Job Act

Caro Ministro ti scrivo

segnalato da Barbara G.

La lettera di Marta al ministro Poletti

di Marta Fana

tramite gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it, 20/12/2016

Oggi questo blog lascia volentieri la parola a Marta Fana, ricercatrice di economia emigrata in Francia, a sinistra nella foto sopra.

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Caro Ministro Poletti,

le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano.

Siamo quelli per cui il Novecento è anche un patrimonio cinematografico invidiabile, che non inseguiva necessariamente i botteghini della distribuzione di massa, e lì imparammo che le parole sono importanti, e lei non parla bene.

Non da oggi.

A mia memoria da quando il 29 novembre 2014 iniziò a dare i numeri sul mercato del lavoro, dimenticandosi tutti quei licenziamenti che i lavoratori italiani, giovani e non, portavano a casa la sera.

Continuò a parlare male quando in un dibattito in cui ci trovammo allo stesso tavolo dichiarò di essere “il ministro del lavoro per le imprese”, era il 18 aprile del 2016.

Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più, non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci.

Parlo dei voucher, Ministro.

E poi, sa, anche tra di noi che ce ne siamo andati, qualcuno meno fortunato esiste. Si chiamava Giulio Regeni, e lui era uno dei migliori. L’hanno ammazzato in Egitto perché studiava la repressione contro i sindacalisti e il movimento operaio. L’ha ammazzato quel regime con cui il governo di cui lei fa parte stringe accordi commerciali, lo stesso governo che sulla morte di Giulio Regeni non ha mai battuto i pugni sul tavolo, perché Giulio in fin dei conti cos’era di fronte ai contratti miliardari?

Intanto, proprio ieri l’Inps ha reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando lei è ministro, ne sono stati venduti 265.255.222: duecentosessantacinquemilioniduecentocinquantacinquemiladuecentoventidue. Non erano pistole, è sfruttamento.

Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa.

È un ragazzo di ventuno anni, non ha diritto alla malattia, a niente, perché faceva il saldatore a voucher. Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi.

Quelli che sono rimasti sono coloro che per colpa delle politiche del suo governo e di quelli precedenti si sono trovati in pochi anni da generazione 1000 euro al mese a generazione a 5000 euro l’anno.

Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo.

Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame.

Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”.

Sono gli stessi che non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano, perché il suo governo come altri che lo hanno preceduto, invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa.

È lo stesso governo che spende lo zero percento del Pil per il diritto all’abitare.

È lo stesso governo che si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità.

Ma badi bene, non sono una “redditista”, solo che a fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà.

Ma vorrei essere chiara, il diritto al reddito non è sostituibile al diritto alla casa, sono diritti imprescindibili entrambi.

E le vorrei sottolineare che non è colpa dei nostri genitori se stiamo messi così, è colpa vostra che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci. I colpevoli siete voi che pensate si possano spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio- tanto ci sono i voucher- e poi un anno dopo approvate anche la riduzione delle tasse sui profitti. Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci perché, mal che vada, avremo un tirocinio con Garanzia Giovani.

I colpevoli siete voi che non credete nell’istruzione e nella cultura, che avete tagliato i fondi a scuola e università, che avete approvato la buona scuola e ora imponete agli studenti di andare a lavorare da McDonald e Zara.

Sa, molti di quei centomila che sono emigrati lavorano da McDonald o Zara, anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati.

Ma il problema non è neppure questo, o quanto meno non il principale.

Il problema, ministro Poletti, è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare gratis.

A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti. E lo fa nel preciso istante in cui lei dichiara che dovreste “offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.

La cosa assurda è che non è chiaro cosa significhi per lei capacità, competenze e saper fare.

Perché io vedo milioni di giovani che ogni mattina si svegliano, si mettono sul un bus, un tram, una macchina e provano ad esprimere capacità, competenze, saper fare. Molti altri fanno la stessa cosa ma esprimono una gran voglia di fare pure se sono imbranati. Fin qui però io non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri.

Non è chiaro, Ministro Poletti, cosa sia per lei un’opportunità se non questa cosa qui che rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza. Eppure la cosa che mi indigna di più è il pensiero che l’opportunità va data solo a chi ha le competenze e il saper fare.

Lei, ma direi il governo di cui fa parte tutto, non fate altro che innescare e sostenere diseguaglianze su tutti i fronti: dalla scuola al lavoro, dalla casa alla cultura, e sì perché questo succede quando si mette davanti il merito che è un concetto classista e si denigra la giustizia sociale.

Perché forse non glielo hanno mai spiegato o non ha letto abbastanza i rapporti sulla condizione sociale del paese, ma in Italia studia chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara. E sono sempre di più, Ministro Poletti.

Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto.

Molti di questi genitori poi con la crisi sono stati licenziati e finita la disoccupazione potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno.

Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi e abbiamo votato No contro un sistema istituzionale che avrebbe normalizzato la supremazia del mercato e degli interessi dei pochi a discapito di noi molti.

Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la buona scuola, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione.

E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa.
Costi quel che scosti noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro.

E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia.

Se nel frattempo vuole sapere quali sono le nostre proposte per il mondo del lavoro, ci chiami pure. Se vi interessasse, chissà mai, ascoltare.

Effetto job act

Aumento del 28% nei primi otto mesi del 2016. E c’è anche chi ha perso il posto mentre    era in malattia o per contestazioni senza prove

Referendum La Cgil ha depositato le firme in Cassazione per ripristinare l’articolo 18, cancellare i voucher, ristabilire la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante per violazioni verso il lavoratore

di Giacomo Galeazzi – lastampa.it, 11/12/2016

Da un anno e mezzo, dal marzo 2015, il Jobs Act sta ridisegnando i rapporti di lavoro in Italia. Tra gli effetti rilevati dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps, l’innalzamento dei licenziamenti disciplinari (+ 28% nei primi 8 mesi del 2016). Per capire se sia una conseguenza inevitabile della riforma, La Stampa ha messo a confronto storie di lavoratori che quest’anno hanno perso il posto con esperienze sul campo di consulenti, avvocati, economisti ed imprese.

«Il Jobs Act rappresenta un forte deterrente nelle relazioni aziendali e ciò ha indubbiamente provocato un cambio di paradigma – spiega l’avvocato Giorgio De Stefani che da trent’anni a Roma offre assistenza legale civile anche nel diritto del lavoro -. Con l’introduzione delle nuove norme, nel mondo del lavoro è mutato il clima psicologico-culturale. Soprattutto in aziende medio-grandi in crisi, nelle situazioni nelle quali prima si soprassedeva o si cercava una mediazione, adesso il datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone dello strumento tecnico per poterlo fare. Si tollera di meno, specie se non c’è un rapporto di conoscenza col dipendente».

