PCI

Eppure

segnalato da n.c.60

*

EPPURE

Per gli incolori

che non hanno canto

neppure il grido,

per chi solo transita

senza nemmeno raccontare il suo respiro,

per i dispersi nelle tane, nei meandri

dove non c’è segno, né nido,

per gli oscurati dal sole altrui,

per la polvere

di cui non si può dire la storia,

per i non nati mai

perché non furono riconosciuti,

per le parole perdute nell’ansia

per gli inni che nessuno canta

essendo solo desiderio spento,

per le grandi solitudini che si affollano

i sentieri persi

gli occhi chiusi

i reclusi nelle carceri d’ombra

per gli innominati,

i semplici deserti:

fiume senza bandiere senza sponde

eppure eterno fiume dell’esistere.

Pietro Ingrao

* da left.it, 27 settembre 2015

 

 

PD, il partito mai nato

Cacciari: “A Renzi serve un partito vero. Il Pd non è mai nato”

Massimo Cacciari

Intervista a Massimo Cacciari: “La scissione è già nei fatti, col segretario e i suoi da una parte e una corrente del partito che va dalla parte opposta. Ma era inevitabile che finisse così”.

 di Federica Fantozzi – unita.tv, 22 agosto 2015

*

«Il Pd non è mai nato, strozzato in culla dalle oligarchie ex Dc ed ex Pci, e da questo suicidio nasce l’affermazione politica di Renzi». Filosofo, docente universitario, scrittore, Massimo Cacciari ha la passione della politica: tre volte sindaco di Venezia, ex europarlamentare, candidato governatore del suo Veneto contro il forzista Galan. È da sempre un osservatore critico del Pd, in cui ha sostenuto l’esistenza di una “questione settentrionale”. Adesso analizza i conflitti interni di questi ultimi mesi e le prospettive del partito guidato da Matteo Renzi: «La scissione c’è già nei fatti, solo nel modo più spurio e improduttivo. Ma questo equivoco va sciolto»

Che cosa sta succedendo nel Pd? È in corso una mutazione genetica o è un replay della lotta tra correnti a cui abbiamo assistito tante volte in passato?

«Non è la solita lotta, come ne abbiamo già viste, tra correnti che corrispondono ognuna a una storia e a una tradizione comune. Oggi la situazione è diversa. C’è una leadership molto forte che fatica a creare intorno a sé un gruppo dirigente autorevole. Renzi ha autorevolezza, gli altri che lo circondano sono gregari. Dall’altra parte ci sono esponenti di una cultura che con questo capo non ha niente a che fare. La differenza è quasi antropologica».

Quanto è profonda questa ferita per il Pd?

«Direi che non si può parlare di partito. C’è una contrapposizione tra il capo e il suo seguito da una parte, e una corrente che non ha nulla a che spartire con loro dall’altra. E sarebbe utile che l’equivoco si sciogliesse presto. Il perdurare di questa situazione danneggia sia il leader che la minoranza, che potrebbe meglio e con più efficacia curare settori della società e dell’opinione pubblica oggi spaesati».

È un’analisi molto dura. Implica che difficilmente il Pd potrà uscire dal guado se non cambiano radicalmente le cose…

«C’è un forte elemento di confusione. Il che non esclude che Renzi riesca con il tempo a costruire un vero partito con dirigenti all’altezza e un radicamento territoriale che oggi manca del tutto. Proprio a questa lacuna dobbiamo i risultati catastrofici alle ultime amministrative in Veneto, in Liguria, e poi a Venezia, Arezzo, Livorno. Il premier deve mettersi in testa che se vuole governare a lungo avrà bisogno di un partito vero e più strutturato di questo».

Sembra di capire che, a suo avviso, l’approdo più probabile se non inevitabile sarà una scissione tra maggioranza renziana e minoranza interna del Pd.

«Sì, ma la scissione già c’è, solo nel modo più spurio e improduttivo per tutti. Vivono da separati in casa. Ma quarant’anni fa c’è stato il referendum per il divorzio: nessuno è più obbligato a convivere se non ci sono i presupposti».

Il Pd in queste condizioni è opera di Renzi o sono venuti al pettine nodi preesistenti?

«Certo, è un contesto che risale a ben prima di Renzi. Il Pd non è mai nato e in questo l’attuale segretario non ha responsabilità. Sono state le vecchie oligarchie ex Dc ed ex Pci a strozzare il fantolino nella culla. E bisogna aggiungere che proprio da questo suicidio nasce l’affermazione di Renzi».

Lei ha espresso critiche sulla nomina del nuovo cda Rai. In questi giorni il ministro della Cultura Franceschini ha nominato 20 direttori di musei, tra cui 7 stranieri, tra le polemiche. Anche su queste scelte ha delle riserve?

«Sulla Rai non ho fatto critiche bensì ragionamenti. Era inevitabile che una leadership come quella di Renzi, fortissima da un lato e debolissima dall’altro perché – come abbiamo detto – non ha creato un suo partito, cerchi di collocare uomini di fiducia nei posti chiave del Paese. Era fisiologico e non capisco di cosa si stupiscano gli avversari».

Per la tornata di nomine nei musei, secondo lei, vale la stessa logica?

«Idem. Alcuni funzionari museali che conosco sono alla pari se non superiori come competenze ai direttori nominati. Ma Renzi ha bisogno di un rinnovamento e di mettere gente sua».

