populismo

Il campo conteso da globalisti e sovranisti

segnalato da Barbara G.

La resistenza è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza

Indignados in piazza a Madrid nel 2011

di Loris Caruso e Alfio Mastropaolo – inlamifesto.it, 18/04/2017

L’elezione di Donald Trump potrebbe costituire l’avvio di una profonda ristrutturazione degli schieramenti in campo: di quelli politici e di quelli dei loro supporters, che agiscono al di fuori della sfera politico-elettorale, ma che con i partiti in senso proprio hanno legami strettissimi: marciano divisi, per colpire uniti. Da un lato c’è uno schieramento che potremmo chiamare «globalista». Per esso la consegna del pianeta al mercato è giusta e inevitabile. In linea di massima questo è lo schieramento che al momento prevale alla guida delle democrazie sviluppate. Salvo aver alfine trovato un rivale assai temibile.

È ancora un’ipotesi: grazie a Trump di schieramenti se ne potrebbe costituire un altro, che potremmo denominare «sovranista», la cui struttura portante sarebbe fatta di quei partiti che ordinariamente vengono classificati come populisti. Secondo questo secondo schieramento il rimedio ai danni prodotti dai globalisti non consiste nel sottrarre spazi al mercato, ma nel restringere il mercato entro i confini nazionali, dandogli lì piena libertà di manovra. L’altra caratteristica dello schieramento sovranista sta nella sua capacità di strumentalizzare le sofferenze e le paure di una parte delle vittime dei globalisti, da esse traendo parte non secondaria del suo seguito elettorale.

Tra i due rivali, uno ben solido, l’altro in via di consolidamento, c’è più accordo che contrasto. Wall street non ha manifestato sofferenza dopo la vittoria di Trump. La Brexit non ha prodotto effetti sconvolgenti, e la borsa di Londra se la cava egregiamente. Se così fosse, sarebbe un’invenzione straordinaria: il capitalismo fa opposizione al capitalismo. Evviva il capitalismo! Divergono sui mezzi: l’uno considera lo Stato un ingombro, l’altro uno strumento. Forse è un conflitto ciclico nella storia del capitalismo. Quello che è verosimile è che i sovranisti non riusciranno a sfuggire dal labirinto di vincoli in cui i globalisti hanno cacciato le società occidentali e proveranno a mascherare il loro fallimento con un po’ di misure illiberali, antidemocratiche, razziste. Trump ha già cominciato. Anzi, ha fatto di meglio. Ha ripreso a bombardare, con tanto di motivazioni umanitarie. Non senza ottenere il plauso dei globalisti-liberali.

C’è forse qualche somiglianza con i contrasti che divisero negli anni 20-30 dello scorso secolo i fascisti da una parte dei liberali. Poi, allora, le cose evolvettero. I liberali presero le distanze, rinunciarono al liberismo, inventarono il New Deal, si appropriarono dell’interventismo statale fascista, ma lo rinnovarono radicalmente in senso democratico. Le analogie sono intriganti, ma non sono mai perfette e non vanno esagerate. Non sappiamo nemmeno come il contrasto tra globalisti e sovranisti evolverà. Potrebbe anche evolversi positivamente. I globalisti potrebbero, almeno alcuni, scoprire di aver esagerato e che l’involuzione autoritaria è troppo rischiosa. Vedremo. Come tutte le trasformazioni, anche questa è incerta.

Anche perché le resistenze non mancano. Negli anni 20-30 c’erano grandi partiti socialisti e comunisti, a volte brutalmente repressi, ma che rappresentavano un principio di resistenza. Oggi c’è resistenza, ma ha altre forme, giacché quei partiti hanno deciso di confondersi nello schieramento globalista. La resistenza attuale è spesso molecolare, disordinata, a volte apolitica: è disagio sociale, protesta locale, aggregazioni di corto raggio e breve durata, disordine d’ogni sorta.

Tra le forme più paradossali c’è persino il voto per i partiti populisti: che se per alcuni implica adesione, per altri è un voto di «odio». Li si vota perché non c’è di meglio, perché è il voto che reca più disturbo.

La resistenza dispersa non è una condizione inedita. Prima che nascessero i grandi partiti di massa, gli strati popolari erano classificati come classes dangereuses: erano le folle del 1789 del 1848, che i partiti socialisti promossero a classes laborieuses, dotate di un’identità e una soggettività collettiva, protagoniste di grandi cambiamenti.

È immaginabile un riorientamento analogo delle resistenze che caoticamente si manifestano di questi tempi? Non è facile. Una cosa era contrastare lo Stato e le imprese, un’altra rovesciare il mercato globale, gli evanescenti labirinti della governance sovranazionale e i bit della speculazione finanziaria. Eppure, vi sono segnali che lasciano margini di speranza. Il nemico è possente, globalista o sovranista che sia. Ma è possente perché i suoi avversari sono deboli. Ma fino a un certo punto.

Le grandi mobilitazioni sociali di carattere «universalistico» apparse dal 2011 non sono un incidente. Sono manifestazioni di una rivolta collettiva che ha indossato prima le vesti degli Indignados spagnoli e greci, di Occupy, di Gezi Park, della francese Nuit Debout e che poi ha avuto qualche non secondario sbocco elettorale. La rivolta movimentista e l’esodo elettorale dai partiti tradizionali sono a volte riusciti a intrecciare protesta politica e protesta sociale. Tra le vittime del nuovo ordine (o disordine) e le oligarchie cova un conflitto che evoca le grandi retoriche rivoluzionarie: la virtù contro la corruzione, il basso contro l’alto, i produttori contro i parassiti, il «popolo» contro la «corte» (oggi la «casta»). Va da sé che è tutt’altro modo di interpretare il conflitto «basso contro alto» rispetto a quello dei populisti-sovranisti. Nessuno che abbia seguito agisce oggi al di fuori di questa frattura.