Così crescono soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari, proprio quelli cioè sui quali è intervenuto il Jobs Act con il contratto a tutele crescenti. E per i nuovi assunti niente reintegra nel posto di lavoro in caso di ingiusto licenziamento. «L’aumento registrato dall’Inps non è dovuto tanto alla legge in sé, quanto all’abuso che ne viene fatto», sottolinea la consulente del lavoro Monica Melani. In un anno i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono passati da 36.048 a 46.255, con un aumento appunto del 28%. Intanto i sindacati ricevono molte richieste di aiuto e i tribunali si riempiono di ricorsi.

Dimissioni imposte

Tra questi casi c’è quello di Domenico Rossi, che per 35 anni ha lavorato come ausiliare alle vendite e cassiere al supermercato Carrefour di via XXI settembre, nel centro di Roma. Mai richiami, contestazioni o situazioni di conflitto fino allo scorso 3 giugno, quando è stato licenziato. Secondo l’azienda «è stato sorpreso, con merce non regolarmente acquistata, nell’atto di lasciare il punto vendita». Eppure, racconta Rossi, «quando i poliziotti hanno visionate le immagini delle telecamere interne, non hanno trovate niente di irregolare». Infatti, aggiunge, «come facciamo sempre noi dipendenti, ero passato dietro le casse per evitare la coda dei clienti, ho pagato tutto e alla vigilanza che mi ha fermato ho mostrato lo scontrino della spesa che avevo nella busta». Continua: «Mi hanno perquisito e lasciato in piedi per due ore davanti ai clienti che passavano, poi mi hanno ripetuto più volte che l’unica cosa che mi restava da fare era presentare immediatamente le mie dimissioni per non andare incontro a conseguenze peggiori. Possono fare una cosa del genere?».

L’azienda gli contesta di aver abbandonato nel supermercato confezioni di cibo aperto e di non aver pagato due prodotti. Carrefour assicura di non licenziare con leggerezza (visti i «risvolti sulla vita delle persone») e che contro Domenico Rossi ci si è basati «esclusivamente su quanto comprovato dalle risultanze aziendali». Situazioni che ripetono analoghe in tutta Italia. «Non vengono spalancate indiscriminatamente le porte d’uscita, né si assiste a esodi di massa, ma senza lo spauracchio della reintegra molte aziende medie e grandi si arrischiano in licenziamenti che prima del Jobs Act avrebbero evitato» afferma Giovanni Guizzardi, consigliere dell’ordine dei consulenti del lavoro di Bologna. Il cinquantenne Antonio Ettore Ambrosini per 28 anni ha lavorato come cameriere ai piani e poi come maitre d’hotel in uno storico albergo di Roma, il Victoria, a due passi da via Veneto. In seguito alla separazione della moglie nel 2011 aveva usufruito di 6 mesi di aspettativa non retribuita per un esaurimento nervoso. «Tornato in servizio non ho più avuto problemi finché, nell’ultimo periodo, il nuovo direttore dell’hotel mi ha preso di mira rimproverandomi pubblicamente per qualunque cosa, anche per come disponevo le tazze sui tavoli della prima colazione – ricostruisce Ambrosini -. Per il continuo stato di stress e di ansia ho avuto un collasso sul lavoro e sono stato soccorso da un’ambulanza». Ad agosto è stato «licenziato e liquidato con il Tfr e con due buste paga da 1400 euro: l’azienda sostiene di avere testimoni per dimostrare che sono stato trovato ubriaco in servizio e che mi sono addormentato mentre aspettavo le ordinazioni ai piani». Ma «non è vero», protesta, «dovevano tagliare il personale e le spese, così sono finito io nel mirino».

Aria più pesante nelle ditte

Il manager dell’hotel, Filippo Guzzardi oppone un «no comment» alla richiesta di un chiarimento sulla vicenda. «Rossi è accusato di furto e Ambrosini di ubriachezza in servizio: mancanze gravi se accertate, ma in entrambi i casi i datori di lavoro sembrano avere prove piuttosto labili», osserva l’economista Giuliano Cazzola, tra i massimi esperti di lavoro e previdenza: «Nel Jobs Act c’è uno scambio tra contratti più stabili e minore rigidità nella risoluzione del rapporto di lavoro – evidenzia Cazzola, che ha insegnato all’università di Bologna ed è stato vicepresidente della commissione lavoro della Camera -. Finora i giudici sono stati di manica larga anche di fronte a responsabilità vere dei lavoratori». Ambrosini ha gli occhi lucidi e si commuove: «Ora tiro avanti con il trattamento di fine rapporto che mi stanno pagando in tre tranche, ho sempre pagato gli alimenti per mia figlia – scuote la testa. Mi hanno tolto il lavoro, la dignità. Al momento della contestazione mi sono sentito male e sono stato licenziato durante malattia, cosa che non si può fare. L’azienda sostiene che il licenziamento per giusta causa supera anche il divieto di cacciare un lavoratore mentre è malato».

È cambiata l’aria o è solo più pesante? «Nelle riorganizzazioni dovute alla crisi, i margini di sopportazione delle aziende sono ormai all’osso – testimonia Paolo Stern, coordinatore del Centro studi dei consulenti del lavoro di Roma -. La ripresa c’è solo in alcuni segmenti imprenditoriali ed è a macchia di leopardo. Prima nella ditte c’erano dei “tesoretti” con cui si potevano ripianare le inefficienze, oggi no». Perciò «in situazioni di sofferenza, se si incrina un rapporto di fiducia con un dipendente, il datore di lavoro è spinto a rischiare il giudizio dei magistrati pur di recuperare efficienza liberandosi di chi è poco produttivo – chiarisce Stern -. Prima si poteva ovviare con margini più alti, adesso mancano i mezzi per farlo». Un quadro allarmante «non direttamente imputabile al Jobs Act», accade lo stesso «nella rinegoziazione dei contratti di consulenza e per la fornitura servizio». Insomma, quando si tratta di occupazione, mal comune non fa mezzo gaudio.

