Razzismo

Parola di Stan

segnalato da Barbara G.

“Mettiamo le cose in chiaro. Il bigottismo e il razzismo sono tra le più letali malattie sociali che infettano il mondo di oggi. Ma, a differenza di un team di super-cattivi in costume, non possono essere fermati con un pugno sul naso, o con un colpo di pistola laser. L’unico modo di distruggerli è di smascherarli, rivelarli per ciò che sono. Il bigotto è animato da odio irrazionale, è uno che odia ciecamente, fanaticamente, indiscriminatamente. Se ce l’ha degli uomini neri, odia TUTTI gli uomini neri. Se una volta uno coi capelli rossi l’ha offeso, odia TUTTI quelli con i capelli rossi. Se qualche straniero ha ottenuto un lavoro a cui aspirava anche lui, se la prende con TUTTI gli stranieri. Odia gente che non ha mai visto – gente che mai conoscerà – con la medesima intensità, con il medesimo veleno.

Ora, non stiamo cercando di dire che è irragionevole per un essere umano provare disprezzo per un altro. Ma, sebbene chiunque abbia il diritto di non apprezzare un altro individuo, è totalmente irrazionale, palesemente folle condannare un’intera razza, disprezzare un’intera nazione, svilire un’intera religione. Presto o tardi, dovremo imparare a giudicarci l’un l’altro basandoci sui meriti di ciascuno. Presto o tardi, se l’uomo sarà mai degno del suo destino, dovremo riempire i nostri cuori di tolleranza. Perché allora, e solo allora, saremo davvero degni del concetto che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, un Dio che ci chiama TUTTI figli suoi.

Pace e giustizia”

Stan Lee, 1968

Fonte: People

16 ottobre e dintorni

di Barbara G.

Discriminazioni, persecuzioni, repressioni, proteste, lotte.

Mobilitazioni, categorie che scendono in campo, metaforicamente ed anche fisicamente, per il rispetto dei diritti di tutti, soprattutto di quelli che sono meno uguali degli altri.

Storie note e meno note, avvenute attorno al 16 ottobre, ma non solo…

Perché ogni storia richiama un’altra storia che merita di essere ricordata, e di servirci come avviso o come una luce di speranza, visti i tempi non proprio brillanti nei quali viviamo.

16 ottobre 1943

Fonte: http://www.storiaxxisecolo.ithttp://www.16ottobre1943.it

La “soluzione finale” per gli ebrei romani arriva il 24 settembre 1943 con l’ordine da Berlino di “trasferire in Germania” e “liquidare” tutti gli ebrei “mediante un’azione di sorpresa”. Il telegramma riservatissimo è indirizzato al tenente colonnello Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma. Nonostante il colpo delle leggi razziali, gli ebrei a Roma non si aspettano quello che sta per accadere: Roma è “città aperta”, e poi c’è il Papa, sotto l’ombra della cupola di San Pietro i tedeschi non oserebbero ricorrere alla violenza. Le notizie sul destino degli ebrei in Germania e nell’Europa dell’Est sono ancora scarse e imprecise. Inoltre, la richiesta fatta il 26 settembre da Kappler alla comunità ebraica di consegnare 50 chili d’oro, pena la deportazione di 200 persone, illude gli ebrei romani che tutto quello che i tedeschi vogliono sia un riscatto in oro. Oro che con enormi difficoltà la comunità riesce a mettere insieme e consegnare due giorni dopo in Via Tasso, nella certezza che i tedeschi saranno di parola e che nessun atto di violenza verrà compiuto. Nelle stesse ore le SS, con l’ausilio degli elenchi dei nominativi degli ebrei forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, stanno già organizzando il blitz del 16 ottobre.

Alle 5,30 del mattino di sabato 16 ottobre, provvisti degli elenchi con i nomi e gli indirizzi delle famiglie ebree, 300 soldati tedeschi iniziano in  contemporanea la caccia per i quartieri di Roma. L’azione è capillare: nessun ebreo deve sfuggire alla deportazione. Uomini, donne, bambini, anziani ammalati, perfino neonati: tutti vengono caricati a forza sui camion, verso una destinazione sconosciuta. Alla fine di quel sabato le SS registrano la cattura di 1024 ebrei romani.

I tedeschi bussarono, poi non avendo ricevuto risposta sfondarono le porte. Dietro le quali, impietriti come se posassero per il più spaventosamente surreale dei gruppi di famiglia, stavano in esterrefatta attesa gli abitatori, con gli occhi da ipnotizzati e il cuore fermo in gola

Giacomo Debenedetti

(…) Alle 14 la grande razzia era terminata. Tutti erano stati rinchiusi nel collegio Militare di via della Lungara. Le oltre 30 ore trascorse al Collegio Militare prima del trasferimento alla Stazione Tiburtina furono di grande sofferenza, anche perché gli arrestati non avevano ricevuto cibo. Tra di loro c’erano 207 bambini.

Due giorni dopo, lunedì 18 ottobre, i prigionieri vengono caricati su un convoglio composto da 18 carri bestiame in partenza dalla Stazione Tiburtina. Il 22 ottobre il treno arriva ad Auschwitz.

Dei 1024 ebrei catturati il 16 ottobre ne sono tornati solo 16, di cui una sola donna (Settimia Spizzichino). Nessuno degli oltre 200 bambini è sopravvissuto.

Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini … e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli… Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? “Campo di concentramento” allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager

Settimia Spizzichino (da “Gli anni rubati”)

16 ottobre 1968 – 50 anni fa

Messico ’68, Black power revolution

Fonte: storiedisport.com

Siamo nell’anno dell’assassinio di Martin Luther King, della primavera di Praga, del Maggio Francese, del sangue di Bob Kennedy. Periodo storico eufemisticamente delicato, crocevia del novecento, quando il futuro chiamava a gran voce e ancora troppo spesso la violenza rispondeva.

Norman, Smith, Carlos

Olimpiadi di Città del Messico. L’Olympic program for human rights nacque l’anno precedente per raccogliere a sé gli atleti di colore portandoli a boicottare i Giochi, perché sarebbe stato inutile “correre in Messico per strisciare a casa”. Impresa troppo complicata; gli atleti decisero di partecipare ma vollero raccogliersi sotto una coccarda, un messaggio appeso alla tuta, simbolo di quella protesta.

A testa alta.

I duecento metri piani videro Tommie Smith trionfare; record del mondo, il primo uomo (uomo, non “bianco” o “nero”) al di sotto dei venti secondi. Un risultato entusiasmante, un muro abbattuto.

Non sarà l’ultimo.

La medaglia d’oro e quella di bronzo John Carlos sono vicini, nel sottopassaggio dello stadio, in attesa di mostrarsi al mondo non come atleti, ma come uomini. I due stanno per fare un gesto che la storia ricorderà per sempre; e che al tempo stesso brucerà irrimediabilmente le loro carriere.

Il secondo classificato, Peter Norman, australiano, bianco, è al loro fianco. Chiede loro la coccarda, quella coccarda, perché “sono solidale con voi, si nasce tutti uguali e tutti con gli stessi diritti”.

Carlos dimenticò i suoi guanti, neri come quella pelle che stava ribellandosi a una violenza troppo profonda per essere ancora sopportata, e Norman suggerì ai due di dividersi quelli di Smith. Fu questo il motivo per cui uno alzò il pugno destro e l’altro il sinistro.

Quel pugno alzato al cielo era in onore dei fratelli che stavano combattendo per i loro diritti, fratelli ghettizzati e massacrati, come a Selma. Il black power salute contro ogni tipo di razzismo.

Scesi dal podio la loro vita sarà un inferno, la loro carriera bruciata, finita.

Per sempre.

Ma ancora una volta lo sport fu portatore di qualcosa di unico, bello, rivoluzionario. Che ancora oggi, grazie a due uomini veri, uniti, scalzi, ricordiamo.

Di questa storia, però, ci ricordiamo solo i due protagonisti di colore. I protagonisti però erano tre, come si intuisce dal testo sopra riportato, ed è il caso di dare il giusto riconoscimento anche a Peter Norman, anche lui “ghettizzato” dopo quel podio. Un riconoscimento che in patria è arrivato tardissimo, postumo (Norman, tuttora recordman nazionale sui 200, è morto nel 2006), con le scuse del Parlamento arrivate sei anni fa e la concessione da parte del Comitato Olimpico dell’Ordine al Merito.

Ecco la sua storia.

Sono uguale a voi. Quel volto bianco accanto ai pugni neri

di Gianni Mura – repubblica.it, 28/06/2018 

Bisogna sforzarsi di non guardare i due a testa bassa, il pugno chiuso alzato in un guanto nero, calze nere e niente scarpe, sul podio.

Bisogna concentrarsi sull’atleta di sinistra, bianco, lo sguardo dritto, le braccia lungo i fianchi.

