referendum costituzionale

Boicottiamo le elezioni

Segnalato da Barbara G.

Prossime elezioni provinciali: vi segnalo una presa di posizione che, con le dovute differenze, è comune a SEL, M5S, Possibile.

Elezioni provinciali, da Possibile appello a ministro, Prefetto, Livio: “Si sospenda il voto”

di Emanuele Caso – espansionetv.it, 06/01/2017

La vigilia delle prossime elezioni provinciali (in programma domenica ma per cui voteranno solo sindaci e consiglieri comunali, non tutti i cittadini) si anima grazie a un altro appello al boicottaggio e addirittura alla sospensione tout court della consultazione. A rivolgersi direttamente al presidente della Provincia, Maria Rita Livio, al prefetto Bruno Corda e di rimando anche al ministro dell’Interno, Marco Minniti, è il Comitato Como Possibile “Margherita Hack”, la formazione politica guidata da Pippo Civati.

“Il risultato del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso ha stabilito che le province debbano rimanere organi costitutivi dello stato italiano con piena dignità costituzionale – si legge in una nota ufficiale – Sappiamo poi che la Carta europea dell’autonomia locale obbliga le Parti che l’hanno ratificata (come l’Italia) ad applicare le regole fondamentali per garantire l’indipendenza politica, amministrativa e finanziaria degli enti locali e prevede che il principio dell’autonomia locale sia riconosciuto dal diritto nazionale e protetto dalla Costituzione, permettendo agli enti locali di essere eletti con suffragio universale. Alla luce di questo il Comitato Como Possibile “Margherita Hack” ha deciso di boicottare le elezioni di secondo livello dell’8 gennaio per la Provincia di Como come auspicato da Paolo Ceruti, Donatella Selvini e Antonio Terragni (consiglieri comunali a Magreglio, ndr) e come già deciso da Paco-Sel”. Su altro versante politico, peraltro, anche i Cinque Stelle (un consigliere comunale a Como, due a Mariano) hanno annunciato che diserteranno le urne.

“Abbiamo deciso – conclude la nota di Possibile – di supportare l’iniziativa del Comitato “Resegone di Lecco” di Possibile per cui chiediamo al presidente della Provincia di Como Maria Rita Livio, al Ministro dell’Interno Marco Minniti ed al Prefetto di Como Bruno Corda, la sospensione delle elezioni fissate per l’8 gennaio per il rinnovo del consiglio provinciale di Como, ritenendo che sia necessario ripristinare le elezioni a suffragio universale della Provincia. La richiesta, appunto, è che chi di dovere adegui il quadro normativo già diventato anacronistico (Legge Delrio) all’esito referendario e all’art. 5 della Costituzione che recita: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.

Ir-responsabilità

segnalato da Barbara G.

Pensando bene alle conseguenze

di Alessandro Gilioli – gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it, 13/12/2016

Anche Paolo Gentiloni, nel presentarsi alla Camera, ha usato quella mitica parola lì: “responsabilità”.

In politica è un sempreverde dalle radici antiche, s’intende, ma è diventato vocabolo mainstream soprattutto a partire dai tempi del governo Letta. In quell’occasione fu usata da tutti, da Berlusconi a Fassina. Per giustificare quel mezzo obbrobrio chiamato larghe intese si fece ricorso a piene mani alla “responsabilità”.

Nella tag cloud dei discorsi di Napolitano, lo ricorderete, era poi la parola in corpo più grosso.

Anche per Mattarella è una parola ricorrente, quelle poche volte in cui ha fatto conoscere il suo pensiero.

E in questi giorni, eccola ancora qui – la responsabilità – a giustificare il grigiore di un governo fotocopia, di un ring around the table in cui alla fine si sono ripresi quasi tutti la stessa poltrona.

Nella sua funzione politica, dire che «è un governo di responsabilità» significa dire che è la soluzione realisticamente migliore, magari non la più sexy ma la più assennata, affidabile, coscienziosa. Un po’ come “guida in modo responsabile”, “bevi in modo responsabile”, insomma fai le cose pensando bene alle conseguenze

Ecco. Pensando bene alle conseguenze.

Pensando bene alle conseguenze, è stato responsabile tutto lo svolgimento di questa legislatura? È stato responsabile, per le sue conseguenze sul Paese, tutto quello che abbiamo visto fare?

È responsabile sfasciare il mondo del lavoro con il Jobs Act, l’abolizione dell’articolo 18 e i voucher?

È responsabile sfasciare la scuola con una riforma oggi rimasta senza padre e senza madre?

È responsabile dividere il Paese nel suo tessuto profondo passando come caterpillar su tutto e tutti, in nome di un radioso storytelling nuovista e vincista che poi si è pure impiantato lasciando il vuoto?

È responsabile forzare la mano su una riforma costituzionale utile solo come legittimazione plebiscitaria al suo ideatore, ma capace di bloccare la politica per sei mesi prima di impiantarsi contro la grande maggioranza dei cittadini?

È responsabile fare una legge elettorale per la Camera che prima è invidiata da tutta Europa, poi si può rimaneggiare, ma comunque è pensata per funzionare solo in caso di vittoria del Sì, senza nemmeno un piano B?

È responsabile infischiarsene di fare una legge elettorale per il Senato, perché tanto sarebbe stato regolato tutto dalla Riforma costituzionale?

È responsabile personalizzare il referendum fino a farlo diventare un Armageddon e poi mandare a gestire il naufragio le proprie seconde linee?

