Il Niger non è stato informato ufficialmente dall’Italia riguardo la prossima missione militare nel paese africano, il cui governo ha appreso del dispiegamento del contingente italiano da un lancio dell’agenzia di stampa Afp. Secondo quanto riferisce l’emittente Radio France Internationale, che cita le dichiarazioni di diverse fonti anonime interne al governo di Niamey, le autorità del paese africano hanno già informato il governo italiano di non essere d’accordo con tale missione. “Non siamo stati consultati né informati”, ha detto una fonte del governo nigerino a Radio France Internationale, “siamo rimasti sorpresi”. “Abbiamo detto agli italiani attraverso il nostro ministro degli esteri che non siamo d’accordo”, ha aggiunto un’altra fonte dell’amministrazione di Niamey. Angelino Alfano, il ministro degli Esteri italiano, ha visitato il Niger dal 3 al 5 gennaio di quest’anno, incontrando il suo omologo nigerino, Ibrahim Yacouba, e il presidente del paese, Mahamadou Issoufou, in occasione dell’inaugurazione della prima ambasciata d’Italia nel paese africano e nell’intera regione del Sahel. Secondo il governo, l’invio di soldati in Niger serve a “rafforzare le misure di sicurezza sul territorio, i confini del paese africano e a sostenere le forze di polizia locale”.
“Ci bastano già gli addestratori francesi e Usa”
Fonti di Rfi sostengono però che la formazione dei militari e delle forze di sicurezza del Niger sia già affidata ad altre nazioni e che il governo di Niamey ne sia soddisfatto. “Riceviamo già quello che ci serve dagli americani e ci siamo anche coordinati con i francesi”, ha detto una fonte del governo nigerino all’emittente francese. Queste fonti hanno comunque confermato a Radio France Internationale l’esistenza di un dialogo in materia di sicurezza e coordinamento tecnico con l’Italia, ma tutto ciò “non implica in alcun modo che il Niger possa ospitare tale missione”. Il 17 gennaio, il parlamento italiano ha approvato il dispiegamento della missione “di supporto nella Repubblica del Niger”, una missione che secondo il ministero della Difesa è “non combat ma di addestramento”. Questo intervento prevede lo schieramento di un contingente di 120 uomini nel primo semestre di quest’anno per poi raggiungere il numero massimo di 470 militari entro fine anno, non impiegati però contemporaneamente ma a rotazione. La media annuale dovrebbe essere infatti di “circa 250 soldati”. Oltre al personale militare, verranno poi inviati in Niger anche 130 mezzi terrestri e due aerei, per una spesa complessiva totale di 49,5 milioni di euro per tutto il 2018.
L’Italia alla ricerca di un ruolo in Africa
La missione italiana in Niger, così come l’aumento del numero di militari impegnati nella missione in Libia, nella missione Nato di supporto in Tunisia, nella missione Onu per il Sahara occidentale e in quella dell’Unione europea di addestramento delle forze armate locali nella Repubblica Centrafricana, mostra come l’Italia stia cercando una propria dimensione in Africa. All’inizio dell’anno, durante il suo tour africano, il ministro degli Esteri italiano ha affermato che i paesi a sud del Sahara sono considerati una priorità dell’agenda del governo italiano per il 2018. Il 5 gennaio, proprio durante la sua visita a Niamey, Alfano ha quindi annunciato che l’Italia destinerà al Niger il 40 per cento dei fondi governativi di assistenza per l’Africa. Il Niger è uno dei cinque paesi della regione del Sahel, insieme a Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania, ad aver costituito una forza congiunta anti-terrorismo per affrontare la minaccia jihadista che affligge questi paesi da anni. L’anno scorso, l’Unione europea ha stanziato piu’ di 50 milioni di euro per finanziare questo corpo militare, che ha ricevuto finanziamenti anche da Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
Roma non ha fornito a Bruxelles informazioni relative a oltre 3.000 stabilimenti. Lo si legge sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Non sono state comunicate entro la data richiesta”, marzo 2017.
