Podemos

La svolta di Podemos

segnalato da Barbara G.

La svolta di Podemos e la fine di un equivoco: non è il M5S spagnolo

di Giacomo Russo Spena – huffingtonpost.it, 13/02/2017

Ha stravinto Pablo Iglesias. È lui il vincitore assoluto del congresso. Ha trionfato la sua linea: il partito chiude con l’era del “marketing elettoralistico” e si apre ulteriormente a movimenti, istanze sociali, reti ecologiste, confermando anche l’alleanza politica con Izquierda Unida, il tradizionale partito della sinistra iberica.

Una nuova fase per Podemos nata, ricordiamolo grazie alla spinta degli Indignados, per trasformare quella rabbia popolare in strategia politica. “Abbiamo un piede in Parlamento, ne dobbiamo avere un migliaio nella società” ha ripetuto, come un mantra, Pablo Iglesias parlando esplicitamente di interventi concreti per alleviare i problemi della gente e di “solidarietà attiva”.

Tornare a sporcarsi le mani, insomma, provando a radicarsi maggiormente sui territori e costruire forme di mutualismo per supplire alle manchevolezze del Welfare statale. Il malessere sociale è tanto. In Spagna il ceto medio è ormai polverizzato. In aumento le diseguaglianze. E il Psoe, partito socialista iberico, è secondo Iglesias parte del problema.

Ecco, allora, insistere con la contrapposizione frontale al blocco di potere liberal socialdemocratico – lo storico bipartitismo che ha governato nella Spagna postfranchista – per lavorare nel campo dell’alternativa. La speranza è che il Psoe, a congresso in giugno, faccia la fine del Pasok greco, ovvero un partito polverizzato e cannibalizzato dalla cosiddetta sinistra radicale (nel caso ellenico la Syriza di Tsipras è cresciuta a scapito del Pasok).

Iglesias, nella svolta impressa a Podemos, sembra tornare alle origini: ai modelli della sinistra bolivariana a lui cari, tanto che la sua stessa formazione politica/personale proviene da quel Latino America capace di contrapporsi alle logiche neoliberiste in nome della giustizia sociale e del buen vivir. Sbagliato, invece, dipingere – banalizzando – lo scontro tra Iglesias e Inigo Errejon, suo sfidante al congresso, utilizzando le categorie destra/sinistra.

Errejon ha perso, e di tanto. Ma la sua posizione di mantenere in vita una Podemos trasversale, bramosa di conquistare i voti anche dell’elettorato più moderato, dialogante con i votanti del Psoe, che andasse veramente oltre i recinti della sinistra classica, è lontana dall’essere di “destra”. È stato un confronto nobile, da un punto di vista teorico e strategico, che a tratti è stato reso pubblico. Ben 150mila persone hanno votato on line alle primarie per stabilire il segretario di Podemos, un record in termini di partecipazione.

In questi ultimi tempi i media hanno massacrato – se non linciato – Podemos, forse proprio per la sua temibile spinta di cambiamento. Un partito anti-establishment che si aggira intorno al 20 per cento dei consensi e molto gradito tra gli under 30, le nuove generazioni senza diritti né futuro. Un partito che ha occupato lo stesso spazio politico del M5S qui in Italia: forze anti-Casta che sono riuscite a rompere il bipolarismo. Per questo molti commentatori si sono divertiti, erroneamente, a comparare le due forze.

Se da un punto di vista della fase destruens hanno qualche aspetto assimilabile, nella parte costruens parliamo di due partiti estremamente diversi. Da sempre. Lo stesso Iglesias ha detto di Beppe Grillo: “Va letto nella stessa maniera con cui si è analizzata l’apparizione di Berlusconi nel 1994. Seppur non mi stia particolarmente simpatico, è stato abile politicamente a capire ciò che un altro italiano, tanti anni prima di lui, aveva definito come il “sentire comune d’epoca”: un sentimento generale che è un permanente terreno di disputa tra attori e movimenti politici. Quell’italiano si chiamava Antonio Gramsci”.

Ora, dopo la svolta di ieri, siamo ufficialmente alla fine dell’equivoco. Podemos è un partito moderno ma vicino ai valori della sinistra. Costruisce la sinistra, senza nominarla. Ha al suo interno una maggioranza e una minoranza, fa congressi combattuti e reali (a quando un congresso del M5S?), oltre ad aprirsi all’alleanza con altri partiti, vedi Izquieda Unida. Diverso anche il rapporto coi movimenti, in un terreno di profonda contaminazione. Emblematico il collocamento in Europa: Podemos siede tra le file della sinistra rosso-verde del Gue, il M5S (dopo il recente balletto) ancora nel gruppo degli euroscettici di Farage.

L’approccio a internet è simile negli intenti, ma antitetico nella pratica. In Italia il megafono rappresentato da “beppegrillo.it” è in mano allo stesso Grillo e alla Casaleggio Associati. La partita è falsata in partenza. Lo strumento non è collettivo, ma ha una gestione privatistica. Il gruppo dirigente di Podemos invece ha affidato le chiavi del sito ad una società esterna; le votazioni in certi casi sono state aperte a tutti gli utenti; la registrazione al sito ha un procedimento semplice e non preclude la partecipazione agli iscritti di altri partiti.

Infine, le questioni programmatiche in materia di migrazione o sicurezza. Grillo, in questo, insegue spesso e volentieri la peggior destra (salviniana), Podemos ha ben altre posizioni. Infine, la stessa formazione dei dirigenti: Iglesias e Co provengono dai movimenti sociali. No Global, e dai laboratori latino americani. Nel M5S, se pensiamo per esempio alle origini politiche di Luigi Di Maio, le cose sono ben diverse.

Attenzione, però, a commettere l’errore di assimiliare, e paragonare, Podemos alla sinistra nostrana. Podemos è fuori dai nostri schemi, altro rispetto alle sinistre novecentesche e ideologiche. Anzi, in questi anni, le sue sperimentazioni teoriche e pratiche sono state processate qui da noi per essere troppe eretiche. Ben lontana dalla nostra sinistra litigiosa e, soprattutto, marginale. Il congresso di Podemos è finito con il Palazzetto di Vistalegre di Madrid che intonava il coro: “Unità, unità”. Si profila un ruolo chiave nella direzione anche per lo sconfitto Errejon. Una lezione per tutti.

Staremo a vedere come finirà la storia di Podemos, se la svolta di Iglesias porterà benefici o meno in termini elettorali ma comunque, per favore, non paragoniamolo più al M5S. Podemos, in Europa, rimane ancora un’anomalia e l’unico caso forse ascrivibile alla voce di “populismo di sinistra”. Per qualcuno un ossimoro, per altri la realtà. Almeno quella spagnola.

Gramsci o Laclau? I dilemmi di Podemos

Pegnalato da Barbara G.

di Carlo Formenti – temi.repubblica.it/micromega-online, 06/02/2017

Fra qualche giorno all’arena coperta di Vistalegre (Madrid), Podemos celebrerà la sua seconda assemblea generale, un evento che potrebbe segnare una svolta importante nella vita di questa formazione politica che rappresenta a tutt’oggi l’unica sinistra del Vecchio Continente in grado di competere alla pari con l’establishment neoliberale. Nel mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ho indicato in Podemos il più importante esempio europeo (accostandolo alle rivoluzioni bolivariane in America Latina e al movimento nato attorno alla candidatura di Sanders negli Stati Uniti) del tentativo di cavalcare a sinistra l’onda populista che in tutto il mondo si sta sollevando come reazione alle devastazioni sociali, civili ed economiche provocate da decenni di regime neoliberista.

Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.

Il presupposto da cui intendo partire è che stiamo vivendo la fase inziale di un rapido e caotico processo di de-globalizzazione. Non ho qui lo spazio di argomentare adeguatamente tale tesi per cui mi limito a enunciarla in modo apodittico rinviando all’articolo del vicepresidente boliviano Linera, che ho già avuto modo di commentare su queste pagine. In quel pezzo Linera scriveva, fra le altre cose, che Trump “non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina”. Clandestina, aggiungo io, per l’ottusa ostinazione con cui le sinistre si ostinano a non prenderne atto. E aggiungeva che l’era in cui stiamo entrando è ricca di incertezze, e proprio per questo potenzialmente fertile, se sapremo navigare nel caos generato dalla morte delle narrazioni passate.

