Una sintesi dell’intervento di Marta Fana alla puntata di Coffe Break, 22/01/2018.
Una sintesi dell’intervento di Marta Fana alla puntata di Coffe Break, 22/01/2018.
Le idee socialiste sono entrate in crisi quando governi di sinistra hanno applicato in economia le regole dei liberisti. E ora i progressisti rischiano di scomparire nel tentativo di emulare un’altra destra, quella xenofoba.
Il declino dei partiti del socialismo europeo è oggetto in questi mesi di nuove interpretazioni. Passata di moda l’idea blairiana dell’obsolescenza della socialdemocrazia e dell’esigenza di una “terza via”, sembra oggi farsi strada una tesi più affine al senso comune: la sinistra è in crisi perché una volta al governo ha attuato politiche di destra. Con un certo zelo, potremmo aggiungere.
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Consideriamo in tal senso le politiche del mercato del lavoro. Una parte cospicua delle riforme che hanno contribuito in Europa a diffondere il precariato è imputabile a governi di ispirazione socialista. In molti paesi, tra cui l’Italia e la Germania, il calo più significativo degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE è avvenuto sotto maggioranze parlamentari di sinistra. Con quali risultati? La ricerca scientifica in materia ha chiarito che questo tipo di riforme non contribuisce ad accrescere l’occupazione.
Con buona pace per i nostrani apologeti del Jobs Act, questa evidenza è ormai riconosciuta persino dalle istituzioni internazionali maggiormente favorevoli alle deregolamentazioni del lavoro. Il World Economic Outlook 2016 del Fondo monetario internazionale e l’Employment Outlook 2016 dell’OCSE ammettono che le politiche di flessibilità dei contratti non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione. Ricerche recenti del Fondo e di altri, inoltre, indicano che minori protezioni del lavoro sono associate a un aumento degli indici di disuguaglianza tra i redditi. Dinanzi a simili evidenze, non si può dire che siano fioccati molti ripensamenti da parte dei leader socialisti che hanno promosso tali politiche. Quasi tutti, anzi, ancora oggi sostengono la validità delle loro scelte.
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Un esempio ulteriore attiene alle privatizzazioni. Una parte rilevante delle vendite di Stato avvenute in Europa nell’ultimo quarto di secolo è stata realizzata da governi di sinistra, tra cui quelli italiani ancora una volta in prima linea. Gli esponenti di tali esecutivi hanno giustificato le dismissioni in base a un’idea di inefficienza dell’impresa pubblica molto diffusa nel dibattito politico, ma che nella letteratura specialistica non trova adeguati riscontri empirici. L’OCSE, un’istituzione tra le più avverse alla proprietà statale dei mezzi di produzione, ha pubblicato nel 2013 uno studio da cui si evince che le grandi imprese pubbliche presenti nella classifica di Forbes registrano un rapporto tra utili e ricavi significativamente superiore rispetto alle imprese private e un rapporto tra profitti e capitale pressoché uguale. Lungi dall’approfondire queste analisi e avviare una riflessione critica sulle passate privatizzazioni, i vertici dei partiti socialisti appaiono tuttora ancorati alle vecchie credenze e risultano spiazzati dall’onda di riacquisizioni statali che è seguita alla crisi del 2008.
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Elaborazione grafica di Giuseppe Fadda
Consideriamo infine le politiche di liberalizzazione finanziaria e di apertura ai movimenti internazionali di capitali. I partiti socialisti hanno sostenuto senza indugio tali misure. La favola della globalizzazione dei capitali quale fattore di stabilità, di pace e di emancipazione sociale è entrata a far parte dei punti programmatici fondamentali di tali forze politiche e ha soppiantato la vecchia e per certi versi opposta parola d’ordine dell’internazionalismo operaio. Dopo la grande recessione mondiale e la successiva crisi dell’eurozona, persino nei rapporti del Fondo monetario internazionale e delle altre istituzioni favorevoli alla liberalizzazione dei flussi finanziari sono state espresse grandi preoccupazioni circa gli effetti destabilizzanti della indiscriminata libertà di circolazione internazionale dei capitali. I leader socialisti tuttavia sono sembrati disorientati dal nuovo corso, per molti versi incapaci di adeguarsi al cambiamento interpretativo.
Come novelli zelig alla compulsiva ricerca di un’identità alla quale conformarsi, i partiti socialisti hanno insomma applicato le ricette tipiche della destra liberista senza badare ai loro effetti reali, e con una determinazione talvolta persino superiore a quella delle istituzioni che le avevano originariamente propugnate.