L’Italia è l’unico Paese a non aver fornito alla Commissione europea i dati relativi al 2015 sulle emissioni inquinanti di oltre 3.000 stabilimenti nei tempi stabiliti dal Regolamento comunitario. Così, ora che il registro è pubblico, nella mappa delle circa 30mila industrie dei Paesi membri e di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia e Svizzera, la Penisola è un buco nero senza alcuna informazione. E la situazione non cambierà almeno fino a novembre.
Pensandoci bene, trascorso un certo numero di ore ed esercitata la più rigorosa autodisciplina per non incorrere in eccessi ineleganti, devo concludere che l’esito dell’audizione del Ministro Angelino Alfano presso le Commissioni Esteri di Camera e Senato è stato addirittura rovinoso. A parte le solite e lodevoli eccezioni – in questo caso particolarmente rare – il senso complessivo della discussione ha evidenziato alcuni elementi decisamente imbarazzanti.
E se le principali considerazioni sul merito e sulla sostanza di un dibattito deludente sono state già espresse, rimangono alcune questioni in apparenza di dettaglio che sono persino più rivelatrici. Eccole.
Giulio Regeni, nel corso dell’audizione, ha subìto quel meccanismo che abbiamo chiamato di «doppia morte».
È un dispositivo che è stato applicato, in numerose circostanze, nei confronti di vittime di abusi e violenze da parte di uomini e apparati dello Stato. Chi ne ha patito i danni si è ritrovato oggetto, nel corso dell’inchiesta e del dibattimento, di una vera e propria deformazione della sua identità. Alla morte fisica segue un processo di degradazione della persona, della sua biografia e della sua vicenda umana. Lentamente, la vittima rivelerà comunque una sua colpevolezza (e chi può dirsi totalmente innocente?). È quanto, in ultimo, accade a Giulio Regeni. Da molti degli interventi nel corso della seduta, si ricavava la sensazione quasi palpabile che il ricercatore italiano sia stato – a sua insaputa, per carità – una spia britannica: presumibilmente torturato e ucciso nella stessa Cambridge, in una oscura sentina di quell’Ateneo, al fine di metterlo a tacere. Non esagero (basti ascoltare il resoconto di quel dibattito e i suoi toni). Di conseguenza, se ne dovrebbe dedurre che il regime di Al-Sisi non sarebbe, certo, il più liberale del mondo ma, per «ragioni geo-strategiche» e per realismo politico, le sue responsabilità nell’orribile omicidio di Regeni andrebbero messe in secondo piano rispetto alle più gravi colpe della democrazia inglese. La quale ultima ha mosso e continuerebbe a muovere le fila di una trama spionistico-diplomatica nella quale si è trovato impigliato inavvertitamente «il povero ragazzo». Si badi al linguaggio. Perché, a tal proposito, insistere nel definire «ragazzo» un giovane uomo di 28 anni? E perché «studente», dal momento che aveva la qualifica professionale di ricercatore? Per la verità, in tanti interventi quelle parole così maldestre e le altre cui alludevano (l’ingenuità, la sprovvedutezza, l’inesperienza) rivelavano un sentimento assai diffuso tra i membri di quelle stesse Commissioni ma anche in parte della classe politica e della stessa opinione pubblica: un astio malcelato nei confronti di chi è giovane, intellettualmente preparato, ricco di talento e – ahi lui – grosso modo di sinistra. E, infatti, la figura così limpida e fascinosa di Giulio Regeni suscita, in alcuni segmenti della mentalità comune, un sentimento assai simile a una sorta di sottile invidia. Può sembrare tragicamente grottesco, se solo si pensa al corpo straziato di Regeni. Eppure credo che sia così: lo spirito del tempo porta con sé un rancore e una voglia di rivalsa che rendono insopportabile la limpidezza di quelle figure che si trovano a essere, nell’agonia e nella morte, simbolo intenso di valori forti. Da qui, l’irresistibile pulsione a lordarle, quelle figure, o almeno a ridimensionarle per ridurle alla nostra mediocre misura. Si tratta di meccanismi che degradano l’identità e la reputazione e che richiamano l’odiosa pratica del character assassination. Ancora. Nel corso dell’audizione il deputato Erasmo Palazzotto ha chiesto che le Commissioni Esteri ascoltino i genitori di Regeni e il loro legale, Alessandra Ballerini.