Sulla stessa lunghezza d’onda vale la pena di segnalare un lungo, notevole articolo firmato Piotr e apparso sul sito megachip che sostiene, fra le altre cose: 1) che Trump non rappresenta solo un elettorato fatto di perdenti della globalizzazione (disoccupati, lavoratori bianchi poveri, ecc.) ma anche un composito mosaico di frammenti delle élite dominanti spaventati dall’inerzia di una politica neocons trasversale (Hillary Clinton su tutti) disposta a rischiare una guerra mondiale, pur di difendere l’egemonia americana fondata sul binomio finanziarizzazione/globalizzazione; 2) che questa base incoerente e composita lo costringerà a condurre una politica altrettanto incoerente e contraddittoria (per esempio facendo marcia indietro sulla globalizzazione senza smettere di difendere gli interessi della finanza globale); 3) che per opporsi al suo pseudo new deal autoritario le lobby liberal-imperiali lotteranno (è cronaca di questi giorni) con il coltello fra i denti, mobilitando un’ideologia identitaria “arroccata dietro il dogma e l’inquisizione della correttezza politica, cioè una forma ideologica elitaria che preferisce tutto ciò che è minoranza, perché le minoranze non pongono sfide esiziali mentre se sfruttate bene possono minare quelle poste dalla maggioranza. Minoranze che quindi devono essere tenute sotto tutela da lobby che si erigono a loro rappresentanti. Lobby di minoranza incorporate in un establishment dedito a politiche elitarie”; 4) che una sinistra che voglia lottare sia contro il globalismo alla Clinton che contro il trumpismo dovrà surfare, con spirito pragmatico ma senza rinunciare i principi, l’onda populista. Il che ci riporta ai dilemmi di Podemos.

Iniziamo col dire che Podemos è oggi oggetto di una violenta aggressione da parte di tutti i media spagnoli, simile a quelle che in tutti gli altri paesi occidentali vengono condotte contro la minaccia “populista”. Le virgolette s’impongono perché il termine viene usato in modo totalmente indifferenziato: populisti sono Evo Morales e Marine Le Pen, Rafael Correa e Grillo, Trump e Podemos. Un appiattimento che non è frutto di incapacità di analisi politica; al contrario: riflette la secca polarizzazione formulata qualche settimana fa dal direttore del Wall Street Journal, il quale ha dichiarato che, d’ora in avanti, lo scontro non sarà fra destra e sinistra ma fra globalisti e antiglobalisti. Altrettanto univoca la ricetta per fronteggiarli: costruire grandi coalizioni fra liberali e socialdemocratici per sbarrare loro il passo (coalizioni cui tendono ad accodarsi in posizione subordinata quei partiti di sinistra “radicale” che si lasciano convincere dalle élite liberali della necessità di far fronte contro il pericolo “fascista”). In Spagna, come spiega un articolo del deputato di Podemos Manolo Monereo, questa campagna si è fatta isterica da quando Podemos ha scelto di stringere un’alleanza elettorale con Izquierda Unida piuttosto che con il PSOE. Perciò, visto che la prima opzione è stata sostenuta da Pablo Iglesias e la seconda da Inigo Errejón, e visto che le due tesi si confronteranno nuovamente nell’assemblea di Vistalegre, i media stanno entrando a gamba tesa nel dibattito precongressuale nella speranza di riuscire a spaccare il partito o, in via subordinata, a rafforzare al suo interno la corrente che fa capo a Errejón. Ma veniamo ai documenti.

Il documento di Iglesias muove da considerazioni analoghe a quelle esposte poco sopra in merito alla fase storica mondiale: la globalizzazione sta entrando in crisi a mano a mano che sorgono nuove resistenze e avversari politici: non solo i movimenti sociali, ma anche quei governi guidati da forze politiche sovraniste/progressiste che, soprattutto in America Latina, tentano di restituire un ruolo strategico allo stato in materia di politica economica e perseguono programmi di riforme radicali, mentre è in corso un riequilibrio dei rapporti di forza geopolitici dovuto all’emergenza di superpotenze vecchie e nuove, come la Russia e la Cina. La crisi europea è parte integrante di tale contesto: gli effetti devastanti del progetto ordoliberista (elevamento del trattato di Maastricht a rango costituzionale sotto egemonia tedesca, perdita della sovranità monetaria e conseguente esautoramento dei governi nazionali privati di potere decisionale su temi strategici; attacco a salari e stato sociale; tagli generalizzati alla spesa pubblica; sistema dei media “blindato” a sostegno del pensiero unico liberista ecc.) generano una resistenza crescente dei popoli europei. In Spagna il consenso, a lungo fondato su settori sociali che aspiravano a venire integrati nella classe media e alternativamente gestito da democristiani e socialisti, si è dissolto dopo l’esplosione della crisi globale e a fronte della “cura” che la Ue ha imposto alla Spagna e che ha prodotto deindustrializzazione e disoccupazione. Così sono nati movimenti di massa che rivendicavano democrazia e sovranità popolari, provocando una vera e propria crisi di regime. In questa situazione i media mainstream si sono fatti garanti della continuità delle scelte politiche liberal liberiste, favorendo la nascita di una grande coalizione liberal socialdemocratica sul modello tedesco.

Il documento passa poi a ricostruire la breve storia di Podemos: nato nel 2013/14 su iniziativa di un gruppo di militanti di varia provenienza (movimenti studenteschi, sinistra anticapitalista, ex comunisti, movimenti di base, ecc.) ispirati dall’esempio del “giro all’izquierda” che ha visto molti Paesi latinoamericani costruire esperimenti populisti di sinistra, il partito ha lanciato un programma politico che chiedeva l’avvio di un processo costituente fondato su riforme radicali: riconquista della sovranità popolare con la possibilità di realizzare una politica economica ridistributiva e di recuperare i diritti sociali; riforma in senso proporzionale del sistema elettorale, riforma della giustizia per accrescerne l’autonomia dal sistema politico; lotta contro il TTIP, lotta per la parità di genere e per il riconoscimento del carattere plurinazionale dello stato spagnolo, ecc. Programma che ha riscosso largo consenso nei settori popolari e nelle classi medie impoverite, consentendo di ottenere importanti successi elettorali.

Dopodiché Iglesias richiama (e rivendica) la svolta che ha visto il partito scegliere l’alleanza elettorale con la sinistra radicale di Izquierda Unida e la contrapposizione frontale al blocco di potere liberal -socialdemocratico. Ricorda che tale svolta è maturata dopo un serrato dibattito interno, in cui la base ha respinto l’opzione (difesa da Errejón) di un accordo con il PSOE, scegliendo invece la strada di un’alternativa radicale al sistema di potere. Questa linea, che Iglesias si appresta a difendere nella prossima assemblea generale, si fonda sull’ipotesi che la crisi politica ed economica non stia avviandosi alla normalizzazione ma sia al contrario destinata ad acuirsi ulteriormente. Il compito di Podemos, quindi, non è quello di proporre un piano alternativo di governo, bensì quello di costruire un nuovo progetto di paese, tenendo saldamente insieme un blocco sociale formato da settori popolari e classi medie.

Per attuare questo progetto occorre una riforma dell’organizzazione del partito che, nella convulsa fase di crescita, si era concentrato sulla costruzione di una macchina elettorale favorendo la concentrazione del potere decisionale nelle mani del vertice. Ora si tratta di superare questo assetto verticistico sia rafforzando le strutture di base che affondano le radici nei territori, sia promuovendo e accompagnando la nascita di vere e proprie istituzioni di democrazia popolare, una rete di contropoteri che faccia sì che le vittorie siano percepite come vittorie di un blocco sociale più che come vittorie di Podemos. Infine, se si vuole costruire un modello alternativo di Paese, il programma di questo partito di tipo nuovo – che deve rappresentare un progetto condiviso da identità politiche, sociali e territoriali diverse – deve compiere un salto di qualità che il documento identifica con obiettivi ambiziosi: istituire un controllo democratico  (attraverso regolazione pubblica e/o nazionalizzazioni) sui settori produttivi strategici e in particolare sui settori finanziario, dell’energia, delle comunicazioni; reindustrializzare il Paese contro la sua riduzione a Paese prevalentemente turistico imposta dalla Ue; impegnarsi a realizzare la sovranità alimentare; offrire sostegno alla piccola e media impresa, al cooperativismo e all’economia sociale.