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La tendenza a scimmiottare l’avversario politico tuttavia non si esaurisce nella emulazione dei liberisti. C’è infatti una nuova tentazione che caratterizza la più recente propaganda della sinistra europea di governo e che a sprazzi sembra affiorare anche tra gli slogan delle forze emergenti guidate da Corbyn e da Melenchon, apertamente critiche verso le vecchie apologie del libero mercato. È la tentazione di emulare un’altra destra, quella xenofoba, proprio sul tema dell’immigrazione.
Segnali di questa forma inedita di camaleontismo si rintracciano anche in Italia, dove sempre più frequentemente il Partito democratico sbanda nella direzione delle più triviali rivendicazioni securitarie contro l’immigrazione, e dove in alcune frange della cosiddetta sinistra radicale montano istanze xenofobe che si pretende di giustificare con l’idea secondo cui gli immigrati contribuirebbero ad abbassare i salari e le condizioni di vita dei lavoratori nativi. Anche in tal caso, a nulla valgono le evidenze scientifiche sull’assenza di legami causali tra immigrazione e criminalità e sui controversi e modesti effetti dei flussi migratori sulle dinamiche salariali. Considerato che anche la tesi opposta secondo cui gli immigrati sarebbero essenziali per la sostenibilità del sistema previdenziale presenta varie inconsistenze logiche ed empiriche, si deve giungere alla conclusione che a sinistra in tema di migrazioni non si fa che saltare da una mistificazione all’altra.
Se al guinzaglio della destra liberista la sinistra è entrata in crisi, in coda alla destra xenofoba la sinistra rischia di sparire dal quadro politico internazionale. La sinistra può prosperare solo se radicata nella critica scientifica del capitalismo, nell’internazionalismo del lavoro, in una rinnovata idea prometeica di modernità e di progresso sociale e civile.
segnalato da Barbara G.
L’assurdo caso di una barista senza tutele. Ha chiesto un giorno libero per un grave lutto familiare. Che non le è stato concesso perché doveva richiederlo con una settimana di anticipo. «Sono disperata, ma la morte non avvisa prima». Prosegue la nostra inchiesta sul lavoro degli italiani: inviateci la vostra segnalazione a espressonline@espressoedit.it
di Maurizio Di Fazio – espresso.repubblica.it, 10/07/2017
Sono barista e commessa da 18 anni. Lavoro in nero da sempre. 3 euro e 50 l’ora, 53 ore la settimana, compresi il sabato e la domenica. Ferie e malattie non retribuite. Una figlia piccola a carico. Ho avuto, ieri, un grave lutto in famiglia e ho chiesto il giorno libero per recarmi ai funerali. Ma sapete cosa mi è stato risposto? ‘Il permesso non può esserti concesso’, perché avrei dovuto avvisare una settimana prima. E io ho replicato: ‘la morte non ti avvisa prima’.
Questa è la storia di Fulvia, vittima di ordinario sfruttamento in un centro commerciale italiano che non arretra nemmeno di fronte al tabù dell’evento più “straordinario” di tutti: la fine. Omettiamo il suo cognome perché del suo lavoro, nonostante non le riconosca i diritti più elementari come quello di dare l’ultimo saluto a un parente stretto, non può farne a meno. “Sono indignata. Non hanno rispetto neanche di un lutto. Sono disperata. Non ce la faccio più a sopportare tutto questo, le umiliazioni davanti ai clienti in primis, per una manciata di euro”. La testimonianza di Fulvia deve aver toccato un nervo scoperto e infranto un vaso di Pandora vista la catena di reazioni e rivelazioni che ha suscitato su Facebook.
Scrive Rosy N.: «22 anni fa, appena arrivata a Roma, sono stata per due anni in nero con la promessa del contratto. Poi è morta mia nonna, e mi hanno riservato lo stesso trattamento che è toccato a Fulvia. Impaurita e disgustata, ho cercato un altro lavoro ma prima ho aperto una vertenza sindacale che ancora se la ricordano. Avevo tanta di quella paura; ma i tre giorni di lutto previsti per legge me li sono fatti tutti».