La proposta non è stata finora accolta e temo che non verrà presa in considerazione.
Al di là delle motivazioni formali, la vera ragione è che, da sempre, nei confronti dei familiari si assume un atteggiamento sminuente, se non denigratorio, anche quando si propone come massimamente rispettoso. «La più affettuosa comprensione» e la «la più doverosa solidarietà», ovviamente, verso il loro dolore e, allo stesso tempo, la riduzione delle loro parole alla sola dimensione dell’emotività. Dunque, la voce del cuore come contrapposta alla ragion di stato. Ma questo, oltre a essere meschino, è sommamente sciocco. La politica, l’autentica politica, quella intelligente e razionale, quella lungimirante e capace di una prospettiva strategica, ha sempre tenuto in gran conto la sfera dei sentimenti, delle passioni e delle sofferenze. Le vittime e i familiari delle vittime hanno svolto spesso un ruolo cruciale proprio nel dare profondità e razionalità all’azione pubblica e al ruolo delle istituzioni.
I genitori di Giulio Regeni, da oltre un anno e mezzo, svolgono una funzione essenziale non solo perché esprimono il senso di un dolore incancellabile, ma anche – ecco il punto – perché trasmettono un’idea politica saggia sulle cause dell’omicidio del figlio, sulle circostanze e il contesto che lo hanno prodotto e, infine, sulle scelte da adottare affinché quella morte non cada nell’oblio.
Quindi l’audizione dell’altro ieri, tra i molti altri significati (pressoché tutti negativi), si è configurata come una ulteriore occasione persa. La tragedia di Giulio Regeni viene in genere considerata come un fatto non politico o pre-politico o, nell’interpretazione più favorevole, umanitario. Mentre, all’opposto, può ritenersi che le questioni sollevate da questa vicenda – non solo da essa, ovviamente – possano costituire il cuore della politica e il suo fondamento materiale e sociale.
Angelino Alfano ha strizzato il proprio povero vocabolario per difendere la scelta del governo di rispedire in Egitto l’ambasciatore italiano seppur in assenza di qualsiasi passo in avanti nella ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. “L’Egitto è un partner ineludibile dell’Italia, allo stesso modo come l’Italia è imprescindibile per il Cairo” ha dichiarato ieri di fronte alle commissioni di Camera e Senato riunite ieri per fare il punto sulla vicenda.
In sostanza il Ministro agli Esteri ha preso ispirazione da Il Trono di Spade citando Stannis Baratheon: “Cos’è la vita di una sola persona di fronte a un regno?”. Nulla. Certo.
Poi è riuscito a trattare l’inchiesta del New York Times come se fosse uno spiffero di corridoio.
La chiamano “realpolitik” e invece è la codardia di chi molla il colpo fingendo che ci siano interessi più alti di una verità negata. È la solita Italia: quella che commemora con aule universitarie morti di cui non ci hanno raccontato abbastanza, provando a convincerci che davvero funzioni commemorare una storia che non ci è nemmeno stata raccontata.
Sullo sfondo c’è la Procura di Roma, incagliata in una mancata collaborazione con l’Egitto che è vergogna aggiunta alla vergogna, che ora deve farsi carico anche del peso politico, oltre che giudiziario.
Sullo sfondo gode Al Sisi, governante dalla scarsissima democrazia, che sorride mentre usa l’Italia come lettiera. C’è sempre un motivo superiore, quando i governanti non hanno il coraggio di dichiarare la resa.
Ma ve lo ricordate quando il governo egiziano ci disse che Regeni era morto in un incidente stradale? Ve lo ricordate Al Sisi quando mentì dicendo che Regeni non era conosciuto dai servizi segreti egiziani? Ecco. Non è nemmeno più indignazione: è uno scoramento, che puzza.
Gli squadristi sono tornati in strada. Soffiano sul fuoco delle migrazioni e della crisi economica. Mentre crescono i consensi, i loro slogan tracimano nelle istituzioni.
di Giovanni Tizian – Foto di Espen Rasmussen – espresso.repubblica.it, 1 agosto 2017
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Braccia tese dietro le barricate. Ombre nere sulle periferie, strette nella morsa del degrado. Scontri con le forze dell’ordine per difendere «il diritto alla casa degli italiani» nelle borgate, sempre più distanti dai centri storici, da Palazzo Chigi, dal Parlamento, dal Campidoglio.
