Poletti

Caro Ministro ti scrivo

segnalato da Barbara G.

La lettera di Marta al ministro Poletti

di Marta Fana

tramite gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it, 20/12/2016

Oggi questo blog lascia volentieri la parola a Marta Fana, ricercatrice di economia emigrata in Francia, a sinistra nella foto sopra.

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Caro Ministro Poletti,

le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano.

Siamo quelli per cui il Novecento è anche un patrimonio cinematografico invidiabile, che non inseguiva necessariamente i botteghini della distribuzione di massa, e lì imparammo che le parole sono importanti, e lei non parla bene.

Non da oggi.

A mia memoria da quando il 29 novembre 2014 iniziò a dare i numeri sul mercato del lavoro, dimenticandosi tutti quei licenziamenti che i lavoratori italiani, giovani e non, portavano a casa la sera.

Continuò a parlare male quando in un dibattito in cui ci trovammo allo stesso tavolo dichiarò di essere “il ministro del lavoro per le imprese”, era il 18 aprile del 2016.

Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più, non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci.

Parlo dei voucher, Ministro.

E poi, sa, anche tra di noi che ce ne siamo andati, qualcuno meno fortunato esiste. Si chiamava Giulio Regeni, e lui era uno dei migliori. L’hanno ammazzato in Egitto perché studiava la repressione contro i sindacalisti e il movimento operaio. L’ha ammazzato quel regime con cui il governo di cui lei fa parte stringe accordi commerciali, lo stesso governo che sulla morte di Giulio Regeni non ha mai battuto i pugni sul tavolo, perché Giulio in fin dei conti cos’era di fronte ai contratti miliardari?

Intanto, proprio ieri l’Inps ha reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando lei è ministro, ne sono stati venduti 265.255.222: duecentosessantacinquemilioniduecentocinquantacinquemiladuecentoventidue. Non erano pistole, è sfruttamento.

Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa.

È un ragazzo di ventuno anni, non ha diritto alla malattia, a niente, perché faceva il saldatore a voucher. Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi.

Quelli che sono rimasti sono coloro che per colpa delle politiche del suo governo e di quelli precedenti si sono trovati in pochi anni da generazione 1000 euro al mese a generazione a 5000 euro l’anno.

Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo.

Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame.

Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”.

Sono gli stessi che non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano, perché il suo governo come altri che lo hanno preceduto, invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa.

È lo stesso governo che spende lo zero percento del Pil per il diritto all’abitare.

È lo stesso governo che si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità.

Ma badi bene, non sono una “redditista”, solo che a fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà.

Ma vorrei essere chiara, il diritto al reddito non è sostituibile al diritto alla casa, sono diritti imprescindibili entrambi.

E le vorrei sottolineare che non è colpa dei nostri genitori se stiamo messi così, è colpa vostra che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci. I colpevoli siete voi che pensate si possano spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio- tanto ci sono i voucher- e poi un anno dopo approvate anche la riduzione delle tasse sui profitti. Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci perché, mal che vada, avremo un tirocinio con Garanzia Giovani.

I colpevoli siete voi che non credete nell’istruzione e nella cultura, che avete tagliato i fondi a scuola e università, che avete approvato la buona scuola e ora imponete agli studenti di andare a lavorare da McDonald e Zara.

Sa, molti di quei centomila che sono emigrati lavorano da McDonald o Zara, anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati.

Ma il problema non è neppure questo, o quanto meno non il principale.

Il problema, ministro Poletti, è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare gratis.

A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti. E lo fa nel preciso istante in cui lei dichiara che dovreste “offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.

La cosa assurda è che non è chiaro cosa significhi per lei capacità, competenze e saper fare.

Perché io vedo milioni di giovani che ogni mattina si svegliano, si mettono sul un bus, un tram, una macchina e provano ad esprimere capacità, competenze, saper fare. Molti altri fanno la stessa cosa ma esprimono una gran voglia di fare pure se sono imbranati. Fin qui però io non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri.

Non è chiaro, Ministro Poletti, cosa sia per lei un’opportunità se non questa cosa qui che rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza. Eppure la cosa che mi indigna di più è il pensiero che l’opportunità va data solo a chi ha le competenze e il saper fare.

Lei, ma direi il governo di cui fa parte tutto, non fate altro che innescare e sostenere diseguaglianze su tutti i fronti: dalla scuola al lavoro, dalla casa alla cultura, e sì perché questo succede quando si mette davanti il merito che è un concetto classista e si denigra la giustizia sociale.

