politica

Quando le donne sono al potere possono fare la differenza

segnalato da Barbara G.

internazionale.it, 22/11/2017

“La prima volta che ho annunciato che mi sarei candidata per il parlamento si sono messi a ridere. Poi ci ho riprovato e alla fine ce l’ho fatta”, dice Peris Tobiko, la prima donna masai diventata parlamentare in Kenya.

Quando le donne sono al potere, a livello locale o nazionale, possono fare la differenza, soprattutto su temi come la parità e la violenza di genere. Ma la loro presenza in politica è ancora insufficiente.

Secondo i dati raccolti dall’Unione interparlamentare (Ipu) in 193 parlamenti di tutto il mondo, le donne siedono solo sul 23 per cento dei seggi. Appena un ministro su cinque è donna. Nel 2017 il numero delle donne capo di stato o di governo nel mondo è sceso da 17 a 15.

Il paese con maggiore presenza femminile in parlamento è il Ruanda, dove il 61 per cento dei seggi è occupato da donne. A seguire la Bolivia con il 53 per cento di parlamentari donne e Cuba con il 49 per cento.

I leader del mondo si sono impegnati a raggiungere l’equilibrio di genere nella rappresentanza politica entro il 2030, ma si teme che i progressi fatti in questa direzione siano troppo lenti per raggiungere l’obiettivo.

Il video della Thomson Reuters Foundation.

Questo progetto è stato cofinanziato dall’European journalism centre, tramite il programma Innovation in development reporting grant.

Destra in piazza, sinistra a casa

segnalato da Barbara G.

di Norma Rangeri – ilmanifesto.it, 08/02/2018

Ad essere sinceri, la campagna elettorale non è entusiasmante né coinvolgente. Semmai, il contrario. Tuttavia qualcosa viene a galla in questi giorni, e risalta più che nel recente passato: è quella parte di Italia razzista, fascista e abusivista. Che viene sostenuta, esaltata, alimentata dal peggiore centrodestra degli ultimi anni. I suoi leader cercano di strappare voti, ma non agli avversari quanto agli alleati di coalizione, per guidare le danze dopo il 4 marzo.

L’appello all’abusivismo del pregiudicato (perché condannato fino in Cassazione per frode fiscale), Silvio Berlusconi, dà il tocco da maestro allo schieramento di un centrodestra che combatte la sua battaglia elettorale purtroppo dettando l’agenda. Questi campioni di un Italia nefasta, violenta, corrotta sono i portabandiera dei peggiori umori e «sentimenti» del belpaese.

I fascisti, o fascistelli, hanno ben rialzato la testa. Da qualche tempo a Ostia e in altri territori dove criminalità, violenza e degrado sociale sono dominanti. Ma i fatti di Macerata dimostrano che anche in situazioni meno marginalizzate, gli xenofobi di Salvini hanno tolto i freni e grufolano dentro la caccia all’immigrato.

Questa destra è la stessa che nei social, nella pancia della società incivile, ispira la persecuzione di una donna di sinistra – Laura Boldrini – diventata il bersaglio di uno stupro mediatico ormai quotidiano. La violenza è totalmente sdoganata sul piano del linguaggio, oltreché, purtroppo su quello della cronaca.

In questa deriva fascistotide è netta l’impressione che manchi una risposta di forte contrasto. Perché se di Macerata il leader a 5 Stelle preferisce «non strumentalizzare», sugli immigrati il governo – e quindi il Pd – non è stato capace di una risposta alta, non difensiva. Certo è che se Renzi dice «aiutiamoli a casa loro » e con il ministro Minniti che mette in pratica la linea del Nazareno, il leader del Pd non sa come distinguersi da Di Maio, Salvini e Berlusconi. E non lo fa nemmeno sulle vicende di Macerata, dove il «fronte democratico» si sfila dalla manifestazione in programma e, a cominciare dal sindaco piddino, obbedisce a Renzi che invita a starsene a casa. (Del resto nulla di nuovo. Ricordiamo quel che accadde con Veltroni ancora sindaco nel 207 prima della campagna elettorale che approderà nel 2008 con l’elezione della destra di Alemanno. Una donna fu uccisa da un rumeno e il governò varò un decreto ad hoc, incostituzionale, contro gli immigrati rumeni).

In questa situazione i 5Stelle stanno alla finestra, convinti di essere i vincitori morali della campagna elettorale se si confermeranno il primo partito. E se riusciranno a prendere una parte dei voti in libera uscita che, stando ai sondaggi, potrebbero essere proprio quelli del Pd. Sono diventati europeisti (una giravolta sorprendente), sull’immigrazione dicono le stesse cose di Minniti, e martellano sul reddito garantito.

Come risulta evidente, lo spazio per una campagna elettorale di sinistra, capace di battere un colpo e farsi sentire su temi che non siano la sicurezza, è ridotto. Se non era per i braccialetti di Amazon, il tema del lavoro non avrebbe bucato lo schermo negli ultimi giorni. Noi non siano la Germania, ma non sempre questo significa che sappiamo fare meglio. Il contratto dei metalmeccanici potrebbe essere un ottimo spunto per parlare di salario e orario di lavoro, della condizione sociale drammatica della disoccupazione, delle nuove povertà che hanno la brutta faccia della diseguaglianza.