Negli Usa la campagna di Sanders è stata fatta in gran parte da attivisti di Occupy, così come la campagna pro-Corbyn nel Labour. Podemos non sarebbe nato senza gli Indignados. Syriza ha vinto le elezioni dopo un lungo ciclo di mobilitazione sociale. Il governo più progressista d’Europa, quello portoghese, è una coalizione tra il partito socialista e partiti della sinistra radicale, resa possibile da un intenso ciclo di mobilitazione anti-austerity. In Francia Mélenchon cresce nei sondaggi anche sull’onda della Nuit Debout. Altre nuove forze di sinistra avanzano in Olanda e in Belgio. La resistenza molecolare prova a coagularsi. Non ci sono quindi alibi per la sinistra italiana: non è vero che nella crisi cresce solo la destra.

Forse il problema italiano è che questo spazio è stato occupato dai grillini, o è stato loro consegnato. Oppure che l’equivoco del Pd si è dissolto solo di recente.

Ma bisogna anche imparare dagli altri. Le nuove forze di sinistra, dove conquistano consensi importanti, non sono stanchi mosaici di ceti politici di lungo corso. Spiazzano, disorientano, agiscono come outsiders, quasi come alieni. Inventano nuove forme organizzative. E soprattutto ci credono, e spiegano a coloro cui si rivolgono che le attuali ingiustizie non solo non hanno niente di naturale e di obbligato, ma sono pure superabili. Purché lo si voglia.

Tra realismo e realpolitik c’è ancora un abisso

segnalato da Barbara G.

Mi sono imbattuta per caso in questo scritto di Langer, nel quale spiegava le motivazioni che lo avevano portato, nel ’94, a rifiutare la candidatura alle politiche nella lista dei Verdi.

Premesso che il titolo mi ha fatto sorridere, perché mi è venuto in mente un frequentatore abituale di questo blog, mi ha colpito un fatto: buona parte dei mali della politica di oggi non sono poi così nuovi, semplicemente abbiamo la memoria corta. Soprattutto i nostri politici, che cascano dal pero, non fanno analisi… e citano le menti pensanti dei decenni passati solo per darsi una mano di vernice rossa, o verde (intesa come ecologista, non leghista) a seconda della bisogna, senza averne compreso il senso o facendo finta di essersene dimenticati. Il “nuovo che avanza” è definitivamente andato a male, e noi cambiamo la data di scadenza sull’etichetta.

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di Alexander Langer – Azione nonviolenta, marzo 1994

Il nuovo sistema elettorale che non avevo voluto, ma contro il quale non mi sembrava neanche ci si dovesse schierare in un’accanita ed equivoca difesa dello “status quo ante”, ragion per cui non ho né firmato i referendum elettorali né partecipato al voto non permette più di cercare nella rappresentanza politica la proiezione dei propri ideali. Esige, invece, che si punti al governo e che si impari ad allearsi tra diversi ed ancor compatibili “mali minori”. Forse alla lunga, e con le necessarie correzioni, questa medicina potrà persino far bene: costringerà tutti a secolarizzare senza riserve la rappresentanza politica e l’arte di governo. Ed obbligherà coloro che ricercano l’affermazione di scopi diversi e magari più alti a cimentarsi con altri strumenti.

Per intanto però noto che la politica italiana attuale passa attraverso le forche caudine della demagogia, del populismo, di un ulteriore insano scatenamento di ambizioni soggettive, di un’inedita e tuttora crescente supremazia dell’immagine sulla sostanza, di una parossistica selezione dei “personaggi” piuttosto che di opzioni politiche, sociali, culturali. Inoltre il sistema elettorale obbliga e obbligherà sempre più in futuro, se ne venisse mantenuta e perfezionata la sua caratteristica maggioritaria ad una compattazione semplicistica di blocchi alternativi, ma convergenti al centro. Per chi aveva faticato per affermare che non esiste solo il lineare sì e no, destra e sinistra, bianco e nero, buono e cattivo, e per criticare la trappola del “progresso”, è un risultato abbastanza desolante. Non capisco invece perché certi fautori della polarizzazione ora si lamentino se emergono egemonismi o se lo spazio per terze e quarte e quinte posizioni tende a scomparire. Chi ha voluto una politica dei due campi che si avversano e magari si alternano, non può lamentarsene.

Non credo nella retorica del “nuovo che avanza” e vedo con orrore la sua banalizzazione spettacolare e televisiva, non importa se politica, giudiziaria o giornalistica. Naturalmente spero che non vinca la più estrema riduzione della politica a imballaggio (per merci ed affari) che vedo rappresentata dal Cavaliere dell’immagine che vorrebbe riuscire a trasformarla interamente in azienda, pubblicità e marketing. Sostituendo l’impegno delle persone, le loro sofferenze e passioni, i loro bisogni ed i loro limiti, le loro capacità di agire e di giudicare, con il trionfo di un mondo tutto artificiale, della cosiddetta “realtà virtuale” Ma finché non avremo altri giornalisti e altri magistrati, non potremo neanche avere governanti e legislatori davvero nuovi salvo forse a livello ristretto e locale, dove la mediazione dei grandi bugiardi della demagogia può essere, forse, elusa. Nella politica italiana sento oggi una grande mancanza. Non quella di un premier eletto dal popolo (immaginate una nuova orgia di delega e personalizzazione!) o di un sistema elettorale interamente anglosassone (ma quale buona politica ha poi prodotto in Gran Bretagna o negli Usa?), e neanche quella di una nuova Idea Salvifica che restituisca nobiltà di motivazione a chi ne sentisse la carenza. Ci manca, invece, quel bambino della favola di Andersen che ad un certo punto osa dire ad alta voce che l’imperatore è nudo.

Che chiami, cioè, col loro nome tutto ciò che di ben altre apparenza si ammanta. Dal carrierismo alla ricerca di un semplice posto al sole, dall’egoismo sociale o etnico al rilancio, appena camuffato, di una nuova ondata di aggressione ai poveri ed alla natura.