Perché Renzi non ama i giovani

di Andrea Colombo – ilmanifesto.info, 23/10/2016

Chiederselo è inevitabile: ma Renzi odia i giovani? A sentirlo si direbbe il contrario. Anzi, è tutto uno sproloquio giovanilista, pur se di maniera. Ma le parole costano poco, e i fatti raccontano una storia opposta. Il grande rottamatore, oltre ai suoi nemici politici, ha rottamato soltanto i giovani. È inutile che il ministro Poletti strepiti. Quando il presidente dell’Inps Boeri dice che la manovra massacra ulteriormente i giovani fotografa lo stato delle cose. Non è una novità.

Il Jobs Act sembra davvero un piano diabolico partorito da un mad doctor incarognito con chiunque sia sotto i 30. Gli incentivi studiati per consentire il trucco della trasformazione di contratto e dell’assunzione a tempo indeterminato spogliata di ogni sostanza erano fatti apposta per regalare briciole ai lavoratori attempati senza lasciare agli imberbi neanche quelle: si accontentassero dei voucher. I risultati vengono periodicamente immortalati dalla rilevazioni statistiche e ci vuole la faccia di bronzo del nostro premier per rivenderseli come una vittoria.

Su poco più di 500mila nuovi assunti reali, 402mila sono ultracinquantenni, e se il tasso di disoccupazione, almeno quello nominale, scende nel complesso, tra i giovani non si vede neppure uno spiraglietto. Così finisce che un giorno sì e l’altro pure ci scappa qualche titolone, una volta sui 100mila giovani che ogni anno lasciano il Paese, l’altra, proprio ieri, sulla scoperta che il 67,3% dei concittadini tra i 18 e i 34 anni campa a casa con mamma e papà.

C’è solo da sperare che non aggiunga la beffa al danno qualche dotto, come Elsa Fornero o il compianto Padoa-Schioppa, sentenziando che i fanciulli sono «troppo choosy» e forse decisamente «bamboccioni». Non sarà antipatia generazionale, figurarsi, ma solo incapacità e solerzia nell’avvantaggiare chi di vantaggi già ne conta a mazzi, come le aziende o le banche, e se di mezzo ci vanno «i ragazzi» è solo per effetto collaterale. Non che siano peccati veniali, però. Il riflesso si coglie con precisione millimetrica nei sondaggi sul referendum. La riforma del giovanilista va fortissimo tra gli over 65, precipita nella fascia mediana, cola a picco tra i giovani, che le meraviglie del renzismo le sperimentano ogni giorno e si fidano dei Tg addomesticati un po’ meno dei nonni.

Sbirciando la legge di bilancio, pardon le slides sulla medesima perché la legge rimane fantasmatica e vai a sapere cosa ci sarà scritto davvero, sorge tuttavia il dubbio che almeno in quest’ultimo passaggio un po’ di consapevole malignità ci sia stata. La manovra, lo sanno tutti tranne Padoan e lo scrivono persino i giornali ridotti spesso a fanzines di palazzo Chigi, è una specie di befana anticipata.

I pacchetti sono piccoli, è vero, ma in compenso sono tanti.

Il materiale non è eccelso, i doni si scasseranno presto rivelandosi mezze fregature o peggio, ma intanto regaleranno un attimo di gioia a molti giusto in tempo per spingerli a votare come conviene.

Eppure in tanta abbondanza i soliti giovani sono rimasti con in mano il classico carbone. Per loro non c’è neppure l’illusione di un miglioramento. Giusto la conferma di quel bonus cultura di 500 euro per i diciottenni che solo a nominarlo viene da ridere, o da piangere.

In un recente consiglio dei ministri Matteo Renzi l’ha spiattellata chiara: «Il voto di sinistra è perso, bisogna conquistare quello di destra». Vuoi vedere che si è anche detto: «Il voto dei giovani, con le mazzate che gli abbiamo dato, è perso. Meglio rinsaldare il consenso nelle fasce dove andiamo forte».

E se qualcuno trova strano che il futuro disegnato da Renzi piaccia solo a chi ha più passato che futuro, sarà pure giovane ma resta gufo.

Stabiltà instabile

segnalato da barbarasiberiana

IL GIUSLAVORISTA: “SENZA L’ARTICOLO 18 LE NUOVE ASSUNZIONI SONO A TERMINE”

Michele Tiraboschi: ogni anno stipuliamo tanti contratti, ma l’occupazione resta stagnante

di Paolo Baroni – lastampa.it, 12/05/2015

«Sui nuovi occupati i dati veri sono quelli delle rilevazioni ufficiali Istat», avvisa Michele Tiraboschi, giuslavorista e direttore del centro studi sul lavoro Adapt-Marco Biagi. «Queste dell’Inps sono dati amministrativi – spiega – elaborazioni ricavate dalle comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro al ministero: è un susseguirsi di dati e stime a fini politici nel momento in cui si discute se il Jobs act funziona o meno».

I dati veri, quelli dell’Istat, allora cosa ci dicono?

«Che ogni anno stipuliamo tanti nuovi contratti, ma che l’occupazione è stagnante. In un anno di riforme del lavoro, da marzo 2014 quando è partita la liberalizzazione, cui poi ha fatto seguito il contratto a tutele crescenti e tutto il resto, a marzo i posti in più sono 30 mila».

Ma perchè tra Inps e Istat i dati sono così distanti tra loro?

«Perchè i dati sulle comunicazioni obbligatorie tengono conto solo del numero dei nuovi contratti stipulati che possono essere a termine di apprendistato, tirocini e può capitare che in un anno una stessa persona venga computata anche dieci volte. L’Istat invece ci fornisce dati reali, elaborati in base ad una specifica campionatura, e calcola i posti di lavoro effettivi».

Ma se ormai da mesi i contratti a tempo indeterminato stanno aumentando i due dati non dovrebbero ad avvicinarsi?

«No. Perché un conto sono le assunzioni aggiuntive e un altro le stabilizzazioni e le trasformazioni di contratti già in essere, di una persona che già lavorava, magari con un contratto a termine o di apprendistato».

Il ministro del Lavoro Poletti sostiene che anche riuscire ad aumentare la qualità del lavoro, riducendo la precarietà, è un risultato importante.

«Io sono un tecnico, non faccio valutazioni politiche. Partiamo dal piano tecnico: facile dire che aumentano i contratti stabili, ma non dimentichiamoci che sono contratti senza articolo 18. Dopo uno, due o tre anni di esonero contributivo io posso lasciare a casa il lavoratore pagando da 4 a 6 mensilità di indennizzo. Trovo contraddittorio fare la propaganda contro la precarietà e poi festeggiare perché ci sono più contratti stabili, ma di questo tipo».