Ma intanto l’Italia canta. Mancano nemmeno quattro settimane al voto e va in onda Sanremo che raccoglie il 52% dell’audience. In buona parte merito del ciclonico Fiorello che ha messo in scena il giochino del voto. Per chi votate?, ha chiesto alla platea il recordman di ascolti. Poi ha nominato il Pd, il centrodestra, i 5Stelle e «liberi e belli», ha detto scherzando con il pubblico. Una battuta per dire che nella cabina elettorale c’è un po’ di tutto. Grasso, il cui faccione di bell’uomo tranquillo spicca sui manifesti per strada, questa volta ha azzeccato la risposta: «Grazie Fiorello, vuol dire che oltre che liberi e uguali siamo anche belli». E speriamo che, prima e dopo il 4 marzo, siano anche forti.

L’odio in politica

L’odio in politica e i luoghi comuni

di Sarantis Thanopulos – ilmanifesto.info, 29 luglio 2017

Nella crisi generale della cultura avanza un pensiero ad effetto che scambia le impressioni di superficie con il senso profondo dell’esperienza e lavora nel senso della conservazione dell’esistente. Così un giorno si viene a sapere che il problema del Pd, in difficoltà secondo i sondaggi, è l’odio che la sinistra nutre nei confronti di Matteo Renzi. Questa idea, che non è un pensiero politico, né una tesi “scientifica”, anima le discussioni tra amici. Poiché lascia il tempo che trova, ha fatto venire la tentazione di una sua presentazione più «dotta».

Si scopre allora che nel Dna della sinistra alberga un odio nei confronti dei militanti eterogenei ai suoi dogmi. Questo odio scatterebbe secondo il meccanismo della salivazione condizionata del cane di Pavlov. L’analisi, pubblicata su un importante quotidiano nazionale, non è adeguata: i concetti sui quali è fondata potrebbero con ugual successo spiegare l’odio delle nuore per le suocere.Tuttavia, l’argomento merita la nostra attenzione perché il tema dell’odio in politica è molto importante per lasciarlo alle improvvisazioni linguistiche.
È avventato usare a cuor leggero la parola «odio», carica di tensione e passibile di grande fraintendimento, per assegnare un difetto «congenito» a qualcuno. Il suo uso come argomento politico stimola un’emotività impulsiva che danneggia lo spazio del nostro comune sentire, pensare e vivere.

Con il termine «odio» designiamo due cose tra loro molto diverse. La prima è un sentimento che fa parte della passione d’amore ed e un esporsi non distruttivo al riconoscimento doloroso di ciò che sfugge al nostro possesso a causa della sua differenza e libertà. Fa parte dell’elaborazione del lutto e tiene in caldo la possibilità di amare in attesa di tempi migliori. La seconda è un sentimento dissociato dalla passione, frutto di un narcisismo negativo, oppositivo, che si chiude alla vita piuttosto che schiudersi ad essa: un rifiuto dell’altro come oggetto d’amore che rende il lutto impossibile e il desiderio sterile.
Questo narcisismo tratta l’oggetto del desiderio in termini di bisogno: lo usa come strumento di semplice scarica delle tensioni o se ne sbarazza se individua in esso la loro origine. Esiste, infine, un agire senza emozioni, estremamente autodistruttivo e distruttivo che è un odio impersonale nei confronti della vita in se stessa. Esprime un’inerzia psichica che distrugge come uno tsunami ciò che trova nel suo passaggio.

L’odio in politica esiste, non ha di per sé nulla di riprovevole. Ha un’importante funzione nella costituzione del senso di responsabilità nei confronti del nemico, senza il quale la lotta politica degenererebbe in uno scontro all’arma bianca. È l’odio a informare i cittadini che è l’ostacolo, l’irriducibile differenza di altri modi di pensare e di essere che rende la convivenza nella Polis interessante, libera e significativa.
La libertà dell’amico di costituirsi come nemico delle nostre intenzioni e l’altrettanto importante possibilità del nemico di diventare oggetto del nostro desiderio è minacciata dal trasformismo (opportunismo) e dal ridursi della lotta politica a una relazione stabilizzata e asfissiante tra oppressori e oppressi. Gli oppressori odiano (e facilmente uccidono) chi mette in seria discussione il loro potere, chiudendosi nel loro imbarbarimento, e gli oppressi possono rimanere incastrati nel loro odio legittimo e perdere le ragioni della passione che in loro resta viva.
Definire Renzi come oggetto di un odio chiuso in se stesso, per evitare di parlare della mancanza di idee che ci affligge, è avvilente.

Tra realismo e realpolitik c’è ancora un abisso

segnalato da Barbara G.

Mi sono imbattuta per caso in questo scritto di Langer, nel quale spiegava le motivazioni che lo avevano portato, nel ’94, a rifiutare la candidatura alle politiche nella lista dei Verdi.

Premesso che il titolo mi ha fatto sorridere, perché mi è venuto in mente un frequentatore abituale di questo blog, mi ha colpito un fatto: buona parte dei mali della politica di oggi non sono poi così nuovi, semplicemente abbiamo la memoria corta. Soprattutto i nostri politici, che cascano dal pero, non fanno analisi… e citano le menti pensanti dei decenni passati solo per darsi una mano di vernice rossa, o verde (intesa come ecologista, non leghista) a seconda della bisogna, senza averne compreso il senso o facendo finta di essersene dimenticati. Il “nuovo che avanza” è definitivamente andato a male, e noi cambiamo la data di scadenza sull’etichetta.