Lo spazio per far valere obiettivi profondi di pace, di giustizia, di reintegrazione della biosfera, e per promuovere quella conversione ecologica che nell’ultimo decennio avevamo proclamato come urgente obiettivo di civiltà e di sopravvivenza, sul palcoscenico della politica italiana sembra attualmente assai ridotto. Mentre tiene banco il dibattito su Bossi e Segni, Martinazzoli e Orlando, Occhetto e Del Turco, Fini e Berlusconi, La Malfa e Pannella, non mi pare che la gente possa individuare onestamente e chiaramente opzioni in quella direzione e farle davvero pesare.
Forse il ruolo dei Verdi e di consimili portatori di proposte scomode e complesse, ma miranti alle radici e non sintetizzabili in slogan pubblicitari, dovrà, in futuro, adeguarsi al nuovo strumentario della politica e magari tornare a svolgersi essenzialmente al di fuori dei parlamenti. Le campagne elettorali, invece, assomiglieranno sempre più alla moltiplicazione infinita dei faccia-a-faccia televisivi tra duellanti che dovranno al tempo stesso assomigliarsi al massimo nella sostanza (per prendere i voti degli incerti) e distinguersi al massimo nell’apparenza (per prendere i voti dei decisi).

Chi mi conosce, sa che ho sempre cercato di perseguire politiche realistiche, pur con tutto il carico di radicalità e di speranza di altro e di meglio che mi sentivo affidato. Ma tra politica realistica e “Realpolitick” c’è ancora un abisso.

Renzi va veloce contro l’onda trumpista. Lo fermi chi può.

Dimensione Mendez

trumpistiDal referendum costituzionale al referendum su Donald Trump.
Più ravvicinate nel tempo saranno e più le prossime elezioni politiche in Italia rischiano di trasformarsi in questo: una consultazione nella quale il modello Trump sarà inevitabilmente al centro del dibattito, rendendolo bipolare. Da un lato il blocco di chi è essenzialmente ‘protezionista’ su una serie di temi cruciali: politiche migratorie, sicurezza, lavoro ed economia. E dall’altro chi? Essenzialmente il PD, spaccato al proprio interno e sull’orlo di una scissione. Essenzialmente Matteo Renzi che tenta nuovamente un uno contro tutti, nella convinzione che quel 40% per lui letale del 4 dicembre scorso possa tramutarsi in un 40% elettorale vincente, capace di consegnargli quel premio di maggioranza indispensabile per governare nuovamente il Paese.

Lo schema insomma, nella testa del segretario PD, non cambia di una virgola. La sua scommessa è destinata ad imperniarsi ancora una volta sulla convinzione che, di fronte allo spauracchio…

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Il problema non è il brutto parlare: è il brutto fare

di Giulio Cavalli – left.it, 19/12/2016

“Io credo che la politica stia vivendo uno dei momenti più bassi anche dal punto di vista del linguaggio oltre che dei comportamenti, e che questo non aiuti il Paese. Ormai la rissa è d’obbligo”: parole, opere e omissioni (tante omissioni) di Roberto Giachetti nella sua fase da “intellettuale responsabile” quando (era il 18 gennaio) si giocava il personaggio del “professorino” per brillare contro l’inesperienza del M5S in vista delle lezioni amministrative a Roma.

Curioso personaggio Giachetti: in tutte e competizioni politiche a cui ha partecipato s’è sempre detto di essere sicuro di vincere (Roma, referendum) e poi è stato il primo a volerci spiegare i motivi della sconfitta. Renziano doc ieri ha capito perfettamente quale dovesse essere la strategia: il capo in fase zen e gli sgherri in libera uscita per bastonare e lui, sgherro per professione e devozione, ha lasciato il segno con la sua frase rivolta a Roberto Speranza “hai la faccia come il culo”. Che, per carità, chi frequenta (o frequentava) le sezioni di partito sa bene che i modi della politica e dello scontro trascendano spesso ma agitare l’offesa volgare in assemblea nazionale (con l’attenzione della stampa tutta) è un vomitevole trumpismo di borgata: condannare il populismo degli altri ma tenerne sempre un po’ in tasca, alzare i toni fingendo che scappino e usare cucco cacca pupù per meritarsi un mezzo titolo e l’applauso.

Gli applausi, a proposito: alla frase di Giachetti si segnalano un Renzi fintamente contrito, Gentiloni imbarazzato e la Serracchiani che ride divertita. I bravi manzoniani sono diventati classe dirigente e non riescono a togliersi l’arroganza da predatori nemmeno per qualche minuto di seguito.

Ma l’assemblea del PD ha detto altro, al di là del colore: ha detto finalmente una volta per tutte che Renzi è molto interessato all’iniziativa di Pisapia (piantando finalmente la sua bandierina nel “campo progressista” degli ex arancioni e così, speriamo, togliendo anche qualsiasi dubbio di “qualcosa di diverso a sinistra”), ha detto che il Mattarellum va benissimo come legge elettorale (evidentemente è per questo che da anni cercano di cambiarla), ci hanno detto che Andreotti è stato assolto (olè), Delrio ha citato Pasolini con una frase che Pasolini non ha mai pronunciato, il segretario ha ammesso di avere sbagliato e per questo non si dimette da segretario e, nell’analisi della sconfitta, ancora una volta hanno chiarito che hanno perso anche se comunque avevano ragione.

Ha ragione Michele Emiliano che ieri sera scriveva, a direzione ormai conclusa: «In una giornata così triste che ho seguito per fortuna solo in tv, succede anche che l’intero gruppo dirigente, in diretta streaming, non trova altro di buono da fare che ridere della frase carica di odio e di disprezzo pronunziata da Giachetti all’indirizzo di Roberto Speranza. Oggi è sembrato a tutti che avesse ragione Churchill quando diceva che gli italiani perdono le guerre come partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre». 

