referendum

Catalogna: 5 domande, 5 risposte

segnalato da Barbara G.

Catalogna, cinque domande cruciali e cinque risposte sul referendum

ADN kronos

di Stefano Gatto (*) – glistatigenerali.com, 21/09/2017

È praticamente impossibile riassumere nello spazio di un articolo tutti i dettagli storici, politici e giuridici dell’imbroglio catalano.

Come ormai succede regolarmente nel mondo in rete, prevalgono posizioni estreme, spesso costruite su basi di conoscenza fragilissime: essenzialmente sensazioni e simpatie di pelle. O parallelismi con situazioni che c’entrano poco o nulla.

Presenterò quindi la questione come domande e risposte a partire da alcune affermazioni tra le più ricorrenti.

Premetto che seguo la questione catalana dal 1985, quando arrivai a Barcellona e che ho una relazione fortissima da allora sia con la Spagna che con la Catalogna, per molti versi patrie mie più della stessa Italia nella quale sono nato, dato che attorno alla Spagna e non l’Italia ha gravitato tutta la mia vita adulta. Non ho partiti presi, perché le amo entrambe allo stesso modo, e mi fa soffrire moltissimo una situazione di tale divisione nella mia patria d’adozione.

Domanda n.1: Ha la Catalogna una legittimità storica all’indipendenza?

Molti affermano che la Catalogna non abbia diritto a richiedere l’indipendenza perché non sarebbe mai stata indipendente in passato. A differenza ad esempio di una Scozia, unita all’Inghilterra solo nel 1707 o del Québec (anche se lì il riferimento va fatto alla colonia francese).

Non è necessariamente vero che sia necessario essere stati indipendenti prima per aspirare a divenirlo di nuovo: con questo ragionamento, nessun paese sarebbe mai divenuto tale. L’obiezione storica in sé è quindi debole.

Diciamo che in un momento dato della storia, una collettività stabilita su un territorio può aspirare a formare un’unità politica statale. Nella storia è avvenuto quasi sempre mediante vie di fatto (guerre, poi seguite da trattati che riconoscono la condizione di Stato che viene progressivamente riconosciuta da altri Stati). Raramente per via puramente democratica sin dall’inizio, ma è legittimo sostenere che in questa fase storica e nel contesto democratico nel quale è situata la Spagna anche come membro dell’Unione Europea la via democratica all’indipendenza (mediante accordi consensuali) sia l’unica accettabile.

La Catalogna non è mai stata indipendente nel senso che noi diamo al termine nell’Europa post – westfaliana, ma sì è sempre stata un’unità politica, culturale ed istituzionale ben definita all’interno di altre entità. Il “Condado de Cataluña” sorse all’interno dell’impero carolingio e poi si unì a quello d’Aragona, venendo poi a dipendere dalla Corona aragonese, ma mantenendo sempre istituzioni proprie (les Corts, che nella tradizione iberica avevano la facoltà di accettare un sovrano e di decidere sul proprio contributo fiscale al monarca). Ancora oggi Barcellona è conosciuta come la “ciudad condal”. L’unione di Isabella di Castiglia con Ferdinando d’Aragona (1469), spesso presentata come data di nascita del regno di Spagna, giuridicamente non lo fu. I due regni rimasero separati fino al 1714, quando il passaggio dinastico delle corone iberiche ai Borboni portò all’ unificazione legale dei diversi regni iberici (Decreto de Nueva Planta del 1715) . I nazionalisti catalani considerano il 1714 data di perdita della loro indipendenza, nel senso di perdita delle proprie istituzioni, abolite dai Borboni. L’aspirazione a una patria propria e alla restaurazione delle istituzioni catalane si rafforzò in epoca romantica e divenne corrente politica alla fine del XIX secolo. Tra il 1918 e il 1919 la Lliga Regionalista di Cambó promosse un forte movimento per l’autonomia catalana all’interno della Spagna e una República Catalana di breve durata fu proclamata nel 1934 nel periodo precedente la guerra civile spagnola (1936 – 39). Il franchismo (1939-1975), centralista ed autoritario, soppresse ogni parvenza d’autonomia, scoraggiando anche l’uso della lingua catalana, abituale nell’uso quotidiano, ma nel 1978 vennero finalmente ristabilite le istituzioni autonome, riprendendosi i termini storici Generalitat (governo) e Corts (Parlamento). L’autonomia catalana ha funzionato bene per vari decenni, governata da un cartello regionalista (Convergencia i Unió) molto abile nel tessere rapporti di mutuo interesse con i governi di Madrid. Ma anche dal partito socialista catalano (PSC).