E quale valutazione economica da invece?

«Lo sgravio contributivo costa 15 miliardi di minori entrate. Rinunciare a questa fetta di soldi avrebbe senso se si obbligasse le imprese ad assumere persone in più. E secondo i consulenti mancano almeno 3 miliardi di coperture, io dico 5 miliardi. Per cui questa operazione costerebbe 20 miliardi».

Per produrre cosa?

«Non certo stabilità senza articolo 18. Bastano seimila euro di indennizzo ed un lavoratore con contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti può essere lasciato a casa. Adesso è più stabile un contratto a tempo determinato di tre anni rispetto ad un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti».

E lo chiamano lavoro

segnalato da barbarasiberiana

E LO CHIAMANO LAVORO – UN LIBRO SUL PERCORSO DEL JOBS ACT – INTERVISTA A RITA SANLORENZO

Intervista ad Rita Sanlorenzo (una delle due autrici) – consigliere sezione lavoro della Corte d’appello di Torino

da http://www.libera.tv

L’età di Marchionne, oltre alla contrazione del numero di auto prodotte e alla fuga della Fiat dall’Italia, ha un marchio di fabbrica univoco. Il lavoro non c’è, e quando c’è, è sottopagato, precario, privo di diritti e di garanzie. Il numero dei disoccupati è in continua crescita e non bastano, a invertire la tendenza, il moltiplicarsi di tipologie contrattuali sempre meno garantite e gli ottimistici annunci di ripresa di un premier specializzato in promesse.

La situazione è determinata, certo, da ragioni economiche ma ad esse si accompagnano, nel definirla, ragioni culturali e politiche altrettanto profonde. La classe operaia – è noto – non va più in paradiso (e quella, sempre più ristretta, dei contadini non ci è mai andata). Non per caso, ma per scelta. Contrapporre il lavoro ai diritti, quasi che fossero questi ultimi a ostacolare la crescita del primo, infatti, non ha nulla a che fare con l’occupazione ma serve a ridefinire l’organizzazione della società e le sue gerarchie. Lo dice in modo evidente la parabola del diritto del lavoro, dallo Statuto del 1970 al jobs act. In poco più di quarant’anni è cambiato tutto e lo Statuto sembra, oggi, un guscio vuoto: il dilagare del mito della flessibilità, dipinto come risorsa per distribuire meglio tempi di vita e risorse economiche, non ha favorito lo sviluppo dell’occupazione, ma ha determinato impoverimento e insicurezza. Indietro, peraltro, non si torna. E si apre, dunque, il problema del che fare.

Carla Ponterio, magistrato dal 1987, ha svolto la sua attività a Modena, prima nel settore penale (come pretore e come giudice) e, dal 2004, come giudice del lavoro. E’ attualmente consigliere presso la sezione lavoro della Corte d’appello di Bologna.

Rita Sanlorenzo, astigiana, è entrata in magistratura nel giugno del 1986. Da oltre vent’anni è giudice del lavoro (in Pretura, in Tribunale e, ora, in Corte d’appello a Torino). Dal 2007 al 2010 è stata – prima donna nella storia del gruppo – segretario nazionale di Magistratura Democratica.

Mobbing legalizzato

Segnalato da barbarasiberiana

LA POSTILLA E IL MOBBING LEGALIZZATO

Di Alessandro Giglioli – Piovono Rane, 20/02/2015

Nel decreto legislativo di attuazione del Jobs Act è stata inserita, in cauda, una postilla che modifica anche l’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori: quello che impediva il demansionamento e che recita: «Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto».

Questa modifica non si applica solo ai lavoratori che saranno assunti dal primo marzo, ma a tutti. In sostanza, è retroattiva. E permette a qualunque azienda di modificare in peggio in modo unilaterale le mansioni del dipendente, in caso di «modifica degli assetti organizzativi», che ovviamente può autodichiarare l’azienda stessa.

In altre parole, per esempio, se siete un quadro o un impiegato e quale che sia la vostra funzione, da domani la vostra azienda può mettervi a fare le fotocopie.

È, in sostanza, la legalizzazione del mobbing, tema su cui in passato ho scritto due libri basandomi su casi reali e le cui dinamiche concrete quindi un po’ conosco. Una delle modalità del mobbing (non l’unica) avviene quando un dipendente poco gradito al capo diventa per questo suo obiettivo in azienda. Ciò può accadere per svariatissimi motivi – caratteriali, professionali, ma anche politico-sindacali o per rifiuti di avance sessuali – e fino a oggi l’articolo 13 impediva, nella più parte dei casi, che ciò si trasformasse in un demansionamento; quando avveniva, c’era la possibilità di ricorrere al magistrato.

Con la postilla, da domani, il mobbing è di fatto legaizzato.

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Il traguardo del Jobs Act è finalmente raggiunto: l’introduzione dei demansionamenti unilaterali chiude il cerchio della liquefazione del lavoro. Ma c’è una raggelante novità: l’attacco ai pilastri della sicurezza del lavoro contenuto nel nuovo art. 2103 c.c. segna la strada verso la “macellazione” dei lavoratori e l’abrogazione di fatto del valore fondante della Repubblica: l’art. 1 della Costituzione.

Segue QUI

Lavoro senza tutele

segnalato da barbarasiberiana

di Duccio Facchini – altreconomia.it, 04/12/2014

Il “Jobs Act” del governo -convertito in legge il 3 dicembre- è solo l’ultimo atto di un percorso che ha smantellato i diritti degli occupati. E il numero di nuovi posti promessi, o creati, non conta niente: nel secondo trimestre del 2014 sono “cessati” 403.760 contratti che avevano avuto la durata di un giorno.

Il preambolo della direttiva 70 del Consiglio dell’Unione europea è “I contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori”. Datata 28 giugno 1999, la Direttiva quest’anno compie quindici anni, come Altreconomia. Più lontano nel tempo -ma ugualmente interessante- è un passaggio della relazione che le commissioni parlamentari Giustizia e lavoro misero a punto nel luglio del 1961, in vista dell’imminente approvazione della legge 230/1962, intitolata “Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato”. Scorrendo le 23 pagine si legge: “Non può mettersi in dubbio, infatti, che l’assunzione dei lavoratori con contratto a tempo determinato, al di fuori delle obiettive esigenze che ne giustificano l’applicazione, lede il principio della continuità della prestazione di lavoro”.