La normativa nazionale (legge n. 53/2000 con relativo regolamento di attuazione D.M. 21.07.2000 n. 278) prevede questo: “La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto a un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all’anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado, o del convivente”. Permessi retribuiti dall’azienda pure per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Ma quelli in nero come Fulvia (da quasi 20 anni…) sono tagliati fuori e la stessa prassi distorta investe, spesso, i dipendenti (privati e pubblici) contrattualizzati. «Io lavoro in un ex Provveditorato agli studi, un comparto, perciò, statale – afferma Ornella G. – a un collega che chiedeva un permesso per il funerale di un congiunto di primo grado, il dirigente gli ha sibilato che non poteva concedergli più di un’ora».
Paola V.: «Non troppo tempo fa, nonostante un regolare contratto a tempo indeterminato, quando morì mio zio, a cui ero legatissima, non mi consentirono di andare via un giorno prima. Volevo rivederlo un’ultima volta, anche se da defunto e dentro una bara. Sono arrivata al cimitero a funerale iniziato».
Stefania G.: «Cara Fulvia, capisco benissimo la tua rabbia. Successe anche a me. Chiesi un giorno di permesso per la cerimonia funebre e mi venne risposto: “Dovevi pensarci 15 giorni fa”».
Ma la morte non avvisa prima, non timbra il badge. «Mi è capitato varie volte che morisse un nostro collega di lavoro, che magari conoscevamo da 30 anni, ma non potevamo partecipare al suo funerale perché la produzione doveva andare avanti, solo chi era fuori turno poteva andarci – racconta all’Espresso Francesco Iacovone, sindacalista del settore commercio -. Per non dire delle battaglie per poter abbassare anche solo un minuto gli altoparlanti che diffondono la musica nei centri commerciali, quando muore uno di noi. Capita persino che blocchino le comunicazioni di morte per farti finire regolarmente il turno. L’azienda viene a conoscenza prima di te del decesso di tua madre, tua moglie o tuo nonno, ma non ti dice nulla per non lasciare scoperta la cassa». Il profitto über alles, che viene prima di tutto: prima della vita, e prima della morte.
Buon 1° maggio a tutti.
segnalato da Barbara G.
Alfredo Reichlin – da ilmanifesto.it
di Alfredo Reichlin – unita.tv, 14/03/2017
Sono afflitto da mesi da una malattia che mi rende faticoso perfino scrivere queste righe. Mi sento di dover dire che è necessario un vero e proprio cambio di passo per la sinistra e per l’intero campo democratico. Se non lo faremo non saremo credibili nell’indicare una strada nuova al paese.
Non ci sono più rendite di posizione da sfruttare in una politica così screditata la quale si rivela impotente quando deve affrontare non i giochi di potere ma la cruda realtà delle ingiustizie sociali, quando deve garantire diritti, quando deve vigilare sul mercato affinché non prevalga la legge del più forte. Stiamo spazzando via una intera generazione.
Sono quindi arrivato alla conclusione che è arrivato il momento di ripensare gli equilibri fondamentali del paese, la sua architettura dopo l’unità, quando l’Italia non era una nazione. Fare in sostanza ciò che bene o male fece la destra storica e fece l’antifascismo con le grandi riforme come quella agraria o lo statuto dei lavoratori. Dedicammo metà della nostra vita al Mezzogiorno. Non bastarono le cosiddette riforme economiche. È l’Italia nel mondo con tutta la sua civiltà che va ripensata. Noi non facemmo questo al Lingotto. Con un magnifico discorso ci allineammo al liberismo allora imperante senza prevedere la grande crisi catastrofica mondiale cominciata solo qualche mese dopo.
Anch’io avverto il rischio di Weimar. Ma non do la colpa alla legge elettorale, né cerco la soluzione nell’ennesima ingegneria istituzionale: è ora di liberarsi dalle gabbie ideologiche della cosiddetta seconda Repubblica. Crisi sociale e crisi democratica si alimentano a vicenda e sono le fratture profonde nella società italiana a delegittimare le istituzioni rappresentative. Per spezzare questa spirale perversa occorre generare un nuovo equilibrio tra costituzione e popolo, tra etica ed economia, tra capacità diffuse e competitività del sistema.
Non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. È il popolo che dirà la parola decisiva. Questa è la riforma delle riforme che Renzi non sa fare. La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto, agibile dalle nuove generazioni. Quando parlai del Pd come di un «Partito della nazione» intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il «Partito della nazione» è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere.