I fascisti sono tornati. Eredi dei “Boia chi molla”, fomentano e guidano le proteste. I loro consensi crescono, e sono entrati anche in diversi consigli comunali. I loro linguaggi e le loro parole d’ordine tracimano dai gruppi minoritari alle forze politiche più grosse, anche in Parlamento. Ostentano saluti romani sul web e nelle strade, organizzano ronde per la “sicurezza urbana” o contro gli ambulanti stranieri sulle spiagge, e perfino navi per bloccare gli sbarchi dei migranti.
Nazitalia, viaggio nell’estrema destra
La nostalgia del passato e la xenofobia si confondono nella retorica populista. Parole d’ordine: sovranità, frontiere e muri, no ius soli, prima gli italiani, famiglia, élite corrotte. Non disdegnano la violenza fisica: si allenano nelle palestre militanti, si sfogano nei concerti d’area, si addestrano nelle curve degli stadi, dove spesso fede politica e criminalità diventano miscela esplosiva. Programmano raduni annuali: quest’anno il più importante è vicino a Reggio Calabria, dove negli anni Settanta i moti di Reggio sono stati il grande banco di prova dell’eversione nera. E c’è anche chi, per soldi o per gloria, imbraccia il fucile per unirsi ai battaglioni filorussi che combattono in Ucraina, nel Donbass.
Mussolini? Un grande urbanista. Ma anche Hitler ha fatto cose giuste. Gli elogi al Duce e a volte anche al dittatore nazista da parte dei rappresentanti delle istituzioni davvero non mancano. In tutto l’arco costituzionale.
Periferie, la prima linea
“Prima gli italiani”, è il grido dei guerrieri urbani del neofascismo romano. L’avanguardia che ha alzato il livello dello scontro sociale. Soffiano, i militanti neri, sulla miccia della guerra tra poveri delle periferie. «Resistenza etnica», la definisce Giuliano Castellino, ultras della Roma, leader del movimento “Roma ai Romani”, vicino a Forza Nuova. Castellino ha nel suo curriculum anche un apparizione nella Destra di Storace. “Roma ai romani”, insieme a Forza Nuova e CasaPound, si batte per «il diritto alla casa delle sole famiglie italiane».
Il 23 gennaio scorso, al Trullo, quartiere popolare di Roma, il gruppo si è mobilitato per difendere dallo sfratto una giovane coppia di romani abusivi, lei 17 anni e incinta, lui 20 anni e precario: a pagarne le conseguenze una famiglia egiziana, padre, madre e cinque figli, a cui la casa era stata assegnata. Dalla protesta all’azione, con i capi della destra radicale al fianco degli emarginati. A distanza di poco tempo si sono verificati altri due episodi simili. A San Basilio, periferia romana al centro di forti interessi criminali, a una famiglia di origine marocchina è stato impedito di entrare nell’alloggio assegnatole dal Comune: l’azione ha ricevuto la solidarietà di Forza Nuova e di “Roma ai Romani”. Tre settimane fa a Tor Bella Monaca, altro sobborgo dilaniato da spaccio e mafie varie, Howlader Dulal, 52 anni, cittadino italiano ma originario del Bangladesh, è stato aggredito. Aveva finalmente ottenuto l’appartamento popolare, ma il colore della pelle ha fatto la differenza: «Negro, qui non c’è posto per te. Le case sono tutte occupate», gli hanno urlato, ignoti, mentre lo picchiavano.
Pugni, insulti e cinghiate: i fascisti sono tornati a far paura. Negli ultimi mesi sono aumentate esponenzialmente violenze, blitz, pestaggi. I responsabili, il più delle volte, appartengono a gruppi di estrema destra. I bersagli: migranti, Ong, militanti di sinistra.