Il documento di Errejón dedica meno spazio all’analisi della fase storica, in quanto si concentra soprattutto sui rapporti di forza fra i partiti, sulle alleanze e sulle prospettive elettorali, dando relativamente poco peso ai fattori socioeconomici. In particolare, vengono affrontati i seguenti temi: 1) analisi degli errori di Podemos che, secondo Errejón, ne avrebbero frenato l’ascesa elettorale; 2) concentrazione sulla necessità di trasformare Podemos in forza di governo; 3) rilancio, a tale scopo, dell’ipotesi di alleanza con il PSOE (e critica dell’alleanza con IU) ; 4) necessità di riformare il partito, ridimensionando il potere del vertice e “femminilizzandolo”; 5) spostamento dall’obiettivo di costruire di un blocco sociale a quello di “costruire un popolo” (vedi, in proposito, il libro-dialogo fra Inigo Errejón e Chantal Mouffe, “Construir pueblo”), da cui consegue la riformulazione del conflitto sociale quasi esclusivamente nei termini della opposizione alto/basso, popolo/élite; 6) forte attenzione per le aspettative di sicurezza e ordine delle classi medie. Ma vediamone più in dettaglio lo sviluppo.

Per Errejón, Podemos incarna un ciclo di mobilitazione che ha dicotomizzato la società spagnola fra la “gente comune” e una casta privilegiata (si tratta della formulazione “classica” del fenomeno populista secondo le teorie di Ernesto Laclau). Perciò la sua vocazione è quella di costruire una forza politica di tipo nuovo (al di là dei dogmi della sinistra tradizionale) che persegua un cambio di potere in favore delle maggioranze sociali (cambio di potere, non rottura sistemica!).

Per superare l’attuale struttura verticistica (obiettivo sul quale concorda anche Iglesias, come si è visto) Errejón propone una ricetta fondata sui principi “classici” della democrazia parlamentare borghese e dei suoi partiti: divisione dei poteri, distribuzione delle cariche in base a un criterio di “proporzionalità” fra le correnti interne (la cui esistenza viene data per scontata in quanto garanzia di democraticità). Infine “femminilizzazione” del partito in ossequio a quello che in Italia definiremmo il principio delle quote rosa (punto su cui tornerò più avanti perché mi sembra rilevante ai fini delle differenze di prospettiva politica fra i due approcci).

Sul tema delle alleanze Errejón è fortemente critico nei confronti dell’accordo elettorale con IU (al quale imputa la mancata crescita nell’ultima tornata elettorale), mentre rilancia l’ipotesi dell’alleanza con il PSOE, in barba alla tragica crisi di questo partito e al fatto che la base aveva bocciato (vedi documento Iglesias) tale idea. Da un lato, sostiene che se si fosse impostato il rapporto con il PSOE in modo “laico” (implicita allusione all’ostilità ideologica della base di sinistra nei confronti dei socialisti) si sarebbero ottenuti risultati più produttivi di quelli realizzati con la linea di contrapposizione frontale che si è imboccata. A parte il fatto che questa tesi dà per scontata la possibilità di costringere il PSOE ad aderire a un’alleanza di centrosinistra, è evidente che il risultato cui qui si allude consiste nella possibilità che Podemos riesca finalmente a convertirsi in forza di governo. Ma a quale prezzo politico? Il documento, non a caso, sorvola sulle politiche condotte dal PSOE negli anni precedenti, vale a dire sulla sua piena conversione al credo neoliberale. Forse per non ammettere che un accordo con il PSOE implicherebbe, molto più probabilmente, un spostamento verso il centro di Podemos piuttosto che uno spostamento a sinistra dei socialisti.

Del resto Errejón ribadisce la propria convinzione che, alla forza delle élite, non si può contrapporre la sinistra ma “la maggioranza eterogenea di chi sta in basso”. Su quale sia la natura della maggioranza eterogenea che ha in testa Errejón, ci offre un indizio il suo ripetuto riferimento alla necessità di venire incontro alle esigenze di certezza, ordine e sicurezza della gente: il “popolo” in questione è fatto soprattutto da quelle classi medie che sperano di poter recuperare le posizioni di privilegio perse a causa della crisi, un popolo che non va spaventato contraendo imprudenti alleanze con le classi subalterne. In sintesi, potremmo dire che siamo di fronte a un progetto neo socialdemocratico, in ragione del quale Podemos si troverebbe impegnato a integrare, assorbire e  rivitalizzare un partito socialista delegittimato per avere consegnato il Paese al saccheggio del capitale finanziario globale.

Come si vede l’alternativa prospettata dai due documenti è radicale: da un lato abbiamo l’idea che la crisi è destinata ad aggravarsi e non richiede un semplice cambio di politica economica bensì un vero e proprio cambio di civiltà, dall’altro l’idea che esiste una possibilità di “normalizzazione” della crisi attraverso un cambio di governo e l’adozione di misure capaci di mitigare l’asprezza della civiltà liberista; da un lato abbiamo la concezione di un processo costituente gestito da nuove istituzioni di contropotere popolare e da un partito capace di guidare un blocco sociale fatto di classi subordinate e classi medie impoverite, dall’altro lato la convinzione che basti rivitalizzare le istituzioni della democrazia rappresentativa e rifondare la socialdemocrazia per restituire potere decisionale al popolo.

Potremmo anche dire che si confrontano due concezioni diverse del concetto di egemonia: la prima ispirata all’idea di blocco sociale di Gramsci, la seconda all’idea di popolo di Laclau – due concezioni che rinviano a due modelli diversi di “socialismo del XXI secolo” (non va mai dimenticato che tanto Iglesias quanto Errejón devono la propria formazione politica all’esperienza latinoamericana): da un lato il modello della rivoluzione boliviana di Morales e Linera, dall’altro il modello della Revolucion Ciudadana di Rafael Correa (quello, per intenderci, che piace a Grillo: se vincesse Errejón, Podemos somiglierebbe all’M5S assai più di quanto gli somigli adesso).

Infine è significativa la differenza di atteggiamento dei due documenti sul tema della parità di genere: entrambi attribuiscono un’importanza fondamentale all’obiettivo, ma nel documento di Errejón esso è al centro di riferimenti ripetuti quasi ossessivamente, nei quali si evoca a più riprese il concetto di ”femminilizzazione” (del partito, delle istituzioni, del programma, ecc.). Il dubbio è che tanta insistenza sia spiegabile, più che come omaggio all’ideologia femminista, come convergenza con la campagna globale che il fronte liberal sta conducendo contro la minaccia populista, campagna in cui l’ideologia politically correct, i diritti civili e individuali e l’esaltazione di tutte le differenze – vedi sopra – vengono mobilitati per impedire che la lotta per i diritti sociali torni a occupare il centro della scena.

Per concludere: è auspicabile che l’eterogeneità dei due blocchi sociali e delle due culture politiche che oggi convivono in Podemos non provochi una rottura che sarebbe disastrosa per il movimento antiliberista spagnolo ma, almeno dal punto di vista di chi scrive, è non meno auspicabile che l’unità venga mantenuta sotto l’egemonia della linea di Iglesias, alla quale credo si possa rimproverare quasi solo l’evidente incoerenza sul problema dell’Europa: l’esperienza greca ha dimostrato che l’obiettivo di riconquistare la sovranità popolare in materia di democrazia, welfare e politica economica non è compatibile con la permanenza nella Ue – incompatibilità della quale, finora, nemmeno Iglesias ha avuto il coraggio di prendere atto.