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di Alexander Langer – Azione nonviolenta, marzo 1994

Il nuovo sistema elettorale che non avevo voluto, ma contro il quale non mi sembrava neanche ci si dovesse schierare in un’accanita ed equivoca difesa dello “status quo ante”, ragion per cui non ho né firmato i referendum elettorali né partecipato al voto non permette più di cercare nella rappresentanza politica la proiezione dei propri ideali. Esige, invece, che si punti al governo e che si impari ad allearsi tra diversi ed ancor compatibili “mali minori”. Forse alla lunga, e con le necessarie correzioni, questa medicina potrà persino far bene: costringerà tutti a secolarizzare senza riserve la rappresentanza politica e l’arte di governo. Ed obbligherà coloro che ricercano l’affermazione di scopi diversi e magari più alti a cimentarsi con altri strumenti.

Per intanto però noto che la politica italiana attuale passa attraverso le forche caudine della demagogia, del populismo, di un ulteriore insano scatenamento di ambizioni soggettive, di un’inedita e tuttora crescente supremazia dell’immagine sulla sostanza, di una parossistica selezione dei “personaggi” piuttosto che di opzioni politiche, sociali, culturali. Inoltre il sistema elettorale obbliga e obbligherà sempre più in futuro, se ne venisse mantenuta e perfezionata la sua caratteristica maggioritaria ad una compattazione semplicistica di blocchi alternativi, ma convergenti al centro. Per chi aveva faticato per affermare che non esiste solo il lineare sì e no, destra e sinistra, bianco e nero, buono e cattivo, e per criticare la trappola del “progresso”, è un risultato abbastanza desolante. Non capisco invece perché certi fautori della polarizzazione ora si lamentino se emergono egemonismi o se lo spazio per terze e quarte e quinte posizioni tende a scomparire. Chi ha voluto una politica dei due campi che si avversano e magari si alternano, non può lamentarsene.

Non credo nella retorica del “nuovo che avanza” e vedo con orrore la sua banalizzazione spettacolare e televisiva, non importa se politica, giudiziaria o giornalistica. Naturalmente spero che non vinca la più estrema riduzione della politica a imballaggio (per merci ed affari) che vedo rappresentata dal Cavaliere dell’immagine che vorrebbe riuscire a trasformarla interamente in azienda, pubblicità e marketing. Sostituendo l’impegno delle persone, le loro sofferenze e passioni, i loro bisogni ed i loro limiti, le loro capacità di agire e di giudicare, con il trionfo di un mondo tutto artificiale, della cosiddetta “realtà virtuale” Ma finché non avremo altri giornalisti e altri magistrati, non potremo neanche avere governanti e legislatori davvero nuovi salvo forse a livello ristretto e locale, dove la mediazione dei grandi bugiardi della demagogia può essere, forse, elusa. Nella politica italiana sento oggi una grande mancanza. Non quella di un premier eletto dal popolo (immaginate una nuova orgia di delega e personalizzazione!) o di un sistema elettorale interamente anglosassone (ma quale buona politica ha poi prodotto in Gran Bretagna o negli Usa?), e neanche quella di una nuova Idea Salvifica che restituisca nobiltà di motivazione a chi ne sentisse la carenza. Ci manca, invece, quel bambino della favola di Andersen che ad un certo punto osa dire ad alta voce che l’imperatore è nudo.

Che chiami, cioè, col loro nome tutto ciò che di ben altre apparenza si ammanta. Dal carrierismo alla ricerca di un semplice posto al sole, dall’egoismo sociale o etnico al rilancio, appena camuffato, di una nuova ondata di aggressione ai poveri ed alla natura.

Lo spazio per far valere obiettivi profondi di pace, di giustizia, di reintegrazione della biosfera, e per promuovere quella conversione ecologica che nell’ultimo decennio avevamo proclamato come urgente obiettivo di civiltà e di sopravvivenza, sul palcoscenico della politica italiana sembra attualmente assai ridotto. Mentre tiene banco il dibattito su Bossi e Segni, Martinazzoli e Orlando, Occhetto e Del Turco, Fini e Berlusconi, La Malfa e Pannella, non mi pare che la gente possa individuare onestamente e chiaramente opzioni in quella direzione e farle davvero pesare.
Forse il ruolo dei Verdi e di consimili portatori di proposte scomode e complesse, ma miranti alle radici e non sintetizzabili in slogan pubblicitari, dovrà, in futuro, adeguarsi al nuovo strumentario della politica e magari tornare a svolgersi essenzialmente al di fuori dei parlamenti. Le campagne elettorali, invece, assomiglieranno sempre più alla moltiplicazione infinita dei faccia-a-faccia televisivi tra duellanti che dovranno al tempo stesso assomigliarsi al massimo nella sostanza (per prendere i voti degli incerti) e distinguersi al massimo nell’apparenza (per prendere i voti dei decisi).

Chi mi conosce, sa che ho sempre cercato di perseguire politiche realistiche, pur con tutto il carico di radicalità e di speranza di altro e di meglio che mi sentivo affidato. Ma tra politica realistica e “Realpolitick” c’è ancora un abisso.

Legambiente – Corso di formazione alla buona politica

segnalato da Barbara G.

12 lezioni di approfondimento e confronto, seguendo le tracce di Alex Langer

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lombardia.legambiente.it

Il Circolo Reteambiente di Milano e il Circolo Legambiente Cinisello Balsamo, grazie al contributo di Fondazione Cariplo, propone un Corso di formazione dedicato alla politica associativa, partendo dal libro dedicato ad Alex Langer “Una buona politica per riparare il mondo” per fare una proposta di formazione ai giovani. Desideriamo proporre un percorso che, facendo leva sui temi cari alla politica di Langer, affronti le sfide presenti dell’ambientalismo per un “futuro desiderabile”. Alle 12 dodici lezioni e ai due laboratori di formazione alla politica parteciperanno gli autori del libro e con loro affronteremo i temi con un processo di interazione e partecipazione attiva.