L’approdo della riforma costituzionale al Senato a settembre è considerato il banco di prova per la tenuta del governo. Lei crede che si troverà una quadra all’interno del Pd tra posizioni al momento molto distanti?

«Questo non lo so. Posso dire che il superamento del bicameralismo perfetto è indispensabile ed è ormai una questione vecchia di una generazione e mezzo. Ma il modo in cui sta avvenendo è dilettantesco. Con la cornice di questa legge elettorale il Senato, a cui la riforma attribuisce funzioni ben superiori di quelle della Conferenza Stato-Regioni, dovrebbe essere elettivo. Lo richiederebbe la logica istituzionale. Non lo sarà? Pace, ma diventa un pasticcio ridicolo, una sgrammaticatura».

Non crede però che modificare norme che hanno già avuto una doppia lettura conforme, con equilibri politici così fragili, allungherebbe a dismisura i tempi, con il rischio che finisca tutto nel nulla? Sono dieci anni, da quando è entrato in vigore il Porcellum di Calderoli, che si discuteva di cambiare legge elettorale senza riuscire a farlo.

«In questo ha perfettamente ragione Renzi: Bersani e i suoi predecessori non hanno combinato nulla non in dieci ma in vent’anni. Questa riforma è sempre meglio di ciò che c’era prima: è abborracciata, ma risponde all’esigenza reale di superare il bicameralismo paritario». In sintesi: il Pd è un’incompiuta. Che fine farà? «Non è escluso che Renzi riesca a costruire un partito vero. Ma sarà il Partito di Renzi e non più il Partito Democratico».

La profezia che si auto-realizza

di Adamo

Non è molto che seguo con attenzione gli avvenimenti politici del mio Paese. Ho iniziato a farlo con passione da quando ho scoperto il blog di un tizio che sta nel PD, ho trovato interessanti e, soprattutto, corrispondenti con la realtà le cose che scriveva; ho iniziato a sostenere l’associazione che prima si chiamava People e ora si chiama Possibile con piccole donazioni e a parlarne con gli amici. E poi alcuni militanti mi hanno addirittura convinto a iscrivermi al PD, partito verso il quale ero un po’ diffidente, dopo quello che era successo con il governo delle larghe intese ovviamente, ma anche prima. Ricordo, ad esempio, che alle primarie del 2009 (o forse erano le primarie per le comunali del 2011?… non ricordo), uscito dal seggio, un giovane mi fermò e mi pose qualche domanda per un sondaggio: mi chiese per chi avessi votato, perché, e cosa ne pensassi del PD. In particolare, ricordo questa domanda: ti consideri più a destra o più a sinistra del PD? E c’erano 5-6-7 caselle tra cui scegliere: se barravi la casella centrale, significava che il tuo pensiero era press’a poco in linea con quello del PD; se barravi una delle caselle a destra, significava che per te il PD stava troppo a sinistra (tanto più quanto più era a destra la casella che sceglievi) etc… Mi sono spiegato? Ecco, ricordo che allora io dissi all’intervistatore di barrare una delle caselle a sinistra. Non l’ultima a sinistra, ma forse la penultima, per dire che io rispetto al PD mi consideravo più a sinistra.

Siccome, vi dicevo, in tempi recenti ho iniziato a seguire con attenzione gli avvenimenti politici del mio Paese, ho iniziato a guardare in modo diverso anche al passato, e ho iniziato a pormi delle domande. E man mano che trovo vecchie fotografie e rileggo vecchi articoli, mi chiedo cosa ne sia stato, o meglio quale sia stato il percorso politico di tutte quelle persone che una volta militavano o si identificavano nel PCI, e ora invece provano indifferenza od ostilità verso il PD.

Il PCI era indubbiamente il partito che stava dalla parte dei deboli, degli ultimi, il partito che voleva cercare di coinvolgere tutti (economicamente, socialmente, culturalmente) nel progresso del Paese. Un partito ancorato, però, a un’ideologia che da sempre, non da ora, considero utopistica, che forniva risposte per un riscatto popolare quando l’operaio era ancora uno schiavo, e non c’erano leggi che lo tutelavano, ma nemmeno una struttura sociale organizzata che gli consentisse di immaginare una sua emancipazione, se non attraverso gesta epiche come una rivoluzione e una lotta di classe.

Sulla carta, proprio sulla carta, cioè nel suo statuto – come ci fa spesso notare Pippo Civati -, anche il PD dovrebbe essere una forza politica che, in quanto di sinistra, progressista, sta dalla parte dei più deboli. Ovviamente ciò non significa necessariamente stare contro i più forti, ma semplicemente impegnarsi a coinvolgere tutti nel progresso, non lasciare nessuno indietro, affinché la società funzioni in maniera armoniosa e non sia divisa tra piccoli paradisi e sterminati Far West, che starebbero in equilibrio precario gli uni con gli altri.

Ora purtroppo non è così, il PD non sta proprio proprio dalla parte dei più deboli deboli, e su questo credo di trovare d’accordo la maggior parte dei miei lettori. Che razza di bonus è, per esempio, un bonus dato ai redditi che stanno sotto i 25.000 euro, ma sopra gli 8.000? I più bisognosi, mi dicono, sono quelli che stanno al di sotto degli 8.000 euro di reddito. E che razza di bonus bebè è un bonus dato ai redditi al di sotto dei 90.000 euro? Mi chiedo se anche questo bonus bebè avrà una soglia inferiore sotto la quale non verrà erogato (magari 20.000 euro). Insomma, i più deboli deboli, i più esclusi esclusi, non credo che li si aiuti proprio in questo modo.

