lunga serie.

di Leonardo Coen – ilfattoquotidiano.it, 25 settembre 2015

Ah, la sublime arte della manipolazione alemanna! Chissà se Der Spiegel sbatterà in copertina un bel piatto di wurstel e crauti mettendo al posto della senape un gustoso modellino di Volkswagen, o se userà il cliché del Barone di Münchausen, il re dei contaballe, mostrandolo a cavalcioni di una Volkswagen, invece della celebre palla di cannone, mentre viene sparato nientepodimeno che sulla Luna. Lo dovrebbe. Almeno per coerenza. Nel luglio del 1997 il settimanale di Amburgo volle dire la sua sull’Italia con la choccante foto del piatto di spaghetti condito da una pistola. Poi toccò alla Spagna, sull’orlo dell’abisso. E la Grecia, povera derelitta. Per anni, gli austeri maestrini tedeschi ci hanno bacchettato a noi europei del Sud spendaccioni e furbastri. Cicale e Maggiolini. Loro onesti, noi furbi. Loro economicamente corretti. Noi sempre al di sopra dei nostri mezzi. Austeritaten über alles! La severità ed intransigenza luterana contro l’ipocrisia cattolica, prima pecchi e poi tanto c’è il perdono, basta una piccola penitenza…

Beh, qualche affinità con le madornali e mirabolanti avventure raccontate dal Barone di Münchausen la Volkswagen che impersonava la granitica certezza del German engineering – mito dell’indiscutibile primato ingegneristico tedesco molto in voga nel pianeta anglosassone – ce l’ha, eccome ce l’ha. Per esempio, ha basato per decenni gran parte delle sue campagne promozionali sulla fiducia e la verità, instaurando una sorta di complicità col consumatore, un legame che coinvolgeva cuore e testa. La Volkswagen “parla chiaro”. Sottinteso: gli altri no. Ci sono spot che oggi stanno spopolando sul web tanto sono ridicoli, rivisti col senno di poi. In uno la protagonista è una distinta e anziana signora che cerca di vendere la sua auto a un giovane, prudentemente accompagnato dal padre per evitare – ovviamente, non si sa mai – qualche brutta sorpresa. I due alla fine la comprano, dopo un intenso scambio di occhiate tipo per un dollaro d’onore con l’anziana donna: “Potete dubitare delle vecchie signore. Ma potete fidarvi di tutte le Golf”. Specie quelle a diesel: non ammorbano l’atmosfera perché noi della Volkswagen siamo i migliori. BlueMotion Polo. Nobody’s perfect, altro slogan per convincere che tuttavia, i prodotti Volkswagen puntano alla perfezione. E alla possibilità che tu ne possa fruire. Senza fatica. Think small. Pensa piccolo per avere grande. La Grande Germania: per la quale l’auto rappresenta il 20 per cento dell’export tedesco e il 14 per cento del Pil. Rappresenta o rappresentava?