Basta un soffio e il focolaio divampa. I movimenti neofascisti hanno trovato il loro campo di battaglia. Ecco cosa scriveva Castellino sulla sua pagina Facebook qualche giorno fa: «Il popolo di Tor Bella Monaca ha dimostrato con i fatti che Roma e i Romani sono sempre più con i fascisti». In un altro post del 15 giugno dettava la linea: «La patria si difende a calci e pugni». Nella foto pubblicata c’è anche il camerata Maurizio Boccacci, 60 anni, capo dell’organizzazione Militia Italia, storico leader dell’estrema destra dei Castelli Romani, già animatore di presidi di solidarietà a favore dell’ex capo delle SS naziste Erich Priebke, tra gli esecutori dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
Negli ultimi mesi Boccacci non ha perso un’udienza del processo Mafia Capitale: maglia verde militare, ascoltava in silenzio le accuse rivolte al suo amico Massimo Carminati, il “Cecato” dei Nuclei armati rivoluzionari. Boccacci e Castellino hanno anche un nemico comune: Emanuele Fiano, il parlamentare del Pd riferimento della comunità ebraica. «Fiano delle tue leggi ce ne freghiamo, eccoti il saluto romano», recitava uno striscione sequestrato dalla Digos di Roma al gruppo di Castellino. Dello stesso tenore le esternazioni social di Boccacci: «Fiano, pezzo di … Siamo fascisti e tanto basta».
Skinhead nelle istituzioni
I gruppi della destra estrema si sentono forti. Sospinti dal vento che spira nel Paese e in Europa, hanno alzato il livello dello scontro. Legittimati dalle campagne xenofobe alimentate da leader dal grande seguito come Matteo Salvini. I flirt tra Lega e forze neofasciste – per quanto Salvini si sforzi di negarlo – non sono, del resto, un mistero.
Un esempio di joint venture politica con queste sembianze ha preso forma a Monza. La nuova giunta di centrodestra, Lega inclusa, ha nominato assessore allo Sport Andrea Arbizzoni. Eletto con Fratelli d’Italia, la comunità ideale da cui proviene è però Lealtà – Azione, gruppo d’area skinhead radicato in Lombardia. Arbizzoni tra il 2009 e il 2012 aveva ricoperto il medesimo ruolo ai tempi del sindaco leghista Mariani. Ma l’assessore – ultras nel tempo libero – non è l’unico ad avere avuto accesso ai palazzi delle istituzioni. Stefano Pavesi, pure lui di Lealtà – Azione, è stato eletto con la Lega Nord nel municipio 8 di Milano. Si è fatto notare fin da subito nel giorno della commemorazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, secondo lui «una logica conseguenza del vile attentato dei partigiani». Il 26 gennaio scorso, invece, all’incontro organizzato da una costola di Lealtà – Azione, dal titolo “Come il gender vuol sostituirsi all’uomo e alla donna”, ha partecipato Jari Colla, consigliere regionale del Carroccio. Matteo Salvini ripete spesso che fascismo e antifascismo sono ormai concetti del secolo scorso, che gli italiani vogliono guardare avanti. Salvo, poi, esprimere solidarietà al nostalgico del Duce titolare del lido di Chioggia. E non sembrano guardare oltre i movimenti di estrema destra che hanno trovato una sponda nella Lega. Come i militanti di Lealtà – Azione, appunto, che ogni anno salutano con il braccio teso i caduti della Repubblica sociale italiana nel cimitero Maggiore di Milano.
Marco Tarchi: «L’estrema destra è sempre più forte per colpa dei partiti». «Il neofascismo è un frutto avvelenato della globalizzazione ed è sempre più forte in Italia e in Europa» dice il politologo, che avverte: «L’estremismo non è il populismo, hanno programmi completamente differenti».
Pugni e cinghiate
Anche le squadracce sono tornate. E a volte usano le cinghie per punire i detrattori. Il 12 febbraio scorso a Vignanello, in provincia di Viterbo, Paolo, poco più che ventenne, viene aggredito da una quindicina di militanti di CasaPound. Colpevole secondo il branco di aver commentato sui social una vignetta sul movimento: “Chi mette il parmigiano sulla pasta al tonno non merita rispetto”. Versione ironica dello slogan reale con cui CasaPound ha tappezzato alcune città: “Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, mogli e figli non merita rispetto”.