Il corso si divide in 3 lezioni di base che saranno realizzate tra maggio e giugno e in due momenti di approfondimento di 2 lezioni ciascuno, che saranno svolti in autunno.

Le iscrizioni sono aperte, di seguito trovate il programma e il modulo d’iscrizione da rimandare compilato a: clarissa.amico94@gmail.com entro il 13 aprile 2017.

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Il problema non è il brutto parlare: è il brutto fare

di Giulio Cavalli – left.it, 19/12/2016

“Io credo che la politica stia vivendo uno dei momenti più bassi anche dal punto di vista del linguaggio oltre che dei comportamenti, e che questo non aiuti il Paese. Ormai la rissa è d’obbligo”: parole, opere e omissioni (tante omissioni) di Roberto Giachetti nella sua fase da “intellettuale responsabile” quando (era il 18 gennaio) si giocava il personaggio del “professorino” per brillare contro l’inesperienza del M5S in vista delle lezioni amministrative a Roma.

Curioso personaggio Giachetti: in tutte e competizioni politiche a cui ha partecipato s’è sempre detto di essere sicuro di vincere (Roma, referendum) e poi è stato il primo a volerci spiegare i motivi della sconfitta. Renziano doc ieri ha capito perfettamente quale dovesse essere la strategia: il capo in fase zen e gli sgherri in libera uscita per bastonare e lui, sgherro per professione e devozione, ha lasciato il segno con la sua frase rivolta a Roberto Speranza “hai la faccia come il culo”. Che, per carità, chi frequenta (o frequentava) le sezioni di partito sa bene che i modi della politica e dello scontro trascendano spesso ma agitare l’offesa volgare in assemblea nazionale (con l’attenzione della stampa tutta) è un vomitevole trumpismo di borgata: condannare il populismo degli altri ma tenerne sempre un po’ in tasca, alzare i toni fingendo che scappino e usare cucco cacca pupù per meritarsi un mezzo titolo e l’applauso.

Gli applausi, a proposito: alla frase di Giachetti si segnalano un Renzi fintamente contrito, Gentiloni imbarazzato e la Serracchiani che ride divertita. I bravi manzoniani sono diventati classe dirigente e non riescono a togliersi l’arroganza da predatori nemmeno per qualche minuto di seguito.

Ma l’assemblea del PD ha detto altro, al di là del colore: ha detto finalmente una volta per tutte che Renzi è molto interessato all’iniziativa di Pisapia (piantando finalmente la sua bandierina nel “campo progressista” degli ex arancioni e così, speriamo, togliendo anche qualsiasi dubbio di “qualcosa di diverso a sinistra”), ha detto che il Mattarellum va benissimo come legge elettorale (evidentemente è per questo che da anni cercano di cambiarla), ci hanno detto che Andreotti è stato assolto (olè), Delrio ha citato Pasolini con una frase che Pasolini non ha mai pronunciato, il segretario ha ammesso di avere sbagliato e per questo non si dimette da segretario e, nell’analisi della sconfitta, ancora una volta hanno chiarito che hanno perso anche se comunque avevano ragione.

Ha ragione Michele Emiliano che ieri sera scriveva, a direzione ormai conclusa: «In una giornata così triste che ho seguito per fortuna solo in tv, succede anche che l’intero gruppo dirigente, in diretta streaming, non trova altro di buono da fare che ridere della frase carica di odio e di disprezzo pronunziata da Giachetti all’indirizzo di Roberto Speranza. Oggi è sembrato a tutti che avesse ragione Churchill quando diceva che gli italiani perdono le guerre come partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre». 

E la citazione di Emiliano, quella sì, è corretta. Mica fatta a culo.

Disposti a tutto per il consenso

segnalato da Barbara G.

Referendum, la senatrice a vita Elena Cattaneo: “Ho visto politici disposti a tutto per il consenso”

huffingtonpost.it, 09/10/2016

CATTANEO

Sul referendum: “Sento urlare slogan che umiliano la discussione e i cittadini, a cui si chiede devozione verso un sì o verso un no”. In particolare: “Si dice che questa riforma riduca i costi della politica, che disegni un Senato simile a quello tedesco o francese. Ma è falso. E non accetto la menzogna nel 2016. Non posso accettare che i cittadini siano ingannati in questo modo”.

Il sentimento che cita più spesso in questa conversazione con l’Huffington Post Elena Cattaneo – professoressa di farmacologia, biologa, ricercatrice, senatrice a vita dal 2013 e ora autrice di un libro che fa il bilancio della sua esperienza in parlamento “Ogni giorno. Tra politica e scienza” (Mondadori, 205 pagine, 19,50 euro) – è “tormento”. E la si vede – proiettata su uno schermo dalla telecamera del suo pc nel corso di una videochiamata Skype – raggomitolarsi nello sforzo di asciugare le parole dall’emozione, pulirle dall’istinto di pronunciarle senza meditarle a fondo: “Mi raccontano che è difficile spiegare la riforma costituzionale. Che è necessario comunicarla così, dicendo cose false. E non capisco come si possano riavvicinare le persone alle istituzioni in questo modo. È una politica fallimentare, questa, che non mi troverà mai dalla sua parte”.