Ecco, credo che tutte le persone che stavano nel PCI, quando c’era, e che ora non stanno nel PD, tutto questo un po’ l’avessero previsto. E in parte, comprensibilmente, se ne compiacciono: “Ecco, io l’avevo detto che, mischiandoci con quegli altri, non saremmo più stati gli stessi”. Finché c’era il PCI, c’era anche un’ideologia che ci contraddistingueva, e forse anche col PDS-DS c’era una sorta di post-ideologia, un’ideologia passata in cui riconoscersi (in un quindicennio peraltro fallimentare per la sinistra italiana). Ma il PD è un miscuglio dove tutto si è perso nella nebbia, nell’indeterminatezza. Non c’è nulla di sicuro, di stabile.

Eppure la vittoria della destra, quella destra che ora detiene le sorti del PD, ha avuto tra le sue concause anche questo distacco e questa diffidenza di tanti ex-PCI nei confronti del PD. È proprio il loro starsene fuori ad aver contribuito a rendere marginale il ruolo di una sinistra “dalla parte degli ultimi” nell’attuale PD. Ecco quindi che la profezia dei “diffidenti” non si sarebbe forse realizzata, se non fosse stata espressa.

Perché il PD è un partito indubbiamente diverso dal PCI nella sua concezione di partecipazione. I militanti non sono pianeti che girano attorno a un sole che era, è e sempre sarà, non prendono luce da un’idea precostituita e immutabile, ma sono essi stessi stelle che devono far valere la propria forza di gravità per dare una direzione piuttosto che un’altra alla politica del partito. Non c’è nulla di precostituito e tutto può cambiare, è una concezione diversa di partecipazione, una concezione nuova (quanto sarà efficace lo vedremo, e se si rivelerà più adatta a interpretare lo spirito dei tempi pure, lo vedremo). Certo che entrare nel PD, crederci, significa accettare questa sfida e mettersi in gioco.

Mettersi in gioco e magari perdere. Come ad esempio ora, che Pippo Civati è in bilico sull’orlo del PD, quasi sul punto di uscirne.

Ma cosa ne sarà poi di tutto il movimento? Non credo che avrà molta importanza il dove starà Civati, se dentro o fuori. Ognuno deve fare la sua parte, ognuno ha il suo ruolo. Pippo è in prima linea, e può anche cadere, ma dietro ci sono altri pronti a battersi, ciascuno alla sua maniera, come il “vecchio” Tocci, che vuole lasciare il Senato per fare il semplice militante, o come Mumolo, che vuole fare il segretario dell’Emilia-Romagna. E come, potenzialmente, tutti noi, che dovremmo contribuire con le nostre idee e la nostra determinazione, anche a prescindere dalla nostra tessera di partito.

Il partito unico di Matteo

da La Stampa (10/10/2014) – di Massimo Gramellini

In Italia è rimasto un solo partito e non è di sinistra. Si chiama ancora Pd, ma è già la versione moderna, senza tessere né sacrestie, della Democrazia Cristiana, la balena interclassista che tutti criticavano e però votavano. Il processo ha raggiunto il suo culmine questa settimana con la sconfitta degli ultimi eredi del Pci sull’articolo 18. Renzi ha celebrato il proprio trionfo con una scelta mediatica significativa: andando a pontificare negli unici talk show che parlano all’ex popolo berlusconiano, quelli capitanati da Porro e da Del Debbio.

Con la spregiudicatezza tipica delle persone cresciute in un ambiente familiare sereno e quindi molto sicure di sé, l’annunciatore fiorentino sta disintegrando i tabù che hanno paralizzato per decenni i suoi predecessori comunisti e pidiessini. Il timore di avere nemici a sinistra e di mettersi contro la Cgil, ma soprattutto l’imbarazzo nel chiedere voti alla base sociale dell’incantatore di Arcore: liberi professionisti, commercianti, piccoli imprenditori e disoccupati, che secondo l’analisi pubblicata nei giorni scorsi dal Sole 24 Ore hanno «cambiato verso» alle elezioni europee, dirottando per la prima volta i loro consensi sul partito che finora gli aveva procurato solo attacchi di orticaria.

La realtà è che oggi chiunque, da Passera a Della Valle, pensi di entrare in politica per rifondare il centrodestra deve prendere atto che al momento non esiste un bacino di voti disponibile. Renzi ha fatto il pieno, lasciando scoperta solo la zona riservata ai piccoli borghesi impoveriti, cioè ai lepenisti italiani magistralmente interpretati dall’altro Matteo, il becero ma efficacissimo Salvini. Il resto è un mondo finito e svuotato di consensi che sopravvive sui giornali per vecchi automatismi che inducono i cronisti a interessarsi alle ultime convulsioni dei tirapiedi e dei traditori di Berlusconi. I voti di Alfano e di Monti sono già tutti in pancia al Pd. E quei pochi che restano a Silvio finiranno in parti uguali a Matteo uno e Matteo due.

L’unica terra di conquista elettorale è dunque quella che un tempo avremmo chiamato Sinistra. Sono i giovani e i precari attratti da Grillo (fino a quando?), i pensionati, i nostalgici dello Stato sociale e in genere gli oppositori di un sistema capitalistico che per un processo apparentemente ingovernabile sta privilegiando le rendite, disintegrando il ceto medio e creando sacche sempre più ampie di povertà.