Tuttavia oggi mi pare ancora più evidente il nesso tra la ricostruzione di un’idea di comunità e di paese e la costruzione di una soggettività politica in grado di accogliere, di organizzare la partecipazione popolare e insieme di dialogare, di comporre alleanze, di lottare per obiettivi concreti e ideali, rafforzando il patto costituzionale, quello cioè di una Repubblica fondata sul lavoro. Sono convinto che questi sentimenti, questa cultura siano ancora vivi nel popolo del centrosinistra e mi pare che questi sentimenti non sono negati dal percorso nuovo avviato da chi ha invece deciso di uscire dal Pd. Costoro devono difendere le loro ragioni che sono grandi (la giustizia sociale) ma devono farlo con un intento ricostruttivo e in uno spirito inclusivo. Solo a questa condizione i miei vecchi compagni hanno come sempre la mia solidarietà.
Lunghissima e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall’ex presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco, Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato: “Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva”
di Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini e Vincenzo Visco
1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD. In particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali. A consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.
segnalato da Barbara G.
Per quanto considero Obama sopravvalutato, i concetti qui espressi li vedo in parziale risposta a quanto riportato in questo articolo, segnalato da Sun.
Il pubblico dell’ultimo discorso di Barack Obama da presidente degli Stati Uniti a Chicago, Illinois, il 10 gennaio 2017. (Jonathan Ernst, Reuters/Contrasto)
di Annamaria Testa – internazionale.it, 16/01/2017
Nel commosso ed energico discorso di commiato (qui la sintesi in italiano) pronunciato a Chicago da Barack Obama c’è, tra le molte altre cose rilevanti, un singolo passaggio che vorrei riproporvi. È questo: “Le grandi disuguaglianze corrodono anche i nostri princìpi democratici (…). Non ci sono modi veloci per correggere questa tendenza di lungo periodo. Sono d’accordo che il commercio internazionale debba essere equo e non solo libero. Ma la prossima ondata di licenziamenti non verrà dall’estero. Verrà dal continuo progresso nell’automazione che renderà obsoleti molti posti di lavoro. E quindi dobbiamo formare un nuovo patto sociale, per garantire ai nostri figli l’istruzione di cui hanno bisogno, per dare ai lavoratori il potere di unirsi in un sindacato per chiedere paghe migliori, per aggiornare il nostro welfare così che sia adatto al modo in cui viviamo, per aggiornare il fisco”.
Obama aggiunge: “Se non creiamo opportunità per tutti, la disaffezione e la divisione che hanno fermato i nostri progressi non farà altro che aggravarsi”.
Notate che Obama, tra i fattori che possono contrastare il crescere delle disuguaglianze, cita l’istruzione prima del sindacato. Prima della previdenza sociale (welfare). Prima delle riforme fiscali.
Questo non significa che previdenza, fisco, tutela dei lavoratori non siano importanti: interventi in questi settori garantiscono che sia preservato un decente e dignitoso livello di qualità della vita per i cittadini. Ma l’istruzione può fare qualcosa in più: migliorare i cittadini stessi. Formare i nuovi cittadini e renderli capaci di continuare a interagire adeguatamente con il mondo che cambia.
Alcuni economisti sostengono che i progressi dell’intelligenza artificiale portano con sé incredibili promesse: incremento della produttività e maggior tempo libero. Altri sostengono che segneranno la fine di un lavoro dignitoso per la maggior parte della popolazione e faranno crescere le disuguaglianze, scrive la Stanford Social Innovation Review.
In realtà, potrebbero succedere entrambe le cose. Aumenterà in modo significativo la domanda di lavoratori iperspecializzati (ma sul fatto che avranno più tempo libero nutro qualche dubbio). Uno studio della McKinsey segnala che entro il 2020, tra paesi sviluppati e in via di sviluppo, mancheranno circa 83 milioni di lavoratori high skilled.
D’altra parte, calerà in modo ancora più significativo la richiesta di lavoratori con competenze minori. Sappiamo che molti lavori tradizionali sono già spariti. Sappiamo che moltissimi altri spariranno in un breve arco di tempo: e stavolta non si tratta solo dei lavori manuali. Le macchine intelligenti riducono la necessità di impiegare esseri umani, compresi quelli intelligenti.
Sappiamo che gli unici lavori non sostituibili dall’intelligenza artificiale, almeno per qualche decennio, sono quelli che hanno una forte componente intellettuale e creativa. L’intelligenza artificiale è potentissima e velocissima, ma ancora fatica a districarsi nelle situazioni complesse, nuove e ambigue. E non sa inventare.
Certo, già oggi possiamo avere perfino un computer che sa dipingere come Rembrandt, e che addirittura riesce a costruire una “nuova opera” di Rembrandt studiandosi l’intera produzione del pittore. Ma non abbiamo certo computer capaci di sviluppare autonomamente un nuovo stile pittorico: solo un talentuoso essere umano può riuscirci.