E la citazione di Emiliano, quella sì, è corretta. Mica fatta a culo.

Referendum. Il treno renziano dell’antipolitica.

Dimensione Mendez

trenoSe vittoria sarà (molto probabile), l’affermazione del SI’ al referendum costituzionale è destinata a segnare un risultato: riuscire ad ottenere un voto popolare di fiducia alla politica attraverso l’antipolitica.

L’intuizione immediata di Renzi, ancor prima di personalizzare la battaglia, era quella più lucida: “Molta gente di centrodestra, del M5s e della Lega voterà sì”. Parole che ha ribadito nuovamente in questa campagna di ottobre, attraversata col turbo.

La semplicità disarmante dei messaggi propagandistici a favore del SI’ (Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici?) annichilisce ogni tentativo di ragionamento. Lo spauracchio dispotico, paventato dal fronte del NO, è inutile acqua fresca di fronte alla prospettiva di un treno del cambiamento che passerà il 4 dicembre e poi non tornerà più, per almeno altri 30 anni. Di fatto, Renzi è pronto a raccogliere i frutti di una lunga stagione di antipolitica che dura da almeno 30 anni, prima con la…

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Il capo e la folla

segnalato da Barbara G.

Di democrazia recitativa ne avevamo già parlato QUI.

Così i capi rendono le folle stupide e servili. Parla lo storico Emilio Gentile

di Donatella Coccoli – left.it, 12/08/2016 (da Left n°22)

Si  parla di democrazia recitativa quando «la politica diventa l’arte di governo del capo, che in nome del popolo muta i cittadini in una folla apatica, beota o servile». Scrive così Emilio Gentile nel libro Il capo e la folla (Laterza) un viaggio nella storia sul rapporto tumultuoso tra i governati e i governanti a partire dalla repubblica di Atene per finire al ventesimo secolo. Tra i massimi studiosi internazionali di fascismo e delle religioni della politica, Gentile nel suo libro non tocca l’oggi. «Mi fermo a Kennedy. Per mia natura e per il lavoro che faccio non insegno agli altri come giudicare il tempo contemporaneo. Cerco però di fornire gli strumenti per capire come si è giunti al tempo contemporaneo», dice. Ecco quindi la repulsione di Platone per la democrazia “dei molti”, il concetto di democrazia come stile di vita di Pericle, la res publica romana che prima dell’avvento di Cesare aveva garantito un sistema di controllo dei poteri dello Stato, la codificazione del panem et circenses per tenere buoni gli ex cittadini ormai sudditi imperiali, i “sacri recinti” degli Stati guidati da capi “unti” dal Signore, fino ad arrivare alle rivoluzioni americana e francese e ai movimenti rivoluzionari dell’Ottocento. È del 1895 Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, psicologo, antropologo e sociologo. «Mi dicono che nella classifica di Amazon è al secondo posto. Un po’ ho contribuito anch’io perché ne avevo parlato in una trasmissione televisiva», dice sorridendo Gentile. Con Le Bon la democrazia recitativa – che secondo Gentile inizia con Napoleone – trova il suo massimo teorico, perché lo studioso francese nel suo libro diventato ben presto cult, spiega tra l’altro anche “come governare le folle” con la suggestione e l’uso delle parole.

Professor Gentile, lei scrive che «conoscere il comportamento dei capi e delle folle del passato può aiutare a comprendere i capi e le folle della politica di massa che stiamo vivendo». Come trova oggi la democrazia intesa come la migliore forma di rapporto tra governati e governanti?

Mi sembra avviata – se non ci saranno dei correttivi – sempre più verso una forma di democrazia recitativa. Nel senso che i governati potranno scegliere e revocare sempre meno i propri governanti. Lo dimostra anche il fatto generalizzato dell’astensione. Un fenomeno che deriva non dalla fiducia nella democrazia – come accade nel mondo anglosassone – ma dalla profonda sfiducia nella classe politica e nella classe dirigente. Oggi in Italia ricorrono i 70 anni del referendum che ha istituito la Repubblica. Tutti nel 1946 rimasero colpiti dal fatto che una popolazione uscita da un ventennio di dittatura, nonostante i timori di un salto nel buio, partecipasse così in massa, circa il 90 per cento. Calamandrei addirittura gridò al miracolo. Ecco, oggi questa astensione crescente mi sembra una forma di protesta che purtroppo non si concretizza in una vera e propria alternativa.

La democrazia recitativa che avanza può portare alle derive della democrazia di cui lei parla nel suo libro?

È imprevedibile quello che può accadere. Questo è un fenomeno in gran parte nuovo, dovuto a tre fattori che sono stati riscontrati in tutte le democrazie occidentali. Il primo dipende dalla complessità sempre crescente dei problemi sui quali i cittadini vengono chiamati a decidere, poi bisogna considerare l’elevato costo della competizione politica, per cui soprattutto persone facoltose possono partecipare effettivamente, con speranza di vittoria. Infine il terzo fattore è, appunto, la minore partecipazione al processo democratico di cittadini consapevoli.

Sempre a proposito del presente, che cosa pensa della democrazia diretta, quella dei referendum dei radicali di Marco Pannella o della Rete del Movimento Cinque stelle?

Come sostenevano Rousseau e i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, io penso che la democrazia diretta sia possibile solo in piccole repubbliche. Quando queste assumono vaste dimensioni territoriali, con milioni di cittadini, è inevitabile la democrazia rappresentativa. La democrazia diretta poi non è di per sé sana e buona, perché una democrazia diretta può scegliere capi non democratici. Vede, la democrazia è soltanto un metodo. Noi possiamo anche definirla come un valore attribuendole significati etici, perché attraverso la democrazia si può emancipare un individuo e la collettività, rendendoli sempre più padroni del proprio destino. Ma questo è un ideale, di fatto la democrazia è un metodo che può servire sia a favorire l’emancipazione che a impedirla. Se democraticamente vincono i reazionari, i conformisti, i fanatici, gli intolleranti, i razzisti o gli xenofobi, come possiamo negare che il loro governo sia una genuina democrazia?