Il pigliatutto di Palazzo Chigi, naturalmente, si considera di sinistra anche lui. Anticomunista, ma di sinistra. Solo che la sua non è la sinistra europea e statalista dei Palme e dei Mitterrand, ma quella anglosassone e meritocratica dei Clinton e dei Blair. Per chi non vi si riconosce rimarrebbe uno spazio persino più ampio di quello occupato dagli emuli dilettanteschi del greco Tsipras. Manca però appunto uno Tsipras. Cioè un leader in grado di indicare un modello sociale alternativo ma praticabile e di perseguirlo con coerenza. Difficile possa esserlo Civati e meno che mai Bersani e D’Alema, con il sostegno delle truppe brizzolate della Camusso. Se i grandi vecchi non se ne vanno dal Pd, non è per fedeltà a un partito che tanto non sarà mai più il loro, ma perché sanno che fuori di lì si condannerebbero all’insignificanza di un Gianfranco Fini.

Nella settimana in cui comincia ufficialmente l’era del partito unico, bisogna riconoscere che l’Antirenzi potrà nascere solo dentro il nuovo Pd, così come i rivali dei leader democristiani venivano prodotti in serie dalla stessa Democrazia Cristiana. Renzi lo sa talmente bene che sta provvedendo a ucciderli tutti nella culla. Ma con la consapevolezza che, come accade sempre in politica, prima o poi qualcuno riuscirà a sopravvivergli e a fargli la pelle.

Tra gli Indiani e Berlinguer

segnalato da Ciarli P. 

da through europe (05/08/2014) –  di Franco Berardi Bifo

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Chiude l’Unità

Negli anni ’50 e ’60 mio padre portava a casa ogni giorno L’Unità. Dopo il ’68 lessi altri giornali, e L’Unità mi divenne sempre più antipatico, poi il movimento del 1977 ebbe nell’Unità un avversario, spesso sleale. Quel giornale attaccò il movimento di studenti ed emarginati fino ad accusarlo di squadrismo. Diffamò le avanguardie operaie che alla Fiat al Petrolchimico e all’Alfa cercavano di dare alle lotte operaie una direzione radicalmente anticapitalista.

Oggi quel giornale non esiste più.

Ha chiuso perché la sconfitta generale del movimento operaio ha disaffezionato i suoi lettori che sono rimasti pochi, almeno a paragone del milione di lettori che aveva negli anni in cui mio padre ne era diffusore. Ha chiuso perché la classe politica ignorante liberista e autoritaria che oggi dirige il partito democratico vuol cancellare le tracce del passato. La chiusura di quel giornale provoca in me un sentimento di tristezza immensa: un mondo che potevo capire, con cui potevo interagire polemicamente è cancellato da un mondo opaco che non è più comprensibile secondo le categorie della lotta di classe, ma neppure secondo le categorie della democrazia e della razionalità politica, e forse neppure secondo le categorie dell’umanesimo e dell’umanità.

Non rimpiango L’Unità che nel 1977, seguendo un copione classicamente stalinista accusò me e migliaia di intellettuali operai e studenti di essere provocatori, come non rimpiango il movimento cui partecipai in quegli anni. Né L’Unità né il movimento autonomo seppero anticipare e interpretare praticamente la trasformazione che si stava determinando nel rapporto tra operai e capitale, e tra società tecnologia e potere.

Perché il movimento operaio non fu capace di adeguare le sue strategie alla trasformazione tecnica e politica di cui la rivoluzione digitale è stato il motore e di cui la controrivoluzione liberista è stata la forma ideologica?

Fummo tutti responsabili di quella incapacità, ma la differenza tra il movimento autonomo e i partiti comunisti sta nel fatto che noi tentammo di adeguare le forme di coscienza e di strategia del movimento dei lavoratori, anche se certo fallimmo, mentre il partito comunista non capì la trasformazione in corso, cercò di difendere le forme sociali vecchie che stavano franando, e alla fine si piegò all’ordine nuovo e alla violenza liberista per non perdere qualche pezzo del potere che aveva gestito in precedenza.

Che parte svolse il Partito comunista italiano, e che parte svolse il movimento autonomo? E chi erano i comunisti, e infine: eravamo comunisti io e i miei compagni che i comunisti accusavano di essere fascisti, provocatori o nella migliore delle ipotesi piccolo borghesi sognatori?

Non possiamo rispondere a queste domande se non rispondiamo anche ad altre più sostanziali: perché il movimento del lavoro è stato sconfitto, perché gli operai oggi guadagnano un salario che è la metà di quello che guadagnavano trent’anni fa, mentre lavorano il doppio? Perché la democrazia politica è stata travolta dall’astrazione finanziaria, perché la precarietà distrugge la solidarietà sociale, perché i servizi sociali e i beni comuni vengono privatizzati, perché l’istruzione pubblica viene smantellata e i saperi sottoposti al dominio del profitto?

Nel discorso politico e giornalistico contemporaneo la risposta sembra semplice: il movimento operaio è stato sconfitto perché non ha saputo adeguarsi al riformismo neoliberale e privatista.