Quando dice “persone” la professoressa Cattaneo non ha in mente gli esperti che frequenta in aula o nei convegni dei ricercatori, ma, probabilmente, quelli come suo padre: “Un operaio Fiat che mi ha sempre insegnato a essere intransigente con me stessa, coltivando il desiderio di superare i limiti. Mi piaceva moltissimo andare a trovarlo in fabbrica a Milano, in Corso Sempione. Quando era salito di qualche grado nella gerarchia interna, lo vedevo camminare con la sua tuta bianca. E pensavo a come l’aveva conquistata, frequentando le scuole medie a trent’anni, dopo la guerra. Ancora oggi mi racconta di quando i suoi compagni di classe lo videro arrivare per la prima volta e corsero in aula. Pensavano fosse il professore. Invece, li raggiunse e si mise a sedere insieme a loro”.

Che insegnamento ha tratto?
Il gusto per i piccoli avanzamenti e la voglia di scoprire l’ignoto che c’è dietro la montagna. Anche la scienza si muove così: con una scoperta minuta dopo l’altra, andando verso qualcosa di oscuro, che non si conosce.

Ha imparato anche la passione politica in famiglia?
A casa c’era un grandissimo rispetto per la cosa pubblica, ma non una travolgente passione per i partiti. Alla politica mi sono avvicinata con il mio lavoro di scienziata. Raccontando le ricerche, rendendo conto dei soldi che ricevevo per farle e interrogandomi su quale sia il modo migliore per investire i finanziamenti pubblici.

Nel 2013 Giorgio Napolitano la chiama e le chiede di fare la senatrice a vita. Come è stato l’incontro tra scienza e politica?
Per quel che ho visto, l’incontro non c’è. Il più delle volte la politica vuole servirsi della scienza per realizzare i suoi fini. E, viceversa, alcuni scienziati vogliono usare la politica per trarne dei benefici. È deludente constatare che nel 2016 non ci sia ancora né una collaborazione reale né la volontà di mettere l’una a servizio dell’altra.

Sta crescendo anche la diffidenza verso la scienza?
Sento una sfiducia generalizzata verso le competenze. Tutte le competenze. E internet ha peggiorato le cose. Ci sono persone che sul web condividono esperienze e si rafforzano nelle loro convinzioni irreali. Basta qualche paginetta e ci si inventa esperti di conflitti mediorientali o di cellule staminali. Diventa difficile persino spiegare che i vaccini non causano l’autismo, che il fatto che i sintomi della malattia si manifestino alla stessa età in cui si iniettano i vaccini è solo una correlazione, non un rapporto di causa effetto. Credo però che questa diffidenza riguardi solo una minoranza di persone.

È una minoranza che però oggi ha trovato una rappresentanza politica: Donald Trump negli Stati Uniti e alcune posizioni anti-scientifiche – “l’Aids non esiste”, “si può convivere con il cancro” – di Beppe Grillo in Italia.
È un fenomeno pericolosissimo. Alimenta un’isteria di massa che fa sì che l’opinione di un ciarlatano valga quanto quella di un esperto. Pensi a Stamina: a un certo punto è arrivato un signore che diceva di poter curare tutti. E noi – io, Michele De Luca, Paolo Bianco – a spiegare con grande difficoltà che non era così. Con il parlamento che non riusciva a distinguere tra le opinioni di un impostore e le verità della scienza. Le fesserie e i fatti messi sullo stesso piano: un messaggio terribile.

Perché è successo?
La politica non riesce a fare argine perché cerca i voti, non la verità. E lo fa anche a costo di accarezzare certe pulsioni. Ho visto politici disposti a sostenere l’irrealtà pur di guadagnare un briciolo di consenso in più.

Un resoconto amaro, il suo.
Per natura sono super ottimista, ma non posso nascondere che la scienza fa fatica a entrare nel parlamento italiano. È bandita, ignorata, utilizzata solo strumentalmente. C’è una parte della politica che si sente minacciata dal suo metodo. E un’altra parte che capisce le sue ragioni, ma non è disposta a rinunciare al consenso che ha costruito intorno ad alcune posizioni, come quelle contro gli OGM. Sono pochi coloro con cui si può discutere veramente.

E la sua categoria?
Penso che anche gli scienziati a volte – come è successo con Human Technopole – vogliano usare la politica per scopi personali. È un errore gravissimo, a cui mi sono opposta. Perché la virtù più importante che la scienza può dare alla politica è l’indipendenza di giudizio.

Se la riforma costituzionale passerà, non potranno più essere nominati dei senatori a vita. È una perdita o un guadagno per l’Italia?
Fare il senatore a vita può essere un valore aggiunto per il paese se la nomina non è vissuta come una medaglia da appuntarsi al petto ma come la intendevano padri costituenti, cioè un modo per aggiungere competenze e sguardo largo al parlamento.

Ha altre perplessità?
Non ho apprezzato la discussione che c’è stata in aula né quella che stiamo facendo nella campagna referendaria. Mi stupisce che chi sostiene questa riforma porti avanti degli argomenti che si sgretolano alla prova dei fatti: la riduzione dei costi, la somiglianza del nuovo senato con quello francese o tedesco. Semplicemente, non sono veri.