L’autonomia catalana è, come quelle basca e navarra (nazionalità considerate storiche) diversa e più ampia di quella delle altre quattordici comunità autonome (regioni) che compongono la Spagna, con eccezione dell’Andalusia. A differenza di baschi e navarri, i catalani non hanno autonomia impositiva, ma ricevono trasferimenti mensili da Madrid (sospesi tre giorni fa).

In conclusione, sostenere che la Catalogna non può diventare indipendente perché non ha la legittimità storica per richiederlo è argomento evanescente, se mai fosse davvero un argomento.

Domanda n.2: Ha la Catalogna legittimità giuridica per richiedere l’indipendenza?

La costituzione spagnola del 1978, come del resto quasi tutte le costituzioni al mondo, non prevede meccanismi di secessione per una sua parte. Nel caso del Québec fu necessario un accordo politico ad hoc con il governo centrale per indire i due referendum, così come nel caso scozzese (la Gran Bretagna poi non ha costituzione scritta).

L’art. 2 della costituzione spagnola recita: “La Constitución se fundamenta en la indisoluble unidad de la Nación española, patria común e indivisible de todos los españoles, y reconoce y garantiza el derecho a la autonomía de las nacionalidades y regiones que la integran y la solidaridad entre todas ellas.”.

Questo testo indica chiaramente che una singola parte del paese non può definire unilateralmente le modalità di una propria uscita dallo stato spagnolo: non è norma illiberale, è che di solito una costituzione non prevede norme simili, se non per territori d’oltremare che furono colonie.

L’altra comunità che aspira all’indipendenza, quella basca, seguì la via del negoziato con lo stato centrale (Plan Ibarretxe de 2003) e presentò una proposta di statuto autonomo che prevedeva una clausola di secessione. Respinto il piano dal parlamento spagnolo, l’ipotesi basca è stata rimessa nel cassetto.

La Catalogna non ha seguito questa via: la riforma dell’ Estatut del 2006, che anch’essa prevedeva la possibilità di secessione, oltra a definire la Catalogna come nazione propria integrata nello stato spagnolo, fu giudicata incostituzionale dalla Corte Costituzionale e non entrò quindi mai in vigore.

All’interno della Costituzione spagnola non esistono margini per tale cammino, e vista l’impossibilità di stabilire un dialogo “alla scozzese” o “alla québecoise” con il governo di Madrid, in mano al PP, partito con una concezione centralista dell’organizzazione dello Stato, gli indipendentisti catalani, divenuti via via più numerosi da uno zoccolo duro del 15 – 20% dell’elettorato negli anni della transizione democratica al quasi 50% di oggi, hanno cercato di definire un altro cammino: quello dell’autodeterminazione.

Da qui che la convocazione del referendum da parte della maggioranza indipendentista nel Parlament (les Corts) e la conseguente legge di secessione in caso di vittoria del sì siano state legittimamente annullate dalla Corte Costituzionale. È come se un comune o regione italiana dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza: sarebbe atto giuridicamente nullo.

Per antipatico che sembri, e pur biasimando l’inerzia di un governo spagnolo che non ha messo in essere negli ultimi anni alcuna iniziativa di dialogo con i fautori dell’indipendenza, che non hanno mai usato metodi violenti nel difendere le loro idee, l’intervento delle forze dell’ordine di questi giorni è legale (con una riserva sui modi ed eventuali eccessi, che vanno valutati nello specifico), non è una violazione della democrazia come sostengono alcuni osservatori disattenti o di parte.

Si sarebbe dovuto evitare d’arrivare a questo punto di rottura? Assolutamente sì: i due governi, spagnolo e catalano, hanno completamente fallito politicamente.