Ma per rendere effettivo il metodo della democrazia nel senso dell’emancipazione, che cosa occorre?

La democrazia non può prescindere dalla divisione dei poteri che si limitano e si controllano reciprocamente, così come non può prescindere dalla libertà dell’informazione. E occorrono anche dei limiti all’uso del potere della maggioranza nei confronti della minoranza. Inoltre, se si perde l’idea originaria di democrazia che deve favorire l’emancipazione di ogni cittadino attraverso l’informazione, l’istruzione, la conoscenza, accadrà che si lascerà sempre agli esperti, ai tecnici, scelte decisive ignorando gli altri.

Ci parli quindi della folla, definita da filosofi o da uomini di Chiesa ora “gregge” ora “bestia feroce e selvaggia”, come sosteneva Lutero.

Il concetto di fondo è quello più comune, e cioè che la folla sia manipolabile. Ma non è sempre così, la folla deve essere riscattata dalla cattiva nomea che l’accompagna dalla democrazia greca. La folla infatti è quella stessa che compie atti di eroismi. Lo sosteneva anche Gustave Le Bon: non c’è solo la “folla bestia” c’è anche la “folla eroe”, diceva. La rivoluzione francese, come opera più importante per la libertà e l’uguaglianza, fu opera della folla che spinse a prendere l’iniziativa. Così come la rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917: non fu guidata da un partito o da uomini politici, fu una rivoluzione spontanea delle folle di S.Pietroburgo che fecero crollare il sistema zarista dando vita a una democrazia che fu poi stroncata dal partito bolscevico con un regime che pretendeva di essere più democratico perché imposto come dittatura del proletariato. Questo fenomeno delle folle che si muovono spontaneamente si è ripetuto, sia pure con esiti diversi, in altre situazioni, come in Ungheria nel 1956, in Polonia nel 1981, e nelle “primavere arabe” del 2011.

Nel libro parla di folle a proposito della nascita degli Stati Uniti d’America. Nel senso che all’inizio fu una rivolta collettiva conclusa poi dai capi. Qual è la caratteristica di quella democrazia che secondo Abraham Lincoln era il “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”?

Nella storia umana gli Stati Uniti d’America furono il primo stato democratico moderno, dopo la democrazia greca. La democrazia greca era oligarchica, e la scelta dei governanti era riservata solo ai cittadini maschi di nascita ateniese, invece la democrazia americana almeno idealmente e teoricamente si proclama per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani sulla base di diritti dati dal creatore, pur essendo una società razzista e fortemente condizionata da pregiudizi religiosi protestanti. È una democrazia che in oltre duecento anni si è modificata superando sia i monopoli religiosi sia, ai giorni nostri, superando il monopolio bianco alla Casa bianca, con Obama al potere. E forse con le prossime elezioni presidenziali sarà superato anche il monopolio maschile se verrà eletta Hillary Clinton. Ma ancora non è finita perché rimane una minoranza che sembra ancora esclusa, almeno nel prossimo futuro.

Quale minoranza è esclusa dalla presidenza Usa?

I sondaggi dicono che gli americani sono disposti ad avere un presidente nero, in prospettiva una donna e un omosessuale, ma non ad avere un presidente ateo. Gli atei sono una minoranza del 20 per cento discriminati dal punto di vista politico, nonostante la Costituzione vieti qualsiasi presupposto religioso per le candidature. L’80 per cento degli americani non accetterebbe un presidente che non professi una fede in Dio, qualunque essa sia. Gli Stati Uniti sono il primo stato democratico nella storia dell’umanità che ha separato con la Costituzione lo Stato dalla Chiesa, ma rimane profondamente ispirato dalla religione. Non ci dimentichiamo che “In God we trust”, noi confidiamo in Dio, è il motto nazionale.

A proposito della religione lei scrive che nei primi secoli dopo Cristo «si inabissò nell’oblìo il potere dei cittadini basato sull’uguaglianza davanti alla legge». I governati lo erano per volontà di Dio, il cambiamento era previsto solo nell’Aldilà e la massa diventa massa salvationis. Un tale rapporto tra governo e religione quanto ha inciso nella storia dell’umanità non solo a livello politico, ma anche culturale e di pensiero?

Per gran parte dei millenni della storia umana, la religione e lo Stato si sono identificati nella persona del sovrano, delegato della divinità, se non dio egli stesso. L’avvento del Cristianesimo è stato uno straordinario fatto epocale, con enormi conseguenze. Soprattutto, fu decisivo il trionfo del monoteismo. A differenza di quello greco – la democrazia ateniese aveva un fondamento religioso e chi metteva in discussione gli dei della città poteva finire condannato a morte, come accadde a Socrate – il politeismo romano aveva stabilito una sorta di tolleranza dei culti. Invece l’avvento del monoteismo, per sua stessa origine – un popolo o una comunità riceve direttamente da Dio la rivelazione – porta all’intolleranza verso tutti coloro che non si convertono. Quindi c’è una potenziale incompatibilità fra monoteismo religioso e pluralismo democratico. E questo è durato nel mondo occidentale fino alla rivoluzione francese e americana. Millequattrocento anni in cui la massa è stata assoggettata alla credenza che esiste il pastore, il capo, unto da Dio sostenuto dalla Chiesa, al quale la massa dei governati deve obbedienza incondizionata. Quando qualcuno osava uscire dal sacro recinto, io lo chiamo così, o era massacrato – e pensiamo a quanti atei, eretici o pagani lo furono – o finiva per creare altri sacri recinti dove il capo benedetto da Dio rimaneva comunque il sovrano assoluto.