Non c’è niente che la convinca?
Mi convincono la fine de bicameralismo perfetto e l’eliminazione della fiducia al senato. Ma il senato doveva essere uno strumento di controllo dei cittadini, non un luogo di rappresentanza dei cooptati dalla politica. Peraltro, non eletti direttamente dal popolo. E che si aggiunge a una camera composta da nominati dai partiti. Mi sembra un salto nel buio.

E nell’approvazione cosa non andava?
In privato alcuni senatori hanno espresso anche con me le loro riserve. Poi, però, sono stati costretti a votare sì per obbedire alla disciplina di partito. Mi turba il fatto che un politico possa non essere libero. E mi preoccupa, anche.

Cosa farà se vincerà il sì?
Sarò al servizio dei cittadini, qualsiasi cosa decidano.

Democrazia dell’onnipotenza

segnalato da Barbara G.

Verso una Costituzione di minoranza per una democrazia dell’onnipotenza *

di Luigi Ferrajoli – Professore emerito di Teoria generale del diritto, Università Roma Tre; componente del Comitato scientifico di Questione Giustizia

questionegiustizia.it, 02/05/2016

Dobbiamo decidere non tanto se vogliamo la Costituzione del ’48 a causa del suo prestigio e del suo valore simbolico, ma dobbiamo decidere tra democrazia parlamentare e sistema sostanzialmente autocratico, monocratico, che non è una questione di forma. 
Questo referendum sarà un referendum sulla democrazia, un referendum sul carattere tendenzialmente autocratico, oppure democratico e pluralista della democrazia costituzionale.

La Costituzione che è stata proposta e già votata più volte alle Camere, è un’altra Costituzione.

Per il metodo con cui è stata approvata è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del ’48, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione.

Le Costituzioni rigide sono nate nel secondo dopoguerra per unire, ma soprattutto sono nate come limiti e come vincoli ai poteri di maggioranza. Questa è la grande novità.

Le Costituzioni dopo le tragedie del fascismo, del nazismo, dei totalitarismi nascono come «mai più»: mai più l’onnipotenza di qualunque potere costituito, anche se di maggioranza; esse nascono come sistema di limiti, di vincoli, di regole ai poteri, a qualunque potere.

La Costituzione di Renzi si caratterizza, sin dal metodo, come una Costituzione non di maggioranza ma di minoranza.

Grazie a una legge dichiarata incostituzionale, il porcellum, un partito che aveva il 25% non degli elettori ma dei votanti, ha preso la maggioranza assoluta; e in questo 25% che equivarrà ad un 15% della popolazione, la maggioranza è costituita da meno della metà perché molti sono diventati “governativi” a seguito del cambiamento di equilibri interni al partito, quindi abbiamo un’infima minoranza a sostegno di questa riforma che è stata approvata – anzi, è stata imposta – attraverso operazioni veramente scandalose: la fiducia, il taglio di emendamenti, forme di Aventino fino all’ultima gravissima deformazione consistente nel carattere plebiscitario che si vorrebbe imporre al referendum comereferendum NON sulla Costituzione ma su Renzi.

Ma se c’è una questione che non ha niente a che fare con le funzioni di Governo è precisamente la Costituzione. Già questo, qualunque cosa dica la nuova Costituzione, è un fattore di discredito della nuova Carta.

Noi abbiamo una Costituzione che è nata dall’antifascismo, dalla Liberazione, votata praticamente quasi all’unanimità da partiti che avevano combattuto il fascismo; quindi anche sul piano simbolico essa ha un enorme valore aggregante e democratico.

L’oltraggio al costituzionalismo e alla Costituzione come momento storico di rottura avrà come risultato l’instaurazione di una Costituzione di minoranza, una Costituzione regressiva, una Costituzione che non ha più il prestigio, il valore che deve avere la Costituzione in un sistema democratico.

Del resto questo declino è accompagnato e segnalato dalle innumerevoli violazioni costituzionali che si sono sviluppate in questi anni anche nella procedura di riforma o revisione costituzionale; esse sono il sintomo di un generale declino della Costituzione e dei principi costituzionali dall’orizzonte della politica. E questo vale soprattutto per quel che riguarda i contenuti.

In questi anni è stato smantellato lo Stato sociale, è stato distrutto il diritto del lavoro – i lavoratori non hanno più diritti, il lavoro è diventato precario – la sanità non è più una sanità universalistica e gratuita perché è diventata una sanità monetizzata che pesa sulle spalle soprattutto dei più poveri, con tempi lunghissimi di prestazione che rendono di fatto incurabile gran parte delle malattie dei più poveri, che rinunciano alle cure.

Si parla sempre del PIL come fattore e misura della crescita e del progresso, si parla dello 0,7, 0,8 per cento: però contemporaneamente per la prima volta nella storia recente, abbiamo avuto una riduzione delle aspettative di vita; le aspettative di vita si sono ridotte, credo, di sei mesi, per effetto di un crollo delle garanzie della salute.

Le controriforme che sono state fatte sia nell’epoca berlusconiana che adesso, sono un’aggressione: un’aggressione alla scuola, un’aggressione alle pensioni, ai diritti di sussistenza, per il motivo che costano troppo; ma dobbiamo essere consapevoli che costa molto di più la mancata garanzia di questi diritti, le cui tutele sono il primo investimento produttivo; l’Italia è diventata più ricca rispetto al suo passato, e in generale l’Europa rispetto agli altri Paesi, perché hanno garantito i minimi vitali, l’istruzione, la salute, in assenza dei quali non c’è produttività individuale e non c’è chiaramente crescita economica e produttività collettiva.