Le persone in età di lavoro (2013) (dati in mln)

In Italia soltanto il 63,5% delle persone appartiene alla “forza lavoro” -pari a 25,5 milioni di persone-, costituita dagli occupati e quelli “in cerca di lavoro”. Il 36,5% (17,5 mln) è riferito a coloro che non lavorano e non cercano lavoro.

Uno dice “scontato”, dopodiché guarda ai numeri pubblicati Direzione generale per le Politiche dei servizi per il lavoro interna al ministero del Lavoro e delle politiche sociali relativi ai rapporti di lavoro attivati nel secondo trimestre (aprile-giugno) del 2014. Su 2.651.648 rapporti “attivati”, 1.848.147 sono quelli a “tempo determinato”, il 69,7%. La classe “indeterminato” arranca al 15,2% dei casi (403.036 rapporti), seguita dai 153.313 “contratti di collaborazione”, dagli 81.954 rapporti di “apprendistato” e da 165.198 definiti “altro”. Questo è lo scenario per chi entra nel lavoro. Ad analizzare le cifre relative a chi ne esce si ottiene un quadro ancor più definito: i “rapporti di lavoro cessati” al secondo trimestre di quest’anno sono stati 2.430.187. Il 65,8 per cento di questi è a “tempo determinato”, mentre l’indeterminato è a quota 19%. In questo caso, però, quel che interessa non è la natura ma il tempo. Si legge nel documento del ministero del Lavoro: “955.771 contratti di lavoro terminati nel corso del II trimestre del 2014 hanno avuto una durata inferiore al mese (il 39,3% del totale osservato) e 381.404 oltre l’anno (15,7%). Tra i rapporti di lavoro cessati di brevissima durata si evidenziano 574.267 rapporti di lavoro con durata compresa tra 1 e 3 giorni”. Ben sedici lavoratori su 100 tra quelli sotto contratto ed espulsi dal mercato del lavoro in Italia nel secondo trimestre del 2014, ben 403.760, sono stati legati al “mestiere” per un giorno. Il loro numero è maggiore di quello dei rapporti a tempo indeterminato avviati nello stesso periodo (403.036). Fosse stato questo il sommario ai titoli annunciati dall’esecutivo in tema di “flessibilità” o “Jobs act”, forse il dibattito sarebbe stato più concreto. Reale.
L’esplosione dei contratti a termine non è casuale. Il Consiglio nazionale economia e lavoro (Cnel) l’ha spiegato chiaramente anche nell’ultimo “Rapporto sul mercato del lavoro 2013-2014”, elencando non solo le tappe “normative” della “deregolamentazione relativa ai rapporti di lavoro di natura temporanea” avvenuta tra la fine degli anni 90 e i giorni nostri -2014 compreso-, ma anche gli esiti più immediati.

Una verifica può essere ottenuta incrociando tre indicatori (o “gradi”, con “0” uguale a “protezione bassa” e “6” a “protezione alta”) forniti dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse): “Protezione lavoratori permanenti contro il rischio di licenziamenti individuali”, “Regolamentazione forme di lavoro temporaneo”, “Regolamentazione licenziamenti collettivi”. Nel giro di quindici anni (1998-2013) il nostro Paese ha ridotto, rispettivamente, la protezione dei lavoratori dai licenziamenti individuali (2,76 il grado nel 1998, 2,51 nel 2013), la regolamentazione del lavoro a termine (da 3,63 nel 1998 a 2,00 nel 2013), le regole dei licenziamenti collettivi (da 4,13 nel 1998 a 3,75 nel 2013).

Una dinamica di progressiva erosione delle tutele che Giovanni Paganuzzi, avvocato milanese che da vent’anni si occupa prevalentemente di diritto del lavoro, ben conosce. “Sono cambiate le leggi -dalla Legge Treu del 1997 alla legge 30 del 2003, dalla 183/2010 (Sacconi) alla Legge Fornero (92/2012), fino alla legge 78/2014, tra i primi atti del governo Renzi-, è cambiato il contesto culturale, in cui anche i giudici sono inseriti e di cui risentono moltissimo. La fortissima sensibilità per i diritti sul luogo di lavoro e nel rapporto di lavoro che aveva caratterizzato la giurisprudenza, anche un po’ creativa, fino alla metà degli anni 90, si è progressivamente attenuata. Anche nelle sentenze dei giudici, specie quelle di merito, il lavoro non è più percepito come un diritto ma come un privilegio”. Come è un privilegio, ormai, rapportarsi ad un datore di lavoro ben identificabile. “Un elemento emergente degli ultimi dieci anni è la crescita di quel contenzioso che si incentra sul cosiddetto rapporto trilaterale determinato dalle esternalizzazioni, dove i meccanismi di tutela del lavoro sono molto deboli. Un cambio di appalto molto spesso determina anche un cambio di contratti collettivi, con minimi contrattuali più bassi, la perdita dell’anzianità di servizio. È in atto una progressiva riduzione salariale che non si riesce a bloccare e che comporta anche una frammentazione delle relazioni sociali tra i lavoratori sul luogo di lavoro”. L’attacco al lavoro prende anche le forme -simboliche- del contributo unificato che dal 2011 è tenuto a versare anche il lavoratore che volesse fare causa al proprio datore di lavoro, ad esempio per impugnare un licenziamento: 259 euro. C’è un altro fattore: la decadenza, e cioè il tempo che un lavoratore ha per esercitare le proprie tutele in via giudiziaria. Il “collegato lavoro” dell’ex ministro Maurizio Sacconi ha fissato a 60 dalla conclusione dell’appalto i giorni i termini per agire in via stragiudiziale, e a 270 quelli per agire in giudizio. Il ministro Elsa Fornero solo un anno dopo ha ridotto questo termine a 180 giorni. Elsa Fornero, da ministro “tecnico” del governo di Mario Monti, introdusse il cosiddetto “rito veloce” in materia di decisione di cause per licenziamento. “Il rito Fornero -spiega Paganuzzi- impone una fase processuale in più (sommaria e di opposizione), dunque quei 259 euro il lavoratore dovrà pagarli due volte per lo stesso grado di giudizio. Inoltre è stato mal congegnato: con quel rito non si possono far valere altre domande riguardanti il rapporto che spesso sono pregiudiziali alla valutazione della domanda sul licenziamento, e il mancato raccordo con le altre regole del processo ha ingenerato nella prassi notevole confusione mettendo a grave rischio la possibilità stessa di far valere il diritto poiché il tempo che trascorre fa incorrere nella decadenza dei sei mesi (e se si sbaglia rito decorsi i sei mesi non si può più ricominciare). E la riforma di fatto ha imposto di duplicare i processi, se un lavoratore vuol far valere anche pretese diverse da licenziamento (ad esempio gli arretrati). Risultato: tempi di giustizia allungati e costi esponenzialmente aumentati”.