Mai come in queste ultime ore Angela Merkel viene descritta così tanto a disagio, angustiata, preoccupata. Al vertice di Bruxelles per l’emergenza rifugiati è apparsa stanca, poco incisiva. Non ha nemmeno replicato alle solite invettive di Viktor Orban che ha detto: “Quello della Merkel è imperialismo morale”. Gli stessi suoi compatrioti cominciano ad essere delusi da lei, un sondaggio del 23 settembre le dava infatti il 49 per cento di popolarità. Il minimo, dall’inizio dell’anno. Lo scandalo – “crepuscolo di un’icona”, titola Le Monde – rimette in causa il modello di cogestione alla tedesca di cui la Vw era l’emblema. La descrivono pallida, non più sicura e determinata come prima. Per forza. Proprio all’apice della sua canonizzazione politica ed etica – pensate alla vicenda migranti, agli estenuanti bracci di ferro con Putin – nel giorno stesso in cui avrebbe dovuto festeggiare il decennale della sua vittoria elettorale (il 18 settembre 2005) che le avrebbe fatto conquistare la carica di Cancelliere del Paese più importante d’Europa, le è arrivata dagli Stati Uniti una bordata che dire devastante è minimizzare. Perché la Volkswagen è più di un grande gruppo industriale, “Volkswagen è la Germania”, ha detto Gitta Connemann, influente deputata Cdu. Lo ha del resto sottolineato Spiegel online: “Non sono i miliardi di multa che minacciano la Volkswagen, bensì il danno d’immagine (…) La giustizia americana segue una linea molto dura per combattere la criminalità economica”. Il vulnus è di proporzioni inaudite (come le avventure del Barone di Münchausen…) che non soltanto colpisce l’azienda di Wolfsburg ma la Germania intera e la sua credibilità planetaria. Piglia di mira la sua spocchia da prima della classe. Da imbrogliona come coloro che disprezzava. Altro che ruolo di “grande accusatore”, come ricorda Angelo Bolaffi. Adesso la Germania della Vw magliara si ritrova sullo stesso banco degli accusati “nello stesso giorno in cui Tsipras ‘il grande accusato’ (e con lui la Grecia) sembra forse esserne uscito. Insieme allo sconcerto per la rivelazione quasi epifanica della Grande Truffa, si cela la gioia maligna di chi ha subito gli strali dei supponenti leader germanici…

Persino la cancelliera è indirettamente coinvolta, come ha accusato il quotidiano Frankurter Rundschau, uno dei pochi giornali tedeschi a non avere circoscritto lo scandalo al mondo dell’industria automobilistica: “Angela Merkel da anni si posiziona come la lobbista in capo dei costruttori tedeschi d’auto. Il suo ministro dei Trasporti brilla per la febbrile attività di questi giorni e ciò avviene da anni, il suo ministero deve sapere che i costruttori imbrogliano sistematicamente sulle informazioni tecniche delle loro auto rispetto ai consumi e alle emissioni. Idem per il ministro-presidente della Bassa Sassonia dove si trova la sede della Vw. Il Land è il secondo azionista del gruppo. Nulla si fa alla Vw senza il suo consenso”. Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Dirty secrets of the car industry, titola l’ultimo The Economist. E per i tedeschi e gli americani la menzogna è un’aggravante particolarmente condannabile.

Adesso che il vaso di Pandora è scoperchiato e che le connivenze mediatiche – la pubblicità delle quattroruote è fondamentale per giornali e tv – sono state smascherate (da anni c’era chi inutilmente denunciava le sopercherie ma veniva ignorato: penso al rapporto“Mind the Gup! Why official car fuel economy figures don’t match up to reality” del 2013 di Transport&Environment, l’organizzazione europea che si occupa di sostenibilità ambientale dei trasporti), abbiamo l’effetto Domino. Vi siete dimenticati del caso Germanwings (gruppo Lufthansa)? Il 24 marzo scorso un suo Airbus A320 precipitò in Francia, causando la morte di 150 persone. Per un raptus di follia suicida del copilota Andreas Lubitz. Allora furono messi sotto accusa i test della compagnia. Vogliamo parlare del Berlin Brandenburg Flughafen? Dovevano aprirlo nel 2012. I tecnici scoprirono che i sistemi antincendio erano insufficienti. Dopo, fu la volta dei banchi del check-in ad essere insufficienti. Indi toccò al tetto della sala principale: non in grado di sopportare il peso e le sollecitazioni dei condizionatori. Comunque, avevano promesso di inaugurarlo a metà del 2016. Promessa rimangiata. Sarà aperto nel 2017: forse. Intanto i costi sono lievitati, passando da 3 a 6 miliardi di Euro. Tra sospetti di corruzione e pessima progettazione: “un aeroporto con 150mila difetti”, hanno scritto i giornali tedeschi. Se lo dicono loro…

