Piketty

Bramini vs Mercanti

segnalato da Barbara G.

Piketty: i Bramini che si sono presi la sinistra

Il nuovo saggio dell’economista francese studia i comportamenti elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 e ne conclude che i sistemi politici non si possono più interpretare in base alla lotta di classe. A confrontarsi sono due diverse élite, quella degli intellettuali (i “Bramini”) nei partiti di sinistra tradizionale, e quella degli affari (i “Mercanti”) in quelli di destra. Per i più svantaggiati restano i “populismi” e ancor più il non voto.

di Carlo Clericetti – temi.repubblica.it/micromega-online, 08/05/2018

Il periodo in cui sono prevalse le politiche di riduzione delle disuguaglianze è quasi un accidente della storia, perché si è verificato solo in seguito ad eventi particolari: la Grande depressione, la seconda guerra mondiale, l’ascesa del comunismo. Lo dice Thomas Piketty, quello diventato famoso con il suo “Il capitale nel XXI secolo”, nel suo nuovo saggio “Brahmin Left vs Merchant Right: Rising Inequality & the Changing Structure of Political Conflict”, ossia Bramini di sinistra contro Mercanti di destra:  crescita della disuguaglianza e cambiamento nella struttura del conflitto politico.

Piketty ha studiato tutte le ricerche post-elettorali in Francia, Usa e Regno Unito dal 1948 al 2017 ed ha esaminato i risultati non in base alla sola variabile dell’occupazione, che è di norma quella usata in queste ricerche, ma a molte variabili (reddito, patrimonio, istruzione, sesso, religione, età, ecc.). Tra queste risulta no particolarmente rilevanti il livello di istruzione e il patrimonio, mentre il solo livello di reddito non dà luogo a correlazioni significative. Ne è risultato che, mentre nel dopoguerra gli elettori si dividevano prevalentemente secondo i canoni tradizionali, quelli della lotta di classe, ossia chi aveva basso reddito e bassa istruzione votava prevalentemente a sinistra mentre gli alti redditi e alta istruzione prevalentemente a destra, oggi la situazione è completamente cambiata: gli elettori di sinistra sono caratterizzati da un alto livello di istruzione, quelli di destra da un più elevato patrimonio.

Insomma i sistemi politici sono diventati a “élite multipla” (multiple-élite) e quelle che si alternano al potere sono l’élite intellettuale e l’élite degli affari. E chi non ne fa parte? Il massiccio aumento dell’astensione fra le decadi 50-60 e 2000-2010 è dovuto per la maggior parte ai gruppi a bassa istruzione e basso reddito; e quelli che non si astengono si rivolgono ai “populismi”.

Questo fenomeno Piketty lo riscontra in tutti e tre i paesi esaminati. “Questo tipo di sistema di partiti – dice – ha poco a che fare con quello “sinistra contro destra” degli anni ’50 e ’60. Forse può essere descritto meglio come un’opposizione tra “globalisti” (alto reddito – alta istruzione) e “nativisti” (basso reddito – bassa istruzione). Questo è più o meno il modo in cui i nuovi attori politici stessi – per esempio Macron e Le Pen – tendono a descrivere ciò che percepiscono”.

“La difficile domanda – aggiunge poi – alla quale non sono in grado di dare una risposta esaustiva in questo studio, è capire da dove venga questa evoluzione”. Per riuscirci basterebbe forse che Piketty leggesse l’infinito numero di interventi (tra i più recenti questo dell’economista di Harvard Dani Rodrik, che parla anche di questo lavoro) che hanno raccontato come i partiti di sinistra, a partire dagli ultimi anni ’70 del secolo scorso, abbiano abbandonato le tradizionali idee socialdemocratiche basate sul compromesso keynesiano per convertirsi al neoliberismo, processo che si è poi accentuato quando la disgregazione dell’Unione sovietica ha fatto venire meno il modello alternativo a quello capitalistico. Da allora, nelle democrazie, l’offerta politica è stata relativamente omogenea da parte dei partiti di destra e sinistra tradizionali (ricordate “La fine della storia” di Francis Fukuyama?), almeno dal punto di vista delle ricette economiche, e le differenziazioni si sono giocate sulla maggiore o minore radicalità delle politiche neoliberiste, sui diritti civili, in qualche caso sui problemi ambientali.

Una parte di elettori si è riallineata a queste offerte, altri si sono allontanati dal voto non trovandole convincenti, altri ancora si sono rivolti a chi in modo più persuasivo è riuscito a proporsi come “anti-sistema” (i cosiddetti “populismi”). Così, l’oceano di numeri di Piketty ci dice un sacco di cose, per esempio che in Francia il voto femminile si è man mano spostato a sinistra, che i mussulmani votano prevalentemente a sinistra, che dopo il 2012 la percentuale di votanti che ritengono che ci siano troppi immigrati è stata superata da quelle di chi ritiene che non sia così. Ma nella sinistra lui ci mette tutti, quella che – con un ossimoro – potremmo chiamare la “sinistra liberista” ma anche gli altri partiti come La France Insoumise. Più interessante sarebbe capire come mai le proposte della sinistra più vicina a quella tradizionale (Mélenchon, appunto, in Francia, la Linke in Germania) non attirino più del 10% circa dell’elettorato. Sfiducia verso proposte considerate ormai fuori tempo? O mancanza di un leader carismatico, come il primo Tsipras in Grecia, Bernie Sanders negli Usa e Jeremy Corbyn nel Regno Unito?