Bisogna ricordare alcune cose, di quel 1968 perennemente associato al Maggio francese. Il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre Culture poco prima che cominci l’Olimpiade messicana.

Bisogna sapere che la finale dei 200 metri la vince Tommie Smith in 19″83 (primo a scendere sotto i 20″) davanti a Norman (20′ 06″) e Carlos (20′ 10″). Carlos parte forte, troppo forte. Smith lo passa a 30 metri dalla linea e corre gli ultimi 10 a braccia alzate. Norman ai 100 metri è solo sesto, viene fuori nel finale, supera Carlos negli ultimi metri.

Bisogna sapere che nel ’67 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, voce baritonale, discreto discobolo, ha fondato l’Ophr, Olympic program for human rights. L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare. Chi aderisce porta il distintivo, una sorta di coccarda, ed è libero di manifestare la sua protesta come crede. Smith e Carlos, accolti alla San José perché bravi atleti, a loro volta studenti di Sociologia, portano il distintivo e vogliono manifestare.

Bisogna anche avere un’idea sull’età dei tre sul podio. Tutti nati nel mese di giugno. Smith nel Texas, settimo di undici figli. Ha 24 anni. Suo padre raccoglie cotone. Norman è il più anziano, ha 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto credente e vicina all’Esercito della salvezza. Carlos ha 23 anni, è figlio di un calzolaio, nato e cresciuto ad Harlem. Appena giù dal podio la loro carriera sarà finita, bruciata, e la vita un inferno. Ma loro non lo sanno e, se lo sanno, non gliene importa.

Nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo (ogni pietra è un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos spiegano. E Norman dice: «Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti». Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta. C’ è un problema, Carlos ha dimenticato i suoi guanti neri al villaggio, mentre Smith ha con sé quelli comprati da Denise, sua moglie. «Mettetevene uno tu e l’altro tu», consiglia Norman.

Così fanno. Smith alza il pugno destro e Carlos il sinistro. «Se ne pentiranno tutta la vita», dice Payton Jordan, capo delegazione Usa.

Vengono cacciati dal villaggio, Smith e Carlos. Uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York e come buttafuori ad Harlem. Sono come appestati. A casa di Smith arrivano minacce e pacchi pieni di escrementi, l’esercito lo espelle per indegnità. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Solo molti anni dopo li riprenderanno a San José, come insegnanti di educazione fisica. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico.

Norman in Australia viene cancellato. Supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ‘ 72 non lo mandano. Nessuna spiegazione. Gioca a football ma smette per un infortunio al tendine d’Achille, rischia l’amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato (col suo 20″06 avrebbe vinto l’oro). Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre. La banda suona “Chariots of fire”. Il 9 ottobre diventa, su iniziativa Usa, la giornata mondiale dell’atletica. Il nipote Matt ha girato un lungometraggio sul nonno, intitolato “Salute”, trovando pochi finanziatori in patria («È una storia che riguarda due atleti neri»).

Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. «Sono affari vostri», poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.

Primavera di Praga e Olimpiadi di Città del Messico

Sempre alle olimpiadi di Messico ’68 c’è stato un altro gesto di protesta, meno noto rispetto a quello di Smith e Carlos, ma comunque significativo.

La ginnasta ceca Vera Cáslavská, salita sul podio più volte durante la competizione, durante le premiazioni delle gare vinte da atlete sovietiche al momento dell’inno nazionale si volta dall’altra parte e abbassa lo sguardo, in segno di protesta contro la repressione della Primavera di Praga, e ciò la rende persona non gradita dal nuovo regime.

Vera, Tommie, Peter, John… e gli altri

Non ci sono solo queste storie con protagonisti atleti. Spesso il mondo dello sport si è fatto portatore di battaglie in difesa dei diritti di tutti. Gli atleti statunitensi contro le violenze sui cittadini di colore, i calciatori greci contro le stragi nel mediterraneo. Alcuni di questi episodi sono raccolti nel video che Repubblica.it ha dedicato ai “50 anni di sport ribelle“.

16 ottobre… padano

La vicenda di Lodi e delle agevolazioni mensa negate ai figli di immigrati può sembrare a qualcuno un fatto “minore”, compensabile (anche se non è giusto) dalla solidarietà altrui, ma sono anche tutti questi “fatti minori”, le discriminazioni quotidiane e diffuse, a generare un clima di insofferenza, diffidenza, odio, esclusione sociale. Una brutta aria che aleggia intorno a noi, e negli sguardi, nelle parole, nelle azioni vediamo 50 sfumature di un nero che non piace. Casi simili si sono verificati anche in altre città e regioni, ed è notizia recente che, con lo stesso…”stratagemma”, si sta cercando di escludere i figli dei migranti dalle agevolazioni per acquisto dei libri scolastici.

La cosa che fa incazzare (e che, una volta tanto, fa storcere il naso anche a qualche destrorso) è il fatto che si utilizzino i bambini come strumento per fare del male, loro che sono i più vulnerabili, e che sono i semi per una futura integrazione, per una società che, piaccia o meno, è destinata a diventare multietnica.

Ma la società civile in questo caso ha dato un esempio fantastico, reagendo prontamente con numerose iniziative finalizzate a sensibilizzare la cittadinanza sul problema. La colletta organizzata per coprire i maggiori costi dei buoni mensa ha raccolto, in due soli giorni, ben più della somma necessaria. E ieri, 16 ottobre, in piazza Broletto (davanti alla sede del Comune), si è tenuta una manifestazione che è durata tutto il giorno, con panini e merende solidali, spettacoli per i bambini, alla presenza di famiglie di tutti i colori e con vestiti sgargianti, nonne che spiegavano ai nipotini il significato della manifestazione, insegnanti che si sono impegnati attivamente in difesa dei propri alunni.

Sperando di spingere l’Amministrazione a rivedere la decisione, ma non solo: bisogna cogliere ogni occasione per far vedere che non si piega la testa davanti alle discriminazioni.

Lodi, piazza Broletto, 16/10/2018

L’odio

segnalato da Barbara G.

Pierpaolo Capovilla: «Ho perso un amico»

Il frontman di One Dimensional Man ha vissuto la questione Rom – Salvini in prima persona e ce la racconta

di Pierpaolo Capovilla – rollingstone.it, 28/06/2018

Ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente che mi circonda.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente tutta insomma.

Ciò che sto per dire è interamente vero, con l’unica eccezione del nome del mio amico, l’amico che fu, e che per pietà cambierò con uno di fantasia. Lo chiamerò Alvise, un nome adespota, senza il santo in calendario, ma fra i più diffusi nella mia città, Venezia, la cui storia è piena zeppa di patrizi e dogi che portarono questo nome. Cambierò anche il nome della sua ragazza, che comunque non ricordo.

Venerdì sera, a Venezia, appunto.
Sto preparando una cenetta che mi auguro deliziosa, per Elisa, la mia compagna, e per me, che adoro cucinare. Ceneremo molto tardi, come sempre. Vorrei servirla in terrazzino, al fresco della brezza serale, che già soffia decisa.
Vado al supermercato più vicino, quello in Salizada San Lio, giusto prima che chiuda, sono ormai le 21 e 30, a fare un’ultima spesa. Mi mancano il parmigiano, un po’ di mentuccia, e una bottiglia di Salice Salentino, il mio rosso preferito. Ritorno verso casa in tutta fretta, ma mi fermo un attimo in un pub irlandese, in Calle del Mondo Novo, giusto per un aperitivo, solitario y final, ma sopratutto per vedere chi sta vincendo fra Svizzera e Serbia.
La Serbia mi affascina, da sempre. Il prossimo viaggio che faremo, io ed Elisa, sarà a Belgrado. Se proprio devo fare il tifo, questa sera, tifo Serbia.
Nel pub incontro Alvise, un vecchio amico che non vedo da anni.

È strano, ma lo avevo pensato qualche giorno fa, il buon Alvise. Sarà la solita sincronicità.
Sotto lo sguardo un po’ torvo e un po’ stupito dei tanti svizzeri che gridano nel pub, Alvise, che è lì con Nadia, la sua ragazza, la stessa di sempre, si mette a gridare anche lui: Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via!.
Scoppio a ridere. Il vecchio compagno non è cambiato!
Mi vengono in mente le interminabili discussioni alla Letizia, l’osteria che frequentavamo, dalle parti di Rialto, sull’Unione Sovietica, l’internazionalismo, Berlinguer e l’eurocomunismo. Tutto perduto, nella notte dei tempi, come un mito lontano.
Lo inseguo immediatamente. Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via! Scenetta divertente.
A quel punto un bel signore, di una certa età, si avvicina e si aggiunge sorridente al nostro coretto provocatorio. È serbo, questo signore così magro, il volto affilato, gli occhi azzurrissimi. Un bel tipo. Come Alvise anche lui è ubriaco. Ci faccio due chiacchiere. È proprio di Belgrado, ed è qui a Venezia per lavoro.