Domanda n.3: La Catalogna può invocare l’autodeterminazione ai sensi del diritto internazionale?

Il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto dal diritto internazionale in caso di occupazione militare da parte di paese straniero, di esistenza di un sistema coloniale e dell’uso della violenza da parte delle forze occupanti. Di fatto, l’autodeterminazione è categoria giuridica nata col processo di decolonizzazione e definita in quell’ambito. Gli indipendentisti catalani fanno un solo esempio, quello del Kosovo, ma è oggettivamente forzato vista la situazione bellica prodottasi in quel caso (per inciso, la Spagna è tra i paesi dell’UE che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo per paura a eventuali usi strumentali di tale precedente).

In tutta onestà, è impossibile sostenere che condizioni paragonabili al caso del Kosovo si diano nella Catalogna di oggi.

Domanda n. 4: Esiste una legittimità politica nella richiesta catalana?

Nonostante il governo del Partido Popular lo neghi, è ovvio che se il consenso per i partiti indipendentisti è cresciuto in pochi anni dal 15 % (i voti che prendeva Esquerra Republicana de Catalunya) al quasi 50% esiste un problema politico che andrebbe affrontato. Come detto, il PP non lo ha fatto. Il PSOE, partito organizzato federalmente e unito al PSC (Partit Socialista de Catalunya) si è detto favorevole a una riforma di tipo federale, che trasformi la Spagna delle autonomie differenziate in uno vero stato federale: questo sviluppo sarebbe stato sufficiente a rispondere alle inquietudini catalane se fosse stato adottato prima dell’accelerazione indipendentista. Oggi siamo probabilmente fuori tempo massimo. Ciudadanos è nato in Catalogna come movimento anti- indipendenza, e seguirà in tutto il PP. Podemos è volutamente ambiguo, così come i suoi alleati catalani (i movimenti che appoggiano la sindaco di Barcellona, Ada Colau), ma si sta orientando sempre più a favore del referendum.

A livello elettorale, le forze indipendentiste cercarono una legittimità elettorale per aggirare l’impossibilità d’un referendum consensuale e si presentarono unite alle elezioni del 2015 (Junts pel Sí), ma senza ottenere la maggioranza assoluta desiderata né in voti (39,59%) né in seggi (62 su 135). A seguito dell’alleanza con la forza anticapitalista CUP (8,21%, 10 seggi) si è reso possibile un accordo per convocare il referendum unilateralmente (senza l’accordo del governo centrale) e approvare le leggi oggi annullate sulle quali si fonda il processo d’indipendenza: il paradosso è che l’indipendenza catalana è sempre stata un’aspirazione della borghesia catalana, che aspira all’autonomia fiscale da Madrid, e oggi ha bisogno dell’appoggio di un movimento radicalmente anticapitalista come CUP, molto più a sinistra di Podemos.

Domanda n.5. E adesso cosa può succedere?

Il referendum del 1 ottobre avverrà in maniera limitata ed avrà un significato solo simbolico. Il governo spagnolo invocherà l’art. 155 della Costituzione (una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general) per sospendere l’autonomia catalana coi voti del PSOE e di Ciudadanos, ed essa tornerà a dipendere direttamente dal governo centrale.

Questo potrebbe in realtà rafforzare il campo indipendentista, attirando le simpatie di molti moderati oggi incerti sul da farsi. Prima o poi l’autonomia dovrà essere ristabilita e nelle nuove elezioni regionali l’opzione indipendentista potrebbe emergere di nuovo con forza. In realtà, solo una risposta politica, non giudiziaria, può creare le condizioni per affrontare il problema Questo non succederà finché il PP sarà al governo.

In conclusione, il procedimento seguito dalle istituzioni catalane è certamente illegale, ma è altrettanto vero che il governo centrale non ha fatto il minimo gesto né tentativo per discutere del tema e trovare una soluzione. L’unica risposta è sempre stata: rinunciate. D’altro canto, i numeri non dimostrano che il sí all’indipendenza sia maggioritario in Catalogna. Da qui che l’ipotesi di un referendum negoziato e non unilaterale (dret a decidir) sembri sensata, sempre e quando avvenga mediante un negoziato politico (modello scozzese), dando un’interpretazione aperta al testo costituzionale. Solo il parlamento spagnolo può approvare la tenuta di un tale referendum, non può farlo unilateralmente quello catalano.