Ada Colau, Barcellona

A cosa attribuisce la perdita di un milione e 200mila voti da parte di Podemos rispetto al voto di sei mesi fa?
“La politica è fatta da persone, non è un algoritmo. Il progresso, che nasce dalla società e si riflette col tempo nelle istituzioni, ha momenti in cui va avanti, poi indietro, pause, dubbi. Non è una linea in cui dopo A viene B e poi C. Podemos si è presentato sulla scena e subito ha vinto le europee, poi le città nelle amministrative: è sembrato che la conseguenza logica fosse che alle prime politiche superasse il Psoe, addirittura sconfiggesse il Pp. Beh, no. È più logico che non accada. Parliamo di strutture di potere che governano da decadi, che hanno alleanza con i poteri economici, con i media più potenti. Era evidente che non sarebbe stato facile. Certo c’è stato un errore nella campagna elettorale e bisogna fare autocritica. Neppure bisogna pensare né che le gente sia sciocca o che sia pigra. Si era creata una grande aspettativa e molti non sono andati a votare. Non possiamo dimenticare quello che abbiamo detto sempre: il cambiamento reale si deve produrre nella società. Se smettiamo di lavorare nei quartieri, nella vita quotidiana, nei luoghi di vita e di lavoro per molto che tu indovini il messaggio o il candidato sarà sempre una vittoria effimera. Non sono una persona o uno slogan che cambiano il Paese. Podemos ha sempre vinto fra i giovani, fra chi non votava e nei ceti popolari: in questo senso è un voto “di classe”. Deve restare lì per crescere. Bisogna essere ambiziosi e utopisti per cambiare ma restare alle cose concrete”.
Trova che Podemos stia perdendo contatto con queste parti della società?
“Dico che non deve perderlo. Poi le cause dell’astensione sono molte: stanchezza per tante convocazioni alle urne, frustrazione per il fatto che dopo il primo voto non si sia riusciti a formare un governo, la Brexit, la crisi, la paura.Tante cose hanno influenzato, non una”.
Pensa che dopo Brexit il sostegno di Podemos alla causa dell’indipendenza catalana abbia spaventato gli elettori?
“Vede, questo è un esempio della impressionante macchina di propaganda di cui dispongono Pp e Psoe. Hanno fatto campagna sui finanziamenti dal Venezuela, sull’indipendenza Catalana, poi l’ultimo giorno hanno cavalcato Brexit. Smontare queste paure è il nostro lavoro ma serve tempo. Le spiegazioni semplici sono un errore al quale ci vogliono portare. Non si tratta di volere o no l’indipendenza catalana: si tratta di fare un referendum che l’80 per cento della popolazione chiede. Bisogna difendere in senso profondo la sovranità di tutti i popoli, non solo dei catalani. Decentrare il potere, la cittadinanza deve avere l’ultima parola. Quanto più si tenta di impedire ai cittadini di esprimersi tanto peggio sarà, sempre”.
Si riesce a governare dando così spesso la parola ai cittadini?
“Questo dell’eccesso di democrazia è una caricatura diffusa da chi non vuole che le cose cambino. Quando parlo di sovranità della cittadinanza parlo di pratiche che la gente ha già messo in atto. Non di assemblea permanente: sarebbe stupido e infantile. Il sistema politico deve mettersi accanto e accompagnare i processi che si producono da soli. Un governo del cambiamento passa per un approfondimento della democrazia che vuol dire partecipazione e trasparenza, eliminare i meccanismi che alimentano le corruzione, la politica sottomessa al potere bancario. La società è molto avanti: lavora in rete per obiettivi ed è molto più agile delle istituzioni. La gente si organizza. I movimenti sociali sono cresciuti con i telefoni, le reti hanno fatto politica molto agile, efficace. La dicotomia fra efficacia di governo e orizzontalità di partecipazione è falsa. Noi lo dimostriamo”.
Lei ha messo al centro delle sue politiche i diritti civili e ha detto che lavora per una femminilizzazione della politica non solo nei numeri ma nei valori e nelle pratiche. I movimenti, a Barcellona, usano il femminile plurale per indicare tutti: un uomo quando parla dice noialtre. Crede che sia il modo giusto?
“È vero nei movimenti da anni è una pratica comune usare il femminile plurale per dire tutti: non so se sia il modo più efficace ma certo indica il tema. Che il maschile plurale sia il modo per dire uomini e donne è l’esito di una cultura patriarcale. Le differenze di genere sono soprattutto culturali, ma sono reali. Con le donne è più semplice lavorare in rete, collaborare invece che fare una gara, una battaglia. In politica questa è un’esperienza molto chiara. Femminilizzare significa questo, per me: c’è un modo non maschile ma maschilista di fare politica – verticale autoritario di comando – e c’è un altro modo dove l’autorità non viene dall’imposizione ma dal riconoscimento. Quando gli altri ti riconoscono che sei utile. Per decenni la società maschilista e capitalista ha messo al centro il potere, l’accumulazione, i soldi. Penso che oggi ci siano sempre più donne e uomini pronti a mettere al centro la cura”.
Lei, anche da sindaco, si scontra con le banche. Qual è il suo rapporto col denaro?
“Da sindaco più ancora che da attivista sono consapevole del fatto che non sono mai i soldi a risolvere le questioni principali. I cambiamenti di cui abbiamo bisogno sono soprattutto del modo di organizzare la società. Non mi sono mai trovata in una situazione in cui la soluzione erano solo i soldi. Eppure ne conosco bene il valore. Vengo da una famiglia popolare, in casa abbiamo sofferto la povertà. Quando sei povera i soldi ti mancano per vestirti, per prendere la metro, perché i tuoi amici escono e tu non puoi. Da ragazza quando ne avevo li spendevo nei libri: ancora oggi l’unica mia proprietà è la mia biblioteca. Non ho bisogno di una casa, posso vivere in affitto. Ma i libri sono miei. Da piccola li nascondevo in cima all’armadio”.
Sopra l’armadio?
“Sono la prima di quattro sorelle, con molta distanza dalla seconda. Dormivamo nella stessa stanza, io in alto nel letto a castello. Da lì toccavo la cima dell’armadio e ci nascondevo le mie cose: qualche cibo, i quaderni. Era il mio rifugio segreto, quando avevo bisogno di stare da sola. Ero molto timida, allora. Mi vergognavo di essere diversa dagli altri. Ma no, paura no, non ho mai avuto paura del “mondo fuori”: al contrario, da mia madre Tina ho imparato quella che credo sia la sua e la mia dote principale, l’empatia. Non ha studiato, ha sempre dovuto fare mestieri che non le piacevano, ma è aperta al mondo, in ascolto, vive con gli altri”.
Se potesse, vorrebbe sapere qualcosa del suo futuro?
“No, sapere il futuro ti condanna a realizzarlo. Preferisco costruirlo”.
E del passato, qualcosa che vorrebbe rivivere?
“Per una sera, i miei nonni. Sono morti prima che diventassi madre e sindaco. Vorrei mostrare loro mio figlio, da cui imparo ogni sera ad avere di nuovo fiducia nelle persone, e vorrei che vedessero il risultato di tanta loro fatica: che mi vedessero al lavoro qui, qualcosa che davvero non avrebbero mai potuto immaginare. Sarebbero così felici”.

Spagna, possibile governo socialisti, Podemos e Izquierda Unida

segnalato da Barbara G.

umbriapost

Spagna. Rajoy rinuncia a presentarsi per primo al Congresso, palla al Psoe. Possibile la svolta a sinistra. Nel fine settimana primi colloqui tra Sánchez e Iglesias sul governo «di cambiamento e di progresso»

Il re Filippo VI di Spagna e il leader di Podemos Pablo Iglesias prima delle consultazioni sul governo

di Luca Tancredi, il manifesto – La prima settimana di consultazioni con il monarca spagnolo si è chiusa ieri con i fuochi d’artificio. Dopo una giornata piena di colpi di scena, poco prima delle 21 arriva il notizione: Mariano Rajoy rinuncia all’incarico offertogli da Filippo VI di formare il governo.

Motivo? C’è una maggioranza assoluta di voti contro di lui, e «per il momento», dice il presidente ad interim del governo, la sua opzione di governissimo Pp-Psoe-Ciudadanos non «ha i voti sufficienti». Rajoy, soprattutto, non ha intenzione di far scattare il conto alla rovescia convocando un’inutile sessione di investitura: a partire dal giorno…

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Grecia: riflessioni dopo la battaglia

Essere Sinistra

tsiprasiglesias

di Pablo Bustinduy AMADOR

[traduzione dell’articolo – del 1 settembre 2015 – del Segretario delle relazioni internazionali di Podemos a cura di Serena Corti]

La risoluzione della crisi greca ha gettato nella disperazione molti di coloro che lavorano per il cambiamento democratico in Europa. Va detto senza mezzi termini : il terzo memorandum è una grave battuta d’arresto, il cui prezzo continuerà a venir pagato dal popolo greco con anni di sofferenze e di austerità, e comporta una disillusione in coloro che credono e sperano nella costruzione di un’Europa democratica e sociale.

Si tratta di un accordo dannoso frutto dell’ideologia politica e finanziaria dei creditori che non cercano di difendere gli interessi generali della Grecia né dell’ Europa, ma di rafforzare il controllo politico e finanziario della Germania e neutralizzare ogni possibilità di alternativa politica nella periferia europea. Tuttavia, una volta espresse queste premesse, penso che sia necessario…

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Un po’ meno Indignados…

Spagna, Iglesias paga cara la vicinanza a Tsipras: Podemos scende sotto il 20%

di Davide Tenconi – ilfattoquotidiano.it, 3 agosto 2015

La crisi greca e le iniziali battaglie di Syriza avevano aiutato il professore e compagni a esprimere un nuovo concetto di Europa, votata alla solidarietà e al ripensamento del modello fondato sull’austerità. Ma il ko del leader della sinistra greca nelle trattative per il terzo salvataggio di Atene ha danneggiato anche il partito spagnolo: secondo l’ultima rilevazione di Metroscopia, la traduzione politica del movimento degli Indignados otterrebbe oggi il 18% dei consensi, dietro ai socialisti e ai popolari. Inoltre Ciudadanos è a soli 5 punti di distanza: a inizio anno Podemos poteva contare su 10 lunghezze in più.