Da quanto non ci vediamo?
Alvise ci pensa qualche secondo.
Saranno tre, quattro anni!
Ma sei stato via?
No, affatto. Sempre qui in città.
È strano. Malgrado Venezia sia così piccolina, a volte ci si perde di vista. Entrambi abbiamo cambiato casa e sestiere negli ultimi anni; qui a Venezia funziona così, ognuno si vive il suo pezzetto di città, si rintana nel proprio angolino, il più lontano possibile dai turisti, anche se ormai sono dappertutto, anche nei luoghi più nascosti, un tempo ignorati dai “foresti”. Google Maps e Airbnb hanno trasformato Venezia in un percorso guidato e in un immenso albergo; i croceristi scendono dalle navi, dalla porta del vicino sbucano fuori messicani, una mattina alle sei e mezza due corpulente americane ti chiedono se tu sia certo che la casa in cui vivi non sia quella che hanno prenotato. Ho dovuto mettere un avviso sulla porta di casa: “This is not a B&B”.

Alvise, che fa il gondoliere, s’è comprato un bell’appartamento, spazioso e confortevole, in un palazzo antico, dalle parti di Campo Santo Stefano. Io invece sto in un modesto appartamentino, un bilocale al piano terra, esente acqua alta, come si dice da noi, vicino a San Lorenzo.
Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e io inevitabilmente gli chiedo se tifi ancora per il Livorno. L’ho conosciuto così, Alvise, parlando di calcio, e quella volta se ne uscì con questa passione ‘amaranto’. Mai mi sarei aspettato che un gondoliere veneziano potesse essere un tifoso, un tifoso accanito, del Livorno. Singolare.

Ti fai ancora le trasferte?
Alvise mi dice che… No, ormai il Livorno non gli interessa più. È retrocesso in C, mi spiega. S’è pure stufato del calcio in genere. Ora preferisce il rugby.

Io non sono un tifoso, ma il calcio mi piace. Lo sport più bello del mondo, altroché. Mi piace perché conservo in me il ricordo di quel grand’uomo di Bearzot e della sua nazionale, campionessa del mondo. Di Zoff, Scirea, di quell’opportunista di Paolo Rossi, e poi Conti, Cabrini, Tardelli. E poi Pertini. Quanto era bello, Pertini. Avevo quattordici anni, e a quel tempo il calcio mi piaceva eccome. Mi entusiasmava. I ragazzini amano il calcio.
Ad un certo punto Alvise mi chiede: ti piace il biliardo?
Resto sorpreso. Un’altra sincronicità.
Io adoro il biliardo. Non sono bravo, non sono mai stato bravo in alcuno sport né in alcun gioco che preveda specifiche abilità motorie, lo ammetto. Ma mi piace davvero, e proprio in questi giorni stavo pensando di andare a passare una serata in quella sala che c’è a Mogliano, proprio dirimpetto alla stanza prove dove suono con One Dimensional Man. Ci andrei anche da solo, giusto per allenarmi un po’, e per vedere se ancora riesco a mettere qualche biglia in buca.

Alvise mi dice di avere un tavolo a casa.
Hai un tavolo a casa?
Si! Vieni a fare un paio di partite!
Ci penso su.
Ci vengo eccome!

In un battibaleno decido di lasciar perdere la cenetta in terrazzino.
Chiamo Elisa per dirle che farò un po’ tardi, ma sta ancora lavorando, e non mi risponde.
In dieci minuti sono a casa di Alvise e Nadia.
Nadia prepara delle bruschette, Alvise una canna d’erba, di quella super buona. A me affidano il compito di scegliere ed aprire una bottiglia di vino bianco. Trovo un Malvasia del Carso, eccezionale.
Tutto è eccezionale questa sera!
E fra poco… Lo sarà ancor di più.
Ci fiondiamo al tavolo. È di tipo americano, con le buche molto più larghe di quelle a cui ero abituato, e penso: meglio così, la mia figuraccia sarà meno penosa.

Alvise mi confida d’averlo comprato non soltanto per la passione per il biliardo, ma per invitare gli amici a casa, che quando capiscono di poter giocare a gratis, non ci pensano su due volte. Esattamente quel che ho appena fatto io.
È soddisfatto, felice di compiacermi. E sono felice anch’io.

La prima partita, giochiamo a palla otto, la stravince Alvise. E ci credo. Però io non sono così male. Alvise osserva la mia postura, e mi dice: ma allora sai giocare!
Sono inorgoglito.
Nella seconda partita do il meglio di me, e con un po’ di fortuna passo in vantaggio. Complice una spaccata favorevole le biglie si distribuiscono propizie, scelgo le piene, e ne metto in buca tre di fila.
Poi Nadia ci chiama in cucina per le bruschette.
Nadia è una donna buona e gentile. Sembra un po’ svampita, come se vivesse in un mondo tutto suo, e mi sembra di riconoscere in lei quei classici aspetti di chi fa uso di psicofarmaci. Niente di strano, penso. Le benzodiazepine sono fra i farmaci più venduti al mondo. Quel che non mi piace di lei, è la sua arrendevolezza. Alvise la tratta in modo un po’ rude, un po’ padronale, patriarcale. Incomincia a non piacermi neanche lui.
A tavola beviamo e fumiamo ancora. Ormai sono alticcio pure io, mentre Alvise è decisamente su di giri. La cosa non mi preoccupa neanche un po’ perché è sempre stato così, il buon Alvise. Un vero alcolista, uno di quelli che ci danno dentro tutto il giorno.

Gli chiedo cosa ne pensa del nuovo governo.
“Na manega de stronsi”, mi dice in perfetto veneziano, non veneto o mestrino, ma veneziano DOC. “No cambia mai na sboraa”. Questa è una di quelle locuzioni vergognose che si usano a Venezia, la parola “sboraa” significa “sborrata”, e molti qui la usano in continuazione, intercalandola in ogni dove.
“Però Salvini no xe mae!”…
Perché, ti piace quel fascista?
“No xe fascista! È un p-r-a-g-m-a-t-i-c-o”.
Incomincia una discussione che avrei preferito non dover fare mai.

Ma insomma. Un ministro dell’Interno appena insediato che si scaglia come un cane rabbioso contro gli immigrati, contro gli oppositori politici, contro i Rom, ma fammi il piacere Alvise! Ma non hai capito di che pasta è fatto quell’individuo? Non lo vedi come parla, ogni santo giorno, come se fosse ancora in piena campagna elettorale. Io lo trovo indecente, altro che pragmatico. E poi scusa, che vuol dire pragmatico? Uno che vorrebbe che la gente si armasse per sparare ai ladri, come in America, santiddio, lo chiami pragmatico.

Siamo ubriachi, tutt’e due. In Vino Veritas.
Ma a questo punto scopro qualcosa che non avrei voluto scoprire.
Alvise odia gli zingari.
Li odia con rancore, con livore, con astio. Un risentimento profondo, come se avesse subito un torto grave.
Non lavorano, mi dice.
Trovami uno zingaro che abbia mai lavorato!
Non lavorano e rubano, rubano i bambini, ‘sti porsei!
Alvise… Ma che diavolo dici.

Non sono certo tutti uguali. Ce n’è che lavorano. Gli zingari sono degli amanuensi straordinari, e sono dei musicisti straordinari. Se non lavorano è perché la gente ha paura di loro, una paura ancestrale. Se vivi in un campo Rom, e non hai neanche l’acqua per lavarti, chi vuoi che ti dia un lavoro. È un cortocircuito, è evidente. Più ti spingono verso i margini, e più verrai emarginato. E poi, diciamocelo, che problema potranno mai rappresentare duecentomila zingari in un paese di sessanta milioni d’abitanti. Sai cos’è che ti fa incazzare? Il fatto che siano poveri, ma che ce la facciano ugualmente. In barba a tutti. Sono i più poveri di tutti. E proprio per questo stanno insieme, in piccole o grandi comunità, perché quando sei povero, anzi misero, se sei da solo crepi, se stai in una comunità sopravvivi. Che male c’è?

Ma ne hai mai conosciuto uno? Gli hai mai stretto la mano? Prova a stringere la mano ad uno zingaro. Prova a fargli un sorriso, a fargli capire che non gli sei nemico. Prova ad abbracciarlo! A me è successo, più di una volta. E ho visto negli occhi di quel mio fratello, come dire, … Amore. Un amore improvviso, repentino, e sorpreso. Sorpreso, si, anzi stupefatto.