La soluzione di questi giorni è quindi il risultato di un non dialogo e di una mancata volontà d’affrontare politicamente e non solo giuridicamente il problema. Il chi sia più responsabile di tale situazione è campo per l’opinione, ma è utile non trascurare i fatti nella loro completezza.

Sembra difficile che la breccia apertasi possa venire colmata a breve termine e dagli stessi protagonisti che hanno portato alla rottura.

Il tema dell’eventuale adesione all’UE, presentata all’inizio dal fronte indipendentista come automatica (lasciamo la Spagna e rimaniamo nell’UE) rimane teorico al momento attuale, anche perché persino in caso di raggiunta indipendenza, la Catalogna dovrà richiedere l’adesione all’UE come nuovo membro, processo che richiede l’unanimità degli Stati Membri attuali. L’assenso del governo di Madrid rimarrebbe comunque indispensabile.

Anche un eventuale divorzio richiederà molti accordi specifici sui temi legati alla separazione, come la ripartizione dei beni pubblici, il pacchetto finanziario d’uscita, le regole sulla doppia cittadinanza.

Siamo comunque molto lontani da quel momento. Adesso è il momento della concitazione e dell’estremismo.

(*) Stefano Gatto, diplomatico dell’UE, è laureato in Economia Politica alla Bocconi di Milano e master in relazioni internazionali a Madrid (1990). Ha scritto un libro sui parallelismi e no tra la situazione economica italiana e quella spagnola (“Italia e Spagna: Destini Paralleli?” – Lo Spazio della Politica, 2012) ed ha residenza in Spagna dal 1987, anche se è spesso in missioni diplomatiche in diverse parti del mondo.

Cucù, il referendum non esiste più

segnalato da Barbara G.

di Luciano Belli Paci, 20/06/2017

Dopo che la “Grande Riforma” è stata stroncata lo scorso 4 dicembre, finalmente Pd e soci una riforma costituzionale sono riusciti a farla: hanno abolito il referendum abrogativo previsto dall’art. 75 Cost.

Trattandosi di uno strumento di opposizione democratica che le minoranze possono utilizzare quando ritengono che su una determinata legge ad una maggioranza parlamentare non corrisponda la volontà del paese, è ovvio che la decisione se celebrarlo o no non possa essere rimessa alla stessa maggioranza, che altrimenti farebbe come Bertoldo nella scelta dell’albero a cui doveva essere impiccato.

Per questo la legge n. 352 del 1970 che regola il referendum ha affidato un ruolo determinante alla magistratura:  prima la Corte di Cassazione verifica la regolarità delle firme depositate dai proponenti, poi la Corte Costituzionale decide se il quesito referendario è ammissibile. Superati questi due passaggi, il governo è obbligato ad indire il referendum in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno.

Dopo che un referendum è stato indetto, la maggioranza ha di fronte tre strade alternative:

  1. può non intervenire sulle norme di cui è chiesta l’abrogazione e, se vuole difenderle, battersi perché nella consultazione prevalgano i “No” o non venga raggiunto il quorum del 50 % + 1;
  2. può abrogare le norme come volevano i proponenti;
  3. può modificare le norme oggetto di referendum.

La differenza tra queste ultime due scelte è di decisiva importanza.

Infatti, se le norme oggetto del referendum vengono abolite dal parlamento, l’Ufficio centrale presso la Cassazione si limita ad una presa d’atto e dichiara che il referendum non si celebra più (art. 39 L. 352/1970). In caso di modifica, invece, è riservato alla Cassazione il compito di analizzare se i cambiamenti sono così incisivi da avere recepito sostanzialmente le richieste dei promotori, nel qual caso dichiarerà superato il referendum, oppure se, al contrario, anche nella successiva disciplina sono riproposti i medesimi principi ispiratori delle norme che si volevano abrogare, nel qual caso stabilirà che il referendum si celebri ugualmente adattando il quesito alle nuove disposizioni legislative.