Ed eccoci di fronte a un interessante paradosso. Per vivere e lavorare in un mondo ipertecnologico, diventa cruciale il possesso delle capacità più specificamente umane: comunicazione, lavoro di gruppo, pensiero critico, flessibilità, invenzione. Queste vanno integrate con le competenze di base (lettura, scrittura, calcolo, scienze): quelle che mettono le persone in grado di continuare a imparare.
Oltretutto (a dirlo è sempre la Stanford Review) queste capacità sono fondamentali non solo in termini di occupazione, ma anche in termini di soluzione creativa di complessi problemi globali, dal cambiamento climatico alla crisi migratoria.
L’ulteriore paradosso è questo: occuparsi del futuro, oggi, significa ragionare di un’istituzione antica (e, nella sbrigativa percezione di troppi) polverosa com’è la scuola. Significa migliorare la scuola di oggi e progettare la scuola di domani, e istruire i cittadini di domani, prima e più ancora che progettare le tecnologie di domani.
Significa, infine, che non dobbiamo mai scordarci di rendere onore a chi investe, in questa sfida, tutta la sua competenza, la sua intelligenza, la sua energia e la sua passione.
Questo articolo è dedicato a Tullio De Mauro.
segnalato da Barbara G.
di Norma Rangeri – ilmanifesto.info, 12/01/2017
Quale sarebbe la forza di una campagna referendaria sul lavoro in Italia non è difficile da immaginare. Quale valenza avrebbe, per la sinistra, ingaggiare, così come è già accaduto per il referendum sulla Costituzione, una battaglia elettorale, politica, culturale sul tema cruciale dell’occupazione è altrettanto evidente. Aver dichiarato inammissibile il quesito sull’articolo 18, come ha fatto ieri la Corte Costituzionale, è sicuramente un pessimo segnale, ma non decisivo. Certo, una Repubblica che si proclama fondata sul lavoro sforna, nella realtà, leggi che negano la pari dignità tra lavoratore e datore di lavoro (ti licenzio, il perché non ti riguarda, prendi un bonus e a casa). Vedremo quali saranno le motivazioni della sentenza per un esito comunque combattuto tra i 14 giudici.
Ma sbaglia chi pensa che il tema dei voucher, la modalità di lavoro non di una minoranza di pensionati, bensì dell’area centrale dell’occupazione, quella dei 35 anni, sarebbe di minor impatto nella mobilitazione e nel voto. Al contrario, assisteremmo a una partecipazione massiccia dei giovani, e di quei cittadini che oggi, specialmente nel Sud, subiscono il pesante arretramento nelle condizioni, materiali e morali, della loro vita.
Il condizionale naturalmente è d’obbligo perché è sempre possibile un intervento legislativo che neutralizzi il referendum, e perché se con la sentenza della Corte Costituzionale è comunque iniziata la campagna elettorale resta tutto da vedere di quale natura sarà: se si tratterà della corsa referendaria contro voucher e appalti, o se, invece, tra qualche mese saremo chiamati a eleggere i parlamentari della prossima legislatura.
Oggi sui muri delle nostre città parleranno i primi manifesti della Cgil con l’invito a votare due sì. Dopo aver raccolto oltre tre milioni di firme, il sindacato di Susanna Camusso, in questa settimana obiettivo prediletto dei giornaloni, è ben intenzionato a battere nelle urne le politiche del lavoro promosse dal jobs act. Quelle stesse così orgogliosamente rivendicate dall’attuale presidente del consiglio Gentiloni, e dal suo predecessore Renzi.
Tuttavia è evidente che un bandolo della matassa è nelle mani dell’ex presidente Renzi, e delle forze che a lui si riferiscono. Sarà massimo il suo impegno per evitare di sprofondare di nuovo sul terreno sfavorevole dello scontro referendario, preferendogli le elezioni anticipate (bruciando così il terzo governo del Pd). Ma qui il gioco dei Palazzi è sovrano, le alchimie piuttosto fumose, le trappole trasversali in agguato. Intanto, pur in maniera meno diretta che nel caso dei quesiti referendari, sarà ancora il Palazzo della Consulta a definire su quali premesse potranno agire le correnti dei partiti per definire una legge elettorale post-Italicum. Così come sarà Palazzo Chigi a decidere come staccare la spina a se stesso, con il partito di maggioranza che, attraverso alcuni suoi esponenti di primo piano, va dicendosi pronto anche al gesto estremo di ritirare la fiducia al suo governo. Poi, su tutti, a dire la sua sarà il Palazzo del Quirinale. Mattarella ha detto sì il 4 dicembre, appoggia il Jobs act, ha aperto l’ombrello sul governo fotocopia, ma non sarà facile schierarlo tra i pasdaran del voto anticipato.