Nessuno li avvicina, tutti gli stanno lontano almeno due metri, manco fossero bestie fuggite dallo zoo: se gli dai un sorriso, una moneta magari, ma non guardando dall’altra parte, guardandolo negli occhi, con un briciolo di cristiana compassione, scatta in loro subito un moto d’amore, una sorta di complicità umana, umanissima. Li trovo bellissimi.

Aò, gli faccio in romanesco, a Roma n’ho incontrati de spaventevoli, e ‘mo me so allontanato pur’io!
Te ne potrei raccontare un paio di interessanti. Una volta, a Roma, ero con Federico, che c’aveva un rolex esagerato e …

Ucciderli tutti, bisognerebbe, dice Alvise.
Ucciderli?
Tutti e duecentomila?
Si. Tutti.

A questo punto incomincio a incazzarmi. Mi prendo una pausa di riflessione.
Penso che Alvise non poteva sapere della mia passione per questa gente e per la loro cultura. L’avversione per gli zingari è ormai cosa comune, dev’esserci cascato anche lui. E poi è sbronzo. A volte da sbronzi si dicono stupidaggini gigantesche.

Lo guardo, Alvise, negli occhi.
Anche lui mi guarda, con aria di sfida.
Ma non eri un compagno, Alvise? Che ti succede?
Compagno? E che vuol dire compagno?
Vuol dire comunista, Alvise. E cos’altro, altrimenti?

I comunisti, Paolo, possono esistere solo in un paese comunista. Che senso ha oggi, in Italia, essere comunisti. È un controsenso.
Ma che diavolo dici! Essere comunista vuol dire stare dalla parte degli ultimi, o no? Tanto mi basta. Vuol dire credere nella grandezza del cuore umano, come direbbe Majakovskij, ma vuol dire anche combattere i nostri egoismi, quelli che ci portiamo appresso ogni giorno, per paura e per aridità, come diceva Pasolini. Insomma, io posso essere comunista anche qui in Italia, in questo momento storico. E infatti, lo sono. E lo eri anche tu.
Alvise è stordito ormai. Troppe birre a doppio malto al pub, troppo vino a casa, quella canna troppo forte, e per di più Capovilla e i suoi poeti e le sue interminabili citazioni. Io, di colpo, mi sento più sobrio che mai.

Alvise, amico mio. Sei cambiato, vedo.
Ma che t’hanno fatto gli zingari, per odiarli tanto.
“A mi? Gnente, diocan! Che i ghe prova!”

Ma se non t’hanno fatto niente, da dove ti viene tutto questo odio nei loro confronti? Perché ne parli come se… T’avessero ammazzato un parente. Non lavorano? E ci credo, nessuno offre loro un lavoro. Ma in realtà non è vero. Anche loro lavorano, fanno quel che possono. Io ne conosco uno, si chiama Vasco, è un mio caro amico, ed è un pittore straordinario.
Pittore! Un artista… Quello non è un lavoro, mi dice Alvise.

Vedi Alvise, gli zingari, come tu li chiami, non godono di “riconoscimento sociale”. È una definizione che si usa in sociologia. Un extracomunitario, socialmente, lo riconosciamo, è un immigrato. Lo zingaro invece, non è nessuno. Ma non è sempre stato così. Trent’anni fa non avevamo un rapporto così ostile con loro. Persino nella musica! Pensaci. Te le ricordi le canzoni? “Zingara”, era Bobby Solo. Bobby Solo! Vinse a San Remo! E va beh… Era il sessantanove, noi eravamo appena nati, ma la canzone ce la ricordiamo! E poi, negli anni ottanta, Umberto Tozzi! Si! Tozzi. Non te la ricordi quella canzone? Io la so quasi a memoria… “Zingaro, voglio vivere come te, andare dove mi pare, non come me…”. Umberto Tozzi! Non so perché, ma mi è sempre piaciuto. Che resti fra me e te. E che dire di quel capolavoro di Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”, te la ricordi? È bellissima, è commovente, è vera, è una canzone stupenda, dai…

Alvise mi guarda stupito, ma continua a subirmi. La canna mi ha reso loquace.
Io non ho cambiato idea. Non cambio le mie idee. Ho preso una decisione, tanti anni fa, ed è una decisione “politica”, che più “politica” non si può. Io sto dalla parte degli ultimi. E sto dalla parte dei Romanì. Si chiamano così, Alvise. Romanì, non zingari. Li abbiamo disumanizzati, per ridurli nella più cupa emarginazione. Dovremmo fare un bell’esame di coscienza, tutti quanti. Una democrazia la si riconosce quando rispetta le minoranze. E ci vuole rispetto per il popolo Romanì. Altroché! L’unico popolo al mondo a non aver mai mosso guerra a un altro popolo. Sempre scacciati via. Sempre esclusi e perseguitati, ecco perché sono diventati nomadi. Gli unici ad aver tentato una rivolta in un campo di sterminio, proprio ad Auschwitz, dove tennero sotto scacco le SS per mesi, e ne uccisero pure un po’. Poi furono tutti massacrati e bruciati, a migliaia. Ci vuole rispetto per questa gente, per Dio!

Alvise sembra non credere a ciò che sta ascoltando.
Sbarra gli occhi imputriditi di rabbia.
Mi fissa.
Attende qualche secondo, concentrato.
In un perfetto italiano questa volta, con calma, una calma terrificante, alzando la voce e scandendole bene, mi dice queste parole. E che dio mi perdoni.
“Se anche fosse una ragazzina quindicenne incinta. Se la trovassi a scassinare la mia porta. Le infilerei un coltello in pancia. E ucciderei il bambino, per primo”.

Sono pietrificato.

Nadia gli dice… Beh… Non ti sembra di esagerare un po’.
Cerco le forze. Dove sono, le mie forze?
Non so se sprofondare o se alzarmi di scatto e tirargli un cazzotto in faccia.
Cerco di rimanere calmo.
Mi metto una mano sul petto, e tiro un respiro profondo.
Mi sento desolato. Mortificato. Un soffio di morte, lo sento, nei polmoni.

Prova a ripetere ciò che hai detto, se ne hai il coraggio.
Alvise si alza, mi si avvicina flemmatico e porta il suo viso vicino al mio.
E le ripete.
Lentamente.
Uguali a prima.
Se anche fosse una ragazzina incinta…
Poi si allontana, con un ghigno ebbro e avvinto. Si avvia verso il salotto, e si siede. Si accende una sigaretta.

Guardo Nadia. La guardo negli occhi.
È dispiaciuta. È imbarazzata.
Non ci diciamo niente.
Restiamo in silenzio per un paio di minuti.
Decido di andarmene.
Il corridoio è buio.
Non ricordo dov’è l’uscita di casa.
Osservo Alvise per un ultimo istante, seduto su quel bel divano di pelle nera.
Ha l’aria smarrita.
Credo si senta colpevole di qualcosa.
Me ne vado Alvise. Giocheremo un’altra volta.
Alvise si alza, e mi accompagna alla porta.
È affranto, si vede.
“Ho soltanto espresso francamente il mio pensiero”.
Poi aggiunge, “mi dispiace”.
Lo guardo negli occhi, l’antico amico.
Il compagno.
Di bisbocce e sbronze, di sovietiche discussioni.

E mi viene in mente quella sera di tanti anni or sono, alla Letizia, quando due fasci di Forza Nuova, durante un dibattito di bestemmie, impaurirono allo sguardo furioso di Alvise, e se ne andarono alla chetichella, senza proferire una sillaba.
Ora Alvise non fa paura più a nessuno.
Il suo sguardo è rassegnato, si è chiuso in se stesso, in quell’odio primigenio, quella cosa abominevole che chiamiamo razzismo.
Con un po’ d’assurdo amore, gli rispondo.
Dispiace anche a me.
Non sai quanto.

Venerdì sera ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente.
Il popolo del Paese in cui vivo sta diventando un mostro.

Un razzista alla Casa Bianca

Stephen Bannon, un razzista alla Casa Bianca

Il 28 gennaio 2017 Donald Trump ha invitato Stephen Bannon, già consulente strategico del presidente, a far parte del Consiglio nazionale per la sicurezza, un posto normalmente riservato a esperti militari.

internazionale.it, 04/02/2017 – da Die Zeit, Traduzione di Nicola Vincenzoni

Le elezioni presidenziali statunitensi sono passate da pochi giorni e la normalizzazione di Donald Trump è già cominciata. I mezzi d’informazione riferiscono con sollievo che forse Trump non vuole costruire un muro lungo tutto il confine con il Messico, ma una combinazione di muro e recinzioni. O che risparmierà un paio di capitoli della riforma sanitaria voluta dal suo predecessore Barack Obama. Da alcuni giorni si parla anche della nuova vita della futura famiglia presidenziale: si è scritto che Trump continuerà a trascorrere i fine settimana a New York, e che suo figlio è sembrato molto assonnato quando, alle tre di notte, il padre ha tenuto il discorso di accettazione della presidenza.