Nella lunga tappa di montagna, con il traguardo finale posto alle elezioni generali, il corridore spagnolo con il fiato corto sembra essere Pablo Iglesias. Prendiamo in prestito una metafora ciclistica per raccontare lo stato di forma di Podemos, l’alternativa anti-austerity, nella corsa per la presidenza della Moncloa contro il PP del premier Mariano Rajoy, il PSOE del leader Pedro Sanchez e l’alternativa di centrodestra Ciudadanos capitanata da Albert Rivera.

In costante ascesa di consensi dalla nascita, Podemos vive il primo delicato passaggio politico della sua storia. La crisi greca e le iniziali battaglie di Tsipras avevano aiutato Iglesias e compagni a esprimere un nuovo concetto di Europa, votata alla solidarietà e al ripensamento del modello economico e non solo un palazzo di tecnocrati pronti ad imporre politiche di lacrime e sangue ai cittadini.

La vittoria del referendum di Atene di qualche settimana fa aveva illuso i sostenitori di sinistra che Tsipras potesse avere la forza politica, non solo quella del mandato popolare dei suoi elettori, per combattere a muso duro Angela Merkel e Wolfgang Schäuble. Lo stesso Iglesias era certo che il premier greco potesse essere il primo esempio di come poter urlare un “no” forte a nuove imposizioni dall’alto. A Strasburgo, durante il dibattito al Parlamento, lo accolse a braccia aperte e la sua immagine del profilo di Twitter è una foto dei due leader abbracciati e sorridenti.La lunga notte di negoziazioni e la firma del terzo pacchetto di aiuti hanno detto il contrario. Da uomo forte Tsipras si è trasformato in agnellino, deludendo molti cittadini sotto il Partenone.

Iglesias ha pagato, in termini d’immagine, la vicinanza a Syriza. Nell’ultima rilevazione diMetroscopia, Podemos otterrebbe oggi il 18% dei consensi, dietro al Partito Socialista e al Partito Popolare del premier Rajoy. Non solo: la quarta carta del mazzo, ovvero Ciudadanos, è a soli 5 punti di distanza. Ad inizio anno Podemos poteva contare su 10 punti in più. Sono sondaggi, quindi da prendere con la dovuta cautela, però è la prima volta da molti mesi che il movimento di Iglesias si distanzia dai due partiti tradizionali e scende sotto il 20%.

Mariano Rajoy non aspettava altro per etichettare il professore con il codino come “pericoloso”. Le code ai bancomat di Atene, la chiusura delle banche e della Borsa e il rischio concreto di perdere il patrimonio sono diventate formidabili armi elettorali del premier spagnolo, desideroso come mai di poter paragonare Tsipras ad Iglesias e incutere paura ai cittadini. Paura ingiustificata perché l’economia, seppur gonfiata da dati eccessivamente ottimisti sul recupero dell’occupazione, crescerà del 3% nel 2015 e del 3,5% nel 2016. Rajoy specula sulle difficoltà che si stanno vivendo ad Atene per recuperare consensi dopo un anno di dure sconfitte elettorali, con la perdita del Comune di Madrid come ciliegina sulla torta. Il fiato corto di Podemos non può però essere spiegato solo con le difficoltà di Tsipras. C’è dell’altro e Iglesias lo sa bene.

Le vittorie di Ada Colau e Manuela Carmena nella elezioni municipali di Barcellona e Madrid hanno rappresentato il punto più alto del movimento, soprattutto a livello d’immagine. Va però fatto un distinguo: nella capitale, così come in Catalogna, Podemos ha vinto grazie a un’alleanza con la componente civile e Izquierda Unida ed il successo è stato molto risicato (solo pochi seggi di differenza). Iglesias ha rifiutato apertamente un’alleanza elettorale con l’estrema sinistra anche per la Moncloa, decidendo di correre da solo. Molti elettori non hanno apprezzato pensando che il modello Barcellona-Madrid potesse rappresentare la miglior carta da giocare. Se, ipoteticamente, il risultato delle elezioni nazionali rispecchiasse quello delle comunali di un mese fa, difficilmente Podemos potrebbe insediarsi al governo. Il PP potrebbe allearsi con Ciudadanos e raccogliere più seggi per presentarsi nuovamente davanti al Re per giurare.

Iglesias ha deciso di lottare da solo, come fece Beppe Grillo nelle elezioni politiche italiane. Come il M5S, potrebbe ottenere un exploit straordinario ma pensare di poter raggiungere una maggioranza assoluta sembra oggi fantascienza. E rimaniamo sempre nel campo della fantascienza se pensiamo che domani Iglesias e Sanchez possano sedersi nello stesso governo. Il primo ha etichettato il leader del PSOE come capo di una banda di corrotti, il secondo parla del professore come di un visionario. Immaginarli allo stesso tavolo a discutere di programmi economici comuni per il rilancio dell’occupazione è un’impresa molto ardua. Chi ride sotto la barba è ovviamente Rajoy, conscio del fatto che un’alleanza tra Podemos e PSOE metterebbe la parola fine, anche prima delle urne, a un suo secondo mandato.

Noi non Podemos

di Lame

Una delle caratteristiche importanti del recente voto amministrativo in Spagna (mai visto un voto amministrativo così “politico”, peraltro) è la collaborazione tra Podemos e i movimenti sociali di base. I numeri infatti dicono questo: nelle elezioni per le regioni Podemos si presenta da solo e raccoglie un 10/12 per cento. Un successone, considerato che il partito è nato da pochissimo tempo e si presentava dappertutto per la prima volta. Ma se questo si trasla su base nazionale è quasi un coitus interruptus: tanta bella energia che può ancora essere silenziata dalla forza – bastonata ma non vinta – del sistema politico spagnolo tradizionale.
Nelle municipalità invece Podemos si presenta alleato a movimenti di base, a partiti locali di spinta indipendentista (altro che la Lega: la Spagna è percorsa da tremori indipendentisti da molto tempo e con sempre più forza), a formazioni municipali che hanno un fortissimo radicamento territoriale e popolare. E così vince. Rovescia completamente gli equilibri di potere andando a governare i due cuori pulsanti della Spagna.
Il confronto con la situazione italiana è inevitabile. E fa emergere sempre più quello che, a mio modesto parere, è da sempre il vero piede d’argilla del Movimento cinque stelle.
Non sto qui a fare i paragoni tra M5S e Podemos. Sappiamo che sono diversi, ma anche uguali. Uguali soprattutto nella spinta dal basso che li crea. (Evitiamo per favore il dibattito su Grillo o non Grillo perché è vero che senza Grillo non ci sarebbe stato il movimento, ma senza un vero moto di base Grillo se ne stava a Bibbona ad abbronzarsi. Punto.)
Dove sono profondamente diversi è invece il livello territoriale che, non a caso, negli ultimi mesi Grillo cita spesso come dimensione in cui il movimento deve lavorare.
Non si tratta soltanto di una questione di alleanze, che il movimento fa molta fatica a costruire anche a livello locale (per non parlare di quello nazionale). Si tratta piuttosto del fatto che da sempre – e qui sì per volontà/responsabilità/colpa del magico duo – lo spazio consentito al livello territoriale è molto ristretto. Grillo non si fida, evidentemente, della base sul territorio, come si usava dire una volta. Non ha mai concesso che questa base si strutturasse in rete, ha sempre usato il maglio contro qualunque tentativo di collegamento tra meet-up che vengono confinati nel loro ristrettissimo spazio di esistenza.
Posso perfino capire le ragione per cui, da sempre, Grillo ha espulso chiunque tentasse di collegare quelli che, ancora oggi, sono solo i tanti pezzi sparsi del movimento sul territorio. Monadi scollegate che viaggiano nell’iperspazio senza parlarsi tra loro, senza poter creare fili che costruiscano una vera rete di base. Il timore della nascita di piccoli potentati, di correnti e posizioni personali di potere è sensato nel contesto antropologico italiano.
Ma è come tagliarsi l’uccello per far un dispetto alla moglie. Questa camicia di forza imposta alle energie sul territorio castra la forza del movimento a livello locale (e si vede pesantemente nel voto) e impedisce anche la crescita politica, compresa la capacità di sperimentare cosa voglia dire concretamente costruire e gestire alleanze per ottenere risultati. Una scuola politica che sarebbe fondamentale per il movimento che ha bisogno di far crescere una propria classe dirigente (parolaccia, eh?) che sperimenti nella realtà amministrativa invece che pensare di poter costruire la suddetta classe dirigente in laboratorio (leggi uffici della Casaleggio associati). Cosa che produce solo un gruppo di abili comunicatori e niente di più (più renziano del Renzi, da questo punto di vista).
Sono molto curiosa di capire cosa intenda Grillo per “lavorare sul territorio” a questo punto. Perché il movimento ne ha bisogno. E, per quanto questo possa irritare un sacco di gente, ne ha bisogno anche l’Italia.