Quanto è chiara oggi questa eredità del passato?

Oggi addirittura si tende a confondere il significato storico della parabola di Cristo “date a Cesare quel che è di Cesare”, interpretandola come segno di laicità. In realtà la laicità come concezione fondamentale dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro fede, nasce dal pensiero laico, non da quello religioso. Solo molto faticosamente poi è stato accettato dalle Chiese.

Marx ed Engels avevano l’idea del cambiamento, l’immagine della massa dunque era positiva?

Sì, ma fino a un certo punto. Fin dalla rivoluzione francese anche i capi che hanno sostenuto teorie e pratiche di governo emancipatrici, non sempre le “sentivano” in pratica. Marx ed Engels teorizzavano che non sono gli individui e i capi a fare la storia ma sono le masse, in realtà però loro alla fine si allontanarono dal partito operaio.
Allo stesso modo Lenin diffidava delle masse organizzate nei sindacati e nei partiti socialisti, perché le considerava propense solo a conquistare benefici salariali invece di essere preparate alla rivoluzione. Perciò fin dal 1902 teorizzò il partito di minoranza dei rivoluzionari di professione, un’avanguardia formata anche da borghesi, per realizzare la conquista violenta del potere in nome del proletariato. Poi, nel 1917 concepì la partecipazione diretta delle masse al governo, come sostenne nel libro Stato e rivoluzione, ma quando conquista il potere e si trova ad agire con le masse reali comincia a preoccuparsi. Vede che la massa russa è bruta e inerte e riprende quindi il concetto di partito d’avanguardia. Babeuf, ancora prima, all’epoca della rivoluzione francese, e poi Blanqui, avevano già sostenuto la necessità di una minoranza attiva che indichi alle masse quali sono i loro veri interessi altrimenti queste, assoggettate per secoli alla monarchia o alla religione, non riescono a formarsi una propria coscienza rivoluzionaria. L’asserzione di Marx: «L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera di loro medesimi», in realtà viene negata da tutti coloro che sostengono il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie.

«Considerare l’uomo naturalmente incline al bene o naturalmente incline al male, considerare gli esseri umani per natura eguali o diseguali» sono i presupposti, lei scrive, delle concezioni della politica e del potere. Quindi il timore per la folla è perché si pensa ad una cattiveria innata?

Io direi così, in maniera propriamente laica: la differenza è tra una concezione dell’uomo come essere razionale che può acquistare la consapevolezza di ciò che è il suo destino e vuole sceglierlo senza dipendere da altri, e quella che considera l’uomo irrimediabilmente irrazionale e incapace di governarsi e scegliere da sé e quindi ha bisogno sempre di essere guidato come un gregge . È chiaro che se le religioni partono dal presupposto che l’essere umano dipende dalla volontà di Dio o da chi la interpreta, non riusciranno mai a concepire che l’essere umano possa governarsi da solo.

Quanto è attuale oggi l’insegnamento di Le Bon?

Oggi c’è un rapporto diretto, sempre più accentuato tra la folla, elettorale, chiamiamola così, e i candidati. E sempre di più si personalizza la politica e il potere, ma i candidati al governo si rivolgono alle masse con metodi, modi e espressioni che sembrano mutuati dagli aspetti più demagogici dell’insegnamento di Le Bon.
Non si parla più delle visioni e programmi politici, ma tutto si riduce a espressioni come “metterci la faccia”, “parlare alla pancia”, “intercettare i bisogni”. Si assiste, insomma, ad una sorta di corporizzazione fisica della politica incarnata nella persona del capo, addirittura nella sua immagine, che si sovrappone e persino esaurisce in sé il significato delle proposte politiche.

In Europa i populismi avanzano, dall’Ungheria alla Francia, dall’Austria alla Polonia. C’è il rischio che la folla diventi “apatica, beota o servile”?

I successi elettorali dei movimenti populisti, i governi formati da questi movimenti, sono spesso il prodotto di elezioni col metodo democratico e godono del consenso della maggioranza, prima di essere imposti con un atto autoritario. Oggi tutti si proclamano democratici. Ma forse proprio in questo senso Le Bon può essere una lettura utile, può aiutarci non a diventare una folla apatica, beota e servile, ma a diventare e rimanere individui consapevoli e cittadini responsabili.
Le Bon era un conservatore che non amava la democrazia, temeva egualmente i “Cesari”, come lui li chiamava, che impongono un regime personale fondato sul plebiscito. Non voleva revocare il suffragio universale e sosteneva che il parlamento, pur con tutti i difetti, era una istituzione che poteva impedire il monopolio del potere nelle mani di un capo. Combatteva lo statalismo, sosteneva la libertà di stampa, e paventava il potere delle oligarchie economiche operanti su una dimensione globale alle spalle dei governi democratici. Le Bon insegnava ai capi come conquistare le folle, ma la sua lezione può essere utile anche per resistere alla seduzione dei capi che predicano la democrazia mentre praticano l’autocrazia mascherandola con la demagogia.

Perché le periferie abbandonano la sinistra (?)

segnalato da Barbara G.

di Matteo Pucciarelli – blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it, 07/06/2016

In un bel saggio uscito un paio di anni fa (Sulle orme del gambero, Donzelli), l’ex vicesindaco di Roma Walter Tocci racconta di quando, da ragazzo, faceva il dirigente del Pci in periferia e vedeva Roma espandersi: la città cresceva, si tiravano su nuovi quartieri popolari, e quando rientrava a casa con l’autobus tra sé e sé pensava che quelli – la gente che abitava lì, o sarebbe andata ad abitare lì – sarebbero stati tutti voti «per noi». Cioè per il Pci e per la sinistra.