È responsabile rifiutare qualsiasi ipotesi di autocritica e di analisi di eventuali errori commessi, dopo essersi spiaccicati al referendum – tanto la colpa è sempre degli altri, anche se a guidare il Paese non erano gli altri?

È responsabile dire che si lascia la politica per poi pretendere una promozione a una carica più alta del governo?

È responsabile ascoltare così poco la bocciatura secca e totale dell’elettorato e riproporre lo stesso governo identico a quello appena bocciato?

È responsabile, insomma, allontanare in questo modo la cittadinanza dalle istituzioni, dalla rappresentanza?

È responsabile fingere che nulla succeda là fuori?

Non è tutto questo profondamente e radicalmente irresponsabile, cioè appuntoindifferente alle conseguenze?

E non è che allora per caso, in politica, “responsabilità” sta diventando una parola ipocrita, che finisce per nascondere il suo contrario?

Il governo conta, ma dobbiamo ricominciare dall’opposizione

di Luciana Castellina – manifesto.info, 06/12/2016

Dopo il referendum. Se non vogliamo che domenica sia stata una vittoria di Pirro, il vero impegno per la sinistra comincia adesso. Il governo è importante, ma superato lo slogan «se andremo al governo faremo…». Dobbiamo fare subito, laddove siamo

Evviva. Le vittorie, da un bel pezzo così rare, fanno bene alla salute. E poi questa sulla costituzione non è stata una vittoria qualsiasi, come sappiamo, nonostante le contraddittorie motivazioni che hanno contribuito a far vincere il No.

La cosa più bella a me è comunque sembrata la lunghissima campagna referendaria.

Contrariamente a quanto è stato detto «uno spettacolo indecente», «una rissa», ecc. quel che è accaduto contro ogni attesa è stato un rinnovato tuffo nella politica di milioni di persone che non discutevano più assieme da decenni. Come se si fosse riscoperta, assieme alla Costituzione, anche la bellezza della partecipazione.

In questo senso mi pare si possa ben dire che contro il tentativo di ridurre la politica alla delega ad un esecutivo che al massimo risponde solo ogni cinque anni di quello che fa si sia riaffermata l’importanza dell’art.3, quello in cui si riconosce il diritto collettivo a contribuire alle scelte del paese. Pur non formalmente toccato dalla riforma Boschi, è evidente che la cancellazione della sua sostanza era sottesa a tutte le modifiche proposte. Evviva di nuovo.

Per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.

Non vorrei tuttavia turbare i nostri sogni nel sonno del dovuto riposo dopo questa cavalcata estenuante e però credo dobbiamo essere consapevoli che per noi sinistra il vero impegno comincia adesso.

Quella che abbiamo combattuto non è stata infatti solo una battaglia per difendere la nostra bella democrazia da una deplorevole invenzione di Matteo Renzi: abbiamo dovuto impedire che venisse suggellata un’ulteriore tappa di quel processo di svuotamento della sovranità popolare, che procede,  arrestare.

Viene da lontano, si potrebbe dire dal 1973, quando all’inizio reale della lunga crisi che ancor oggi viviamo, Stati Uniti, Giappone e Europa, su sollecitazione di Kissinger e Rockfeller, riuniti a Tokio, decretarono in un famoso manifesto che con gli anni ribelli si era sviluppata troppa democrazia e che il sistema non poteva permettersela. Le cose del mondo erano diventate troppo complicate per lasciarle ai parlamenti, ossia alla politica, dunque ai cittadini.

E da allora che si cominciò parlare di governance (che è quella dei Consigli d’amministrazione prevista per banche e per ditte) e ad affidare via via sempre di più le decisioni che contano a poteri estranei a quelli dei nostro ordinamenti democratici, cui sono state lasciate solo minori competenze di applicazione.

Abbiamo protestato contro molte privatizzazioni, poco contro quella principale: quella del potere legislativo.

Qualche settimana fa Bayer ha comprato Monsanto: un accordo commerciale, di diritto privato. Che avrà però assai maggiori conseguenze sulle nostre vite di quante non ne avranno molte decisioni dei parlamenti.

Ci siamo illusi che la globalizzazione producesse solo una catastrofica politica economica il liberismo, l’austerity e invece ha stravolto il nostro stesso ordinamento democratico. Mettendo in campo per via estralegale quello che dal Banking Blog è stato definito l’acefalo aereo senza pilota del capitale finanziario, impermeabile alla politica.

Per svuotare il potere dei parlamenti, un po’ ovunque, ma in Italia con maggiore vigore, sono stati delegittimati, anzi smontati, quegli strumenti senza i quali quei parlamenti non avrebbero comunque più potuto rispondere ai cittadini: i partiti politici, addirittura ridicolizzati e resi leggeri, cioè inconsistenti e incapaci di costituire l’indispensabile canale di comunicazione fra cittadini e istituzioni.

Si sono via via annullate le principali forme di partecipazione, o, quando non è stato possibile, sono stati recisi i legami che queste tradizionalmente avevano con una rappresentanza parlamentare.

Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione

Se adesso vogliamo che la vittoria del No non sia di Pirro dobbiamo ricominciare a costruire la sostanza della democrazia, e cioè la partecipazione, i soggetti sociali ma anche politici in grado di non renderla pura protesta o mera invocazione a ciò che potrebbe fare solo un governo.

Dobbiamo cioè uscire dall’ossessione governista che sembra aver preso tutta la sinistra, e cominciare a ricostruire l’alternativa dall’opposizione.