Tony Blair ha saputo trasformare il Labour in uno strumento della privatizzazione, dell’integrale sottomissione della società al dominio del profitto, in uno strumento della guerra. E in questo modo ha salvato il suo partito dalla scomparsa, e l’ha portato al governo per un lungo periodo durante il quale la Cool Britannia è divenuta – più di quanto già fosse – il paradiso del capitalismo finanziario, e l’inferno dello sfruttamento, della solitudine giovanile, della precarietà, del lavoro schiavistico in forma di internship. Tony Blair del resto proviene da una tradizione diversa da quella del Partito comunista italiano e degli altri partiti comunisti. Per lui è stato possibile trasformare il partito dei lavoratori in uno strumento della guerra capitalistica contro i lavoratori, e governare contro i lavoratori con il loro voto, dopo di che naturalmente i conservatori sono tornati al governo, e un partito razzista di nome United Kingdom Independence Party è cresciuto fino a diventare il primo partito di quel paese che la scrittrice londinese Nina Power chiama Rainy Fascism Island. Anche in Italia, con venti anni di ritardo sulla Gran Bretagna, la sinistra va al governo sposando la cultura del cinismo, della subalternità culturale alla finanza e della violenza contro i lavoratori. In realtà Renzi non fa che continuare una tradizione di subalternità e di cinismo che ha radici profonde nella sinistra.

Perché ha perso la fazione egualitaria?

Dunque ci chiediamo nuovamente perché, dopo un secolo nel quale la società è divenuta più ricca distribuendo le sue risorse secondo un principio di democrazia, e i lavoratori hanno migliorato la loro esistenza e il loro salario, e la maggioranza della popolazione ha potuto studiare, perché dopo un secolo in cui, nonostante la guerra e la violenza totalitaria, si era affermata una forma di civiltà sociale, perché alla fine la civiltà sociale crolla, la violenza prende il sopravvento nelle relazioni di classe, la diseguaglianza tra chi lavora e chi profitta si fa abissale, e la democrazia si svuota e si riduce a retorica? Nel secolo passato la fazione egualitaria – cioè quell’insieme di forze che considerano l’eguaglianza come un fattore di progresso, di arricchimento e di buona vita, ebbe il coraggio di agire e in alcuni momenti acquisì forza di maggioranza. Perché infine la fazione egualitaria ha perso, perché è stata dispersa, criminalizzata, distrutta, al punto che oggi l’egualitarismo è considerato come una tara mentale, se non proprio un vizio criminale?

La trasformazione tecnologica che ha reso possibile la globalizzazione del mercato del lavoro e la precarizzazione generalizzata sono la condizione diretta della sconfitta della fazione egualitaria. Ma come mai il movimento dei lavoratori non ha saputo adeguarsi a quella trasformazione, pur essendone la causa e il soggetto agente, dal momento che la rivoluzione digitale, che sta all’origine della sconfitta della fazione egualitaria e della catastrofe anti-sociale che ne consegue, non è stata concepita e realizzata dagli uomini della finanza, ma dall’intelligenza collettiva dei lavoratori cognitivi, degli scienziati, dei tecnici, degli artisti che sono parte del movimento del lavoro?

Per tentare una risposta a tutte queste domande spostiamo l’attenzione sulla figura di Enrico Berlinguer. Durante tutti gli anni ’70 Berlinguer avversò e fu avversato dai movimenti sociali che si definivano allora “rivoluzionari”, poiché proponeva una linea di compromesso con i partiti di governo, di sacrifici per i lavoratori e di pacificazione con il padronato.

In particolare il conflitto con Berlinguer divenne drammatico nel 1977 quando la fazione egualitaria prese forma di movimento autonomo, e gli indiani egualitari accusarono il capo del PCI delle peggiori nefandezze.

Aveva ragione lui o avevamo ragione noi? Si tratta naturalmente di una domanda stupida perché nella storia nessuno ha ragione e nessuno ha torto, soprattutto quando gli eventi spazzano via gli uni e gli altri.

Nella coscienza ideologica del movimento autonomo Berlinguer era colpevole di un compromesso con le forze del capitale, di fare fronte comune con lo stato borghese contro quello che credevamo essere l’avanzare del contro-potere operaio. Nella coscienza ideologica di Berlinguer e del suo partito gli autonomi erano colpevoli di approfondire uno scontro sociale pericoloso in condizioni di crescente debolezza, e di provocare una divisione del movimento stesso dei lavoratori.

Come sempre accade, il linguaggio dei protagonisti è inadeguato a spiegare quello che stava davvero succedendo, e se oggi ripensiamo a quella situazione ci rendiamo conto che, per quanto gli uni e gli altri avessero alcune ragioni, complessivamente gli uni e gli altri erano incapaci di anticipare l’imminente: la sostituzione tecnica e la delocalizzazione del lavoro operaio, e la precarizzazione crescente del lavoro. Debbo dire a onor del vero che il movimento autonomo percepì questa tendenza e la tradusse con espressioni come “non garantiti”, e come “rifiuto del lavoro”, mentre il partito di Berlinguer fu del tutto incapace di cogliere la tendenza sociale e si limitò a difendere i valori politici o morali che si stavano facendo evanescenti per ragioni molto più profonde della volontà politica o della corruzione morale del ceto dominante.

Quando la lotta operaia cresceva, quando la fazione egualitaria aveva una forza sufficiente per imporre la redistribuzione della ricchezza, Berlinguer e il suo partito cercarono di ricondurre il movimento nell’alveo della compatibilità con le esigenze del capitale. All’inizio del decennio ’80, quando ormai il movimento era stato sconfitto, quando gli studenti erano stati separati dagli operai, quando gli emarginati e i non garantiti erano stati criminalizzati e migliaia di attivisti autonomi incarcerati, a quel punto Berlinguer chiamò gli operai della FIAT a un’ultima battaglia, certamente perdente. Quello che passa per il gesto più eroico di Berlinguer, la chiamata all’occupazione della Fiat nell’autunno del 1980 quando ormai gli operai erano deboli, (dopo che per cento volte gli operai Fiat erano stati attaccati e isolati dal PCI quando erano forti), fu in realtà l’inizio della catastrofe di cui non abbiamo smesso di vedere gli sviluppi.