Era naturale, ovvio, scontato, pacifico: in periferia, lontani dai lustrini del centro, dalle vie eleganti e dai negozi griffati, lontani dai teatri e dai palazzi borghesi con il portiere, si votava soprattutto a sinistra. Non per moda né per protesta: solo perché la sinistra rispondeva, o diceva di rispondere, in primis alle esigenze di quelli che, cristianamente, si chiamerebbero gli umili. Perché l’essenza stessa della sinistra era quella di lottare contro le disuguaglianze, il che comportava incentrare la propria politica su criteri redistributivi. Brutalizzando: “togliere al centro” per “distribuire alle periferie”. Così ha continuato ad essere fino ad almeno venti anni fa, e ad ogni elezione i numeri più o meno confermavano la tradizione: generalmente nei quartieri chic si votava a “destra”, in quelli popolari a “sinistra”.

E invece lentamente le cose hanno cominciato a cambiare, già lo si vide molto bene ai tempi dell’elezione a sindaco di Gianni Alemanno a Roma: al centrosinistra i municipi blasonati, al centrodestra quelli “sfigati”. Fino ad oggi. La cartina della Capitale, così come quella di Milano, fa impressione: “I confini invertiti tra centro e periferia”, scrive il Corriere della Sera. “Il Pd ha il primato nel salotto delle città. I quartieri già del Pci a grillini e centrodestra”.

Perché? Com’è possibile che il mondo funzioni alla rovescia? E soprattutto, la “sinistra” (quella moderata e quella non) si rende conto del problema oppure la soluzione sarà di derubricare il tutto alla voce “populismo”? Il fenomeno, tra le altre cose, non è solo italiano: in Francia – è stato scritto e riscritto – nelle banlieue il Fronte Nazionale va forte e la sinistra sparisce.

Forse il ragionamento va fatto partire da lontano, da ciò che simbolicamente ha significato la caduta del muro di Berlino. Ovvero la fine senza appelli di quella promessa di eguaglianza già sbiadita e insieme di un contraltare anche solo fittizio al capitalismo. Gli eredi di quella storia hanno scelto due strade: il conformismo peggiore, e non a caso spesso i comunisti di ieri sono oggi i migliori alfieri del neoliberismo di oggi; oppure il rifugio ideologico, nostalgico e sentimentale nelle belle bandiere e nei simboli, che però nel frattempo hanno perso di valore, di corrispondenza con la realtà.

In mezzo a questo dilemma irrisolto c’è stato un mondo che è andato avanti (o forse indietro) e che non ha sanato, anzi ha acuito, le disuguaglianze. La forbice della ricchezza si è allargata e a dirlo sono i numeri e gli studi di svariati economisti. La distanza tra “centro” e “periferia” è aumentata. E in questo contesto la sinistra, senza saperlo o forse sì, si è trasformata nella miglior garanzia dello status quo: perché quella maggioritaria ha sposato in pieno il modello economico che fomenta quella disuguaglianza, quindi da soluzione è diventata essa stessa parte del problema; e quella identitaria, rinchiusa nel velleitarismo, è diventata un fenomeno da avanspettacolo, con le sue scissioni, ricomposizioni, bassezze umane e politicismi fini a se stessi capaci di sconfinare nel patetico.

La disuguaglianza è realtà quotidiana (lavoro precario, disoccupazione, impossibilità di costruire una propria stabilità seppur minima, welfare sempre più scarno, qualità della vita peggiorata, assenza di prospettive) e porta con sé rabbia e frustrazione. Senza un canale interpretativo, senza una sponda politica con al centro quel tema, la massa degli umili (ormai anche incoscienti di esserlo) a sua volta ha scelto altre due strade: al posto del collettivo la supremazia dell’Io, il mito dell’uomo che si fa da sé, una sorta di sdoganamento dell’egoismo per un verso e del si-salvi-chi-può da un altro; oppure l’affidarsi a chi in mezzo a questo caos sapeva urlare più forte, a chi sapeva offrire risposte semplici a problemi complessi, nascondendo come fanno i maghi il tema generale (la disuguaglianza, sempre quella) per offrirne di altri apparentemente più concreti: e da qui il problema della sicurezza e dell’immigrazione, quest’ultima vissuta come una minaccia, a torto e a ragione; oppure la critica alla “Casta”, spesso sacrosanta, ma funzionale allo spostamento dell’obiettivo.

Così ecco la rottura tra la “sinistra” e quello che in teoria doveva essere il suo mondo di riferimento. Sorgono altre domande: ma lo è ancora? E poi: c’è ancora qualcuno desideroso di farsi carico dei bisogni (e delle contraddizioni) di chi sta sotto? I cinque milioni di poveri che vivono in Italia troveranno qualcuno che sappia spiegargli che, se sono tali, non è solo colpa del fato? Troveranno qualcuno disposto a utilizzare parole non discriminatorie? – perché oggi la povertà è una colpa da espiare quando va male e un problema da relegare al volontariato quando va bene. La sinistra, oggi, così com’è, ha ancora senso di esistere?

Portador de un populismo crítico

Ciarli Natale, GiuliaPingon, transiberiana9

Nell’impermeabile percezione in lingua nazionale, la parola ‘populismo’ si è presentata negli ultimi anni come un termine piuttosto ‘cangiante’.

Fin dagli “anatemi Napolitani”, le migliori menti del patrio suolo si sono esercitate in semestrali arrampicate sugli specchi nel tentativo di cogliere il vero significato della parola. Manco fosse una stella alpina.

Sì, il Made in Italy è impermeabile, ma che succede fuori… piove?
Quasi due mesi fa scrivevo a transiberiana9:

Ieri ho passato mezz’ora su siti di news politiche, blog e forum attivisti spagnoli.
Una ricerca volutamente superficiale, senza badare alla qualità dei contenuti, giusto differenze di percezione.
Lì, il termine ‘populista’ non ha segno solo negativo come da noi…
Leggo titoli e affermazioni che in Italia potrebbero essere considerati eresia: “Syriza no está solo, los Podemos europeos […] el Movimiento 5 Estrellas de Beppe Grillo en Italia también sigue con su auge.”
Podemos è considerato populista sia dai sostenitori che dagli avversari.
I sostenitori di Podemos guardano al MoV come la ‘cosa’ italiana più affine a loro…
Qualcuno dice: la nostra matrice è più di sinistra della loro…
Qualcun altro risponde: questo perché le sinistre italiane sono più ‘casta’ delle nostre.
Usano proprio il termine casta.