La democrazia è conflitto (accompagnato da un progetto), perché solo questo impedisce la pietrificazione delle caste e dei poteri costituiti. Se non trova spazi e canali, diventa solo protesta confusa, manipolabile da chiunque.

Tocca a noi aprire quei canali, costruire le casematte necessarie a creare rapporti di forza più favorevoli; e poi, sì, cercare le mediazioni (che non sono di per sé inciuci) per raggiungere i compromessi possibili (rifiutando quelli cattivi e lavorando per quelli positivi).

Del resto, non è stato forse proprio per via delle lotte e dell’esistenza di robusti canali e presenze parlamentari che fino agli anni 70 siamo riusciti ad ottenere quasi tutto quanto di buono oggi cerchiano di difendere coi denti, dall’opposizione e non perché avevamo un ministricolo in qualche governo?

Dobbiamo fare subito, laddove siamo.

Non voglio dire che un governo non sia importante, vorrei solo superassimo l’ossessione che si incarna negli slogan elettorali: «Se andremo al governo, faremo». Dobbiamo fare subito, laddove siamo.

Nella mia penultima iniziativa referendaria, a Gioiosa Jonica (in piazza come non si faceva da tempo) una splendida cantante locale è arrivata a concludere: con la canzone che ben conosciamo Libertà è partecipazione.

Propongo divenga l’inno della nostra area No. (E speriamo anche che quest’area preservi l’unità di questi mesi).

Referendum, Renzi cade. La sconfitta di un irresponsabile giocatore d’azzardo.

Dimensione Mendez

Dunque Matteo Renzi cade. E cade rovinosamente, sotto il peso di un 60% e di oltre 19 milioni di italiani che, con il loro NO, hanno intonato il de profundis alla sua riforma costituzionale. Un risultato che non lascia spazio ad alcun alibi se non al livore dei suoi instancabili pasdaran che, come giapponesi nella jungla, ora cercano miseramente di rispedire la palla della responsabilità del governo alla ‘accozzaglia’. Senza accorgersi che la guerra è finita e che già un secondo dopo la chiusura dei seggi l’accozzaglia si è sciolta, come era logico che fosse. Troppo comodo e meschino lo scaricabarile, dopo che per mesi Renzi e i suoi hanno giocato spregiudicatamente una roulette russa folle, un ‘uno contro tutti’ cercato a tutti i costi, con l’obiettivo di diventare potere pigliatutto sul tavolo verde del Paese. Il Paese invece ha reagito rispondendo NO, serrando le fila delle appartenenze politiche e pure…

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Referendum, un Sì a sostegno di finanza e grandi opere

di Salvatore Altiero (*) – ilfattoquotidiano.it, 22/11/2016

È come il passaggio del Mar Rosso, un evento dal pathos biblico, di più, è come Italia-Germania 4-3: il 4 dicembre si cambia o si torna indietro, rispetto a cosa non importa granché nella vaghezza sconclusionata delle indicazioni di voto.

Il fronte del No è quel caos politico che spazia da Berlusconi a Fassina, passando per Calderoli, Brunetta e Salvini. La benemerenza politica dei sostenitori del Sì è stata sublimata dalla sfavillante settimana del Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, che prima apostrofa Rosy Bindi come “infame, da uccidere” e poi viene registrato mentre organizza militarmente il rastrellamento di voti per il Sì nei Comuni campani, elogiando le capacità di “uno notoriamente clientelare come Franco Alfieri”, sindaco di Agropoli, “che sa fare la clientela bene come Cristo comanda” e incitandolo a “portare 4000 cittadini a votare, vedi tu come madonna devi fare, offrigli una frittura di pesce”.

Occorre allora mettersi al riparo da questo spettacolo gramo, leggere il testo della riforma costituzionale, anche un po’ alla volta, magari un ciclo di incontri con amici e parenti tutti a parlare di Costituzione.

Gli italiani all’estero, invece, si sono visti recapitare una lettera firmata da Matteo Renzi in cui la svolta epocale che la vittoria del Sì imprimerebbe al sistema-Paese trova fondamento sulle solite affermazioni tautologiche. Degno di nota il passaggio in cui il Premier assume le sembianze di Giorgio Mastrota e gli ultimi due anni e mezzo di politica internazionale quelle di una fiera in cui ha provato “ogni volta, con tutte le [sue] forze, a dare dell’Italia un’immagine diversa. A raccontare dei successi degli italiani nel mondo, a promuovere le nostre bellezze”.

L’epistola affronta poi un tema cruciale per il futuro del Paese: “la mortificazione dei soliti luoghi comuni”. Nessuno meglio degli italiani all’estero, infatti, sa “quanto sia importante che il nostro Paese sia rispettato fuori dai confini nazionali”. Dunque, se vince il Sì, dal 5 dicembre saremo più credibili e rispettabili. “Basta risolini di scherno” ha promesso il Premier agli studenti Erasmus di tutta Italia.

Perché il problema principale del sistema politico italiano non è che personaggi come Vincenzo De Luca arrivino a governare una Regione. All’estero ridono di noi perché, tra tutti i luoghi comuni, ce n’è “uno durissimo a morire. Quello per cui siamo un Paese dalla politica debole”. Insomma non importa quale sia la qualità della classe politica, i luoghi comuni si superano con governi stabili e superando il bicameralismo perfetto.