L’ultimo tassello della “deregolamentazione” è la legge 78/2014, che è la conversione in legge di uno tra i primi decreti dell’esecutivo Renzi (il 34 del 20 marzo di quest’anno), con ministro del Lavoro Giuliano Poletti, già presidente dell’Alleanza delle cooperative italiane. La terza riforma del mercato del lavoro in tre anni ha -tra le altre cose- esteso fino a 36 mesi la possibilità di stipulare contratti a termine privi di una causale giustificatrice. L’avvocato Paganuzzi aiuta a comprenderne cause ed effetti: “Il principio generale stabilito anche in sede comunitaria voleva che l’apposizione del termine fosse un’eccezione. Fino a oggi la regola prevedeva che il contratto a tempo determinato fosse ritenuto ragionevole solo alla luce di una causa. Il motivo era scelto tipicamente dalla legge. Dal 2001 le tipizzazioni sono state sostituite da una definizione generale, che però stabiliva comunque che il contratto a termine venisse impiegato solo per esigenze temporanee. Il datore di lavoro, naturalmente spinto ad utilizzare questa forma contrattuale, ogni veniva chiamato in causa per un contratto a termine perdeva, perché dimostrare l’esistenza di una causa era molto difficile. La legge 78/2014 ha tolto qualunque causale, alla faccia del rapporto regola-eccezione. E ha portato questo periodo di acausalità a tre anni, quando la ‘Legge Fornero’ l’aveva limitato a un anno”. Qual è la conseguenza? “Che i rapporti di lavoro sono a termine, di durata breve (in 36 mesi fino a 8 rapporti). Questa cosa comporta che il lavoratore non potrà far valere in nessun modo alcun genere di diritto fino a quando il rapporto non è definitivamente cessato.

Diversamente il contratto non ti verrà semplicemente rinnovato. Il tempo di lavoro diventerà così un tempo di disponibilità assoluta e totale. Con una ricaduta sociale fortissima, dato che difficilmente il lavoratore sarà portato a denunciare casi di cattiva o illecita gestione all’interno dell’azienda che potrà comodamente accompagnarlo all’uscita”. Il punto d’arrivo è l’estinzione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, su licenziamento senza giusta causa e reintegro. “L’articolo 18 non si applica ai recessi intimati per scadenza del termine del contratto -spiega Paganuzzi-. Rendendo il contratto a tempo determinato a-causale si arriverà a breve alla situazione in cui qualunque risoluzione  del contratto a termine sarà legittima. O meglio, non impugnabile per un vizio del termine. Risultato: il ‘problema’ dei licenziamenti è finito”. Per alcuni, specie per gli italiani tra i 15 e i 29 anni, il “problema” lavoro tarda a presentarsi. Nel 2013 i “neet” -e cioè i giovani che non lavorano, perché disoccupati o inattivi, e non partecipano a nessun ciclo di istruzione o formazione- erano 2.458.000 (dati Istat), il 26,2% della loro “popolazione di riferimento”.

L’avvocato Paganuzzi aggiunge un altro elemento, il “mattone del sistema” del mercato del lavoro italiano: il ruolo delle cooperative di lavoro, quella “che ha come oggetto sociale e scopo mutualistico il lavoro: questo istituto, importantissimo nella storia del nostro Paese, però ha scardinato sia il livello dei salari sia la dimensione sindacale. Far valere un diritto nell’ambito di una cooperativa di lavoro in genere è molto difficile. Perché il socio stipula due contratti: uno è quello sociale e l’altro è quello di lavoro. Per la giurisprudenza prevale la disciplina sociale. I soci, con i loro regolamenti, possono stabilire regolamentazioni che non coincidono con i diritti inderogabili dei lavoratori. Inoltre, una cooperativa -con diversi strumenti- riesce a pagare molto meno di una società normale i propri soci lavoratori e ha un potere disciplinare e di minaccia molto forte. Per esempio può sospendere dal lavoro senza giustificazione quando un’azienda normale deve in tal caso soltanto risolvere il rapporto. Il sistema delle esternalizzazioni della produzione ha consentito un ingresso massiccio delle cooperative di lavoro nei cicli produttivi tipici di una gran quantità di aziende (oltre l’ambito tradizionale del facchinaggio e della metalmeccanica) dovuto al fatto che queste riescono a pagare molto meno il lavoro, non essendo tenute ad applicare in maniera integrale i contratti collettivi. E possono giocare, come detto, sulla sospensione del lavoro. E possono anche fare politiche aggressive nei confronti dei loro soci sprovvisti di strumenti di tutela. Penso alle clausole compromissorie che spostano a collegi arbitrali privati e costosi l’accertamento dei diritti. Per non parlare di quei meccanismi di governance delle cooperative che di fatto ostacolano la partecipazione alla vita della cooperativa stessa”. La “riforma” Renzi non poteva che giungere da quella parte, quindi? “Penso che questo ministro del Lavoro sia un ministro con un’esperienza che non nasce dal mondo dei lavoratori. La sua sensibilità, certamente legittima, è quella di imprese che hanno sempre goduto della massima flessibilità: le cooperative di lavoro”.

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segnalato da barbarasiberiana

SUI DIRITTI DEL LAVORO

di Walter Tocci – intervento al Senato, 07/10/2014

La richiesta del voto di fiducia sembra una prova di forza ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella stessa delega. Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale. Il Senato delega per sentito dire nelle televisioni, senza quei “principi e criteri direttivi” prescritti dalla Costituzione. È l’anticipazione di un metodo che diventerà normale con la revisione costituzionale in atto.

Si forzano le regole per paura di un libero dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio non è in grado di presentare gli emendamenti che ha proposto come segretario del suo partito. In questo modo, la legge delega sarà priva non soltanto di alcune garanzie ampiamente condivise, ma perfino della famosa questione della cancellazione dell’articolo 18. Se ne parla sui media, ma non risulta nei testi. D’altronde, a quanto pare, non conta più cosa decide il Parlamento – sarà poi il governo tra qualche mese a scrivere i veri decreti – l’importante è ora creare l’apparenza di una grande riforma.