Già, corruzione. Se i Greci erano corrotti, come sbraitavano in Germania, c’era chi doveva corromperli. I tedeschi. Siemens, Daimler, Rheinmetall – fu Business Insider Uk a fare una rassegna circostanziata dei maggiori casi di corruzione – sono oggetto di inchieste giudiziarie. Secondo i giudici greci, la Siemens ha dispensato mazzette per 70 milioni di euro. Il fascicolo che la riguarda conta 2.300 pagine, l’indagine è durata nove anni. La statunitense CorpWatch – gli americani sono spettatori assai interessati alle vicende tedesche – definì il caso Siemens “il più grande scandalo aziendale della storia greca dal dopoguerra”. In questo, i tedeschi confermano la loro tendenza al gigantismo. Vw ha un gito d’affari annuo di oltre 200 miliardi di euro, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo (ci vuole genio per realizzare il software fregone). Eurointelligence aggiunge che la Vw ha un rapporto consolidato con la politica tedesca. Facile paragonare la sua vicenda con la crisi dei subprime del 2007-2008 e il crack Lehman Brothers. Allora la Casa Bianca decise che la banca andava salvata perché “troppo grande per fallire” (too big to fail). Analogo destino attenderà la Vw. È la sindrome del cigno nero. Con qualche postilla, tanto per capire i veleni del contesto. Intanto, chi acquistava le presunte virtuose vetture diesel taroccate godeva dei bonus statali e europei. Essendo frutto di truffa, dovrebbero essere rimborsati. Andateglielo a dire agli acquirenti … Dulcis in fundo, non è che gli americani si sono vendicati dopo che erano stati beccati loro con le mani nella marmellata, per le intercettazioni telefoniche abusive della NSA (National Security Agency) fatte ai danni di Angela Merkel e di altri 55 politici tedeschi, come rivelò il sito di Julian Assange? In una telefonata la Merkel criticava il piano del Segretario del Tesoro Usa che aveva posto l’eventualità di sollevare le banche dalla responsabilità per i titoli tossici. In un’altra sosteneva che la Cina avrebbe dovuto avere maggiore influenza nel Fondo Monetario Internazionale. È guerra. Senza esclusione di colpi. Muoia Sansonen con tutti i Filistei. Speriamo che noi della Grande Bellezza Mediterranea ce la caviamo.

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Carbone cinese

Segnalato da Barbara G.

COME RISOLVERE L’ENORME PROBLEMA DELLA CINA CON IL CARBONE

Ogni anno il Paese brucia carbone quanto il resto del mondo messo assieme, con conseguenze ambientali gravissime. Ma ora qualcosa sta cambiando.

Di Richard Martin + MIT Technology Review

Trad. Matteo Ovi – linkiesta.it, 31/08/2015

Quando William Latta giunse in Cina nel 2005, la sua intenzione era cercare società da acquisire per il gigante energetico francese Alstom, ma finì per creare una società tutta sua. «Sapevo che il mercato ambientale si sarebbe sviluppato», dice Latta. «Pensavo potessimo fare qualcosa per il problema dell’inquinamento in Cina e creare, nel processo, un business redditizio».

La LP Amina, fondata da Latta, utilizza le ammine per ridurre l’inquinamento causato dalle ciminiere nelle centrali a carbone, in particolare le emissioni di ossidi di zolfo e ossidi di azoto. La LP Amina si è unita a un insieme di società che nel primo decennio del secolo hanno dato il via a un programma cruciale per il futuro del mondo: ripulire la vasta e inquinante industria del carbone in Cina.

Si tratta di una missione urgente e monumentale. La Cina è il più grande produttore e consumatore di carbone, arrivando a bruciare, ogni anno, tanto carbone quanto il resto del mondo messo assieme. Stando a uno studio pubblicato sulla rivista medica The Lancet, 1.2 milioni di persone in Cina muoiono prematuramente ogni anno a causa dell’inquinamento dell’aria. È come se ogni giorno morisse l’intera popolazione di Dallas, e la causa principale è il carbone. L’inquinamento atmosferico può rendere invivibili città come Pechino e Shanghai, e le gigantesche miniere di carbone all’interno del paese hanno deturpato migliaia di chilometri quadrati.