È possibile… che funzioni?

Quella di Civati non sarà una “Cosa rossa”, per questo funzionerà

di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante – huffingtonpost.it, 26 maggio 2015

C’è spazio nell’Europa di oggi, lacerata tra la persistenza di politiche dell’austerità fine a se stessa e l’avanzata di populismi e neo-nazionalismi; c’è spazio in questa Europa incerta, spaventata, spesso rassegnata, per un’alternativa di progresso che rilanci, ma su basi contemporanee, il progetto solidale e federalista da cui è nata l’Unione? E c’è spazio per un’alternativa così in Italia, per quella nuova “cosa politica” preannunciata in questi giorni, in queste ore, da Civati?

Per noi lo spazio c’è, ma non è quello di una piccola o grande “cosa rossa”, della sinistra tradizionale e novecentesca che conosciamo. Del resto basta leggere con un po’ di attenzione i risultati di molte delle ultime tornate elettorali in giro per l’Unione europea. Dalla Spagna con “Podemos” all’Europa del nord con i Verdi, ad affermare nelle urne la possibilità di una “terza via” tra larghe intese conservatrici e derive populiste non è la vecchia sinistra, ma è l’idea di un cambiamento tanto radicale nella visione quanto estraneo alle gabbie ideologiche della sinistra d’antan.

È l’idea di un nuovo patto sociale incardinato su te grandi pilastri: statuto di cittadinanza, che significa lavoro ma anche molto di più dai diritti civili al reddito minimo per giovani e disoccupati; e poi “green new deal” per uno sviluppo economicamente solido ed ecologicamente sostenibile, e lotta senza quartiere alla selva di privilegi e rendite di posizione, troppo spesso contrabbandati per diritti acquisiti, che paralizzano sia l’ascensore sociale sia quello generazionale.

Di un’alternativa così c’è tanto più bisogno in Italia, dove la società è più ingessata e ingiusta che altrove e dove la politica, pure rinnovatissima nell’anagrafe dei suoi leader massimi Renzi e Salvini, si mostra incapace di ogni vero, sostanziale ritorno al futuro. Per capirci, ecco un unico esempio, più illuminante di mille Jobs act: mentre in Europa e nel mondo si lavora per accelerare la transizione energetica verso un sistema fondato su efficienza e fonti rinnovabili, mentre anche in Italia la parte più dinamica del sistema produttivo scommette sull’innovazione green, invece il governo Renzi insegue da mesi un incredibile programma di perforazioni petrolifere in mare e a terra, che anche lasciando da parte le controindicazioni ambientali è nel tempo presente un totale, irrevocabile non-senso, e ora addirittura con un suo decreto si prepara a colpire al cuore migliaia di imprese impegnate nella generazione distribuita di energia pulita.

Ecco, per noi la “cosa” di Civati potrà essere vincente se saprà nutrire questa ambizione: accompagnare la politica italiana negli anni 2000, lontano da improbabili pozzi di petrolio è vicino alle sfide – sociali, economiche, ambientali – che stanno disegnando il futuro del mondo e anche il nostro di europei e di italiani.

PODEMOS conquista Barcellona e Madrid

Elezioni Spagna, Podemos vince a Barcellona, a Madrid allenza con il Psoe. Rajoy primo, ma è crisi di voti

Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri, che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento.

di Silvia Ragusa – ilfattoquotidiano.it, 25 maggio 2015

Volavano gli elicotteri, ieri, sulla notte madrilena. Ma non per controllare dall’alto calle Génova, via della storica sede del Partito popolare: per la prima volta qui il tradizionale balcone della vittoria è rimasto vuoto, nonostante la candidata sindaco Esperanza Aguirre abbia guadagnato un seggio in più. La polizia sorvolava la Cuesta de Moyano, dove migliaia di cittadini ascoltavano la diretta avversaria Manuela Carmena, giudice impegnata nella tutela dei diritti umani: “Ha vinto ilcambiamento. Ha vinto la cittadinanza. Avete vinto voi”. I simpatizzanti di Ahora Madrid, lista di Podemos, si erano dati appuntamento vicino al museo Reina Sofía fin dal primo pomeriggio. Poi, in serata, al suono della banda ufficiale e del noto slogan “Sì, se puede” con l’arrivo del leader Pablo Iglesias, cominciava la festa. Il terremoto annunciato per la politica spagnola alla fine si è verificato alle amministrative e regionali di ieri (gli spagnoli sono andati alle urne per rinnovare 8.122 municipalità oltre che per assegnare i seggi nei parlamenti di 13 delle 17 regioni del Paese), che hanno visto i post-indignados di Podemos prendere Barcellona, avvicinarsi anche alla conquista della capitale e imporre ai due grandi partiti tradizionali Pp e Psoe un drastico ridimensionamento: 4 anni fa i popolari aveva ottenuto la maggioranza assoluta in 8 regioni, oggi devono scendere a patti con altre forze politiche.

Madrid vince il Pp, ma Podemos verso alleanza con il Psoe. Esperanza Aguirre ha vinto ma sa già che non potrà governare facilmente: sommando i 21 seggi agli ipotetici 7 di Ciudadanos non riuscirebbe comunque ad ottenere la maggioranza assoluta. La candidata di Ahora Madrid invece, con 20 seggi, insieme al Psoe di Antonio Miguel Carmona, potrebbe ottenere 29 scranni e le chiavi del palazzo della capitale spagnola. Per Iglesias è l’inizio della fine del bipartitismo: “Pp e Psoe hanno registrato uno dei peggiori risultati della loro storia” e “il cambiamento ora è irreversibile”, ha detto chiaro e tondo. Popolari e socialisti sono in realtà ancora i primi due partiti, ma insieme sommano il 53% e per governare dovranno scendere a patti.

Cresce anche Ciudadanos: è il terzo partito. Il Partito popolare resta in generale infatti il più votato (27%), ma perde l’egemonia degli ultimi vent’anni e quasi tre milioni di preferenze: da oggi la possibilità che gli azzurri tornino a sedersi sulle stesse poltrone non dipenderà più da loro, ma dalla capacità di alleanza delle forze opposte. Il Pp perde quasi tutte le maggioranze assolute nelle regioni come nella principali città del Paese e, probabilmente, il potere in Cantabria, in Castilla-La Mancha e nelle comunità autonome di Valencia e Madrid. Inoltre, una coalizione di sinistra avrebbe la possibilità di sottrarre al partito gli esecutivi di Aragón, Extremadura e Baleari. Dietro al Psoe, che si ferma al secondo posto con il 25% delle preferenze e la conquista della città di Siviglia, sorprende l’ascesa inarrestabile di Ciudadanos, che da oggi diventa terza forza politica, anche se Podemos – che non ha lista propria – non entra a far parte dei dati pubblicati dal ministero degli Interni. È lo stesso leader Albert Rivera a commentare a caldo che il suo partito ha triplicato l’appoggio ottenuto alle elezioni europee del 2014, gettando le basi per vincere le prossime politiche. “Siamo qui e stiamo facendo la Storia”.

A Barcellona vince Ada Colau, paladina degli sfrattati. Ma è da Barcellona che arriva il primo vero cambiamento: una “okkupa” si aggiudica la poltrona di sindaco. Ada Colau, 41 anni, attivista e fondatrice della Pah, la piattaforma per le vittime degli sfratti, ottiene il 25,20% e 11 consiglieri con la formazione civica Barcelona en Comú, appoggiata da Podemos. Segue la formazione indipendentista di Convergencia i Unió dell’attuale presidente della Generalitat Artur Mas con 10 seggi, Ciudadanos con 5 e i socialisti con 4. “È la vittoria di Davide contro Golia” ha detto commossa davanti alla platea e ha ricordato, anche senza aver ottenuto la maggioranza assoluta, che si tratta di un successo “collettivo” dei cittadini contro “il voto della rassegnazione”. A Valencia invece migliaia di cittadini si sono riuniti nella centrale Plaza del Ayuntamento per celebrare la sconfitta della popolare Rita Barberá, dopo 24 anni di governo. Il Pp perde la maggioranza assoluta e cede il passo al Psoe che ottiene il 20,4% e 23 scranni, seguito dalla lista civica di Compromís, con 20 seggi.