Quelli spesi per l’invio delle lettere sono certo fondi distratti da opere più utili, ma ad offendere è anche la convinzione sottesa di poter portare milioni di persone a votare Sì utilizzando simili argomenti. Più che baluardo contro l’avanzata dei populismi destrorsi in Europa, il governo Renzi si consolida come un esperimento di “populismo democratico” tutto italiano.

D’altronde fondamento politico più che giuridico ha la “clausola di supremazia” con la quale, su proposta del governo e in nome della “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica” o dell’“interesse nazionale”, a Costituzione riformata il Parlamento potrà avocare a sé il potere legislativo anche nelle competenze regionali. Sarà il governo stesso a decidere cosa sia di “interesse nazionale” o tuteli l’unità giuridica o economica, al di là di cosa ne pensino i cittadini e le amministrazioni regionali coinvolte.

È un aspetto della riforma che ha molto a che fare con l’autorizzazione e il finanziamento di grandi opere. Per questo vi ruotano intorno tanto le motivazioni ambientali del No quanto il sostegno al Sì da parte di gruppi di interessi molto potenti. In un servizio andato in onda su La7, ad esempio, appaiono chiari i possibili vantaggi per BlackRock, il gigante della finanza presente in Italia con 53 miliardi di investimenti. Nella lettera agli italiani, Renzi compare in foto accanto ad Obama e ricorda che l’ex Presidente Usa ha dedicato all’Italia la sua ultima cena di Stato. Viene omesso però che, in quella occasione, Renzi incontrò proprio i rappresentanti di BlackRock tra i cui investimenti c’è Terna, monopolista italiano delle reti elettriche. La riforma del Titolo V assicurerebbe una più spedita approvazione dei progetti infrastrutturali di Terna a prescindere dal fatto che ne sia stata provata l’utilità. Dalle “semplificazioni” costituzionali dipende dunque anche la possibilità di assicurare dividendi ai capitali investiti. Occupare il territorio con nuove grandi opere, magari sacrificarne le bellezze paesaggistiche, per garantire profitti all’estero. Anche così saremo un Paese più credibile e rispettabile, ma questo nella lettera di Renzi non c’è scritto.

(*) Associazione A Sud – Centro di documentazione sui conflitti ambientali

“Qui la sinistra è finta”

segnalato da Barbara G.

A Monfalcone, tra la rabbia operaia: “Qui la sinistra è finta”

La Danzica d’Italia. Manodopera straniera, posti perduti e redditi abbassati: così la roccaforte rossa cede dopo 25 anni

di Giampaolo Visetti – repubblica.it, 21/11/2016

MONFALCONE. “Siamo stanchi, abbandonati. Il cambiamento c’è, ma in peggio. La rottamazione c’è stata, ma i nuovi sono peggiori dei vecchi. Il Pd ora mangia con i padroni, non ha tempo per parlare con i lavoratori. E noi siamo poveri”. E’ ancora buio, tira la bora, tre gradi sopra zero. La massa degli operai Fincantieri preme ai cancelli nel quartiere storico di Panzano. I “bisiachi”, a costruire le grandi navi, sono rimasti in pochi. Erano cinquemila, non arrivano a settecento. La mano d’opera, di appalto in subappalto, arriva da lontano: Bangladesh, India, Europa dell’Est, meridione d’Italia. Il cantiere resta la “mamma”: prima dell’alba migliaia di auto, di corriere e di tir fanno tremare le casette inizio Novecento. Chi arriva in bicicletta viene fermato dai caporali che offrono contratti più lunghi e anticipi sulla paga. Anche uno straniero, da 600 euro, può superare i mille al mese. Alle finestre sono appesi manifesti: “Panzano libero”, “Basta Tir”, “Stop Bangla”.

Lo tsunami che in Friuli Venezia Giulia scuote il centrosinistra di Debora Serracchiani e Matteo Renzi, nasce qui. Monfalcone era la roccaforte rossa del Nordest: punte del 75%, sinistra al potere da un quarto di secolo. Mai un sindaco di destra. Domenica 6 novembre, poche ore prima che Donald Trump si prendesse la Casa Bianca, Anna Maria Cisint ha più discretamente consegnato anche la “Danzica d’Italia” alla destra e alla Lega. Silvia Altran, ex sindaca Pd, al ballottaggio è crollata al 37,5%. Per il Pd locale della vicesegretaria nazionale Serracchiani e del presidente dei deputati Ettore Rosato, pure renziano, un 2016 da incubo. In luglio hanno perso Trieste, Pordenone e il resto dell’Isontino. Ora lo spettro del tracollo e della destra si allunga sul referendum del 4 dicembre e sulle regionali 2018. “Di questa finta sinistra – dice Carlo Visintin, da trent’anni operaio Fincantieri – non ci fidiamo più. A Roma vara il Jobs Act e consegna i lavoratori al precariato e ai boss dei voucher. A Trieste ignora gli anziani e taglia la sanità. A Monfalcone accetta una centrale a carbone e ubbidisce a Fincantieri, rinunciando a difendere le vittime dell’amianto”.