E veniamo alla vicenda dei referendum contro il Jobs Act promossi dalla CGIL con oltre 3 milioni di firme.

La Corte Costituzionale non ha ammesso il principale, quello sui licenziamenti (art. 18), ma solo gli altri due: quello per la completa eliminazione dei voucher per pagare prestazioni occasionali di lavoro e quello per l’estensione delle tutele per i lavoratori delle ditte che gestiscono appalti.

Il governo ha fissato il referendum per il 28.5.2017, ma subito dopo ha presentato un decreto-legge per abolire gli articoli 48, 49 e 50 del Jobs Act che erano oggetto dei quesiti referendari e in tutta fretta la sua maggioranza, con votazione definitiva al Senato il 19.4.2017, ha convertito in legge il decreto.

Di conseguenza, l’Ufficio della Cassazione, con ordinanza del 27.4.2017, ha dichiarato che i referendum già indetti non hanno più corso.

Dopo poche settimane, il 26 maggio in sede di esame del decreto di correzione della manovra economica alcuni deputati del Pd hanno presentato un emendamento per reintrodurre in forme diverse i voucher appena cancellati; e dopo pochi giorni l’emendamento è stato approvato da una maggioranza composta da Pd, centristi, Forza Italia e Lega. Passata la festa, gabbato lo santo.

A questo punto, come spesso accade nel nostro strano Paese, si apre la discussione sbagliata, perdendo di vista il nocciolo della questione.  Si apre cioè la discussione sul merito dei voucher: era un bene o un male abolirli? La loro reintroduzione è avvenuta con modifiche che soddisfano gli scopi del referendum o che costituiscono una mera riverniciatura, una furbata?

Invece il punto vero, la questione che ha conseguenze devastanti è quella di metodo, perché il trucco, la zingarata della mossa in due tempi non colpisce solo questo referendum della CGIL (e già non sarebbe poco!), ma apre la strada alla totale e definitiva eliminazione del referendum abrogativo come istituto costituzionale.

In forza di questo precedente, infatti, di fronte a qualunque futuro referendum la maggioranza del momento potrà far sparire momentaneamente la legge, giusto per il tempo necessario per far disdire la consultazione referendaria, e subito dopo farla riapparire più o meno modificata.  E potrà farlo con assoluta discrezionalità perché la sfasatura temporale tra i due momenti ha l’effetto di eliminare il sindacato della Corte di Cassazione sulla conformità o meno delle modifiche alle istanze del comitato promotore del referendum.  In altre parole, la decisione se il referendum si debba celebrare a fronte di modifiche alla legge oggetto di richiesta di abrogazione viene sottratta al giudice (naturale e terzo), al quale viene esibita per il tempo necessario una abolizione tout court, e posta invece nella disponibilità esclusiva della maggioranza di governo che, “a referendum morto”, potrà decidere se e cosa graziosamente concedere nella nuova disciplina.

Cosa resta dell’art. 75 della Costituzione dopo questa operazione da magliari?  In pratica non resta nulla.

Se la cultura democratica degli italiani non fosse ormai scesa sotto il livello di guardia dovrebbero insorgere tutti, compresi i sostenitori della bellezza dei voucher, compresi quelli che hanno in odio la CGIL, compresi i seguaci del Pd.   Prima o poi anche a loro toccherà di essere all’opposizione e di promuovere un referendum contro le leggi approvate dai loro avversari.  E si accorgeranno, troppo tardi, che il referendum non esiste più.

La paura fa #novoucher

segnalato da Barbara G.