Unità tra prima e seconda parte della Costituzione

Uno degli argomenti che viene proposto a sostegno di questa riforma costituzionale è che essa riguarderebbe soltanto la parte organizzativa e non inciderebbe sulla prima parte.

Questa è una falsità, perché le due parti sono fortemente connesse e perché la parte “organizzativa” mette insieme strumenti istituzioni e tecniche di garanzia idonei ad assicurare l’attuazione dei principi della prima parte, in particolare, l’uguaglianza, i diritti fondamentali, i diritti sociali. Io credo che per capire il nesso che esiste tra la prima e la seconda parte della Costituzione e quindi gli effetti che la modifica della seconda parte avrà sulla prima parte, basti prendere in parola quello che dice il Governo, e lo stesso presidente Renzi: «ce lo chiede l’Europa». L’Europa ci chiede queste riforme. Questa è una frase che a prima vista può sembrare senza senso. Che senso ha, che vuol dire che l’Europa è interessata all’abolizione del Senato oppure alla riforma della legge elettorale? Sembra soltanto una mistificazione, ma purtroppo è vero. Ce lo chiede l’Europa, cioè ce lo chiedono i mercati, perché l’obiettivo di questa riforma è un obiettivo perseguito da tanti anni, dalla riforma di Berlusconi, dalla riforma di Craxi: è la governabilità.

Che cosa vuol dire governabilità? Nel lessico dei nostri governi, non soltanto in Italia, governabilità vuol dire onnipotenza dell’esecutivo rispetto al Parlamento e ovviamente rispetto alla società.

Vuol dire mani libere, possibilità di aggredire lo Stato sociale, possibilità di aggredire la scuola, aggredire la sanità, sulla base unicamente di un consenso senza alternative: perché ci si presenta alle elezioni, e certamente non ci sarà più la quantità di voti del passato, ci sarà una crescita dell’astensionismo, perché è crollata la qualità del voto, non si vota per convinzione ma solo per paura del peggio; si ha disprezzo, disgusto, si vota per il meno peggio, e tuttavia questo è il consenso, è la fonte di legittimazione veicolata da una riduzione della politica a spettacolo che richiede NON, come vorrebbe l’articolo 49, il concorso dei cittadini nel determinare la politica nazionale, ma semplicemente il consenso degli spettatori al meno peggio. Al meno peggio significa che tutti devono assomigliarsi, perché non ci sono alternative, perché la politica dei mercati è una sola, la politica si sta trasformando in tecnocrazia, in modo tale che non si spiega perché ci debba essere un ceto politico di un milione di persone che evidentemente è diventato totalmente parassitario perché deve soltanto eseguire i dettami dei mercati.

Onnipotenza e impotenza della politica

Ebbene questa onnipotenza è ciò che si richiede alla politica perché la politica possa essere impotente nei confronti dei mercati, subalterna nei confronti dell’economia, perché per l’appunto si trasformi in tecnocrazia, perché abdichi al proprio ruolo di governo della finanza, dell’economia, perché possa obbedire alle ingiunzioni, fare i compiti a casa, unicamente mediante la riduzione dello Stato sociale; non certamente mediante la crescita della progressività delle imposte, non certamente applicando imposte del 70/90% a redditi ultramilionari, non certamente attuando norme costituzionali sulla redistribuzione della ricchezza, non certamente facendo ciò che la politica, secondo la Costituzione, deve fare.

Si deve semplicemente eseguire, ottemperare. I Governi di destra e i Governi di sinistra sono in questo senso uguali, tant’è vero che gli scontri sono di carattere personale, sono caratterizzati dagli insulti reciproci più che dai diversi programmi e nel dibattito politico ciò che non viene mai messo in questione è il sistema di limiti e di vincoli ai poteri economici e ai poteri della finanza, che dovrebbero essere governati dalla politica.

Questo governo della politica fa parte del costituzionalismo profondo dello Stato moderno che nasce come sfera pubblica separata in grado di governare l’economia, che altrimenti sarebbe guidata naturalmente dagli istinti predatori.

I diritti politici, infatti, così come i diritti civili, i diritti di iniziativa economica, i diritti di iniziativa privata, sono diritti esercitati in funzione degli interessi personali; ciò fa parte della logica del capitalismo, non possiamo pretendere che il capitalismo abbia una logica diversa, per questo è necessaria la politica, è necessario redistribuire la ricchezza, per limitare il carattere predatorio attraverso un conflitto sociale che è stato un fattore di civilizzazione. Lo smantellamento di tutto questo è possibile solo se prima di tutto si disarma la società, e cioè si smobilitano i partiti, e i cittadini sono ridotti a spettatori davanti alle televisioni a guardare gli scontri fra i politici, che naturalmente si scontrano su questioni marginali.

Ciò che viene perseguito è prima di tutto la neutralizzazione del controllo dal basso, del radicamento sociale, e in secondo luogo la neutralizzazioni dei limiti e dei vincoli dall’alto, e cioè da parte delle Costituzioni, perché le Costituzioni sono ormai scomparse dall’orizzonte della politica.