Perché forse non glielo hanno mai spiegato o non ha letto abbastanza i rapporti sulla condizione sociale del paese, ma in Italia studia chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara. E sono sempre di più, Ministro Poletti.

Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto.

Molti di questi genitori poi con la crisi sono stati licenziati e finita la disoccupazione potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno.

Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi e abbiamo votato No contro un sistema istituzionale che avrebbe normalizzato la supremazia del mercato e degli interessi dei pochi a discapito di noi molti.

Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la buona scuola, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione.

E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa.
Costi quel che scosti noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro.

E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia.

Se nel frattempo vuole sapere quali sono le nostre proposte per il mondo del lavoro, ci chiami pure. Se vi interessasse, chissà mai, ascoltare.

Fact checking sui fuoricorso

segnalato da Barbara G.

Il ministro Poletti e il fact checking sui ventottenni fuoricorso

di Mariangela Galatea Vaglio

nonvolevofarelaprof.blogautore.espresso.repubblica.it, 28/11/2015

Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21. Così un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare. Abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo.

Da due giorni, il dibattito serratissimo su questa dichiarazione del Ministro Poletti ferve, in rete e fuori: chi gli dà ragione, dicendo che i nostri laureati sono troppo vecchi ed un po’ bamboccioni, chi difende invece il valore di una laurea presa magari con qualche anno di ritardo ma con una votazione alta, sintomo che comunque il giovane ha una buona competenza da spendere sul mercato.

È una battaglia di opposti schieramenti ideologici, che andrebbe invece ridotta ad un primo e importante interrogativo: ma le affermazioni del Ministro Poletti su quali dati reali si fondano?

Analizziamo la prima frase: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21.”

La prima domanda dovrebbe essere: ma in Italia ci si laurea a 21 anni? In linea di massima no. I ragazzi attualmente escono dalle superiori a 19 anni. Certo, ci può essere qualcuno che è anticipatario, è entrato a scuola a cinque anni e non ha mai perso un solo anno di corso di studi, ed esce quindi a 18, ma sono casi abbastanza rari. Quindi uno studente si iscrive all’università a 19 anni, alle volte anche a 19 e mezzo. Ne consegue che, per prendere una laurea di primo grado, cioè il diploma universitario triennale, anche se fa tutti gli esami in tempi record e, come dice Poletti, bruciando le tappe, è assai difficile che a 21 anni sia “laureato”. Ben che vada, consegue il primo titolo di studio universitario a 22/23 anni.

La laurea triennale, però, ancora oggi non dà grandissimi sbocchi professionali, ed il mondo del lavoro preferisce la laurea di secondo livello o specialistica, che richiede due ulteriori anni di studio ed è equiparabile alla laurea del vecchio ordinamento. 3+2 a casa mia, ma presumo anche in quella del Ministro Poletti perché la matematica vale ovunque, vuol dire che il ragazzo consegue la laurea specialistica, anche se va come un treno, a 25 anni.

A 25 anni, ammesso che decida di mettersi in concorrenza con i laureati di altri paesi, è vecchio? No.

Come dimostra questa tabella:

(fonte)

I laureati italiani sono in linea per età ai laureati delle altre nazioni. In media la laurea specialistica (o l’equipollente delle altre nazioni) si consegue a 25 anni. Vale a dire che, se un ragazzo si laurea con la giusta tempistica in Italia comunque non raggiunge, nemmeno scapicollandosi, un titolo di studio equiparabile a quello degli altri paesi europei, ma, quando lo ha conseguito, non è affatto “più vecchio” dei suoi coetanei di altri paesi. A questo punto, non è chiaro di quale ritardo “di sei anni” stia parlando il Ministro Poletti, e con che laureati abbia parlato.

Visto che poi i laureati italiani concorrono ancora, in larga parte, per posti di lavoro sul mercato italiano, che ben raramente sono aperti a laureati stranieri, risulta ancora meno chiaro: prima dei 25 anni in Italia nessuno, nemmeno scapicollandosi a fare esami, può aver conseguito una laurea specialistica.

Il problema è forse che ci sono troppi ragazzi che si laureano ben dopo i 25 anni, cioè fuoricorso? A parte che se il Ministro intendeva questo, lo ha detto parecchio male, anche qua i dati non soccorrono la visione del Ministro.