A Pierluigi Bersani la frana politica nel Nordest non è sfuggita. “Una sberla storica – ha detto – non ci dormo la notte”. Agli operai e ai vecchi di Panzano gli equilibri dentro il Pd e gli scenari aperti dalle urne non interessano. Qui conta solo la vita e la realtà è che farcela è ogni giorno più difficile, quasi sempre più umiliante. “Umanamente – dice Tiziana Colautti, 47 anni, impiegata – siamo al limite. Monfalcone viene venduta agli stranieri, i nostri figli per sopravvivere devono andare via, ognuno è solo. Il nostro problema è mettere un piatto sulla tavola: il centrosinistra litiga sulle tasse per Airbnb, per non irritare i ricchi che affittano i patrimoni immobiliari. A questo punto meglio provare chi promette di difenderci”. La parola d’ordine è negare l’impatto della xenofobia, ma la paura di un’invasione straniera è pari all’indignazione contro la sudditanza delle istituzioni pubbliche rispetto alle imprese formalmente private, da Fincantieri alla centrale elettrica di “A2A”. In piazza della Repubblica le radici della rivolta sono sotto il sole. Prima del cambio turno in cantiere, gruppi di immigrati si contendono gli ingaggi di un subappalto, 3 euro all’ora e sacco a pelo in dieci in una stanza. Sulle panchine gli anziani piangono gli amici uccisi dal mesotelioma e i nipoti ancora intossicati dal carbone. “L’ex sindaca Pd – dice l’operaio Biagio Boscarol – ha transato con Fincantieri per 140 mila euro, un insulto ai caduti sul lavoro di tutta Italia. Lo Stato è il primo azionista, come l’ente pubblico che governa la centrale a carbone. Così nel cantiere è proprio lo Stato a sfruttare gli immigrati che rubano il lavoro ai residenti. Se il centrosinistra ignora la povera gente e liquida la solidarietà, la sua esistenza è inutile”.

Per Matteo Salvini, alla vigilia del ballottaggio, in centro è accorsa la folla del selfie. Assenti i leader Pd e 5 Stelle. “Non ci siamo accorti – dice Marco Rossi, segretario provinciale del Partito democratico – che le divisioni interne producono disorientamento e fanno marcire i problemi. Il riformismo dell’Ulivo accendeva la speranza, la sua brutta copia liberista e centralista moltiplica l’indifferenza”. Sotto accusa però sono proprio i vertici del partito, rei di affannarsi solo quando, come con la riforma elettorale, ci sono in palio le poltrone. Per il resto, ciechi. Umberto Pacor, tecnico di 25 anni, mantiene la figlia neonata con i turni di notte, lavorando in straordinario domenica e festività. “Ci riempiono di gente che non c’entra – dice – e regalano le imprese a oligarchi, emiri e mandarini dell’Oriente. Non ascoltano i giovani, facendoci passare per sfaticati. Forse anche noi abbiamo bisogno di qualcuno con il coraggio di dire, se non “prima gli italiani”, almeno prima le persone”. In via Marconi è di nuovo notte. I lavoratori con il casco in testa corrono a timbrare. Dopo una vita a sinistra, a Monfalcone per disperazione hanno votato la destra. In Friuli Venezia Giulia e nel Nordest per l’Italia si annuncia il prossimo terremoto: difficile che fra due settimane cambino idea e votino Sì al referendum.

Non resta che Grillo

Trump, Cacciari: “Per i tecnocrati la partecipazione è un optional. Così trionfa il voto anti establishment”

Il filosofo ed ex sindaco di Venezia analizza le ragioni politiche e sociali dell’elezione del repubblicano alla Casa Bianca: “È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di centrosinistra. Dall’immigrazione al lavoro, “la politica diventa populista solo in campagna elettorale. E senza più la sinistra, contro la ‘destra cattiva’ in Italia non resta che Grillo”.

di Fabrizio d’Esposito – ilfattoquotidiano.it, 10 novembre 2016

Il Sistema, con la maiuscola, ormai esplode ovunque, non solo in Europa. Il professore Massimo Cacciari, filosofo nonché ex sindaco di Venezia, per lustri ha tentato invano di dare contenuti a un riformismo vero per il centrosinistra italiano.

La sconfitta di Hillary Clinton rade al suolo un’epoca. Un quarto di secolo a discettare di Terza Via, ulivismo mondiale, sinistra liberal e altre amenità.
È in atto un movimento contro le tradizionali forme di rappresentanza, non solo di sinistra o centrosinistra. Lo stesso Trump ha vinto nonostante il Partito Repubblicano. Una riflessione analoga si può fare per la Brexit. Io uso questo termine: secessio plebis.

Secessione della plebe. Il popolo. La sinistra, appunto, com’era una volta.
Ovviamente l’effetto del tracollo è più eclatante per le forze democratiche e socialdemocratiche perché sono state soprattutto loro a non comprendere i fenomeni che ci hanno condotto a tutto questo.

L’elenco è lunghissimo.
La moltiplicazione delle ingiustizie e delle diseguaglianze; il crollo del ceto medio; lo smottamento della tradizionale base operaia; l’incapacità di superare lo schema di welfare basato sulla pressione fiscale. Oggi l’unico sindacato che conta è quello dei pensionati e a mano a mano che si pensionavano i genitori sono emersi i figli precari, i figli pagati con il voucher, i figli ancora a carico della famiglia.

La classe dirigente, a destra come a sinistra, ha pensato solo a diventare establishment.
Non è solo questo perché non era semplice prevedere cambiamenti colossali e un Churchill o un Roosevelt non nascono in ogni epoca. Anzi.

Quasi trent’anni fa ormai, in Italia furono pochissimi, tra cui lei, a capire movimenti come la Lega.
Avevi voglia a dire che a Vicenza gli operai votavano Lega oppure che la sinistra a Milano la sceglievano solo contesse e contessine di via Montenapoleone.