Anche i nomi di chi occuperà i ruoli chiave della prossima amministrazione sono annunciati come se fossero una cosa normale. Come capo del suo staff Trump ha scelto il repubblicano Reince Priebus, 44 anni, che avrà compiti amministrativi e coordinerà gli uffici del presidente. Come consulente strategico invece il presidente eletto ha voluto accanto a sé Stephen Bannon, esponente di punta della alt-right(alternative right, l’estrema destra) e già responsabile della sua campagna elettorale.
Ma la nomina di Bannon non è affatto una cosa normale. Con lui entra nei ristretti circoli del potere un uomo che non ha mai fatto mistero di voler distruggere il governo di Washington e rimpiazzarlo con un movimento nazionalista. Il fondato timore è che Trump continuerà ad ascoltare i consigli di Bannon anche ora che è diventato presidente.

L’influenza di Bannon traspare già dal comunicato stampa rilasciato dalla squadra di Trump, in cui il consulente strategico viene citato come figura istituzionale di spicco prima ancora di Priebus. Trump, infatti, ha bisogno di Bannon. È riuscito a battere la rivale democratica Hillary Clinton, ma ora ha inizio una nuova fase per la quale non ha ancora un piano. A questo penserà Bannon. Già durante la campagna elettorale è stato il principale ideologo dell’avanzata di Trump, che ha un debole per quest’uomo disciplinato, intelligente ed estraneo all’ambiente di Washington proprio come lui.

Priebus, che finora è stato presidente del comitato nazionale repubblicano, una sorta di segretario del partito, ha buone relazioni nel congresso e con il presidente della camera Paul Ryan, che Trump e Bannon disprezzano perché in campagna elettorale ha preso le distanze dal candidato repubblicano. A Priebus, che in teoria dovrebbe essere il secondo uomo più potente della Casa Bianca, rimarrà solo il ruolo dell’amministratore che manda avanti la detestata macchina politica.

Per quanto tempo? Almeno fino a quando Bannon non avrà raggiunto il suo obiettivo: trasformare il Partito repubblicano in un partito etno-nazionalista e distruggere l’“agenda globale” repubblicana basata sul libero commercio e su politiche migratorie moderate. Fino a che non avrà fatto piazza pulita delle élite. Gli strumenti per la sua crociata li ha magistralmente messi a punto negli ultimi anni: razzismo, antisemitismo, odio per l’establishment.

Un nemico per tutti
La postazione da cui finora ha tessuto la sua trama è il sito di informazione di destra Breitbart News. Bannon lo dirige da quattro anni e lo ha trasformato in una piattaforma per tutti gli statunitensi bianchi che si sentono, o hanno cominciato a sentirsi, stranieri nel proprio paese. Non ha temuto di mostrarsi vicino ai neonazisti o al giovane movimento alt-right nato nelle chat su internet e ossessionato dalla virilità e dai “privilegi dei bianchi”.

Sul suo sito Bannon è riuscito a far convergere la rabbia dell’estrema destra, finora completamente disorganizzata, verso l’islam, gli omosessuali, gli ebrei e la società liberale. Su Breitbart il femminismo è paragonato al cancro e Obama è accusato di aver “importato” negli Stati Uniti sempre più musulmani “colmi d’odio”. Le notizie hanno titoli come: “Clandestino già rimpatriato in passato viene filmato mentre distrugge un manifesto elettorale di Trump”; “La polizia mette in guardia contro un’escalation di stupri a Malmö dovuti alla presenza di immigrati”; “Immigrato siriano accusato di pluriomicidio con fucile d’assalto”.

Con Breitbart, Bannon ha creato una piattaforma che unisce tutti contro un unico nemico: la classe politica di Washington. E in Donald Trump ha visto lo strumento con cui rovesciare l’establishment repubblicano.

A ottobre Breitbart ha avuto 37 milioni di visitatori. Eppure l’influenza esercitata dal sito continua a essere sottovalutata dai mezzi d’informazione tradizionali. Per la società di analisi Newswhip, Breitbart è la principale fonte dei contenuti politici pubblicati sui social network in tutto il mondo. Gli articoli di Breitbart sono più letti di quelli di New York Times, Washington Post e Wall Street Journal messi insieme. Tra maggio e giugno più di nove milioni di persone hanno letto o condiviso articoli di Breitbart su Facebook e Twitter. Il Washington Post arriva a 3,3 milioni di utenti, il Wall Street Journal a 2,9. Il New York Times non è nemmeno tra i primi venti.

Di fronte a questi numeri non sorprende che la maggioranza degli elettori di Trump pensi ancora che Barack Obama sia musulmano. Durante la campagna elettorale, Breitbart è stato per Trump quello che la National Review era stato per Ronald Reagan o Fox News per George W. Bush. Ora diventerà la voce ufficiale dell’amministrazione Trump? Una macchina propagandistica del futuro che con campagne diffamatorie, bugie, mezze verità e tirate contro il senso comune detterà la rotta ai mezzi d’informazione tradizionali?

E l’Europa sarà più preparata ad affrontare il fenomeno? Breitbart progetta di espandersi a Parigi e a Berlino. Dal 2014 il sito ha un ufficio a Londra, che ha contribuito alla vittoria del leave al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Il direttore della redazione londinese è stato uno stretto collaboratore di Nigel Farage, il leader del partito euroscettico di destra Ukip.

Bannon non vuole cambiare solo gli Stati Uniti. Vuole creare un movimento mondiale mettendo insieme i partiti e i gruppi nazionalisti accomunati dall’odio per le élite globali. Le elezioni che si terranno nel 2017 in Francia, Germania e Paesi Bassi rappresentano i prossimi fronti di questa battaglia. In una delle sue rare interviste, Bannon ha dichiarato: “La politica statunitense è cambiata in modo fondamentale. In tutto il mondo le persone vogliono più controllo sulla loro terra, sono orgogliose della loro patria. Vogliono i confini. Vogliono la sovranità. Il nostro movimento è solo l’inizio”.

Il fuoco della patria
Nell’ultimo anno Bannon ha dimostrato di padroneggiare abilmente tutti i mezzi della propaganda. Il New York Times e il Washington Post hanno pubblicato in prima pagina lunghi articoli sulla fondazione di Hillary Clinton e sulle sue discutibili pratiche finanziarie. Alla base delle inchieste c’era il libro Clinton cash, commissionato dal milionario Bannon. A scriverlo è stato uno storico del Governement accountability institute, l’istituto di ricerca fondato e finanziato dallo stesso Bannon. Il suo calcolo è stato che gli attacchi di quotidiani autorevoli avrebbero conferito maggiore credibilità a quelli di Trump e Breitbart. Il New York Times e il Washington Post hanno contribuito a seminare il dubbio, e Trump e Breitbart hanno raccolto i frutti. Perfino l’Fbi ha usato il libro per le indagini sulla Clinton foundation. Le accuse non sono mai state provate, ma sono state più che sufficienti per danneggiare l’avversaria di Trump.

Incontrando Stephen Bannon di persona si resta sorpresi prima di tutto dai suoi modi sommessi e riservati, che contrastano con la sua statura e la sua figura massiccia. Con il ciuffo biondo cenere spettinato e la barba di tre giorni, sembra sempre un po’ trasandato. Bannon ha servito nella marina statunitense, ha lavorato al Pentagono e ha studiato a Harvard. Ha fatto molti soldi, con Goldman Sachs prima e a Hollywood poi. Ha lavorato con Sean Penn ed è tra i produttori di Seinfeld, la serie tv di successo per la quale ancora oggi incassa ricche percentuali.

Un bel giorno finanziare i film degli altri non gli è bastato più, così Bannon ha cominciato a produrre i propri, che riflettono la sua visione politica. Come soggetti ha scelto Ronald Reagan, il movimento Tea party e l’idolo della destra Sarah Palin. Nel documentario Fire from the heartland celebra Palin come un’eroina, una conservatrice che ama la sua terra e i suoi figli, è sposata e non appartiene “all’orda delle lesbiche”.

Bannon sentiva che gli Stati Uniti non avevano più eroi né valori chiari in cui credere. Gli attacchi dell’11 settembre e gli effetti sovversivi della cultura liberale avevano ferito a morte il paese. Nel 2012 si è trasferito a Washington e ha cominciato a lavorare alla sua idea del paese alternativa, di destra e nazionalista. Ha sostenuto chiunque condividesse il suo obiettivo di distruggere il sistema di Washington: prima il Tea party, poi Sarah Palin e ora Trump. Oggi alcuni di loro saranno ricompensati: al momento Palin è candidata alla carica di segretaria dell’interno.