Se infatti si consultano i dati di Alma Laurea, che ogni anno fotografa la situazione dell’Università italiana, si scopre che il numero dei fuoricorso negli ultimi anni si è drasticamente ridotto:

Grazie alla Riforma sono comparsi, perla prima volta, laureati in età inferiore ai 23 anni, che oggi rappresentano ben il 18%del complesso dei laureati. L’età media alla laurea è oggi pari a 25,5 anni per i laureati di primo livello, 26,8 anniper i magistrali a ciclo unico e a 27,8 per i magistrali biennali (era di 27,8 anni nel 2004,tra i laureati pre-riforma, quando però la maggior parte dei corsi aveva durata legale di 4 anni). Tale miglioramento è dovuto principalmente all’aumento della regolarità neglistudi: i laureati che riuscivano a concludere gli studi universitari rispettando i tempi previsti dagli ordinamenti erano il 15% nel 2004 e sono quasi triplicati nel 2013 (43%).Su cento laureati, terminano l’università in corso 41 laureati triennali, 34 laureati aciclo unico e 52 magistrali. Solo 13 laureati su 100 terminano gli studi fuori corso 4anni o più (mai si era osservato un valore così basso).

[fonte:https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/comunicati/2014/sintesi-2013.pdf p.8]

Quindi il caso citato dal Ministro a mo’ di esempio, cioè di un laureato 28enne abbondantemente fuoricorso, e che lui presenta come una sorta di “regola” per l’Italia, è in realtà ormai un fatto assai raro. La maggioranza degli studenti universitari consegue il titolo entro i 25 anni, è in regola con gli esami e con i tempi previsti, e si laurea in un’età perfettamente in linea con quella in cui gli altri studenti europei si laureano.

Certo, qualcuno che resta a pascolare a lungo nei corridoi delle Università ci sarà pure, ma ormai rappresenta una minoranza. Poletti dice che lo fanno perché si ostinano a rifiutare voti bassi e quindi ripetono più e più volte gli esami per tenere una buona media.

Può essere, per carità, ma questa deduzione deve essere frutto di indagini fatte personalmente dal Ministro fra i suoi conoscenti, perché non si trova traccia nei dati statistici a disposizione del pubblico di questo fatto. Gli ormai pochi fuoricorso italiani non si laureano in tempo, ma il perché del loro ritardo non è individuabile con certezza.

Ci sarà sicuramente una percentuale, ma a questo punto la minoranza di una minoranza, che forse vuole avere solo votazioni alte per cui ripete più volte gli esami, certo. Più probabile è però, ma qui vado anche io a naso,  che i ritardi siano imputabili ad un insieme di fattori diversi.

Alcuni, per esempio, saranno studenti lavoratori, per cui il ritmo con cui danno esami sarà stato rallentato forzatamente dal fatto che possono studiare solo nel tempo libero dagli impegni lavorativi. Il compito di un Ministro, specie se di sinistra, dovrebbe essere quello di trovare risorse per istituire borse di studio o incentivare i permessi lavorativi pagati, per consentire anche a loro di laurearsi in tempo e senza troppe angosce.

Altro grossa fetta di questa minoranza che resta fuoricorso sarà costituita da studenti che si sono iscritti a facoltà in cui non riescono a ingranare, vuoi perché sotto sotto poco interessati o perché non in possesso di una buona istruzione alle spalle, che consenta loro di dare gli esami universitari velocemente perché non hanno lacune pregresse da colmare. Anche qua un Ministro, specie se di sinistra, dovrebbe ragionare sulle politiche di orientamento nelle scelte del percorso universitario, che nel nostro paese sono molto carenti. Bisognerebbe investire in seri programmi che consentano al ragazzo, prima di iscriversi, di poter capire se una certa facoltà fa o non fa per lui, invece ci mandarlo alla sbaraglio basandosi quasi sempre solo sui desideri della famiglia e sui consigli degli amici, e anche incentivare programmi di tutoraggio all’interno dell’Università, in cui spesso gli studenti si trovano abbandonati e in balia di se stessi, e si perdono per strada perché non sanno come affrontare le difficoltà.

Infine sì, ci saranno pure quelli, pochi e probabilmente ricchi di famiglia, che possono permettersi di vegetare per anni nei corridoi di facoltà, ripentendo per svariati appelli lo stesso esame perché vogliono passarlo con un trenta. Ma, di questi tempi, credo siano davvero una ristrettissima minoranza che vive fuori dal mondo. E che probabilmente ha alle spalle famiglie molto benestanti, disposti a mantenerli a lungo senza fare una piega. Anche perché di solito, quelli così, non hanno l’angoscia di entrare poi nel mercato del lavoro. Quando si laureano, anche se a più di trent’anni, ad assumerli subito con gridolini di giubilo ci pensa papà o lo zio.