«Fermati», gli hanno intimato mentre una mano lo trascinava a terra. «Non devi più prendere in giro CasaPound». E giù botte. Sulla scena anche Jacopo Polidori, leader locale del movimento. «Con fare minaccioso batteva la cintura sul palmo della mano e poi sferrava quattro o cinque colpi sulla schiena di Paolo, non desistendo alle sue suppliche», hanno scritto i magistrati. A Paolo hanno fratturato il naso, rotto un dente e le cinghiate gli hanno lasciato delle escoriazioni sul dorso. «La prossima volta ti fai i cazzi tuoi», gli ha detto uno dei picchiatori prima di andarsene. Il 20 ottobre ci sarà il processo a carico di Polidori. Il leader nazionale di CasaPound, Gianluca Iannone, non ha condannato il gesto.
Nazitalia: la copertina sui ‘neri’ del 2017
Ostia patria nostra
Nel decimo municipio della Capitale, a Ostia, fra tre mesi si andrà alle urne per scegliere il nuovo presidente. Sarà il primo voto post scioglimento per mafia. Un anno fa alle ultime comunali CasaPound ha ottenuto il due per cento, e in alcuni seggi ha toccato punte del 10. In particolare a Nuova Ostia, zona popolare e con un alto tasso di criminalità. Un risultato che se venisse confermato a ottobre garantirebbe a Casa Pound un consigliere municipale. Nella stessa area di massimo consenso per il movimento, secondo i detective e la procura di Roma comanda il clan Spada. Un gruppo criminale, al centro di molti sospetti e di varie retate, l’ultima il 12 aprile scorso.
A Ostia CasaPound ha organizzato ronde su richiesta per cacciare i venditori abusivi stranieri dalla spiaggia. Sostiene le famiglie italiane che hanno occupato le case popolari a rischio sfratto. Accusa il Pd e commissario prefettizio del degrado in cui versa il municipio. Tra le figure del movimento che hanno riscosso più successo c’è Carlotta Chiaraluce, alter ego del responsabile del litorale romano, Luca Marsella. Candidata alle ultime comunali, ha raccolto più di 1.300 voti. Entrambi non hanno speso una parola sul potere locale del clan Spada. Forse perché in sintonia con i militanti di CasaPound c’è Roberto Spada, fratello di Carmine detto “Romoletto”, ritenuto dall’antimafia di Roma il capo del clan. I contatti con CasaPound risalgono all’anno scorso, titolo dell’iniziativa “Giovinezza in piazza”, promossa dal movimento di Iannone e dalla scuola di danza della moglie del fratello del boss.
Le foto che ritraevano Spada con i referenti locali di CasaPound innescarono polemiche politiche, ma a distanza di tempo i rapporti non si sono interrotti. Anzi, stando ai commenti pubblicati su Facebook, pare l’amicizia sia reciproca. L’ultimo contatto a fine giugno, quando Carlotta Chiaraluce sulla pagina di Roberto Spada ha scritto: «Ro’ più tardi passiamo», riferendosi a una grigliata in spiaggia organizzata da Spada, che vanta tra gli amici anche altri militanti dell’organizzazione di Iannone. Non deve stupire. È lo stesso Roberto Spada che sui social si schiera sulle posizioni del movimento dell’estrema destra. È contrario allo Ius soli, vorrebbe chiudere le frontiere. E condivide lo slogan “Prima gli italiani”. Tolleranza zero. Anche se, per paradosso, la sua famiglia ha origini nomadi.
Da Il Manifesto del 11/08/2017: la storia del sindaco di Licata, sfiduciato per aver cercato di fare il suo dovere, e l’intervista al vicepresidente di Legambiente sulla questione dell’abusivismo edilizio in Italia.
“All’inizio non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli”, ha spiegato l’ex ministra degli Esteri del governo Letta, evocando un accordo mirato a far sì che le operazioni fossero coordinate da Roma. Ora “disfare questo accordo adesso è piuttosto complicato”.
di F.Q., 5 luglio 2017
“Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. Il sostanziale isolamento dell’Italia in Europa sulla questione immigrazione, secondo l’ex ministra degli Esteri del governo Letta Emma Bonino, è anche colpa dell’Italia stessa. “Nel 2014-2016”, quindi durante il governo Renzi, “che il coordinatore fosse a Roma, alla Guardia Costiera e che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi, violando di fatto Dublino”, ha detto alcuni giorni fa Bonino, intervistata dalla direttrice del Giornale di BresciaNunzia Vallini durante la 69esima assemblea di Confartigianato Brescia.