All’origine del suo odio per la classe dirigente progressista, ha raccontato una volta Bannon, c’è la crisi finanziaria. Dopo il crac del 2008 suo padre, un umile impiegato della Virginia, ha venduto tutte le sue azioni per paura della bancarotta e ha perso la pensione. Le banche invece sono state salvate da Washington.

Ma c’è un’altra storia che descrive bene lo spirito di Bannon: stando a quanto dichiarato nel 2007 dalla ex moglie e riportato negli atti giudiziari di una disputa sugli alimenti, non voleva che le sue figlie frequentassero una scuola in cui c’erano anche allievi ebrei. Il motivo, ha detto all’epoca, è che non ama gli ebrei perché educano i figli come rammolliti

Insulti e minacce
Il giornalista della National Review David French ha sperimentato di recente fino a che punto può spingersi l’odio degli attivisti del movimento alt-right, a cui il sito di Bannon ha offerto uno spazio pubblico. In un articolo French aveva criticato la scrittrice e opinionista Anne Coulter, una celebre sostenitrice di Trump, per aver adottato il linguaggio razzista dell’estrema destra. In risposta gli esponenti della alt-right hanno pubblicato sull’account Twitter di French un’immagine in cui si vede la figlia adottiva, una bambina etiope di 7 anni, in una camera a gas. Poi se la sono presa con la moglie, insultandola per essere andata a letto con un nero.

Quello di French non è un caso isolato. Secondo la Lega antidiffamazione, che ha protestato contro la nomina di Bannon come consulente strategico, il numero dei commenti antisemiti in rete, soprattutto indirizzati ai giornalisti, è decisamente aumentato. E spesso provengono dai sostenitori di Trump. Ma naturalmente il futuro presidente non può essere accusato di nulla. È questo il bello del metodo Bannon.

Pochi giorni dopo la nomina di Bannon, il suo entourage è tornato ad attaccare la stampa: Breitbart ha annunciato di voler querelare una pubblicazione anonima in cui il sito è etichettato come “nazionalista bianco”. Bannon è ancora il direttore esecutivo di Breitbart News.

Tutto ciò non sfugge ai repubblicani a Washington, che però sono rimasti sorprendentemente muti davanti alla nomina di Bannon. Si concentrano sulla figura di Priebus, come se potessero ignorare il fatto che l’uomo chiamato a occupare la seconda carica del paese è intenzionato a distruggere il loro partito.

Bannon non si ferma nemmeno davanti all’Europa. Mentre Breitbart cerca una sede a Berlino e a Parigi, lui stringe contatti politici. Su Twitter la nipote della presidente del Front national Marine Le Pen ha già accettato un invito a collaborare. Nigel Farage è stato ricevuto dal presidente eletto degli Stati Uniti nella Trump tower a New York. La normalizzazione è cominciata. Se riuscirà, nulla sarà più come prima.

Cattivi maestri

di Michela Murgia  – 7 luglio 2016 (dalla sua pagina facebook)

I cattivi maestri del fascista e razzista che ha ucciso Emmanuel Chidi Namdi e picchiato sua moglie Chinyery siedono in Senato: sono quelli che dieci mesi fa hanno negato l’autorizzazione a procedere contro Calderoli quando diede dell’orango a Cecile Kyenge. Era critica politica, affermarono, mica razzismo, e lo dissero senza distinzione di partito, compresi 81 senatori del PD e 3 di Sel che oggi si dichiareranno certamente sconvolti e turbati davanti a tutti i microfoni dei media. Questo succede a pensare che le parole non abbiano conseguenze. Ipocriti.

Antiziganista a sua insaputa

segnalato da Antonella feat. Barbara G.

I diritti agli italiani, i doveri ai Rom: Virginia Raggi, antiziganista a sua insaputa.

di Carlo Gubitosa – “Matita rossa” – gubitosa.blogautore.espresso.repubblica.it, 10/06/2016

Di recente ho riassunto in questa infografica pubblicata nel volume “Tracce Migranti” alcuni dati sulla questione Rom pubblicati dall’associazione “21 Luglio”, che negli ultimi due anni ha prodotto nei suoi rapporti annuali quella che considero finora la piu’ seria analisi sul problema dell’antiziganismo, dei campi nomadi come ghetti segregazionisti, della logica emergenziale come comodo espediente per avere sempre un cattivo su cui puntare il dito mentre si chiedono voti ai cittadini.

Il Rapporto Annuale 2015 – scrivono dall’associazione – contiene inoltre un focus sulla situazione a Roma, dove oggi circa 8 mila persone vivono in baraccopoli istituzionali, micro insediamenti e “centri di raccolta”. Nel solo 2015, nella Capitale, le autorità locali hanno condotto 80 sgomberi forzati (+135% rispetto all’anno precedente, quando gli sgomberi erano stati 34). Tali azioni – prosegue il rapporto – in violazione dei diritti umani e del diritto internazionale, hanno coinvolto 1.470 persone, tra cui donne e minori, per un costo complessivo superiore a 1,8 milioni di euro, pari a 1.255 euro per ogni persona sgomberata“.

Ma per Virginia Raggi, in ossequio ai più classici stereotipi dell’antiziganismo, il “dato più devastante” relativo ai campi Rom e’ che ci costano troppo (e non che sono dei ghetti indegni dove il segregazionismo abitativo su base etnica nega a molti bambini il diritto alla scuola, alla salute e al futuro), il problema dei Rom e’ che non lavorano, li manteniamo con i nostri soldi, mandano a rubare i bambini, e se i campi Rom vanno chiusi perché ci obbliga l’Europa, e non perché i nuovi ghetti di Roma ci fanno schifo quanto il vecchio ghetto di Varsavia.

In breve, “i Rom devono pagare le tasse e rispettare la legge come gli Italiani, e i loro bambini devono andare a scuola” come se per loro fosse in vigore un regime fiscale e un codice penale a parte, con la contestuale sopensione dell’obbligo scolastico.

Verrebbe da chiamarlo razzismo, se fosse basato su una ideologia organica e su un sistema di pensiero strutturato, ma il problema e’ che quello della Raggi e’ un pensiero unico discriminatorio “a sua insaputa”, che non nasce da una ideologia organica, per quanto malata e aberrante, ma dal cocktail mortale tra ignoranza, superficialita’ e “buon senso” da bar, appena imbellettati con polvere di stelle. In altre parole il temibile, disinformato e pericoloso pensiero della “brava gente” animata da buone intenzioni e tanti pregiudizi, che nel nostro paese ha fatto danni quanto la cattiva.

Il problema non e’ una etnia su cui la politica scarica le proprie responsabilita’ e il cittadino le proprie frustrazioni, ma la negazione del diritto alla casa, un diritto che va riconosciuto ai Rom che vivono nei campi, ai poveri che vivono nei dormitori caritas, alle famiglie povere e sfrattate, ai giovani che cercano nell’occupazione quella soluzione al problema abitativo che nessun’altra agenzia sociale riesce a fornire.

Una soluzione che la politica potrebbe fornire con poco sforzo, a condizione di saper tenere la schiena dritta contro i palazzinari, contro l’ondata montante di insofferenza fasciopadana (che pure sposta voti) e contro le grandi aziende che preferiscono veder crollare le loro strutture dismesse piuttosto che accettarne l’uso a fini sociali (*).

Non si può ignorare inoltre un curioso paradosso: per Virginia Raggi i Rom (anche quelli con cittadinanza italiana) devono lavorare perché adesso “li mantiene lo stato”, e devono rispettare dei precisi doveri.

Ma per Raggi Virginia gli italiani (anche quelli di etnia Rom) devono avere un reddito di cittadinanza e farsi mantenere dallo stato, perché gli vanno riconosciuti dei diritti.

E il razzismo inconsapevole sta tutto qui: quando chiedi rispetto dei doveri per alcuni in base all’etica del lavoro mentre chiedi riconoscimento dei diritti per altri in base all’etica della sussidiarieta’, e la differenza tra gli “uni” e gli “altri” viene fatta su base puramente etnica.

Non mi basta che la Raggi parli di chiusura dei campi Rom ritrovando un europeismo che sembra perduto tra le fila della sua compagine politica, o che abbia fatto l’encomiabile sforzo di prendere atto che i Rom sono per la maggior parte cittadini italiani. Sul delicato tema dell’immigrazione, dell’integrazione e del razzismo non mi basta cambiare la classe politica.

Mi piacerebbe invece che si cambiasse mentalità a partire dalla capitale, passando dall’egoismo abbrutito di sempre (anche se verniciato a nuovo) ad una visione della socieà’ dove il nemico da combattere e’ la poverta’ e non sono i poveri, e si va a cercare la soluzione fuori dal recinto degli stereotipi.