Nessuno, infatti, grida più all’incostituzionalità di fronte ai ticket e alla monetizzazione dei diritti fondamentali in materia di salute, che si distinguono dai diritti patrimoniali perché sono per l’appunto gratuiti, universali; sono la base dell’uguaglianza, dovrebbero essere garantiti a tutti nella stessa maniera, non ci dovrebbero essere differenze in materia di sanità. Naturalmente la cosa costa, ma non è neanche un costo troppo grave, se si pensa che su centodieci miliardi – queste sono le statistiche che abbiamo avuto modo di leggere sulla spesa pubblica in materia di sanità – tutti i ticket con tutto l’apparato burocratico che comportano, producono un introito di tre miliardi, cioè praticamente una parte irrilevante della spesa. Una spesa però che pesa interamente sulle spalle delle persone più povere e produce un’enorme mediazione burocratica che rende spesso ineffettivi i tempi delle cure; i tempi sono ormai diventati praticamente un fattore di crollo di una delle sanità pubbliche più avanzate del mondo.

Lo stesso fenomeno si sta verificando in Inghilterra, si sta verificando in Europa: stiamo assistendo ad un crollo delle nostre democrazie legato precisamente a questa involuzione autocratica.

Essa merita di essere chiamata così, perché il meccanismo che è stato introdotto attraverso la congiunzione della riforma costituzionale e della legge elettorale consegna il potere politico a una minoranza parlamentare di fatto fortemente vincolata al capo del Governo; è un fatto che già in parte è avvenuto tant’è vero che questa riforma costituzionale è una costituzionalizzazione dell’esistente, perché già oggi tra decreti legge, leggi delegate, leggi di iniziativa governativa, la produzione legislativa è per il 90% di produzione governativa. Già oggi noi abbiamo avuto un Parlamento esautorato, ma con queste riforme il Parlamento non conterà più niente, sarà per l’appunto una maggioranza di parlamentari, fortemente vincolati da chi deciderà della loro successiva elezione, a causa anche della disarticolazione sociale dei partiti, della loro neutralizzazione come fonti di legittimazione titolari delle funzioni di indirizzo politico, di controllo e di responsabilizzazione.

Il risultato quindi è un’involuzione autocratica, ed è su questo che dobbiamo decidere. Dobbiamo decidere NON tanto se vogliamo la Costituzione del ’48 a causa del suo prestigio e del suo valore simbolico, ma dobbiamo decidere tra democrazia parlamentare e sistema sostanzialmente autocratico, monocratico, che non è una questione di forma: questa forma è funzionale a una governabilità indirizzata a dare mani libere in materia soprattutto di diritti sociali, di diritti fondamentali di uguaglianza. Del resto la crescita della disuguaglianza è un fatto sotto gli occhi di tutti che viene incoraggiato dalle politiche governative non solo in Italia.

Il nostro voto è una scelta o a favore della democrazia pluralistica costituzionale oppure a favore di un’involuzione personalistica, verticalistica e autocratica del sistema politico.

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*Intervento alla Conferenza per il NO del 21 marzo 2016. Testo sbobinato dall’intervento orale non rivisto dall’autore

La coerenza che mi interessa

segnalato da Barbara G.

di Michela Marzano, 13/05/2016

Caro Michele Serra, hai ragione che i tempi del renzismo sono febbrili (nel bene e nel male), ma forse il tempo della discussione possiamo prendercelo non credi? È per questo che, prima ancora di cercare di risponderti, ti ringrazio per l’opportunità che mi dai oggi con la tua «Amaca» di iniziare un dibattito che può, quindi, anche non essere solo ipotetico. È vero, e hai ragione nel ricordarlo, che ho parlato di «coerenza» per spiegare la mia uscita dal Gruppo Parlamentare del PD dopo l’approvazione delle legge sulle unioni civili – che continuo a reputare importante e necessaria, ma non sufficiente e, sul capitolo dei bambini che continuano a essere penalizzati in ragione dell’orientamento sessuale dei genitori, proprio brutta. La coerenza cui però ho fatto riferimento, non è tanto o solo « con me stessa ». Se fosse questo il problema, sarebbe stato poco interessante, anzi banale. « I am not that important » mi disse un giorno un amico, e credo che sia vero per chiunque di noi. La coerenza che mi interessa, è quella con gli ideali etici e morali che giustificano – o dovrebbero giustificare – l’impegno in politica. E quindi soprattutto la coerenza con l’uguaglianza di tutte e di tutti. Un’uguaglianza che resta, almeno per me, la stella polare della sinistra. Un’uguaglianza che non si può sempre e solo invocare, prima di continuare a trattare alcune persone come « meno uguali » rispetto alle altre La politica, scrivi giustamente, non ha come parametro il sé, ma la società. Ma è proprio la società che avevo in mente quando ho parlato di coerenza. Non è un caso che abbia citato nella mia lettera di dimissioni Jean Guehenno e il suo invito a « non seguire il mondo come va ». Il mio gesto, in fondo, è solo questo: una testimonianza del fatto che si può, e talvolta si deve, non seguire il mondo come va. Credo che l’integrità e la coerenza siano valori che la politica, se vuole veramente recuperare la fiducia dei cittadini, dovrebbe cercare di rivalutare.

PS visto che parli di «fatica» e «dolore» mi permetto di parlare del dolore e della fatica di questa mia scelta. Dal gelo che mi ha accolto ieri in Aula, dove in tanti hanno smesso non solo di salutarmi, ma anche di guardarmi negli occhi, alle tantissime mail di chi, invitandomi a tornare a Parigi, mi hanno dato dell’ingrata, dell’arrogante o della poveretta (e tralascio gli insulti o le minacce, che non meritano nemmeno di essere citate). Ma va bene così. In fondo, sono stata io a scegliere di non seguire il mondo come va, no? #unionicivili