Tutto da rivedere insomma: adesso si apre la stagione di alleanze, di governi privi di maggioranza assoluta e di opinioni da tenere in conto. L’unica cosa certa è che le due nuove formazioni di Podemos e Ciudadanos da oggi non sono più solo uno stato d’animo, ma entrano a pieno titolo nelle istituzioni locali. E il sistema del bipartitismo, che ha governato la Spagna dalla fine del franchismo, sembra cedere il posto ad un quadro molto più frammentato.

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Il candidato di Podemos a Madrid: «Alleanze su casa, educazione e sanità»

Elezioni a Madrid. José Manuel Lopez 49 anni di Podemos. Candidato nella capitale

di Giuseppe Grosso – ilmanifesto.info, 24 maggio 2015

José Manuel Lopez è un uomo della pri­mis­sima ora. 49 anni, inge­gnere agra­rio con espe­rienza nel campo della coope­ra­zione e dello svi­luppo delle poli­ti­che sociali, era in piazza con gli indi­gna­dos il 15M e ha assi­stito in prima linea al con­ce­pi­mento e alla cre­scita del pro­getto Pode­mos. Fino alla can­di­da­tura alla Comu­ni­dad di Madrid, una delle regioni chiave per la con­sa­cra­zione del par­tito viola. L’inedita fram­men­ta­zione dello sce­na­rio poli­tico pre­lude alla neces­sità di accordi post-voto.

Con chi sare­ste dispo­sti ad arri­vare a un patto?

Il patto è solo uno stru­mento, non è un obiet­tivo in sé. Noi pro­po­niamo un pro­getto di cam­bio, e sulla base di que­sto siamo dispo­sti a discu­tere con chiunque.

Eppure l’Andalusia è in stallo da due mesi pro­prio per­ché non si rie­sce a tro­vare un accordo con il Psoe…

Siamo pronti a creare geo­me­trie poli­ti­che a soste­gno di un rin­no­va­mento reale. In Anda­lu­sia, noi cer­chiamo un accordo su casa, edu­ca­zione, sanità, cor­ru­zione e il Psoe mette sul tavolo la spartizione degli uffici, dei soldi ai gruppi par­la­men­tari e delle auto blu. Un patto che ci porti al governo pre­ser­vando lo sta­tus quo, non ci inte­ressa; né in Anda­lu­sia né altrove.

Però, soprat­tutto in chiave anti Pp, che a Madrid ha una delle sue roc­ca­forti più solide, non converrebbe con­si­de­rare la pos­si­bi­lità di un tri­par­tito Izquierda Unida, Psoe, Podemos?

Insi­sto: la gente ci chiede un cam­bio e noi non pos­siamo rispon­dere con le solite mano­vre di palazzo. Madrid ha un pro­blema serio di clien­te­li­smo e cor­ru­zione, instau­rati dal Pp sotto lo sguardo indif­fe­rente del Psoe e di Iu. Con queste pre­messe è dif­fi­cile par­lare a priori di un patto. Pode­mos punta alla rot­tura rispetto al vec­chio sistema: trasparenza, cam­bio del qua­dro eco­no­mico e recu­pero dei ser­vizi sociali, sono i punti chiave del nostro pro­gramma. Se gli altri par­titi vogliono remare nella stessa dire­zione, pos­sono senz’altro salire sulla nostra barca; per spar­tirsi le poltrone, si rivol­gano a qual­cun altro.

Anche Ciu­da­da­nos può salire sulla vostra barca?

Può salirci chiun­que sia dispo­sto ad appog­giare il nostro pro­gramma, e non sono sicuro che Ciudada­nos sia dispo­sto a farlo. Sul discorso della rige­ne­ra­zione demo­cra­tica pos­sono esserci alcuni punti di con­tatto, però per quanto riguarda le pro­po­ste sociali e la lotta alla dise­gua­glianza vedo una dif­fe­renza incol­ma­bile. Nel pro­gramma di Podemos le due cose sono inscin­di­bili: non c’è rigenerazione demo­cra­tica senza un miglio­ra­mento delle con­di­zioni sociali.

A pro­po­sito di disu­gua­glianza: la regione di Madrid è una di quelle con il più ampio diva­rio sociale. Che misure intende adot­tare per con­tra­stare que­sta deriva?

Biso­gna cam­biare il modello pro­dut­tivo, attual­mente basato sul mat­tone. Un modello vorace che bene­fi­cia un’élite vicina al governo regio­nale e che ha por­tato a costruire oltre le reali neces­sità. Madrid è una ragione ricca: basterebbe smet­tere di inve­stire in pro­getti inu­tili (strut­ture e strade costate milioni e oggi inu­ti­liz­zate) e uti­liz­zare i fondi per ser­vizi sociali e assun­zioni nel set­tore edu­ca­tivo e sanitario.

Casa, edu­ca­zione e sanità: quale la misura più urgente da adot­tare in cia­scuno di que­sti settori.

Casa: cree­remo un’agenzia pub­blica per l’affitto. Ci saranno incen­tivi per chi mette in affitto (ci sono circa 250.000 case vuote a Madrid) e, paral­le­la­mente, dispor­remo di un numero di case che pos­sano essere asse­gnate a per­sone sfrat­tate o in dif­fi­coltà eco­no­mi­che. Sanità: raf­for­ze­remo il sistema pub­blico e revo­che­remo le pri­va­tiz­za­zioni. Scuola: scom­met­te­remo, anche in que­sto caso, sul pub­blico e bloc­che­remo le nuove con­ces­sioni ai cole­gios concertados (scuole pri­vate che ricevono finan­zia­menti pub­blici, ndr).

Come spiega la fles­sione di Pode­mos negli ultimi mesi?

Credo che fac­cia parte del pro­cesso di matu­ra­zione dell’organizzazione. Siamo nella terza fase di Pode­mos: la prima fu l’occupazione delle piazze con il 15M; la seconda, suc­ces­siva alla costi­tu­zione del par­tito, la ste­sura della dia­gnosi dei pro­blemi della poli­tica spa­gnola: in que­sta fase abbiamo toc­cato il mas­simo dei con­sensi per­ché la nostra ana­lisi ha colto nel segno; la terza fase con­si­ste nel tes­sere una pars con­truens che passi dalla dia­gnosi ad una pro­po­sta concreta di paese, ed è la parte più dif­fi­cile. Però biso­gna con­si­de­rare che solo un anno fa Pode­mos nem­meno esi­steva: in così poco tempo abbiamo rag­giunto grandi risul­tati e un lieve ral­len­ta­mento non ci pre­oc­cupa, anche per­ché i numeri indi­cano una ripresa.

Per­ché oggi i madri­leni dovreb­bero votare Podemos?

Per­ché siamo l’alternativa alla poli­tica tra­di­zio­nale che ci ha por­tato in que­sta situa­zione. Per­ché noi siamo cit­ta­dini nor­mali che si sono orga­niz­zati e si sono stan­cati di aspet­tare che le cose cam­bino da sé. Per­ché non siamo un par­tito ma un pro­getto politico.

Barcellona, una okupa al potere

Segnalato da crvenazvezda76

BARCELLONA, UNA OKUPA AL POTERE. “SARA’ UNA RIVOLUZIONE”

Di Luca Tancredi Barone – www.controlacrisi.org, 16/05/2015

Nel paese della più grande bolla speculativa immobiliare europea, dove, per dire, nel 2005 si costruivano più case che Germania, Francia e Italia assieme e si stimano più di 5 milioni di case vuote, mezzo milione di persone sono state buttate fuori di casa ma mantengono il loro debito con le banche.