L’argomento è stato scelto ad arte per inscenare una contrapposizione simbolica. Ce la potevamo risparmiare questa guerra di religione sul diritto del lavoro. Non solo perché il Paese avrebbe bisogno di ritrovare coesione sociale intorno a un chiaro progetto di cambiamento. Non solo perché si dovrebbe evitare di lacerare la ferita già dolorosa della disoccupazione che segna la vita di milioni di italiani. Ma soprattutto perché non c’è alcun motivo pratico per ingaggiare l’ennesimo duello giuslavorista. E il primo ad esserne convinto sembrava proprio Matteo Renzi. Solo qualche mese fa riteneva che ridiscutere dell’articolo 18 fosse una fesseria. Si era addirittura impegnato di fronte al popolo delle primarie ad archiviare la questione. Come mai ha cambiato idea? Sarebbe doverosa una spiegazione. Altrimenti potrebbe alimentare il dubbio che la guerra di religione è ingaggiata per distrarre l’opinione pubblica, per coprire le evidenti difficoltà dell’azione di governo, per occultare gli scarsi risultati ottenuti nella trattativa europea.

Temo che si vada consolidando un metodo di governo basato sulla ricerca continua di un nemico. Può servire a creare un consenso effimero, ma non aiuta il paese a trovare una rotta; asseconda il rancore sociale ma non coagula le passioni civili per il cambiamento.

La furia distruttiva stavolta è indirizzata verso un bersaglio inesistente, un altro ceffone alle mosche. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non esiste più nella legislazione italiana, è stato cancellato da Monti due anni fa.

Si racconta ancora la bufala secondo cui nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della “giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero – o forse dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori meglio del governo a guida Pd.

In seguito alle nostre critiche è stato riproposto il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta un solo buco, non ne servono due.

In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente del Consiglio, Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali come strumento per la crescita del Pil.

Solo in Italia può accadere che dopo due anni si scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico di nuove regole.

Se si riflette onestamente su questa anomalia italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera negli errori del passato:

– Si continua a far credere che abbassando l’asticella dei diritti riprenda la crescita. L’esperienza dovrebbe averci convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di innovazione.

– Si continua a contrapporre i garantiti e i non garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio, come certifica ormai anche l’Ocse attribuendo all’Italia uno dei massimi indici di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai giovani neoassunti.

– Si continua nella politica dei due tempi – “ora aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di disoccupazione è incerto e insufficiente.

– Si continua a denunciare il freno del sindacato, quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di rappresentanza che desse voce ai lavoratori.

– Si continua nell’illusione che basti incentivare il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si innova la struttura produttiva?

Nel primo annuncio del Jobs Act subito dopo le primarie tutte queste leggende sembravano abbandonate, ma ora sono tornate in auge. La forza del passato ha preso il sopravvento, riducendo l’entusiasmo della novità a stanca retorica. Il Grande Rottamatore porta a compimento i programmi dei rottamati di destra e di sinistra.

Ben due generazioni hanno creduto agli annunci di una flessibilità coniugata ai diritti e sono rimaste ferite. La promessa di uscire dal buco nero della precarietà è troppo seria per essere delusa. Stavolta alle parole devono seguire i fatti. Solo da questa preoccupazione muove la mia critica.

Sento dire che il contratto a tutele crescenti dovrebbe eliminare la sacca della precarietà. Qualcuno mi sa indicare il comma che assicura il risultato? Purtroppo non esiste, poiché il nuovo contratto si aggiunge ai precedenti, adottando quindi la soluzione Ichino contro quella Boeri. Le imprese non ricorrono al tempo indeterminato se possono continuare a gestire rapporti di lavoro meno costosi e senza futuro. Anzi, questi sono stati ulteriormente incentivati con il decreto Poletti di luglio che ha abbassato le garanzie dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e in questa delega si amplia l’uso del voucher che nega perfino il rapporto tra lavoratore e impresa.

Si è annunciata l’eliminazione del cocopro, ma è molto difficile che da questa figura parasubodinata si approdi a un vero contratto di lavoro. Più facile invece che si regredisca nel sommerso delle partite Iva. D’altro canto, anche i critici di sinistra peccano di normativismo, illudendosi che basti togliere questa o quella figura contrattuale per migliorare la qualità del lavoro.

C’è un lavoro autonomo di seconda generazione che è legato alla trasformazione tecnologica e produttiva del nostro tempo. È una figura anfibia che non si può ingabbiare negli schemi tradizionali dell’imprenditore e del lavoratore, ma va riconosciuta nella sua peculiarità e sostenuta con strumenti non convenzionali. Dovremmo saperlo soprattutto in Italia, avendo sotto gli occhi quei sei milioni di nuclei produttivi con meno di tre dipendenti che ci ostiniamo a chiamare imprese per ragioni ideologiche, mentre costituiscono una mutazione della figura del lavoratore. L’armatura giuslavoristica di questa legge delega non riesce a contenere il fenomeno e anzi rischia di soffocarlo.

Il carattere anfibio del lavoro terziario richiede l’attivazione di tutele di tipo universalistico – pensionistiche, formative, di welfare territoriale – a prescindere dalle forme contrattuali. Perfino il sostegno al reddito deve essere legato allo status di cittadinanza e non può essere limitato solo al passaggio da un’occupazione all’altra, come invece è necessario e assolutamente prioritario per il lavoro dipendente.

La complessa flessibilità è quella del lavoro autonomo, per quello subordinato sarebbe molto più facile ricondurre l’ordinamento a poche e chiare figure contrattuali che prevedano un periodo di prova e di formazione prima dell’assunzione definitiva e forme di impiego temporaneo più costoso e legato a reali esigenze produttive. Questa semplificazione è credibile solo se si attua la riforma più difficile in Italia, cioè l’obbligo di rispettare la legge.

La gran parte della precarietà nel lavoro subordinato si regge su una pratica di illegalità ed elusione. In questa proposta si delega il governo a fare tutto, tranne che a organizzare un efficiente sistema di controlli sulle condizioni di lavoro. Basterebbe rafforzare il corpo degli ispettori del lavoro e incrociare le banche dati con la lotta all’evasione fiscale e previdenziale, con l’obiettivo di sopprimere il lavoro nero e aumentare la vigilanza sulla sicurezza.