Certo, bisogna anche considerare che la cultura individualista ha lasciato il segno. Nel 2002 ancora il 63% dei francesi riteneva giusto che si dovessero ridurre le disuguaglianze, nel 2017 la percentuale è scesa al 52 e, come mostra il grafico, la tendenza si è accentuata nel periodo della crisi. Una successiva tabella ci dice qualcosa di più: gli “egualitari” sono più di tutti nei partiti di sinistra, come ci si poteva aspettare, ma la seconda concentrazione più alta sta nel partito della Le Pen, mentre la destra di Macron fa il pieno di “internazionalisti” e i gollisti di Fillon di anti-egalitari.

Questo studio di Piketty, insomma, è un’ulteriore conferma di un’analisi politica condivisa da molti, ma che proprio i politici sembrano avere difficoltà ad accettare: la sinistra tradizionale è diventata una “sinistra dei Bramini”, cioè partiti di élite che hanno perso il seguito popolare, perché da tempo hanno scelto di non rappresentare più quella parte di società. Salvo poi lamentarsi che una fetta di costoro, che insieme agli astensionisti sono ormai quasi dappertutto la maggioranza degli elettori, si rivolgano ai “populisti”. Un tempo si è teorizzato che tra capitalismo e sistemi democratici ci fosse un legame intrinseco. A vedere quello che sta accadendo, sembra invece che questo capitalismo si stia mangiando la democrazia.

 

Il Capitale reloaded

segnalato da Adamo

Dal sito di Radio Città del Capo

THOMAS PIKETTY, L’ECONOMISTA CHE FA PAURA AI SUPER RICCHI

Per gli economisti, e non solo, Il Capitale nel XXI secolo è il libro del momento. Perché nonostante le sue 700 pagine sta vendendo tantissimo dall’altra parte dell’Atlantico, e infatti Amazon ha esaurito tutte le scorte negli Stati Uniti. E poi perché fa paura alla destra americana, abituata da almeno 20 anni ad un’egemonia culturale pressoché assoluta. Ora le cose potrebbero cambiare. “Se questo libro non sarà contrastato – urla un falco iperliberista come James Pethokoukis dell’American Enterprise Institutesi diffonderà tra gli intellettuali e ridisegnerà il pensiero politico-economico su cui si giocheranno le prossime battaglie”.

Scritto da un ricercatore francese poco più che 40enne, Thomas Piketty, il Il Capitale nel XXI secolo (per il momento niente edizione italiana) traccia lo sviluppo del capitalismo dal 1700 ad oggi, e dimostra come la dinamica naturale del sistema sia quella di creare una sempre maggiore diseguaglianza tra ricchi e poveri, con la ricchezza che si concentra sempre più nelle mani di questi ultimi. A sostegno della sua tesi, Piketty porta i risultati di un lavoro di ricerca che dura ormai da 15 anni, e che si basa su serie storiche provenienti da Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e altri paesi emergenti.

Cosa dicono i numeri di Piketty? Che il rendimento di finanza e patrimonio immobiliare è sempre e comunque più alto di quello che può essere generato dal lavoro e dalla produzione. Il che vuol dire, considerando che le ricchezze si concentrano gradualmente nella mani dei più ricchi, che per chi non nasce “con la camicia” sarà sempre più difficile invertire la tendenza e salire la scala sociale. La ricchezza, dice Piketty, si crea non dal lavoro, ma con quello che si ha già: case, conti in banca e azioni. “In termini di concentrazioni di ricchezze stiamo tornando piano piano alla Belle Époque”, ha detto l’economista a France Info. Non una prospettiva allettante se si pensa all’oligarchia ereditaria che deteneva potere e ricchezza tra fine 800 e primo decennio del secolo successivo. ”Il Capitale di Piketty – scrive Paul Krugman sul New York Times – demolisce il più prezioso dei miti conservatori, quello che ci racconta che viviamo in una meritocrazia dove la ricchezza è qualcosa di guadagnato e meritato”.

Il Capitale di Piketty mette anche una pietra tombale su quelle interpretazioni che vedevano il capitalismo, una volta arrivato in una fase di maturità, dirigersi verso un livellamento dei redditi e una diminuzione graduale delle diseguaglianze generate agli inizi del ciclo. E’ questa la tesi, ad esempio, dei sostenitori della famosa curva di Kuznet, ideata (per stessa affermazione dell’autore, premio nobel nel 1971) senza solide basi empiriche. Piketty dice che quel che Kuznets e altri come lui vedevano negli anni ’70 era solo un’eccezione alla regola, e per giunta dovuto all’immensa distruzione di ricchezze che fu causata dalla prima e dalla seconda guerra mondiale. L’abbassamento costante delle diseguaglianze negli anni 60 e 70 è per l’economista francese solo un momento specifico e difficilmente ripetibile, mentre di per sé il capitale si basa su un naturale (e lo dicono i dati) incremento della diseguaglianza. Senza interventi straordinari quell’1% di super ricchi tanto inviso al movimento Occupy Wall Street diventerà sempre più ricco. Gli altri, tutti coloro che non dispongono di rendite finanziarie o immobiliari, perderanno sempre più terreno. La crescita, spiega Piketty, da sola non basta per garantire la redistribuzione. Per garantire equità bisogna allora “affamare la bestia” (ribaltando il senso del vecchio detto “starve the beast di Ronald Reagan), prelevando ricchezza lì dove tende ad accumularsi di più.

Piketty avanza anche alcune proposte di riforma del sistema, ma si rende conto dell’utopia che al momento rappresentano, vista anche la situazione politica. L’economista francese ad esempio auspica un ritorno ad una tassazione all’80% per i redditi altissimi. “Bisogna abbassare enormemente la tassazione dei salari, e creare una tassazione globale sul capitale“.

Abbiamo discusso del libro di Piketty con Francesco Saraceno, docente di economia all’università Sciences Po di Parigi. Per iniziare gli abbiamo chiesto perché si parla tanto de Il Capitale nel XXI secolo.

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