Berlinguer non era uno stupido, né un cinico uomo di potere come Giorgio Napolitano. Era certamente una persona onesta, dimostrò coraggio e indipendenza di pensiero quando (certo troppo tardi) ruppe con gli spettri brezneviani. Ma egli fu il simbolo vivente della vocazione alla sconfitta del comunismo novecentesco, e trascinò nella sua sconfitta il movimento dei lavoratori.

Questione morale o radicalità sociale?

Se vogliamo oggi tentare una valutazione del rapporto tra Berlinguer e gli indiani dobbiamo rovesciare la percezione comune che vede Berlinguer come campione della ragionevolezza e gli indiani come pericolosi utopisti e casinari. Gli indiani erano assolutamente realisti quando dicevano: è ora è ora lavora solo un’ora, quando dicevano lavorare tutti ma pochissimo, cioè quando rivendicavano la riduzione del tempo di lavoro per mettere a frutto la trasformazione tecnologica e per evitare gli effetti devastanti della precarizzazione. Erano realisti perché interpretavano le tendenze e le possibilità aperte dallo sviluppo tecnologico, anche se certo lo facevano in modo autonomo, cioè si rifiutavano di accogliere i limiti e le compatibilità imposte dall’interesse del capitale e il modello semiotico di cui il capitale era portatore.

Berlinguer fu un cattivo utopista quando pensò che il problema principale era la questione morale. La questione morale non esiste, è solo un modo velleitario e perbenista di fare i conti con la corruzione pervasiva che il neoliberismo porta con sé. La contrapposizione fra il partito degli onesti e quello dei disonesti appare alla distanza come un fallimento colossale. Dopo gli immorali democristiani sono venuti gli immoralissimi socialisti, dopo gli immoralissimi socialisti sono venuti i mafiosi di Berlusconi e Dell’Utri. Nonostante lo scandalo delle anime belle, il popolo italiano ha preferito di gran lunga gli immoralisti ai Torquemada, come dimostra il fallimento comico del moralissimo Mario Monti. E non senza ragione: i Torquemada onesti dedicano tutte le loro energie a imporre le regole eterne dell’economia schiavistica, mentre almeno gli immoralisti ci lasciano in pace occupati come sono a occuparsi dei loschi affari loro.

Sacrifici e politiche del desiderio

La questione dei limiti della crescita economica emerse nella coscienza dell’ultimo decennio moderno, dopo la pubblicazione del Rapporto del Club di Roma e dopo lo shock petrolifero: probabilmente Berlinguer intuì questo tema, ma la sua traduzione politica in termini di sacrifici fu tale che tutti intesero il suo discorso come un attacco contro il salario operaio e contro il bisogno sociale di impadronirsi della ricchezza prodotta.

Non si doveva mettere in questione la crescita infinita senza mettere in questione la durata del tempo di lavoro, e la dipendenza del salario dalla produttività. Gli indiani posero infatti la stessa questione dal punto di vista del desiderio, non dal punto di vista dei sacrifici.

E qui sta la ragione profonda per cui il comunismo novecentesco si è messo fuori dalla realtà della trasformazione postfordista. Berlinguer fu l’ultimo interprete della visione idealistica che concepiva il comunismo come realizzazione di un ideale morale, non come possibilità aperta dallo sviluppo tecnico e culturale.

L’ideologia neoliberista e la pratica della privatizzazione vinsero su questo punto: la trasformazione postmoderna del capitale fu completamente a-moralistica e catturò il desiderio che scaturiva dall’evoluzione tecnica e culturale. Per questo il neoliberismo interpretò il rifiuto del lavoro che proveniva dal movimento autonomo e ne raccolse l’energia, mettendo in moto un processo di automazione del lavoro industriale e catturando poi le energie produttive mentali della società. Per questo il neoliberismo interpretò il desiderio sociale di ricchezza, e lo intrappolò in un inferno di competizione forsennata e di frustrante consumismo.

Il moralismo comunista invece si presentò come compressione delle energie sociali in nome di una difesa anacronistica dei valori morali della borghesia che stava scomparendo, e di una classe operaia legalitaria, borghesizzata e protestante. La politica del PCI portò quindi a una divisione della società: i giovani scolarizzati mobili e precari volevano vivere una vita ricca di esperienze nomadi, e sapevano che di lavoro salariato non ce n’è più bisogno quando la macchina intelligente sostituisce il lavoro stupido.

I comunisti si misero allora a difendere il lavoro stupido, e si rifiutarono di farsi promotori della macchina intelligente: difesero i posti di lavoro senza capire che occorreva ridurre l’orario se si voleva evitare la disoccupazione e la contrapposizione tra occupati disoccupati e precari.

Difesero il lavoro, invece che i lavoratori che volevano lavorare di meno e godere di più.

Il padre la madre il fratello

Il desiderio entrò nel lessico politico quando i libri di Deleuze e Guattari vennero branditi dagli indiani come manifesto del loro comunismo a-moralista e antistoricista. I comunisti storicisti e morali se ne scandalizzarono, perché non il desiderio ma la necessità storica e l’etica del lavoro erano la loro legge.