Non si tratta certo di una novità, ma l’Occidente sembra non essere al corrente dei successi conseguiti da società quali LP Amina e degli sforzi che il governo sta conducendo nel tentativo di frenare l’inquinamento atmosferico. I livelli di inquinamento in molte delle principali città cinesi, stando a Greenpeace, sono calati dal 2013 al 2014 e sarebbero scesi di approssimativamente un altro terzo nel primo quadrimestre del 2014. Stando alle misurazioni raccolte dal gruppo ambientalista, i livelli di PM 2.5, il particolato letale che contribuisce allo sviluppo di enfisemi ed altre malattie respiratorie, sono scesi del 31 per cento nella Provincia di Hebei, che include l’area metropolitana di Pechino.

I cieli sopra Pechino, Shanghai e Shenzhen – le megalopoli costiere maggiormente colpite dallo smog – non sono esattamente azzurri, ma stanno diventando meno grigi. La LP Amina e le società concorrenti stanno diventando vittime del loro stesso successo. «Il nostro business sta decisamente rallentando – le nostre dimensioni sono già diminuite della metà rispetto all’anno scorso», dice Latta.

In gran parte, i progressi sono giunti a seguito del giro di vite che il governo ha applicato sulla combustione di carbone per il riscaldamento domestico e la chiusura di piccole centrali a carbone in prossimità delle città principali. Sono anche merito della diffusione di scrubber ed altre tecnologie anti-inquinamento che sono ormai uno standard in Occidente.

Secondo alcune stime, intorno al 90 per cento delle centrali a carbone in Cina monta oggi almeno i sistemi di controllo di base per l’inquinamento. «Per quanto riguarda i fumi più comuni, entro il 2020 il livello di controllo in Cina sarà pari a quello di Europa e Stati Uniti», dice Latta.

Questa è senz’altro una conquista ambientale, e una di quelle che non ha ricevuto abbastanza attenzioni dai notiziari occidentali. Resta però da risolvere una sfida più ardua: i gas serra, che non vengono intaccati da scrubber ed altre tecnologie diffuse per il controllo delle emissioni. Se consideriamo tutto quello che è accaduto in Cina dal 2013 ad oggi come la “fase 1” del grande processo di pulizia del carbone, oggi possiamo dire di essere nella “fase 2”: la conversione del carbone in gas naturale sintetico, o syngas. Per continuare a ridurre l’inquinamento, il Paese dovrà compiere passi complessi, come l’implementazione del sequestro di anidride carbonica e la costante riduzione del consumo di carbone.

«La domanda più grande ora è, che ne sarà dell’anidride carbonica?», chiede Latta.

Il boom del syngas

L’importanza di questa domanda diventa evidente visitando l’industria del carbone nella Provincia di Shanxi, nel nord della Cina e vicina al confine con la Mongolia Interna, opportunità che mi si è presentata nel 2014 mentre conducevo ricerche per il mio libro “Coal Wars”. Lì, sotto le creste segnate dai resti della Grande Muraglia, centinaia di piccole e sporche miniere di carbone continuano ad alimentare gigantesche centrali a carbone che ogni anno vomitano tonnellate di anidride carbone nell’atmosfera. Il programma del governo centrale per lo spegnimento delle centrali a carbone nell’est, vicino alla costa, ha fatto poco per quanto riguarda le centrali nell’interno del paese. Di fatto, stando al più recente programma per i prossimi cinque anni, l’industria del carbone nell’ovest e nel nord del paese pare destinata a crescere drammaticamente.