Magari presentando il conto fiscale del disagio sociale a chi si e’ arricchito dalla crisi, quel 5% di famiglie che in base ai calcoli Bankitalia controlla il 30% della ricchezza nazionale, lasciando i piu’ poveri a scannarsi tra di loro per decidere se il nemico del giorno e’ il vigile urbano fannullone, l’insegnante parassita, l’invalido finto, il sindacalista inutile, il pensionato d’oro, il commerciante evasore o il Rom delinquente, con quest’ultimo che accontenta un po’ tutti perche’ tanto sara’ sempre e comunque “straniero”, “altro” e “diverso”, anche se in tasca ha un passaporto italiano.

*****

(*) A tal proposito si segnala questo.

Art. 42 Costituzione Italiana

La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.

La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.

La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.

Secondo alcuni costituzionalisti, fra cui Paolo Maddalena, è centrale il concetto di “funzione sociale” della proprietà privata. Un immobile volutamente tenuto vuoto non assolve alla sua funzione sociale, di conseguenza la proprietà privata non è più “giustificata” e lo Stato (o altro Ente) può legittimamente appropriarsene per restituire alla società il bene, assicurandone l’accessibilità a tutti. Forse la terminologia utilizzata non è la più corretta, ma in sostanza un immobile inutilizzato può essere espropriato e restituito alla collettività.

Qualche tentativo in tal senso è stato fatto.

Beni privati e abbandonati, ok all’esproprio “Saranno restituiti alla funzione sociale”

repubblica.it, 30/04/2014

In nome della Costituzione la giunta de Magistris dà il via libera all’esproprio di beni privati e pubblici abbandonati. Capannoni industriali, palazzi, orti verranno restituiti ai cittadini con progetti di auto finanziamento. «Per la prima volta in Italia, dopo 66 anni di Costituzione, viene riconosciuta prima la proprietà del territorio che spetta al popolo e poi la proprietà privata », le parole dell’ex giudice costituzionalista Paolo Maddalena suggellano così le due delibere di giunta del Comune di Napoli per restituire “una funzione sociale ed economica agli edifici presenti sul territorio cittadino che sono inutilizzati o abbandonati siano essi di proprietà pubblica, ecclesiastica o privata”. «In caso di abbandono ci approprieremo di beni privati senza indennizzo. È questa l’assoluta novità», spiega in prima persona il sindaco Luigi de Magistris.

I provvedimenti hanno l’obiettivo di eliminare il degrado in alcune zone della città, e a valorizzare e regolarizzare esperienze ormai radicate come le case del popolo di Ponticelli, Bagnoli, Scampia. Per le strutture pubbliche che sono state “occupate” da cittadini, gruppi, comitati «secondo quanto previsto — spiega l’assessore al Patrimonio Alessandro Fucito — nessuno verrà cacciato via, ma i cittadini potranno proporre un progetto di utilizzo della struttura». Per quanto riguarda i beni già di proprietà del Comune, tra cui i 391 beni del Demanio di cui l’amministrazione ha fatto richiesta, si provvederà all’affidamento attraverso bandi. Più spinosa è l’apprensione di beni di proprietà privata. A fondamento dell’acquisizione di beni privati da parte dell’amministrazione, l’Osservatorio dei beni comuni istituito dal Comune di Napoli — come spiegato dall’ex giudice costituzionalista Paolo Maddalena — pone gli articoli della Costituzione (in particolare il 42) e gli articoli del codice civile secondo cui «la proprietà privata non è garantita come diritto soggettivo assoluto, ma esclusivamente in quanto finalizzata ad assicurare una funzione sociale del bene», consentendo al Comune di acquisire il bene in quanto «bene comune» della città a cui restituire «una funzione sociale e ed economica» da decidere attraverso «modalità partecipate». «Le case del popolo, le esperienze di autogestione dal basso, la partecipazione dei cittadini devono essere valorizzate » scrive il sindaco su Facebook. Il Comune è pronto a contenziosi e ricorsi. «Ma queste delibare segnano una svolta culturale » commenta Maddalena.

«Le due delibere approvate dalla giunta tutelano l’illegalità », attacca Gianni Lettieri, leader dell’opposizione in consiglio comunale e presidente di Fare Città. «Si è toccato il fondo: la giunta che si era presentata come vessillo di legalità – dice – arriva addirittura a legittimare le occupazioni abusive degli edifici pubblici». «La logica dell’occupazione forzata, dell’arroganza e del non rispetto della legge andrebbe combattuta senza se e senza ma», aggiunge Lettieri, «invece la giunta giustifica la presenza di alcuni gruppi che, con prepotenza, si appropriano di strutture pubbliche destinate alla collettività tramite discutibili soluzioni ad hoc. Alla luce di ciò, come devono reagire tutte le associazioni e gli enti che rispettano regole e procedure e che pagano le tasse?».

Maurizio e la deontologia professionale

Tranqulli, non mi riferisco a Landini

segnalato da Barbara G.

Attentati Parigi: Belpietro dovrebbe chiedere scusa per almeno due motivi

di Luciano Scalettari – ilfattoquotidiano.it, 21/11/2015

Mi vergogno di essere collega di Maurizio Belpietro. Il fatto che venga definito giornalista mi disturba, e credo che sia lesivo per l’immagine della professione. Perciò ho anche aderito alla petizione lanciata su change.org perché l’Ordine dei giornalisti ne avvii la radiazione. Il primo motivo è che dalle colonne del suo giornale incita sistematicamente al razzismo e all’odio, e chi lo fa non può rimanere fra i giornalisti. La seconda ragione non è meno importante della prima: chi occulta volutamente le notizie non solo non fa informazione, ma non è degno di farla. Ed è esattamente il caso del direttore di Libero. L’ultimo esempio? Ieri, 19 novembre. Belpietro dedica un intero articolo per demolire Maryan Ismail, donna somala e cittadina italiana, membro del Pd e musulmana. Il motivo di cotanta rancorosa attenzione? Maryan ha osato chiedere le scuse di Belpietro per il titolo a tutta pagina di LiberoBastardi islamici, pubblicato all’indomani degli attentati di Parigi. Ben si capisce il livore (razzista) del direttore, è quasi un sillogismo, anzi un paralogismo (cioè un falso sillogismo): se gli islamici sono bastardi, Maryan è islamica, ergo Maryan è per forza una “bastarda”. Un tanto al chilo, come spesso fanno gli intolleranti o gli xenofobi. Ma tant’è. Se poi ci aggiungiamo che è del Partito Democratico, ovvio che l’illustre direttore ci è andato a nozze.

Si potrebbe anche capire, il meccanismo mentale: chi alla parola islamico vede rosso, e tanto più se il rosso (politico) gli fa vedere rosso, è normale che carichi come un toro infuriato. Eppure, in questo caso, c’è di peggio. E ce lo dice lo stesso Belpietro: scrive che fino al giorno prima non sapeva nemmeno chi fosse, Maryan Ismail; che è andato a informarsi su internet (fonti di prim’ordine, direttore! Sprechi almeno qualche telefonata, come si faceva una volta), e là, in rete, ha fatto le sue belle scoperte, cioè che Maryan è nata a Mogadiscio, è figlia di un diplomatico somalo, è esule politica – con tutta la sua famiglia – da molti anni, e vive in Italia a Milano. Ha trovato pure che è nelle file del Pd e che di recente si è occupata della questione, tanto dibattuta, della moschea da costruire a Milano.

Invito tutti a mettere il nome di Maryan Ismail su un motore di ricerca: viene fuori ben altro. La famiglia della donna somala è fuggita dal Paese del Corno d’Africa perché il padre era in dissenso col dittatore Siad Barre, credeva nella democrazia e in uno Stato laico, nonostante la Somalia sia al 99% islamica. Dalla rete emerge anche che Maryan da anni si batte per i diritti civili e contro ogni fanatismo che li nega; si è sempre prodigata, lei, donna somala e musulmana, per i diritti delle donne e in particolare per l’emancipazione delle donne islamiche. E lo ha fatto a prescindere dal colore politico, cercando e dando sostegno a chiunque condividesse i suoi ideali, di destra o sinistra che fosse.

Ma ho lasciato per ultimo l’aspetto più importante: il fratello di Maryan, Yusuf Ismail, è stato ucciso a Mogadiscio il 27 marzo scorso dagli shabab somali, proprio i cuginetti dell’Isis. Era uno dei bersagli del commando che è entrato nell’albergo e ha seminato la morte, in modo del tutto analogo a quanto è accaduto al Bataclan e al ristorante parigino, con le raffiche di kalashnikov e le granate. Ieri, ho sentito Maryan (che conosco da tanto tempo, proprio per le sue battaglie di civiltà, e che mi onora della sua amicizia). La prima cosa che ha detto è: “Mi sento come se avessero ucciso di nuovo mio fratello”. Non può che sentirsi così: Yusuf ha letteralmente dato la vita per combattere l’estremismo e il fanatismo islamico. Non è semplicemente capitato per caso nel teatro di un attentato. È stato assassinato proprio per la sua instancabile azione politica e diplomatica contro “i barbuti” – come li chiamava – che in nome della sua stessa religione sono spietatamente intolleranti, fino a commettere attentati e a uccidere persone inermi e innocenti.