Il riferimento era al fatto che l’operazione europea Triton, partita nel 2014 dopo la fine di quella italiana Mare Nostrum, prevede che le navi dei Paesi europei che pattugliano il Mediterraneo portino i migranti eventualmente soccorsi in Italia. Anche se Triton non è pensata come missione di salvataggio, bensì di controllo delle frontiere.
“All’inizio”, secondo l’ex titolare della Farnesina, “non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli. Un po’ ci siamo legati i piedi e un po’ francamente abbiamo sottovalutato la situazione”. Ora quindi si cerca di correre ai ripari, si litiga con Bruxelles e con gli altri Stati membri e facciamo fatica a farci ascoltare. Ma “disfare questo accordo adesso è piuttosto complicato”. Anche se “io non apprezzo per niente né l’atteggiamento spagnolo, né francese, né quello degli altri”.
Per la Bonino le speranze di migliorare la situazione al vertice di Tallinn,che inizia giovedì, per l’Italia sono davvero poche. Quanto alle intese con la Libia, “non si può fare un accordo, ammesso che sia accettabile, semplicemente perché ha due governi, due parlamenti, 140 tribù”. “Una delle cose di cui sono più orgogliosa – ha aggiunto – è Mare Nostrum”, l’operazione militare e umanitaria di salvataggio in mare avviata nell’ottobre 2013 proprio dal governo Letta e terminata nel novembre dell’anno successivo. “Sono convinta che sui cadaveri non si costruisce niente. Poi non l’abbiamo voluta più perché troppo cara. Poi è intervenuta l’Ue prima con Triton e poi con l’operazione Sophia“.
Ieri a Bruxelles c’erano due riunioni, una del Consiglio dei ministri europei degli Interni e l’altra del Consiglio dei ministri europei della Difesa. Ministri italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Nella prima riunione si parlava di un tema di cui noi italiani dovremmo avere orecchiato qualcosa: l’immigrazione; nella seconda si parlava di un tema già più ignoto, ma a occhio, abbastanza interessante: il futuro della difesa unica. Sottosegretari italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Dopo le due riunioni, i partecipanti dell’una e dell’altra si sono ritrovati in un pranzo collettivo per parlare di un tema che potremmo avere incrociato in qualche cronaca di tg: il terrorismo. Ministri o sottosegretari italiani presenti al pranzo? Zero. Certo è un vero peccato, perché se i nostri uomini di governo avessero incontrato i colleghi comunitari, si sarebbero cavati il gusto di battere i pugni sul tavolo, come è stato ripetutamente promesso. Invece, così, gli sarà toccato di batterli dall’Italia, e il rimbombo dell’irritazione arriva al massimo nella stanza accanto. E poi non è nemmeno la prima volta, succede di frequente, e purtroppo. Avranno di meglio da fare, oppure capiterà di perdere l’aereo, o più probabilmente gli toccherà di onorare convegni e salotti televisivi in cui dire che l’Europa così com’è non va. Anche se invece va, ma senza di noi.
Ps. Uno dei danni collaterali del riciclaggio sedentario di intercettazioni è che si finisce col non parlare mai delle colpe vere.
Migranti soccorsi al largo delle coste libiche, il 27 gennaio 2017. (Emilio Morenatti, Ap/Ansa)
di Annalisa Camilli – internazionale.it, 20/02/2017
Il memorandum d’intesa sui migranti firmato il 2 febbraio dall’Italia e dalla Libia potrebbe essere illegale. A sostenerlo è un gruppo di giuristi, ex politici e intellettuali libici che il 14 febbraio ha presentato un ricorso di 23 pagine alla corte d’appello di Tripoli. I sei libici, tra cui diversi ex ministri, sostengono che il memorandum sia incostituzionale. Innanzitutto perché, prima di essere firmato dal primo ministro Fayez al Sarraj a Roma, non è stato approvato dal parlamento libico e dal governo all’unanimità. Al Sarraj non ha ottenuto la fiducia dei parlamentari libici che si sono ritirati a Tobruk nel 2014. Inoltre l’accordo implicherebbe impegni onerosi da parte di Tripoli, che non erano contenuti nel trattato di amicizia tra Italia e Libia stipulato nel 2008, a cui il memorandum s’ispira.