Adesso Bersani, per quel che vale, dice: “Basta con la retorica blairiana”.
La sinistra è stata a rimorchio delle liberalizzazioni e dei poteri forti. Ma l’immagine di una donna liberal di sinistra a Wall Street è una contraddizione in termini.

L’ex comunista Napolitano, oggi presidente emerito della Repubblica, se la prende pure con il suffragio universale.
Ecco, appunto. È la conferma che le élite liberal si sono adeguate al trend burocratico e centralistico.

La tecnocrazia al posto delle elezioni.
La partecipazione è diventata un optional.

Di qui la secessio plebis. O il populismo, se vuole.
A me non interessa come definire il fenomeno, a me preme capirlo. Tutti sono populisti in campagna elettorale. Francamente il punto non è questo. Io voglio comprendere questi fenomeni sociali, poi chi li rappresenta può avere un tono o l’altro.

Ora tocca all’Europa.
Dove gli effetti dell’immigrazione sono devastanti. Ma è necessario fare una premessa: l’Europa non sono gli Stati Uniti.

Cioè?
Dove c’è un impero la politica la fa l’impero.

Non Trump, quindi.
Esatto. In fondo basta sentire le sue prime dichiarazioni concilianti.

In Europa, invece?
La storia è matematica, non sbaglia mai. E in assenza di politiche efficienti e credibili, non banali promesse, ci sono tre tappe nel nostro continente. La prima è quella del malcontento o della secessio plebis di cui ho già parlato.

Poi?
Sparare contro i Palazzi, infine l’affermazione di una destra cattiva anti-immigrazione. Penso a Le Pen, Farage, Orban, Salvini e Meloni.

Grillo no?
No, Grillo non fa parte di questa destra cattiva. Ho scritto un articolo su chi saranno i Trump d’Europa e concludo proprio così: in Italia non resteranno che i Cinquestelle.

Un argine contro la peggiore destra.
Renzi si è fatto establishment. Per questo i suoi tentativi populistici puzzano parecchio.

Quale sarà l’effetto Trump sul referendum del 4 dicembre, se ci sarà?
Vedo due tendenze. Da un lato può galvanizzare le forze che vogliono mandare Renzi a casa.

Dall’altro?
In questo clima, gli italiani potrebbero scegliere l’opzione ritenuta più tranquilla e meno traumatica, cioè il Sì.

Lettera agli ex iscritti al Pci folgorati dal renzismo

segnalato da Barbara G.

Lettera agli ex iscritti al Pci folgorati dal renzismo: da Berlinguer a Marchionne, si può? Dal sogno di un’Italia giusta alla restaurazione antidemocratica

fuoripagina.it, 23/10/2016

Caro ex iscritto al Pci, leggimi pure (anzi, me lo auguro) se sei tra coloro che oggi vedono nel Pd una pur lontana parentela con quel grande partito. Non siete tantissimi ma ci siete, alcuni vivacchiano sconsolati, altri propugnano il nuovo Ottocento che avanza. Mi rivolgo a te con lo spirito fraterno che avevamo un tempo e che ci aiutava a capire meglio le cose (la realtà effettuale, delle cose come cioè effettivamente sono) non per accettarle ma per cambiarle. Concretezza e realismo con l’utopia. Mi spiace molto vedere come questi 25 anni senza il Pci siano stati sufficienti per rottamarne la sua tradizione, la storia, la prassi, il modo di lavorare. Cinque lustri riempiti dal nulla e dai progressivi smottamenti dei due partiti maldestri eredi: quel Pds ancora smarrito e quei Ds già a rischio di scalate ostili (in Sardegna avvenne un’Opa maligna da manuale, come un Alien dentro il corpo).

Poi è arrivato il Pd, quel pacco di buoni sentimenti dove il conflitto capitale lavoro era sparito per far posto a Jovanotti e ad altre leggerezze da partito liquido. Per diventare successivamente ciò che è ora: un comitato elettorale al servizio di un capo che propugna politiche legate alla finanza e alla grande industria. Sarebbe stato indigeribile per te, un tempo. Oggi non più. Sei stanco, avevi voglia di vincere cambiando casacca? Oggi mi chiedo che cosa ti sia accaduto, quale trasformazione tu abbia subito, che devastazione culturale abbia dovuto vivere per essere diventato ciò che sei ora. Come se sovrapponessi le tue personali debolezze nella sconfitta di una storia e di un avvenire.

Non offenderti, dunque, ma ascoltandoti o leggendo quanto scrivi sui social – che pena scorrere le due righette di una donna banalissima, un tempo iscritta al Pci, che annunciando la sua conversione al Sì dice che “anche la Costituzione ha frenato il Paese” – penso che una trasformazione così radicale debba essere studiata. A questo punto sono costretto ad ammettere che il grande partito che fu e i suoi tardi epigoni avevano già smarrito una certa capacità di formazione e di selezione. La realtà di oggi è che sei finito dall’altra parte. Lo accetto, va bene. Ma non ti accontenti di indossare il cilicio e far finta di aver vissuto un dramma interiore. Come se il passato fosse l’Invasione d’Ungheria e tu sovrastato dal dramma dell’appartenenza. Macchè. Sei come quei preti spretati che si trasformano in feroci anticlericali e assomigli a quei cinici che dopo la militanza nei gruppetti estremistici, da un giorno all’altro abbandonarono gli slogan rivoluzionari per passare armi e bagagli alla corte di Bettino, poi a quella di Silvio per salire infine, pur attempati ma esperti, al soglio di Matteo. Ricordi quanto li abbiamo criticati, contestati, giurando che mai noi saremmo diventato così. Come così? Come voltagabbana. Ora predichi le stesse cose che diceva la destra o la Confindustria e allora, comincio a pormi più di un problema sulla tua onestà intellettuale.