segnalato da Barbara G.
di Andrea Pertici – huffingtonpost.it, 09/01/2017
È noto che fare previsioni su un giudizio di ammissibilità di un referendum abrogativo non è semplice. Nell’esercizio di questa competenza, la Corte costituzionale giudica, infatti, sulla base di parametri elaborati quasi esclusivamente attraverso la propria giurisprudenza, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, con un orientamento che nel complesso è divenuto progressivamente restrittivo, pur con significative oscillazioni, soprattutto in relazione alle modalità di formulazione del quesito.
Quest’ultimo, infatti, deve essere “chiaro e semplice” e per questo omogeneo: non si può chiedere agli elettori di abrogare, per esempio, il reato di istigazione a disobbedire le leggi e quello di atti contrari alla pubblica decenza, perché questi potrebbero voler rispondere a favore dell’abrogazione dell’uno ma non dell’altro.
Ciò non significa, che non possa essere chiesta l’abrogazione di più norme o anche di più istituti, purché abbiano una “matrice razionalmente unitaria”, individuata dalla Corte, la quale, fissandola a maglie più o meno larghe, può favorire l’ammissibilità di un quesito o al contrario determinare la sua inammissibilità. L’incertezza è accresciuta dal fatto che – sempre secondo la giurisprudenza costituzionale – un quesito deve non solo essere omogeneo (e quindi evitare di contenere qualcosa di troppo) ma anche completo e coerente, con la conseguente necessaria inclusione di tutte le norme connesse a quella matrice razionalmente unitaria, la dimenticanza di alcune delle quali ha determinato in più occasioni una pronuncia di inammissibilità.
Ma le strettoie dell’ammissibilità referendaria non finiscono qui. Sempre dal punto di vista della sola formulazione del quesito, la Corte – soprattutto dal 1997 – ha precisato che i quesiti non debbano essere “manipolativi”, e cioè tali da trasformare il referendum da abrogativo a “surrettiziamente propositivo”.
Pure in questo caso si tratta di un criterio non semplice da definire in concreto, anche considerato che la Consulta non considera manipolativo (o comunque inammissibilmente manipolativo) qualunque ritaglio di parole, ma soltanto quello che realizza una “saldatura di frammenti lessicali eterogenei”, sostituendo una previsione di legge con un’altra che “figura in tutt’altro contesto normativo”.
È quanto avveniva nel caso della sentenza n. 36 del 1997, relativa al limite di trasmissione dei messaggi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica, fissato nel 4% dell’orario settimanale (e nel 12% di ogni ora), che – attraverso un ritaglio di alcune frasi – si mirava a far scendere al 2% che era, invece, il limite dell’eventuale eccedenza oraria da recuperare nell’ora antecedente o successiva.
Diversamente, però, altri ritagli di norme sono stati dichiarati ammissibili, pur determinando la sostituzione di una determinata disciplina con un’altra ,che, tuttavia, non risultava “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo”, ma al contrario determinava l’estensione di un criterio già esistente come residuale, facendolo diventare quello normalmente applicabile. È quanto la Corte costituzionale disse con la sentenza n. 13 del 1999, a proposito di un referendum sul Mattarellum dal quale sarebbe risultata la sostituzione delle particolari modalità di attribuzione dei seggi previste per la Camera con altre (previste dalla legge solo come residuali).
Ecco, questi aspetti diventano oggi importanti alla vigilia del pronunciamento della Corte costituzionale su tre quesiti proposti dalla CGIL, relativi, rispettivamente, alla disciplina sui licenziamenti illegittimi, alla responsabilità solidale in materia di appalti e ai voucher.
Alcune criticità potrebbe presentare proprio il primo quesito. Questo, infatti, elimina il decreto legislativo sui licenziamenti approvato sulla base di una delega contenuta nel jobs act, proprio come faceva il quesito già proposto da Possibile nel 2015, ma aggiunge poi l’abrogazione di alcune parti dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come successivamente modificato (soprattutto dalla legge Fornero).