L’avvocata Azza Maghur, tra i firmatari del ricorso, ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera che l’accordo tra l’Italia e la Libia viola i regolamenti europei sull’asilo, perché permette il respingimento dei profughi in un paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e che non può essere considerato sicuro.
Inoltre, secondo Maghur, l’accordo prevede finanziamenti da parte dell’Italia che non sono stati quantificati, in cambio di un impegno da parte della Libia che è altrettanto vago. “C’è il rischio altissimo di creare un clima di razzismo, con migliaia di detenuti in uno stato che non ha polizia né esercito”, ha dichiarato Maghur al Corriere della Sera.
Il ruolo del parlamento italiano
Dubbi sulla legittimità dell’accordo sono stati sollevati anche in Italia. Secondo il professore di diritto costituzionale Paolo Bonetti, il memorandum non rispetta l’articolo 80 della costituzione italiana, che prescrive la ratifica da parte del parlamento dei trattati internazionali che sono di natura politica e che implicano oneri finanziari da parte dello stato.
“Il controllo parlamentare della politica estera è una delle caratteristiche essenziali della forma di stato democratica. La costituzione italiana anche in questo si distingue dallo Statuto albertino (articolo 5) grazie al quale l’Italia è stata trascinata nelle avventure più catastrofiche della sua storia: due guerre mondiali, tre avventure coloniali, tre alleanze militari sono state stipulate segretamente senza l’approvazione delle camere”, afferma Bonetti.
Secondo Bonetti l’accordo con la Libia è di natura politica: “È evidente che non si tratti di un accordo eminentemente tecnico, è un accordo di natura politica. C’è dietro tutta la critica al diritto d’asilo e alla cooperazione internazionale dell’Unione europea ed è così di natura politica che ha provocato il dissenso radicale di tutta una parte della Libia (il territorio controllato dal generale Khalifa Haftar)”, spiega Bonetti. E su questo la costituzione è chiarissima: non può avere alcun valore senza l’autorizzazione del parlamento.
“In secondo luogo”, spiega Bonetti, “il memorandum dice che non ci saranno nuove spese da parte dello stato, tuttavia non è chiarito quale sarà l’impegno economico italiano. Questi sono oneri alle finanze che devono essere precisati e che di nuovo implicano una legge di autorizzazione alla ratifica, che deve essere approvata dal parlamento”. Infine, secondo il costituzionalista, l’accordo viola la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, che è inderogabile per gli stati membri dell’Unione.
“Gli stati nazionali non possono derogare a trattati internazionali con altri trattati internazionali. La Convenzione prevale su tutto il resto. L’Italia non può eliminare gli obblighi che comportano il divieto di trattamenti disumani e degradanti, e il divieto d’inviare i migranti in stati dove subirebbero trattamenti inumani e degradanti (articolo 3 della convenzione)”, conclude Bonetti.
La professoressa di diritto europeo Chiara Favilli, esperta di politiche europee di immigrazione e asilo, solleva un’altra questione che riguarda la sostenibilità economica del memorandum e l’origine dei finanziamenti destinati a questa intesa: “Nel memorandum Italia-Libia si precisa che non ci saranno stanziamenti aggiuntivi oltre a quelli già previsti, ma non si capisce bene a quale previsione ci si riferisce”, spiega Favilli. Come si finanzierà il memorandum? Questa materia è tutt’altro che chiara, secondo la docente di diritto europeo.”Si rinvia anche all’articolo 19 del Trattato di amicizia del 2008 che prevedeva un onere a carico del bilancio italiano per il 50 per cento e il restante a carico dell’Unione europea. Dalla legge di esecuzione del trattato si evinceva poi che quel 50 per cento a carico dell’Italia era di fatto pagato attraverso una tassa versata dalle aziende italiane impegnate in Libia come l’Eni. C’è da chiarire se questo articolo è ancora in vigore e altrimenti con quali fondi l’Italia provvederà a finanziare queste attività”.