Tutto ciò era facilmente rintracciabile in internet. Perciò, delle due l’una: o Belpietro non sa trovare le notizie, e allora è meglio che cambi mestiere; oppure le ha trovate e le ha taciute, perché gli faceva comodo sparare a zero su Maryan Ismail, musulmana e di sinistra, e in questo caso non è degno del titolo di giornalista.

Mercoledì prossimo (25 novembre) Maryan andrà davanti alla sede di Libero. Belpietro, ora, ha due motivi per chieder scusa. A tutti i musulmani tolleranti e pacifisti, offesi da quel titolo; a Maryan Ismail e alla sua famiglia, perché in un colpo solo ha “ucciso” l’impegno non di una ma di due vite, la sua e quella del fratello Yusuf.

*****

Radiazione di Maurizio Belpietro dall’Ordine dei Giornalisti

petizione su change.org lanciata da Ivo Mej

Il quotidiano Libero, il giorno successivo alla strage di Parigi, operata da terroristi anti-occidentali, ha dedicato la sua prima pagina ad un servizio anti-islamico intitolato ‘Bastardi islamici’, contravvenendo a tutte le norme della deontologia professionale in materia di incitamento all’odio razziale e di correttezza dell’informazione.

Il servizio è firmato dal direttore del giornale, Maurizio Belpietro che è indegno di rimanere un giorno di più nell’Ordine professionale.

Al Presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti Enzo Iacopino
Dopo l’ignobile titolo fatto in prima pagina da Libero all’indomani della strage di Parigi, chiediamo la radiazione immediata di Maurizio Belpietro dall’Ordine dei Giornalisti

Aggiornamento del 18/11

Il 26 novembre alle ore 10.00 le firme raccolte verranno ufficialmente consegnate nelle mani del Presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino. Questi ha dichiarato al sottoscritto di avere attivato personalmente l’Ordine Lombardo per il procedimento disciplinare a carico di Maurizio Belpietro. Iacopino mi ha anche assicurato che la vicenda verrà da lui seguita con attenzione perché l’Ordine lombardo prenda la decisione più opportuna per questo caso, seguendo naturalmente le procedure previste dalla legge.

Radiografia dell’estrema destra europea

segnalato da n.c.60 

da anpi.it – di Pasquale Martino (27/11/2014) 

Pubblichiamo qui di seguito un articolo di Pasquale Martino, membro del direttivo provinciale dell’ANPI di Bari, comparso su «La Gazzetta del Mezzogiorno», il 27 novembre. 

Quando consideriamo il panorama politico dell’Europa – immaginando i volti propositivi che il «gigante economico» assumerà negli scenari mondiali – non dovremmo trascurare la presenza strutturata di una destra estrema che si pone oltre i conservatori di Juncker e Merkel e offre un mix ideologico capace di aver presa sugli strati popolari.

Non ci riferiamo soltanto a forze euroscettiche e discretamente xenofobe come l’Ukip di Nigel Farage, vincitore delle recenti elezioni europee in Gran Bretagna (27,7%, primo partito), che ha costituito il gruppo parlamentare con il M5S italiano. Pensiamo soprattutto a una destra che ha radici neofasciste e neonaziste, o che dialoga con i neofascisti, li assimila, ne condivide i motivi ispiratori, dal nazionalismo all’antieuropeismo, alle teorie del complotto, alla xenofobia con esplicite venature razziste. Nel parlamento di Strasburgo siedono nove di tali partiti, senza contare gli altri che, non rappresentati nell’assise europea, hanno rilievo nei rispettivi paesi.

Si suole opportunamente distinguere fra l’estrema destra dell’Europa occidentale e quella dei paesi ex sovietici.

La prima ha attuato un’operazione di restyling per prendere le distanze dal neofascismo storico pur inglobandone i temi e arruolandone i seguaci. In questo senso il capolavoro riuscito è quello del Front National di Marine Le Pen (24% alle europee, primo partito in Francia) che ha le radici fra i nostalgici del regime di Vichy e gli ex coloni d’Algeria, ma adesso si racconta come forza-guida di una lotta «dal basso contro l’alto», conquistando ampi consensi in tutte le classi sociali. Manovra simmetrica e inversa rispetto a quella della Lega Nord, che dopo essere stata alleata di governo dei post-fascisti (handicap non da poco, rispetto al curriculum di opposizione del Front National), oggi si riqualifica paladina dei territori contro l’“invasione” e converge nelle piazze con i mussoliniani dichiarati di CasaPound. L’ultradestra occidentale in crescita di consensi si è liberata da retaggi imbarazzanti quali l’antisemitismo – che resta tuttavia sullo sfondo e nel retropensiero di tanta parte della “base”, attiva nei social network – e inoltre approva il governo israeliano.

Viceversa, l’estrema destra dell’Europa orientale non dissimula le nostalgie nazionalsocialiste. Il caso più recente riguarda la formazione ucraina Svoboda (Libertà) i cui militanti sono stati decisivi nella sommossa di Kiev che ha abbattuto il presidente filorusso. Comprimaria nel nuovo governo filo-occidentale con il vicepresidente e il ministro della Difesa, ridimensionata dal voto politico di un mese fa ma ancora in ballo nelle trattative per la costituenda compagine ministeriale, Svoboda dichiara di battersi contro la «mafia ebreo-moscovita» e onora come proprio eroe il collaborazionista Stepan Bandera che appoggiò i nazisti contro i russi. In generale, l’ultradestra est-europea – dalla Bulgaria alle repubbliche baltiche – celebra i vari «Quisling» che aiutarono i tedeschi (anche nello sterminio degli ebrei) come combattenti per l’indipendenza nazionale contro i sovietici.

Per loro il pericolo attuale non è l’Europa dei banchieri, ma l’ingerenza della vicina Russia. Una parziale eccezione è costituita dall’Ungheria, dove lo Jobbik o Movimento per l’Ungheria migliore (15% alle europee, secondo partito del paese) pur essendo all’opposizione fiancheggia il premier di destra Orban nelle sue politiche autoritarie, antieuropeiste e di apertura verso Putin. La destra di Budapest non teme il nazionalismo russo che si proietta esclusivamente sui paesi slavi; anzi, sogna a sua volta la «Grande Ungheria» che dovrebbe includere le minoranze magiare di Romania, Serbia, Slovacchia. Già legato alla disciolta formazione paramilitare della Guardia Magiara, Jobbik dimentica il sostegno dato dalle Frecce uncinate ungheresi all’Olocausto nazista e chiede che invece siano gli ebrei magiari a scusarsi per le vittime della rivoluzione comunista di Bela Kun nel 1919, appoggiata dagli ebrei stessi.

Ma ciò che accomuna tutta l’estrema destra europea, dalla Danimarca all’Austria, dalla Grecia alla Finlandia, è il richiamo a valori tradizionalisti declinati secondo una malintesa identità dell’Occidente cristiano; ed è soprattutto la visione apocalittica del fenomeno migratorio, l’ostilità contro stranieri e immigrati in quanto tali, in nome dell’integrità delle culture nazionali-locali e di una gerarchia dei bisogni sociali che dà la priorità ai nativi. Al razzismo biologico del XX secolo – bianchi contro neri, ariani contro semiti – è subentrato un razzismo etnico-culturale, che teme più d’ogni cosa il «multiculturalismo»: sinonimo odiato, un tempo, di marxismo ed ebraismo, equivalente oggi di integrazione, di tolleranza verso i Rom e specialmente verso gli immigrati di fede musulmana. L’islamofobia è il dato emergente – già in auge dopo l’11 settembre, rilanciato ora come reazione agli eccidi dell’Isis – tanto più preoccupante in quanto, se l’ultradestra ne è il portabandiera, l’opinione pubblica se ne mostra comunque largamente permeabile.

Ma qui non c’entra la legittima critica all’islamismo politico come esperienza storicamente determinata. Ciò che si demonizza è la presunta “essenza” immutabile dell’Islam, per cui il musulmano è sempre un potenziale terrorista e uno che comunque non potrà mai integrarsi nella “nostra” civiltà; si cede al pregiudizio e si perde il valore del dialogo, della relazione come cambiamento reciproco. Si perde anche la fede umanistica nella solidarietà fra lavoratori, quantunque di diversissima condizione, e nella scuola, che possono trasformare gli esseri umani, avvicinarli al di là di nazionalità e religione. Nascono le cosiddette guerre fra poveri, quasi mai spontanee, innescate da agitatori politici che strumentalizzano il disagio sociale.