Ricordo bene le parole che ci dicevamo, i libri che studiavamo, gli articoli di giornale che leggevamo per capire. In quelle sezioni di partito fumose e cariche di umori e passioni. Dove abbiamo incontrato operai e braccianti, insegnanti e impiegati, disoccupati e avvocati. Erano concreti e decisi, coraggiosi e sognatori. Che cosa ci raccontavamo, dunque, che oggi non ti piace più? Provo a dirlo. Ad esempio che il sindacato in quanto organizzazione collettiva era insostituibile e i diritti dei lavoratori la stella polare? Che la volontà di battersi per un mondo migliore, non fatto di sogni ma concretissimo, era l’imperativo politico? Aspetta, non ho finito… Ricordi anche il mito dell’onestà? Lo sbandieravamo e la notte attaccavamo quei manifesti orgogliosi “Il Pci ha le mani pulite. Chi può dire altrettanto?”. Oggi invece difendi Verdini, Alfano e il tuo partito ha eserciti di inquisiti.

E non avrai dimenticato della lotta strenua contro l’opportunismo (dal dizionario: sostantivo maschile che descrivela condotta di individui o gruppi che, avendo di mira soprattutto il proprio tornaconto, ritengono conveniente rinunciare ai propri principi e accettare compromessi più o meno onorevoli”). Mai opportunisti dicevamo, sempre noi stessi pur capaci di fare intese e stringere alleanze. Mica eravamo idioti. Ci consideravamo anche un’isola di persone per bene in un mare di malaffare. Forse esageravamo perché onesti, per fortuna, ce n’erano ovunque. Ma davanti agli scandali che scuotevamo la Repubblica eravamo l’unica certezza. Vivevamo la religione della diversità e, a dire il vero, diversi lo eravamo. Magari era un’illusione. Certamente puliti, onesti, combattivi, patrioti, rigorosi. Legati al dovere. Ricordo che un paio dei nostri sorpresi con le mani nella marmellata furono allontanati senza tanto clamore. Guardavamo agli altri con rispetto ma consci della nostra diversità. Ridevamo delle degenerazioni correntizie di Dc e Psi, oh quanto ridevamo. Ricordi, amico mio, che discutevamo a lungo per capire le differenze tra morotei e dorotei, nuove cronache e corrente del golfo. E dei socialisti cercavamo di capire la crescita craxiana, le debolezze dei lombardiani, l’arrivismo modernista dei martelliani? Ci avevano insegnato il metodo: mai schematizzare, mai generalizzare, mai confondere i conservatori con i reazionari etc. E a proposito di dovere non avrai scordato quanto abbiamo fatto contro i violenti, l’eversione, il terrorismo.

Su tutto si poteva scherzare ma non su due o tre cose.

La prima, la Resistenza. Era uno dei valori fondamentali, ad essa guardavamo con devozione e rispetto, immaginando che cosa avremmo fatto noi in quei frangenti. Sentendoci “nani issati sulle spalle dei giganti”. Potevamo noi paragonarci a Pajetta o a Eugenio Curiel? La nostra gratitudine era immensa e allo stesso tempo non abbiamo mai voluto una Resistenza prigioniera del paradigma del fallimento perché non aveva conquistato il socialismo. Ricordi che lo spiegavamo, anche con qualche ceffone pedagogico, a quei saccenti estremisti che ci dicevano che la Resistenza non aveva avuto lo sbocco rivoluzionario per colpa di Togliatti? Guardavamo l’elenco delle formazioni partigiane, gran parte delle quali garibaldine, i nomi dei gappisti, le loro gesta, i caduti. Ed eravamo grati, moltissimo, del loro coraggio e della loro scelta. Di questo ci onoravamo.

La seconda cosa che per noi rappresentava la carta d’identità e dalla quale traevamo legittimazione come partito era la Costituzione. L’ha firmata Terracini, uno di noi, dicevamo spavaldi e orgogliosi! E tra i costituenti ma in ogni dove a costruirla quella Costituzione c’erano stati Togliatti, Longo, Pajetta, Amendola, Negarville, Scoccimarro, Gullo, Renzo Laconi e Velio Spano e Nilde Jotti, Camilla Ravera, Teresa Noce. Quella Costituzione in nome della quale le masse povere e sfruttate lottavano e si battevano, colpiti per questo dalla mafia e dalla repressione, a Portella della ginestra, a Modena, Avola, Reggio Emilia. Ricordi quei manifesti nelle nostre sezioni con l’elenco dei segretari delle camere del lavoro uccisi dal piombo di Scelba?

Il terzo punto che per noi era intoccabile era la figura del segretario generale. Noi avevamo bandito il culto della personalità, guardavamo con fastidio i riti della nomenklatura sovietica. Tuttavia il segretario generale, era figura abbastanza sacrale perchè riconosciuta, rispettata. Ma non si trattava di un padre padrone. Togliatti ad esempio fu messo in minoranza in direzione, Berlinguer non  ebbe vita facile con i miglioristi sempre alle calcagna. Però c’era rispetto, passione, amicizia. Ci piaceva Enrico, perché era onesto, un comunista rigoroso e inflessibile. Che parlava al cuore e alle menti. Ci piaceva quell’uomo piccolo che aveva fatto risuonare la sua voce sarda nell’immensa sala del palazzo dei sindacati a Mosca, parlando di democrazia come valore universale. E quanto ci era piaciuto Berlinguer, in quella strenua lotta contro Craxi sulla scala mobile o al fianco degli operai della Fiat. A me personalmente era piaciuta la sua analisi sulla situazione italiana e la proposta del compromesso storico oltre la sua fermezza granitica contro il terrorismo.