Nel processo di pulizia della Cina, gli anni che vanno dai primi 2000 al 2012 sono stati caratterizzati dalla desolforazione – la limitazione del rilascio di sostanze inquinanti convenzionali e PM 2.5, responsabili diretti di numerose morti. Ora stiamo attraversando l’era della gassificazione.

Con questo ci si riferisce al processo di conversione del carbone solido in syngas, che è composto da idrogeno, monossido di carbonio e diossido di carbonio. Il syngas può essere bruciato per produrre elettricità o convertito in sostanze petrolchimiche. L’aspetto promettente, dal punto di vista ambientale, è che il carbonio può essere catturato e rimosso prima che il gas venga processato, anche se, almeno per il momento, le centrali a syngas non eseguono questa operazione.

Non si tratta certo di una nuova tecnologia – perse le loro fonti di petrolio durante la Seconda Guerra Mondiale, i nazisti producevano combustibile liquido dal carbone per alimentare i loro veicoli – ma la gassificazione è vista oggi come il percorso più diretto per l’industria cinese del carbone. Il governo ha annunciato piani per dozzine di centrali di gassificazione del carbone lungo la Mongolia Interna e nelle Province di Shanxi e Xinjiang; si prevede che questi impianti forniranno il combustibile liquido necessario per alimentare veicoli, l’etilene per le centrali petrolchimiche, ed altri prodotti. Stando alla National Energy Administration, la produzione raggiungerà i 50 milioni di metri cubi di syngas l’anno entro il 2020, un valore 25 volte quello della produzione registrata nel 2014.

Il supporto del governo, unito alla crescente domanda di derivati del syngas, hanno scatenato una corsa ai lavori nel 2005, quando grandi imprese di proprietà dello stato si sono gettate nella realizzazione di impianti di conversione. Secondo Bobby Wang, leader del marketing di prodotto per la gassificazione presso la GE Power & Water in Cina, il boom iniziale sarebbe stato un fallimento memorabile. Le prime centrali erano sporche e producevano syngas per un mercato pressoché inesistente, soprattutto perché mancava una adeguata rete di gasdotti.

Oggi, la frenesia iniziale ha lasciato spazio ad un approccio più misurato. Le società energetiche cinesi, inclusi i principali fornitori di carbone, hanno formato joint ventures con GE ed altre società statunitensi minori, quali la LP Amina, la Synthesys Energy Systems e la Summit Power, per realizzare impianti finanziariamente sostenibili attraverso i quali distribuire syngas per la generazione di energia, la produzione di petrolchimici, il calore per i processi industriali, ed altro. Col tempo, i bollitori utilizzati per produrre elettricità in questi impianti ricorreranno alla integrated gasification combined-cycle (IGCC), il sistema più efficiente per gassificare e bruciare carbone. Una volta «sbloccati gli idrocarburi» nel carbone attraverso questi impianti allo stato dell’arte, spiega Jason Crew, CEO della Summit Power di Seattle, «si potrà fare ogni genere di cosa, incluso ripulire le emissioni di anidride carbonica».

Eppure, diverse centrali coal-to-gas bruceranno lignite, il carbone “marrone” di bassa qualità che abbonda in Cina e nel Sud-est asiatico – la forma di combustibile che secondo gli ambientalisti non andrebbe nemmeno raccolta da terra. I benefici ambientali della gassificazione del carbone vengono inoltre contestati: stando a un rapporto di Greenpeace, che ha guardato all’intero ciclo di vita della gassificazione dall’estrazione al consumo, nel prossimo decennio il programma coal-to-gas cinese potrebbe aggiungere milioni di tonnellate di anidride carbonica, impedendo alla Cina di rispettare i traguardi fissati nel novembre 2014 con l’accordo fra Barack Obama e il presidente cinese Xi Jinping.

Ciononostante, diversi progetti bi-nazionali di R&D ben finanziati stanno cercando di ridurre le emissioni delle centrali coal-to-gas.