Appendiamo un po’ di materiale grezzo generosamente tradotto dall’insostituibile Giulia.
Eventuali ricerche approfondite fatevele da soli: Ciarli Natale non esiste.

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Il tridente antisistema

da elmundo.es, 29.12.2014 – di Silvia Román

Partiti populisti, antisistema, di sinistra radicale. Sono molte le definizioni che accompagnano tre schieramenti che sono attualmente nell’occhio dell’uragano della politica europea: l’italiano Movimento 5 stelle, il greco Syriza e lo spagnolo Podemos. I loro rispettivi leader – Beppe Grillo, Alexis Tsipras e Pablo Iglesias – hanno saputo canalizzare l’indignazione o l’ira di votanti disincantati ed esausti che non credono più nelle soluzioni offerte dai partiti tradizionali, al punto che si stanno avvicinando pericolosamente al potere nei loro rispettivi Paesi.

Il caso più evidente è quello della Grecia, dove, secondo i sondaggi, Syriza vincerà le elezioni anticipate del prossimo 25 gennaio.

I loro detrattori li definiscono “antieuropei”, ma – specialmente – Syriza e Podemos insistono del dichiarare che la loro lotta non è contro l’identità europea, il Vecchio Continente o l’euro. Tsipras e Iglesias (non tanto Grillo) assicurano che la loro politica è anti- Banca Centrale Europea, anti-troika e anti-austerità.

Il loro obiettivo è cambiare il sistema, non solo nei rispettivi Paesi, ma anche nell’Unione Europea ed è per questo che Bruxelles inizia a tremare.

Parecchi analisti concordano nel sostenere che i tre partiti costituiscono un fattore di rischio per la stabilità dell’economia europea  e  della moneta unica, per non parlare del rifiuto totale che l’attuale politica comunitaria manifesta nei confronti del tridente antisistema.

“Sono partiti con soluzioni semplicistiche, lineari, populiste. È preoccupante”, assicura il ministro degli Affari Esteri, José Maria Garcìa-Margallo, in un’intervista concessa a EL MUNDO. D’accordo con il capo della diplomazia spagnola, i leader dei governi europei ribadiscono che Grillo, Tsipras e Iglesias non offrono soluzioni, ma cavalcano il malcontento sociale e l’indignazione per i partiti tradizionali.

In Italia, una delle critiche più note che riceve il M5S è che non agisce, ma si limita ad attendere che il Primo Ministro Renzi fallisca, approfittando inoltre del declino e della scomparsa di Berlusconi.

Duramente criticati per i loro programmi poco consistenti, di sicuro però Tsipras, Iglesias e Grillo sono dei maestri nel crearsi un seguito elettorale. Usano alla perfezione sia internet sia la televisione (fu proprio Grillo a trionfare come comico in tv) e sono riusciti a convincere un nutrito numero di cittadini, che non avevano partecipato alle ultime elezioni, dell’utilità del proprio voto.

“Ci vediamo nelle urne” urlano e twittano i sostenitori di queste figure carismatiche e telegeniche, le quali lasciano al futuro un’eredità misteriosa e preoccupante.

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Syriza non è solo, i Podemos europei

da negocios.com, 16.01.2015 – di Borja Jiménez de Francisco

Le parole di Pablo Iglesias, se da un lato garantiscono che in Europa soffi il vento del cambiamento, dall’altro possono piacere o meno. Di sicuro, però, sono una realtà.

La vittoria di Syriza in Grecia potrebbe mettere le ali ad altri due schieramenti molto simili che cercano il proprio spazio politico in Italia e Spagna: Podemos e il Movimento 5 Stelle.

Questo avviene senza dubbio in Europa, ma anche in Venezuela esiste un altro partito politico che ricorda molto Syriza.

Fernando Herrero-Nieto, presidente dell’osservatorio politico Vonselma e direttore di marketing politico alla URJC, ritiene che “in linea di principio, il partito politico che potrebbe riprodurre lo schema del partito greco o di Podemos sarebbe il Partito Social Venezolano guidato da Maduro. Come è noto, Podemos è nato a Caracas. Non posso dire sia una copia identica dei partiti sopra citati, dal momento che Europa e America Latina sono due contesti diversi, ma vi sono molte similitudini”.

Tornando in Europa, il Movimento 5 stelle di Beppe Grillo continua la sua ascesa in Italia. Alle elezioni politiche del 2013 è stato il partito più votato nel Paese, mentre alle Europee è emerso che 1 elettore su 5 li sostiene.

Senza dubbio, sempre secondo Herrero-Nieto, esiste più di una differenza tra il M5S e, ad esempio, Podemos: “I primi sono ovviamente radicali, diciamo che oggi assistiamo ad una tendenza alla radicalizzazione sia a destra sia a sinistra, ma la diversità rispetto a Podemos è che sì, sono radicali, ma hanno degli argomenti. Per di più l’approccio alla politica è diverso, Podemos fa esclusivamente del populismo”.

E chi parla non è uno qualsiasi. Herrero-Nieto è stato professore di Pablo Iglesias all’Università e racconta sia stato uno studente esemplare, che eccelleva. Uno di quelli con la mano sempre alzata, pronto ad esporre la propria opinione, che superava gli esami con il massimo dei voti.

Quindi il successo di Tsipras potrebbe rappresentare un primo passo verso il trionfo della sinistra in Europa. Gruppi come Podemos e il M5S si staranno sfregando le mani sognando un finale come quello greco.