Massimo Recalcati, che nel ’77 era un indiano ma nel frattempo si è convertito in viso pallido lacaniano, in un’intervista con Christian Raimo pubblicata nel 2013 con il titolo Patria senza padri rivisita l’opposizione tra l’etica politica di Berlinguer e antiedipico dei movimenti, e conclude che Berlinguer ha vinto contro Deleuze. Strana illusione ottica. A me pare che in quella storia non ci sia nessun vincitore, se non l’assolutismo capitalistico che ha spazzato via morale ideali e purtroppo anche corpi desideranti e solidarietà sociale.

Berlinguer (eponimo dello storicismo etico e legalista che fu sbaragliato dalla deregulation capitalistica) non ha vinto da nessun punto di vista, ha perduto e basta, e con lui ha perduto la borghesia eticamente motivata e i lavoratori legalitari e borghesizzati che cercarono di imporre al mondo la ragione e la legge. Sulla loro sconfitta si è affermata la lumpenborghesia craxiana e poi berlusconiana, e alfine l’impersonale astrazione finanziaria.

Il movimento culturale che si ispirò a Deleuze e Guattari ha perso in una maniera diversa, non meno dolorosa ma molto più feconda. Mentre Berlinguer esibiva lo scandalo perbenista del padre di famiglia cui sfugge il senso (e il non senso) di un mondo che si toglie le mutande, il pensiero rizomatico, da progetto di liberazione quale pensava di essere, ha finito per rivelarsi cartografia del capitalismo deregolato post-borghese senza più legge né morale.

Massimo Recalcati rilegge la questione del ’77 autonomo dal punto di vista psicoanalitico della nostalgia del padre: descrive la società contemporanea – invasa dai flussi mediatici, sottoposta all’aggressione di una stimolazione nervosa sempre più veloce, come una società senza inconscio, perché l’inconscio è tutto estroflesso e il desiderio è sopraffatto dall’immediatezza del godimento consumista.

L’esautorazione del padre coincide con il crollo della funzione normalizzante della legge, e apre la porta alla violenza senza regole del capitalismo rizomatico. In queste condizioni, dice Recalcati, quel che ci occorre è un ritorno della funzione delimitante del padre. Il ritorno della legge, della moralità, dell’autorevolezza.

Io leggo le cose in modo differente.

Non il nome del padre, ma il corpo della madre è ciò che ci manca nell’epoca digitale. La radice della sofferenza psichica contemporanea non sta nell’evanescenza della legge, ma nell’evanescenza della corporeità, nella solitudine, nell’isolamento. I bambini crescono in condizioni di solitudine psichica perché l’emancipazione femminile si è trasformata in sussunzione e iper-sfruttamento del lavoro affettivo e della presenza femminile.

Non la legge del padre, ma l’amicizia del fratello viene meno quando la competizione generalizzata genera una società di figli unici che apprendono il linguaggio dalla macchina digitale, e non conoscono il corpo materno né il gioco fraterno, ma crescono nella solitudine del gioco competitivo solitario e freddo. La fratellanza è mancata nell’epoca post-borghese: la solidarietà, il piacere dell’altro, sono stati spazzati via, mentre il desiderio si liberava del dominio paterno.

È il corpo della madre che ti insegna a essere fraterno, non la legge del padre. Con la parola “madre” intendo il corpo che parla, il corpo che introduce alla singolarità del linguaggio, non la madre biologica che accudisce il bambino nato dal suo ventre. Quel corpo, non importa il suo sesso, è il calore della voce, ovvero il corpo che emette significazione.

Rileggendo oggi gli scritti di Deleuze e Guattari, comprendiamo che il loro dispositivo concettuale non fu, come credemmo (e qui fu il nostro errore), il programma di una liberazione felice, ma fu cartografia prefigurativa della deterritorializzazione neoliberista: rizoma, esplo- sione schizo del desiderio sono le modalità infernali del flusso semio-produttivo e del lavoro precario.

Perché una volta liberata dalle regole paterne l’autonomia sociale non ha saputo creare le sue regole, le sue forme di vita? Perché la mutazione digitale ruppe il rapporto materno tra voce e linguaggio, sottomise il linguaggio al dominio connettivo che atrofizza il corpo. E la competizione neoliberista pose il fratello contro il fratello.

Il sapere la tecnica il lavoro intellettuale

Per finire Berlinguer pose in maniera autoritaria e antica il problema degli intellettuali, che oggi sembra del tutto scomparso dalla scena del discorso mentre è più centrale che mai. Il 15 gennaio del 1977, al convegno degli intellettuali che si tenne al teatro romano dell’Eliseo, Berlinguer tenne un discorso dal titolo Austerità occasione per trasformare l’Italia, nel quale propose agli intellettuali di farsi strumento del consenso sociale a una politica di austerità. Le nuove tendenze culturali che stavano emergendo vennero respinte come espressione di decadenza (Berlinguer usa proprio questa espressione che rivela l’anacronismo della sua cultura) e gli intellettuali vennero inviati a farsi suggeritori del potere, con le stesse tonalità con cui nel tempo passato Lenin aveva chiamato gli intellettuali a essere suggeritori del partito operaio rivoluzionario. Berlinguer chiese agli intellettuali di accettare il ruolo di funzionari del consenso e amministratori dell’esistente, pena il rischio di venire identificati come eversori della democrazia. Si trattava di una sorta di statalizzazione degli intellettuali.