Ma a dare il buon esempio dovrebbe essere prima di tutto lo Stato. Nella stragrande maggioranza i contratti precari della pubblica amministrazione sono illegali, perché utilizzano rapporti temporanei per funzioni continuative e in alcuni casi di delicato interesse pubblico. La recente promessa di assumere 150 mila insegnanti che attualmente hanno cattedre annuali va nella giusta direzione e dovrebbe riguardare le tante figure che si trovano in condizioni simili: ricercatori e archeologi, ingegneri e architetti, informatici e operatori sociali. Non solo per rispettare la dignità di quei lavoratori, ma anche perché la valorizzazione delle loro competenze aumenterebbe la qualità delle politiche pubbliche. Anche le gare di appalto a massimo ribasso oggi contribuiscono a diffondere l’illegalità e il precariato selvaggio, mentre la committenza pubblica dovrebbe prendersi cura del rispetto dei diritti del lavoro. È curioso che questa proposta di legge si occupi del mercato privato e ignori completamente le responsabilità dello Stato come datore di lavoro diretto e indiretto.

Tra le righe si legge una sfiducia nel futuro del paese. Si ritiene che l’Italia non possa essere diversa da come è oggi, non sia in grado di modificare la sua struttura economica tradizionale ormai messa fuori gioco dalla competizione internazionale. Si pretende di risolvere il problema eliminando i diritti e riducendo i salari, già oggi i più bassi in Europa, magari utilizzando gli 80 euro e il Tfr per pareggiare il conto.

Sembra una scelta di buon senso ma è una via senza uscita. I paesi emergenti saranno sempre nelle condizioni migliori di costo per vincere la concorrenza. L’unico modo per mantenere il rango di grande paese consiste invece nel migliorare il livello tecnologico, la specializzazione del tessuto produttivo, l’accesso nell’economia della conoscenza. Ma ci vorrebbe un’agenda di governo tutta diversa; bisognerebbe puntare sulla formazione permanente per migliorare le competenze, mentre qui si promuove per legge il demansionamento dei lavoratori; si dovrebbe puntare sulle politiche industriali della green economy mentre il decreto sblocca-Italia rilancia la rendita immobiliare; si dovrebbe puntare sulla ricerca scientifica e tecnologica, che invece subirà altri tagli con la legge di stabilità; si dovrebbe puntare sull’economia digitale non a parole ma con azioni concrete che ancora non si vedono.

Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si sono visti i passi indietro. Con le riforme istituzionali gli elettori contano meno di prima. Con il Job Act si intaccano le garanzie per i lavoratori. Queste scelte non erano previste nel programma elettorale del 2013 che abbiamo sottoscritto come parlamentari del Pd. Non siamo stati eletti per indebolire i diritti.

Job Act sotto accusa

Jobs Act: i Giuristi Democratici denunciano Renzi alla Commissione Europea

Secondo l’associazione Giuristi Democratici il Jobs Act viola gravemente il diritto comunitario in materia di lavoro, prevedendo la cancellazione di ogni riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino il ricorso a contratti a tempo determinato e la loro proroga.

Che il cosiddetto Jobs Act voluto da Matteo Renzi avrebbe fatto discutere era noto. A sorprendere, invece, è il fatto che l’emanazione della legge abbia convinto l’associazione Giuristi Democratici a denunciare alla Commissione dell’Unione Europea lo Stato Italiano “in persona del suo Presidente del Consiglio dei Ministri Sig. Matteo Renzi, anche nella sua veste di rappresentante dell’organo di Governo che ha emesso sotto la sua responsabilità (come recita l’art. 77 della Costituzione italiana) il Decreto Legge”. L’associazione ritiene che il decreto Renzi-Poletti, liberalizzando i contratti a termine ed eliminando nel contratto di apprendistato l’obbligo di formazione e di stabilizzazione al termine del contratto, violi gravemente la normativa comunitaria in materia, in particolar modo la Direttiva CEE 1999/70/CE sul contratto a termine, nonché con i principi fondamentali della Carta Sociale Europea e delle convenzioni dell’OIL.

Con l’introduzione del decreto Renzi-Poletti, infatti, il rischio è che la forma di gran lunga prevalente di accesso al mercato del lavoro diventi quella precaria, molto spesso sottopagata e priva di numerose tutele e diritti. L’associazione dei Giuristi Democratici rileva come ” nonostante sulla materia dal 2001 ad oggi vi siano stati ben 12 interventi normativi pressoché tutti peggiorativi, il grado di definitiva precarizzazione dei rapporti lavorativi a cui giunge il Decreto 34/2014 (il cosiddetto Jobs Act, ndr) sia equiparabile solo alla normativa che sarebbe conseguita all’eventuale accoglimento della proposta di referendum popolare per l’abrogazione della legge 18 aprile 1962, n. 230 (allora recante “Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato”) depositata nel corso dell’anno 2000, avendo tale proposta —in caso di affermazione del quesito referendario— esattamente i medesimi effetti di introdurre nell’ordinamento italiano la possibilità di ‘poter instaurare sempre rapporti di lavoro a tempo determinato senza causale’”.

Il Jobs Act, fortemente voluto dal Presidente del Consiglio, prevede la cancellazione di ogni riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino il ricorso a contratti a tempo determinato e la loro proroga fino a 8 volte consecutive, prevedendo anche l’assenza di ogni limite al numero di contratti che il lavoratore può firmare (potenzialmente, il datore di lavoro può proporre al dipendente 36 contratti consecutivi e ben 288 proroghe). Questa tipologia di contratto, secondo i Giuristi Democratici, contrasta con la direttiva della Comunità Europea, che nel passaggio delle considerazione generali sostiene che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”.

Non solo: il cosiddetto Jobs Act violerebbe altri passaggi della normativa europea, che in effetti è stata stipulata allo scopo di prevenire “gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. Tutto il contrario del decreto Renzi-Poletti, che di fatto precarizza “obbligatoriamente” la vita dei lavoratori per tre anni. La denuncia dell’Associazione Giuristi Democratici, a firma dell’avvocato Roberto Lamacchia e recante la firma del primo aprile, chiede alla Commissione Europea “di avviare nei confronti dello Stato Italiano la procedura di infrazione ai sensi dell’art. 259 TFUE e comunque di adottare tutti i provvedimenti di sua competenza”.

La denuncia contro lo Stati italiano, e in particolare contro il premier Matteo Renzi, è stata appoggiata anche dal Movimento 5 Stelle e da Rifondazione Comunista.

QUI il testo del Job Act