Ora, questo potrebbe determinare alcune difficoltà nella individuazione di una matrice razionalmente unitaria sufficientemente definita e quindi quell’omogeneità del quesito necessaria per renderlo ammissibile. Potrebbe infatti volersi votare a favore di una modifica delle conseguenze del licenziamento ingiustificato ma non della estensione di queste anche alle imprese con un più limitato numero di dipendenti (da quindici a cinque)?
La risposta sul punto finirà per dipendere proprio dalla individuazione che la Consulta farà della “matrice razionalmente unitaria”, perché se questa fosse fissata a maglie molto larghe (per esempio, nel “rafforzamento delle tutele rispetto ai licenziamenti illegittimi”) il quesito potrebbe risultare ammissibile, ma in caso diverso no.
Tuttavia, l’inammissibilità del quesito è stata sostenuta da più parti, nelle ultime settimane, sulla base della “manipolatività”, in quanto questo quesito – attraverso il ritaglio di alcune parole e frasi – non determinerebbe una semplice abrogazione ma sarebbe propositivo di una nuova disciplina. La questione si pone, in particolare, per l’ottavo comma dell’articolo 18, relativo alla dimensione dell’impresa alla quale si applicano le tutele previste rispetto al licenziamento illegittimo. Infatti, attraverso la cancellazione di alcune parole, si intende sostituire, ai limiti attualmente previsti, calcolati sulla singola impresa o sulle diverse imprese del medesimo imprenditore nell’ambito del Comune (con una disciplina specifica per le imprese agricole), un unico limite, oggi previsto per le sole aziende agricole, dato dalla presenza di almeno cinque dipendenti.
Ora, come abbiamo detto, non qualunque ritaglio che porti a un cambiamento della disciplina vigente è inammissibilmente manipolativo, ma soltanto quello che, saldando frammenti lessicali eterogenei, relativi a “tutt’altro contesto normativo” produca un effetto surrettiziamente propositivo. Se, invece, il ritaglio porta all’espansione di un criterio già presente, senza operare una sostituzione con un’altra disciplina “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo (…), ma utilizza un criterio specificamente esistente”, il referendum è ammissibile.
La domanda, quindi, è se la soglia dei cinque dipendenti, prevista oggi per l’applicabilità dell’articolo 18 alle sole aziende agricole, divenendo valida per tutte le aziende (per le quali attualmente è di quindici dipendenti), determini una semplice espansione di una disciplina prevista e non estranea al contesto normativo o no. E da questo potrebbe dipendere l’ammissibilità del quesito o la sua inammissibilità.
E problemi simili potrebbero forse esservi anche per un’altra disposizione oggetto di abrogazione e in particolare per quella relativa alla determinazione dell’indennità risarcitoria per il licenziamento dichiarato inefficace per difetto di motivazione, per la quale, attraverso una serie di ritagli, si applica uno dei criteri (quello della reintegrazione con pagamento di indennità) previsti per il licenziamento ingiustificato.
Di fronte a un esito incerto, soprattutto quando i quesiti sono particolarmente complessi e articolati, rimane da sottolineare la necessità di fornire il giudizio di ammissibilità di parametri meglio definiti e soprattutto l’importanza che la Corte costituzionale arrivi a pronunce quanto più possibile solide, chiare e trasparenti, nel presupposto che, a norma della Costituzione, per il referendum abrogativo l’ammissibilità è la regola e l’inammissibilità l’eccezione.
I criteri che determinano quest’ultima, quindi, ferma restando la necessità di garantire un’autentica libertà di voto, non dovrebbero essere oggetto di un’interpretazione estensiva (rispetto alla quale talvolta la Corte ha ecceduto, come sottolineato anche dall’autore della sentenza n. 16 del 1978, Livio Paladin, in un seminario svoltosi proprio alla Consulta nel 1996).
segnalato da Barbara G.
Fatti sempre più frequenti.
La vicenda denunciata da Filcams Cgil e Fisascat Cisl è avvenuta il 22 dicembre nel ristorante Flunch situato all’interno del centro commerciale GrandEmilia. Una volta tornati al lavoro – fanno sapere i sindacati – i dipendenti sono stati demansionati. Ancora una volta l’Emilia Romagna si conferma capitale italiana dei voucher: gli altri casi
di David Marceddu – ilfattoquotidiano.it, 27/12/2016
Il ristorante rimane aperto sostituendo i lavoratori in sciopero anche con precari e con personale pagato con i voucher. A raccontare in questi termini la vicenda – proprio mentre infuria a livello nazionale la polemica politica sui famigerati ticket per il lavoro temporaneo – sono i sindacati confederali di Modena. Il fatto – stando a quanto si legge in una nota di Filcams Cgil e Fisascat Cisl – risale al 22 dicembre. Alcune settimane fa la catena di pizzerie e ristoranti Flunch aveva annunciato la chiusura della sua sede ospitata all’interno del supermercato GrandEmilia, con il conseguente licenziamento, entro gennaio 2017, di tutti i 34 dipendenti. Da qui erano partite una serie di agitazioni culminate con uno sciopero a sorpresa il giorno 22. “Tutte le lavoratrici assunte a tempo indeterminato hanno aderito allo sciopero, ma l’azienda, che ne era venuta a conoscenza, ha comunque garantito il servizio con il personale precario e a voucher”, scrivono ora i due sindacati.