E, nel più assoluto disinteresse delle istituzioni, sono state aiutate dalla «Piattaforma vittime del mutuo» (Pah, dalla sigla in spagnolo), nata dalle ceneri del 15M a Barcellona e diffusa in tutto il paese. Che li ha aiutati a affrontare le banche e soprattutto ha dato un tetto, occupando le case vuote delle banche, a migliaia di persone. Colaune è stata la portavoce e oggi, secondo alcuni sondaggi, la sua Barcelona en comú (Barcellona in comune) sarebbe il partito più votato (con circa il 26% dei voti, contro i 19% dell’attuale sindaco, della democristiana Convergència i Unió e con un consiglio comunale frammentatissimo). L’abbiamo incontrata all’una di notte, instancabile, in chiusura di un comizio alla Barceloneta.

La sua candidatura mette insieme vari frammenti della sinistra: da Podemos, ai rosso-verdi catalani di ICV, a Izquierda Unida, oltre a vari movimenti cittadini. Un’impresa unica forse votata al successo. Come ha fatto?

Viviamo un momento di eccezionalità, e cose impossibili fino a poco tempo fa stanno diventando possibili. Da un lato c’è una truffa chiamata crisi che sta intaccando i diritti fondamentali, un’assenza di democrazia, una corruzione generalizzata, una crisi economica e una crisi politica del paese. Dall’altro, c’è un’eccezionalità in senso positivo: sono già anni che il paese si sta mobilizzando: il 15M, le maree per la sanità e l’educazione, la Pah. Il processo elettorale nasce in questo contesto di «rivoluzione democratica». Dobbiamo esserne orgogliosi: in altri paesi la risposta è stata di tutt’altro segno. Il municipalismo poi è storicamente un luogo di rottura dal basso, dove la politica è più vicina alle persone.

C’entra la città di Barcellona in questo successo?

Barcellona non è una città come le altre. Ma qui c’è una maggioranza sociale progressista, la città è stata pioniera di processi di rottura (si riferisce al periodo repubblicano, ndr) ed è una città dove più che in altri posti si può vincere; di posizioni testimoniali ne esistono già abbastanza. Il primo obiettivo era di mobilizzare quel 50% di astensionisti che non avevano mai partecipato. Aggiungendo sia chi stava facendo politica da tempo, come Icv o Iu, sia i più nuovi, come Podemos. A tutti abbiamo detto la stessa cosa: i cittadini ci chiedono generosità e ampiezza di vedute per dare priorità agli obiettivi.

E il fatto che sia lei a guidare la candidatura ha aiutato più che in altri casi?

Ogni città è una realtà diversa. Qui esiste un tessuto sociale più organizzato che in altre città. La mia figura visibile e di consenso aiuta alla trasversalità e a unire persone diverse. Ma ce ne sono altre meno visibili dei movimenti per la casa, per la povertà energetica, del mondo accademico. Non è un caso che il nostro lavoro abbia ispirato più di 40 altre candidature in altre città di tutta la Spagna.

Mi racconti come avete costruito programmi e liste.

Ci siamo detti che se facevamo questo processo non era solo per mettere altre persone al posto di quelle che ci sono, ma per cambiare il modo di fare politica. E non potevamo aspettare il giorno dopo le elezioni per farlo. Abbiamo puntato sul protagonismo dei cittadini, sulla trasparenza, e sull’indipendenza finanziaria (con una campagna di crowdfunding, ndr).

Tutti quelli che hanno voluto partecipare al processo decisionale sui grandi temi l’hanno potuto fare, senza nessuna «tessera» di Barcelona en comú — che peraltro non esiste. Il primo passo è stato quello di farci «validare» dai cittadini. In piena estate e in poche settimane, abbiamo raccolto 30mila firme per assicurarci di non essere un gruppo di fuori di testa senza nessuno dietro. Poi, in un momento di discredito della politica, abbiamo approvato un codice etico. Da qui è sorta la limitazione del salario, del numero dei mandati, la resa dei conti, la pubblicazione dell’agenda e una serie di cose per eliminare privilegi e cattive pratiche.

A volte persino un po’ demagogiche. Un salario di 2200 euro netti per un sindaco (contro i 12mila dell’attuale) forse è fin troppo basso…

Guardi, oggi come oggi più della metà delle persone a Barcellona ne guadagna meno di mille. E noi stiamo esigendo esemplarità a chi occupa cariche pubbliche.

Anche se evidentemente come candidata alla carica io non ho partecipato a questo dibattito, ne accetto le conclusioni. In generale credo che se partecipano molte persone in una discussione, si impone l’intelligenza collettiva e il senso comune. Se no, non parteciperebbero in tanti e non si sarebbero unite tante nuove persone al progetto. Io stessa, come molti altri, se ci fossero state proposte senza senso o demagogiche non mi sarei prestata.

Continuiamo con il processo di formazione del programma.

Dopo questi passi, abbiamo fatto le primarie e poi il programma, a partire dai gruppi di quartiere dove sono state raccolte più di 2000 proposte che abbiamo diviso per assi programmatici. Un’esperienza incredibile. Centinaia di persone super esperte di mobilità, urbanistica, ecologia, economia. Un livello incredibile di competenza. Più di 5000 persone hanno partecipato alla redazione del programma!

E poi il nostro programma è aperto: la nostra idea è che il programma non si chiuda mai. Dovrà continuare a essere integrato. Quando cominceremo ad applicare le misure, le dovremo valutare e se non funzionano cambiarle. Tutto questo processo deve continuare dopo il 25 maggio.

Che cosa le ha insegnato la Pah?

È l’esperienza da cui ho imparato più di tutte, senza contare la maternità. E sono loro infinitamente grata. La Pah mi ha dimostrato che l’impossibile è possibile. Che la storia di David contro Golia non è mitologia. Che la gente con meno potere e apparentemente più marginalizzata della società, criminalizzata per i suoi debiti, ridicolizzata, se non si arrende e si unisce può muovere le montagne.

Quelli che hanno perso tutto, che si sono uniti, senza rassegnarsi, con enormi sforzi (perché i primi anni sono stati durissimi), mentre tutti ci dicevano che era impossibile affrontare le banche, ce l’hanno fatta. Per me è stata una lezione di vita: l’unica cosa che non otterremo è quella per cui non lottiamo. Magari ci vorrà più o meno tempo, ma qualcosa otterremo. E poi mi ha insegnato l’importanza delle piccole vittorie. Dell’importanza di avere obiettivi ambiziosi, che magari non dipendono solo da noi, ma senza essere massimalisti. Come nel caso di quelli che abbiamo ora: democrazia reale, finirla con la corruzione, riconquistare i diritti sociali, instaurare un’economia giusta. Sapendo qual è la direzione, bisogna mettere obiettivi a corto, medio e lungo termine e accumulare piccole vittorie che dimostrano che una vittoria grande è possibile. È così che si ottengono cose che sembravano impossibili.

Lei ha un figlio di 4 anni. Come vive la conciliazione familiare, e come pensa di poterla migliorare in una città come Barcellona?

Non è facile, la società attuale non è fatta per conciliare, si immagini i periodi elettorali. Personalmente, cerco di trovare il tempo sotto le pietre e ho la fortuna di avere un compagno che mi aiuta. Come città, una cosa molto concreta si può fare dal primo giorno: creare un sigillo di qualità contrattuale che si applichi prima ai 12mila dipendenti del comune e poi a tutte le imprese con cui lavora. Come condizione per lavorare con il comune, ci devono essere salari degni con orari che permettano la conciliazione. Il comune deve essere esemplare e questo cambierebbe molte dinamiche nella città. Oltre al tema degli orari, c’è anche quello dell’incorporazione dei bambini nella vita pubblica, dove dovrebbero avere più protagonismo e più voce.

Nel migliore dei casi dovrete comunque scendere a patti. Con chi lo farete?

I risultati sono molto aperti e con i sondaggi bisogna essere cauti (in un altro sondaggio pubblicato ieri, si dà per vincitore l’attuale sindaco, ndr). Detto questo, se saremo la lista più votata la politica di patti si farà in base a programma, obiettivi, priorità. Scartiamo quindi i popolari e CiU, che incarnano un modello contro cui abbiamo combattuto. In ogni caso, io non posso decidere da sola la politica dei patti. Una volta visti i risultati, decideremo in modo democratico. Di certo, non scenderemo a patti sulle privatizzazioni perché sono contrarie al bene comune e al nostro modo di essere. Sono ottimista, troveremo il modo, anche se dovessimo includere più di un partito.

Il punto è che stiamo facendo bene il processo da prima delle elezioni, e dal 25 maggio speriamo si aggiunga ancora più gente e lo faccia suo. Abbiamo mobilitato moltissima gente per fissare le priorità della politica pubblica, anche gli altri partiti si vedranno obbligati ad ascoltare la voce dei cittadini.