Voucher aboliti per evitare il referendum Cgil. Ma Gentiloni vuole riaprire la concertazione per cercare strumenti alternativi

di Angela Mauro – huffingtonpost.it, 16/03/2017

Una svolta così a sinistra non se l’aspettava nemmeno uno come Giorgio Airaudo, parlamentare di Sinistra Italiana in commissione Lavoro, padre dell’emendamento per l’abolizione totale dei voucher, l’unico così netto fino a qualche giorno fa. “E invece la maggioranza abolisce i voucher, hanno presentato un emendamento come il nostro… Il governo si è arreso, anzi direi che si è auto-affondato”, esulta Airaudo. Il governo in effetti domani eliminerà i voucher per decreto, nel tentativo di annullare il referendum chiesto dalla Cgil. Ma da qui alla fine dell’anno tornerà alla carica con altri strumenti. A differenza del governo Renzi però, Paolo Gentiloni lo farà aprendo un confronto con le parti sociali.

La commissione Lavoro è chiamata a votare l’emendamento della Dem Patrizia Maestri: abolizione totale dei voucher, con una norma transitoria. Vale a dire: chi li ha già acquistati potrà usarli fino al 31 dicembre. E’ l’unica differenza con l’emendamento di Airaudo, che proponeva una transizione fino a giugno. Tutti gli altri emendamenti presentati decadono. La sinistra esulta, dalla Cgil agli ex Pd e la sinistra tutta in Parlamento. I centristi di maggioranza sono arrabbiati, insieme al centrodestra e soprattutto Confindustria e anche Confesercenti. Il Pd si spacca, ma non scoppia la polemica. Perché l’obiettivo di tutti è annullare il referendum della Cgil calendarizzato per il 28 maggio. E in questo modo dal Nazareno a Palazzo Chigi pensano di esserci riusciti.

Domani il consiglio dei ministri recepirà il testo della commissione con un decreto che conterrà anche modifiche alla normativa sugli appalti, oggetto del secondo quesito referendario. Se ne sta occupando in prima persona il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. Obiettivo: annullare proprio tutto il referendum.

Insomma, che succede? Paolo Gentiloni è diventato improvvisamente Che Guevara? La maggioranza di governo che ha approvato il Jobs Act ha improvvisamene cambiato colore, trasformandosi in avanguardia comunista? Niente di tutto ciò. Dietro la scelta di abolire i voucher c’è solo un calcolo politico: meglio battere in ritirata che rischiare un altro 4 dicembre.

Matteo Renzi ha cominciato a temere la concorrenza a sinistra sulle primarie. Il presidente della Commissione Cesare Damiano, che stava lavorando ad un compromesso di maggioranza, è stato completamente bypassato dalla scelta del governo di azzerare tutto: via i voucher tout court. E Damiano non a caso appoggia il candidato alla segreteria Andrea Orlando: domenica hanno in programma un’iniziativa pubblica proprio sul lavoro.

Insomma il rischio di contraccolpo c’era anche sulla corsa per le primarie Pd. Da qui la scelta netta che fa infuriare gli alleati di governo. “E’ schizofrenia legislativa”, tuona Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro di Palazzo Madama e senatore di Ncd. Il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia insiste: “Meglio affrontare il referendum che eliminare del tutto i voucher!”.

Ma il quadro non resterà così per sempre. L’idea del governo è di lasciar passare la bufera e tornare sul tema, alla ricerca di un’alternativa ai voucher. Il capogruppo del Pd Ettore Rosato la mette così: “La scelta del Pd è stata di lavorare per superare il referendum con norme radicali con un breve periodo di transizione. In questo lasso di tempo lavoriamo per nuove norme che mettano uno strumento a disposizione delle famiglie per pagare ciò che oggi si paga con i voucher e delle imprese per accedere in modo più semplice al mercato del lavoro”. Lo si farà con un “confronto con le parti sociali” alla ricerca di “norme efficaci che evitino gli abusi registrati sui voucher”.

E’ la promessa di un’altra svolta. Se a sinistra, non si sa. Ma certo va a ripescare la concertazione con le parti sociali laddove l’ex premier Matteo Renzi l’aveva eliminata.