La corsa del Jobs Act

POLETTI: “BISOGNA CORRERE. MA PERCHÉ IL JOBS ACT FUNZIONI SERVE UN CAMBIO DI CULTURA”

Il ministro del Lavoro: “Chi criticava le norme sull’art. 18 ha capito che nella riforma ci sono molti aspetti positivi”.

da La Stampa (10/10/2014) – di Paolo Baroni

«Il risultato della fiducia al Senato? Buono. La discussione ha consentito a chi aveva elementi di dissenso, ad esempio sull’articolo 18, di valutare che magari per un cosa che non gli stava bene ce ne erano altre sei che apprezzava», sostiene il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. Che dopo aver incassato il primo sì del Parlamento respinge l’accusa di aver chiesto la fiducia su una delega in bianco e fissa le prossime scadenze. «Il nostro obiettivo è approvare la legge entro novembre, poi a inizio 2015 vareremo i decreti delegati. Abbiamo già preparato molti materiali, ma servirà qualche settimana in più perché il lavoro è molto complesso e bisogna fare le cose per bene».

Praticamente i decreti attuativi, almeno per le parti fondamentali (riforma degli ammortizzatori, disboscamento dei contratti e nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti) «saranno presentati contestualmente, perché i vari pezzi della riforma si tengono tutti assieme. Uno spiega l’altro». «Bisogna correre – aggiunge il ministro – ma non per smania mia o del governo a fare in fretta. È la condizione del nostro Paese che ci impone di fare al meglio, il più velocemente possibile». Quindi Poletti indica gli obiettivi fondamentali della sua riforma: semplificazione, chiarezza delle norme, «perché altrimenti le imprese non investono», e riduzione della precarietà, introducendo il contratto a tempo indeterminato a tutele crescente e disboscando il resto. «Tutta la discussione si è focalizzata sulla questione dell’articolo 18 – spiega Poletti – ma a me preme molto far capire che l’operazione che stiamo facendo partire è rilevantissima e che per avere successo richiede che cambi la cultura del Paese. Faccio solo un esempio, quello degli ammortizzatori: passeremo da un sistema politiche passive del lavoro, in cui lo Stato paga le persone per restare a casa senza alcun obbligo, a un sistema di politiche attive, dove lo Stato e le sue strutture ti prendono in carico per offrirti nuove opportunità di impiego, ma tu in cambio devi fare la tua parte».

Molti dicono che i fondi non basteranno e comunque questa riforma richiederà anni.

«Ma se si segue questo ragionamento si finisce per non fare mai nulla. Io invece sono dell’idea che bisogna partire, bisogna riorganizzare ed utilizzare bene le risorse che in questo modo si liberano».

Il fondo da un miliardo e mezzo che sarà inserito nella prossima legge di stabilità potrebbe essere aumentato?

«Al momento lo stanziamento è questo, però teniamo conto che proprio in questo momento stiamo chiudendo un rifinanziamento della cassa in deroga per altri 700 milioni di euro. Si tratta di uno sforzo non banale per finanziare il nostro sistema di ammortizzatori».

Per la Cgil si riducono i diritti e si rischiano nuovi soprusi.

«Non è vero. Siamo convinti che complessivamente se guardiamo alla possibilità di ridurre le tipologie contrattuali e all’estensione delle protezioni la precarietà dovrebbe ridursi».

Il destino dei contratti co.co.pro. dunque è segnato.

«Puntiamo a togliere dal campo i contratti più permeabili agli abusi, quelli più precarizzanti e quelli che hanno meno tutele. Puntiamo molto sul nuovo contratto a tutele crescenti che presenterà vantaggi sia dal punto di vista economico che normativo e potrà sostituire in meglio quelli cancellati».

Perché non avete messo più dettagli sull’art. 18 nella delega come tutti si aspettavano?

«Visto tutta la discussione che c’è stata mi sembra che i riferimenti all’articolo 18 nel testo della delega ci fossero tutti. Tant’è che sono stati presentati pure emendamenti sul contratto a tutele crescenti per reintrodurre dopo due-tre anni la tutela piena dell’articolo 18. E nel testo della delega ci sono una pluralità di riferimenti che ci consentiranno di intervenire».

Allora riepiloghiamo, reintegro eliminato per i licenziamenti economici (sostituito da un indennizzo economico), confermato per quelli discriminatori, mentre per quelli disciplinari resterà per i casi «particolarmente gravi». Esempi?

«Non faccio anticipazioni, perché anche solo fare un esempio scatenerebbe subito il dibattito su quale fattispecie è più grave dell’altra. Ci sono licenziamenti per fatti disciplinari che hanno una loro forte rilevanza e che pertanto vanno tenuti in considerazione. I dettagli li fisseremo comunque nel decreto attuativo».

QUI l’abc della riforma del lavoro.