Per quanto lontano fosse da Lenin sulle modalità dell’azione politica, Berlinguer aveva la stessa idea quando si trattava degli intellettuali visti come un ceto separato di portatori di saperi e volontà che possono piegarsi in una direzione o in un’altra a seconda dell’intenzione politica e morale. Qui sta probabilmente la ragione più decisiva della sconfitta del movimento operaio: l’incomprensione del fatto che gli intellettuali non sono più nulla, mentre decisivo diviene il lavoro intellettuale, o meglio cognitivo. L’assenza di ogni considerazione sull’emergere del general intellect, del rapporto tra sviluppo della produzione, tecnologia e saperi – questa è la ragione per cui la fazione egualitaria ha perso e la ragione per cui Berlinguer non ha saputo capire cosa segnalavano gli indiani. Che non erano soltanto dei ribelli fantasiosi, ma erano soprattutto l’annuncio di una nuova composizione del lavoro sociale, l’annuncio di una centralità della comunicazione e della tecnica nella storia della lotta di classe.

 

Democratici e democratiche!

di Nammgiuseppe

Alla festa de L’Unità, il presidente del consiglio, intervenendo presumibilmente da segretario del PD, ha aperto il suo discorso con l’appellativo democratici e democratiche.

Uno dice: “Beh, dov’è la notizia, o lo scandalo?” Molto, in effetti, dipende dalle sensibilità individuali. Può essere tutto normalissimo o, per chi come me è preda di taluni pregiudizi, c’è nel fatto una serie di bizzarri corti circuiti che proverò a elencare.

Innanzitutto c’è la festa de L’Unità. Che cosa ci sia da festeggiare con riferimento a uno storico quotidiano di partito in stato agonico (il quotidiano e il partito storico) qualcuno me lo dovrebbe spiegare. Sarebbe stato forse meglio intitolare l’evento ‘Lutto de L’Unità’. Ma, alla fin fine, quella che Renzi è venuto a concludere con il suo discorso è una sagra e, si sa, ci sono in tutto il Paese innumerevoli sagre intitolate al santo Tizio e al santo Caio, senza che né gli abbuffanti né l’organizzazione si sforzino di manifestare uno speciale spirito religioso. Nel caso specifico, poi, Renzi non mi pare abbia fatto nel suo discorso alcun accenno al quotidiano, il che è comprensibile, visto che parlare di morti o moribondi nel corso di una festa è indice di pessimo gusto.

Il che, a sua volta, rende comprensibile anche l’altro apparente corto circuito, quello di democratici e democratiche. Ai tempi belli (per alcuni nostalgici), in queste sagre gli oratori si rivolgevano al pubblico con compagni e compagne. Era l’appellativo distintivo di persone che si riconoscevano orgogliose di condividere una fede e di una tradizione politica. Quella fede e quella tradizione, evidentemente, non sono più ‘adeguate ai tempi’ e così dal PCI, per incesti successivi, si è giunti all’attuale bastardo. In tempi bastardi, la cosa è appena coerente. Ma sarà il caso che i pervicaci cultori del vecchio comunismo italiano si riconoscano in una razza perdente e in via di estinzione e disertino queste celebrazioni ipocrite, o vi partecipino esclusivamente da buongustai e da allegri festaioli, come si frequentano le sagre della rana o del formaggio d’alpeggio.

L’appellativo democratici e democratiche, come amici e amiche, o altri recenti sostitutivi di quell’obsoleto compagni e compagne, ufficializza questo trapasso, anche se troppi si ostinano a non volersene rendere conto e a votare ‘a sinistra’.

C’è poi il corto circuito, minore, di voler prendere un aggettivo tanto generico come democratico per volergli dare una connotazione di parte. Qui c’è poco da imputare a Renzi. La scelta di quella sigla non lo ha visto coinvolto, è stata una scelta di altri, ammiccanti al dualismo democratici/repubblicani statunitense, che già non era un buon segno. Negli Stati Uniti molti, certo i critici, riconoscono che il Partito Democratico è la destra meno belluina e fondamentalista di quella nazione. La sinistra non esiste più, se non ai margini o fuori dalla politica elettorale. Pare che i discepoli italiani abbiano superato i maestri d’oltreoceano, almeno a livello di dirigenza, pur con qualche residuo mugugno di una parte della loro base, che ormai conta poco o nulla nelle scelte dei vertici.

Però democratici e democratiche suona davvero artificioso, una forzatura. È come se qualche cervellone del marketing avesse improvvisamente deciso di cambiare nome alla Nutella chiamandola crema gianduia: per quanto la pubblicità si sforzasse di monopolizzare quella definizione, Nutella ha un’identità di prodotto, crema gianduia ne ha troppe. Ma anche qui, in effetti, la coerenza c’è: il Partito Democratico (italiano) è ecumenico, accoglie potenzialmente tutto e il contrario di tutto, è un minestrone buono per ogni palato; è giusto che rinunci a un’identità precisa, perché quell’identità non l’ha più, né la vuole.

Così, dunque, ognuno ha la propria sensibilità o ipersensibilità. Per me quell’incipit, democratici e democratiche, in quell’occasione, la ‘festa’ de L’Unità, è tutto un programma. Un programma che non mi piace. Ma chi sono io per imporre i miei gusti, o le mie paturnie, al mio prossimo?

(PS. Mi astengo dal commentare il resto del discorso del novello Principe fiorentino: ha fatto il suo mestiere d’imbonitore, senza speciale lode, con qualche superflua ‘ineleganza’; “non è da questi particolari che si giudica un giocatore”).