Uno di questi progetti, supportato con 450 milioni di dollari dal Clean Coal Power Initiative del DoE degli Stati Uniti, è previsto non per la Mongolia Interna ma per la zona petrolifera nel Texas occidentale. Il Texas Clean Energy Project combinerebbe una centrale IGCC da 400-megawatt con un impianto per la produzione di urea come fertilizzante e un sistema per la cattura del 90 percento dell’anidride carbonica (intorno a due milioni di tonnellate ogni anno). Questa stessa anidride carbonica verrebbe quindi riutilizzata per la enhanced oil recovery (EOR) nei pozzi del Bacino Permiano. Oltre alla Summit Power, il progetto vanta la partecipazione di società quali Siemens, CH2M Hill ed una unità ingegneristico costruttiva del gigante energetico China National Petroleum Corporation. Con un costo previsto di oltre 1,7 miliardi di dollari, il progetto sarebbe la centrale a carbone più avanzata mai costruita.

«L’elemento innovativo sta nel fatto che la cattura della CO2 è un sottoprodotto del processo – in pratica viene effettuata gratuitamente», spiega Latta.

Si tratta di uno scenario roseo che, probabilmente, dista ancora qualche decennio. Il fatto è che la maggior parte dei progetti per la cattura dell’anidride carbonica nelle centrali a carbone è stata sospesa o abbandonata. GreenGen, un prototipo tanto decantato di IGCC che sarebbe dovuto diventare il primo impianto su larga scala in Cina, è stato rinviato diverse volte nei suoi dieci anni di storia ed è stato recentemente ridimensionato. Anche se il progetto in Texas dovesse divenire realtà, il suo modello funzionerà solamente in alcune regioni dove la domanda per la cattura di anidride carbonica è elevata. Oltretutto, nel migliore dei casi, l’impianto prototipo non verrà completato prima del 2018. In sostanza, la soluzione più probabile per la Cina potrebbe essere semplicemente quella di bruciare meno carbone.

Una svolta sorprendente

Negli Stati Uniti, la frazione di energia prodotta dal carbone è scesa al di sotto del 40 per cento e dovrebbe continuare a scendere grazie all’abbondanza di gas naturale. La prospettiva di assistere a un effetto simile in Cina, fino a poco tempo fa, pareva alquanto remota.

Sorprendentemente, grazie al rallentamento dell’economia, al passaggio a industrie più leggere e con una minore intensità energetica, e un giro di vite sui consumatori privi di licenza, il consumo di carbone in Cina nel 2014 è sceso quasi del 2 per cento – il primo calo negli ultimi decenni. L’Institute for Energy Economics and Financial Analysis, che ha fornito il dato, precisa inoltre che in quello stesso anno l’economia era cresciuta del 7,4 per cento. Un rapporto di Greenpeace, pubblicato a maggio, ha scoperto che il consumo di carbone nei primi quattro mesi del 2015 è sceso dell’8 per cento rispetto allo stesso periodo nel 2014.

Nel caso in cui questo trend dovesse continuare, rappresenterebbe per il Paese «la più grande riduzione nel consumo di carbone da un anno all’altro». Come mostratoci dalla rivoluzione dello shale gas negli Stati Uniti, improvvise svolte nel consumo energetico possono verificarsi improvvisamente e inaspettatamente. Pesanti investimenti nello sviluppo di costose e futuristiche centrali a carbone potrebbero rivelarsi uno spreco.

«Uno degli argomenti che l’industria del carbone cerca sempre di tirar fuori è che il carbone è fondamentale per la crescita economica», dice Bruce Nilles, capo programma per la campagna Beyond Coal della Sierra Club. «Dicevano la stessa cosa negli Stati Uniti, e ora le cose stanno rapidamente muovendosi in un’altra direzione. Ora cercano disperatamente di convincerci che il carbone continuerà ad essere utilizzato in paesi in via di sviluppo come la Cina. Ma si basa tutto premesse fasulle».