Dicevamo: prima l’interesse generale, poi quello di partito. Dicevamo: i sindaci nostri devono essere diversi, diversissimi. Novelli, Valenzi, Zangheri, Petroselli e decine di altri meno noti, erano diversi. La sinistra voleva dire asili nido, trasporti, equità, scuola e sanità pubblici, trasparenza amministrativa. Tra un sindaco della Dc e uno del Pci c’era una differenza antropologica. A Roma ad esempio non potevi non vedere l’abisso tra Darida e Argan o Petroselli. E a Napoli tra il laurismo clientelsare rispetto a Maurizio Valenzi.

Ora ti guardo amico mio. E vedo che ingoi tutto, anche il fiele. Ora sei nel Pd, un partito che vuole trasformarsi in Partito della Nazione. Dove Verdini e Alfano possono trovare cittadinanza come te, perché quella formula tutto raccoglie. Gramsci (ricordi?) aveva insegnato che i partiti sono la nomenclatura delle classi. E noi a quel semplice concetto di rappresentanza ci siamo ispirati. Partito con forti connotazioni, di classe ma non solo, che guardava all’interesse nazionale. E ora? A che cosa credi? Magari in qualche vostro circolo avete appeso un ritratto di Berlinguer, incuranti della vostra abissale alterità.

Amico mio che tristezza vedere in tv ministri di un governo il cui premier è pubblicamente lodato dalla Confindustria e dagli organismi finanziari per aver stracciato lo Statuto dei lavoratori e abolito l’articolo 18. Ricordi quante battaglie anche insieme a Cofferati? Tu magari eri li al Circo Massimo con due o tre milioni a dire che Berlusconi era cattivo. Ora invece stai zitto, anzi applaudi all’ondata di licenziamenti, al terribile jobs act, allo smantellamento della scuola e della sanità pubblica. Hai accettato che il tuo premier, figlio di una vischiosa stragione post dc – che dei La Pira nulla aveva ma nemmeno di Moro – frequenti solo industriali e finanzieri. Che attacchi così duramente la Cgil, irridendola e offendendo il sindacato. Arrivando a contestare persino l’Anpi, l’associazione dei partigiani e degli antifascisti con toni orrendi.

E sei arrivato sin qui, fin sulla soglia di un seggio, a guardare chi si batte per la Costituzione con un fastidio irridente. Tu vedi ora la Carta come un orpello del passato, un fastidio, un ostacolo. Ma a che? Alla modernizzazione, assicuri, ripetendo come un pappagallo le baggianate del “basta un Sì” . Alla “velocità” e a chissà a quali altre idiozie. Credi a tutto e non capisci ciò che c’è dietro la revisione costituzionale, non ti rendi conti di quanta prepotenza odiosa si riverserà all’Italia se dovesse passare.

Certo che vederti ora andare a braccetto con Lotti e Boschi, Guerini e Ciaone Carbone, applaudire Renzi e ridere alle sue barzellette, giustificare le sue bugie, non vergognarti delle sue volgarità e della sua arroganza, allora penso che davvero tante cose siano accadute e molte abbiano lasciato un segno. In pratica caro amico, o ex amico a questo punto, tu ti sei arreso. Non vedi orizzonti del cambiamento. Non accetti che qualcuno si batta per costruirlo. Per te tutto ciò in cui abbiamo creduto è vecchio, obsoleto e merita un sorrisino di circostanza. E guardi con ammirazione Renzi e le sue slides, Renzi e le sue gradassate, Renzi e il suo modello di partito conquistato con primarie che puzzavano assai. In pratica, hai tradito.

Comunque amico mio, non tutto è ancora perduto. Ma se passa il tuo livido e cinico crepuscolo politico, sarà certamente un’Italia peggiore. Sei tu il conservatore non io, stai riportando indietro l’Italia di un secolo, anche se 4.0 e con le slide.

Fraterni saluti

Referendum. Il treno renziano dell’antipolitica.

Dimensione Mendez

trenoSe vittoria sarà (molto probabile), l’affermazione del SI’ al referendum costituzionale è destinata a segnare un risultato: riuscire ad ottenere un voto popolare di fiducia alla politica attraverso l’antipolitica.

L’intuizione immediata di Renzi, ancor prima di personalizzare la battaglia, era quella più lucida: “Molta gente di centrodestra, del M5s e della Lega voterà sì”. Parole che ha ribadito nuovamente in questa campagna di ottobre, attraversata col turbo.

La semplicità disarmante dei messaggi propagandistici a favore del SI’ (Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici?) annichilisce ogni tentativo di ragionamento. Lo spauracchio dispotico, paventato dal fronte del NO, è inutile acqua fresca di fronte alla prospettiva di un treno del cambiamento che passerà il 4 dicembre e poi non tornerà più, per almeno altri 30 anni. Di fatto, Renzi è pronto a raccogliere i frutti di una lunga stagione di antipolitica che dura da almeno 30 anni, prima con la…

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