La denuncia di Cgil e Cisl tuttavia non si ferma qui. Al loro rientro il giorno 23 dicembre, le lavoratrici avrebbero trovato accanto al marcatempo in cui si timbra il cartellino una serie di frasi a loro rivolte: “Vergogna!, Con quale coraggio oggi ti presenti al lavoro?”. Infine, stando ancora al racconto dei sindacati, quel giorno alcune lavoratrici sarebbero state adibite dalla responsabile del ristorante a mansioni inferiori, “facendoci fare le pulizie, anziché stare al bar, in cucina o al servizio distribuzione”. L’azienda Flunch, interpellata da ilfattoquotidiano.it, per il momento non ha replicato alla versione dei fatti dei sindacati. Ma è a livello politico che la questione voucher continua a tenere banco. Il deputato di Sinistra Italiana Giovanni Paglia, facendo proprio riferimento a quanto denunciato dai sindacati modenesi, ha annunciato una interrogazione parlamentare al ministro Giuliano Poletti: “Lo strumento dei voucher va abolito, non semplicemente migliorato, perché ormai la loro crescita incontrollata rappresenta un elemento riconosciuto di allarme sociale e distorsione del mercato del lavoro – scrive Paglia in una nota – e lo testimoniano i numeri: 121 milioni di voucher sono stati venduti in tutta Italia nel corso del 2016, oltre 15 milioni tra gennaio e ottobre 2016 in Emilia Romagna di cui 2,5 milioni nella sola provincia di Modena, seconda soltanto a Bologna”.
Proprio l’Emilia Romagna è una delle regioni dove il fenomeno voucher ha preso piede maggiormente. Tanti gli esempi. Uno dei casi (ora risolto) al Brico di Villanova di Castenaso, alle porte di Bologna. Secondo quanto riportato dal sindacalista Filcams Stefano Biosa in una intervista all’edizione bolognese della Repubblica “da gennaio ad agosto 2016 sono entrate 13 persone pagate esclusivamente coi voucher, in sostituzione di altrettanti contratti a termine”. Solo dopo l’intervento del sindacato – si legge nell’intervista – sono tornati i consueti contratti a termine che erano stati usati in passato. Nelle sette sedi bolognesi della catena di centri scommesse Sisal – sempre stando a quanto riportato dalla Filcams Cgil – ai 60 dipendenti a tempo indeterminato si sarebbero aggiunti in media, per ciascuna sede, uno o due ‘voucheristi‘ tutto l’anno invece che i soliti contratti a termine usati negli anni precedenti. “Tutto legale, tutto consentito dalle nuove norme – ha spiegato Biosa – Ma in questo modo i voucher hanno sostituito il lavoro più tutelato, altro che far emergere lavoro nero”.
Infine c’è il caso della Carrefour in Veneto. La catena francese ha deciso già da alcune settimane di tenere aperto non solo il 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, ma addirittura il giorno di Capodanno, tre sedi tra cui quella del paese a 15 chilometri da Mestre. “Carrefour Italia – ha spiegato la multinazionale francese – ha deciso di aprire al pubblico il punto vendita di Marcon nella giornata del 26 dicembre e il 1 gennaio nell’ottica di fornire un servizio importante e richiesto dai propri clienti. Riguardo agli orari di lavoro, l’azienda conferma l’assoluta volontarietà per i propri dipendenti a coprire questi turni”. Dura la replica della Filcams Cgil: “Carrefour sarà aperto quasi solamente grazie al lavoro dei voucheristi – ha spiegato la sindacalista Roberta Gatto – che ovviamente non se la sentono di rifiutare la chiamata, per non rischiare di perdere opportunità successive di lavoro. Da parte nostra cercheremo di attivare una campagna importante per convincere la gente a non andare a fare la spesa nelle date in questione”.