Il primo colpo della battaglia elettorale

segnalato da Barbara G.

di Norma Rangeri – ilmanifesto.info, 12/01/2017

Quale sarebbe la forza di una campagna referendaria sul lavoro in Italia non è difficile da immaginare. Quale valenza avrebbe, per la sinistra, ingaggiare, così come è già accaduto per il referendum sulla Costituzione, una battaglia elettorale, politica, culturale sul tema cruciale dell’occupazione è altrettanto evidente. Aver dichiarato inammissibile il quesito sull’articolo 18, come ha fatto ieri la Corte Costituzionale, è sicuramente un pessimo segnale, ma non decisivo. Certo, una Repubblica che si proclama fondata sul lavoro sforna, nella realtà, leggi che negano la pari dignità tra lavoratore e datore di lavoro (ti licenzio, il perché non ti riguarda, prendi un bonus e a casa). Vedremo quali saranno le motivazioni della sentenza per un esito comunque combattuto tra i 14 giudici.

Ma sbaglia chi pensa che il tema dei voucher, la modalità di lavoro non di una minoranza di pensionati, bensì dell’area centrale dell’occupazione, quella dei 35 anni, sarebbe di minor impatto nella mobilitazione e nel voto. Al contrario, assisteremmo a una partecipazione massiccia dei giovani, e di quei cittadini che oggi, specialmente nel Sud, subiscono il pesante arretramento nelle condizioni, materiali e morali, della loro vita.

Il condizionale naturalmente è d’obbligo perché è sempre possibile un intervento legislativo che neutralizzi il referendum, e perché se con la sentenza della Corte Costituzionale è comunque iniziata la campagna elettorale resta tutto da vedere di quale natura sarà: se si tratterà della corsa referendaria contro voucher e appalti, o se, invece, tra qualche mese saremo chiamati a eleggere i parlamentari della prossima legislatura.

Oggi sui muri delle nostre città parleranno i primi manifesti della Cgil con l’invito a votare due sì. Dopo aver raccolto oltre tre milioni di firme, il sindacato di Susanna Camusso, in questa settimana obiettivo prediletto dei giornaloni, è ben intenzionato a battere nelle urne le politiche del lavoro promosse dal jobs act. Quelle stesse così orgogliosamente rivendicate dall’attuale presidente del consiglio Gentiloni, e dal suo predecessore Renzi.

Tuttavia è evidente che un bandolo della matassa è nelle mani dell’ex presidente Renzi, e delle forze che a lui si riferiscono. Sarà massimo il suo impegno per evitare di sprofondare di nuovo sul terreno sfavorevole dello scontro referendario, preferendogli le elezioni anticipate (bruciando così il terzo governo del Pd). Ma qui il gioco dei Palazzi è sovrano, le alchimie piuttosto fumose, le trappole trasversali in agguato. Intanto, pur in maniera meno diretta che nel caso dei quesiti referendari, sarà ancora il Palazzo della Consulta a definire su quali premesse potranno agire le correnti dei partiti per definire una legge elettorale post-Italicum. Così come sarà Palazzo Chigi a decidere come staccare la spina a se stesso, con il partito di maggioranza che, attraverso alcuni suoi esponenti di primo piano, va dicendosi pronto anche al gesto estremo di ritirare la fiducia al suo governo. Poi, su tutti, a dire la sua sarà il Palazzo del Quirinale. Mattarella ha detto sì il 4 dicembre, appoggia il Jobs act, ha aperto l’ombrello sul governo fotocopia, ma non sarà facile schierarlo tra i pasdaran del voto anticipato.

Art. 18

segnalato da Barbara G.

Tutte le strettoie per ammettere il quesito sull’art. 18

di Andrea Pertici – huffingtonpost.it, 09/01/2017

È noto che fare previsioni su un giudizio di ammissibilità di un referendum abrogativo non è semplice. Nell’esercizio di questa competenza, la Corte costituzionale giudica, infatti, sulla base di parametri elaborati quasi esclusivamente attraverso la propria giurisprudenza, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, con un orientamento che nel complesso è divenuto progressivamente restrittivo, pur con significative oscillazioni, soprattutto in relazione alle modalità di formulazione del quesito.

Quest’ultimo, infatti, deve essere “chiaro e semplice” e per questo omogeneo: non si può chiedere agli elettori di abrogare, per esempio, il reato di istigazione a disobbedire le leggi e quello di atti contrari alla pubblica decenza, perché questi potrebbero voler rispondere a favore dell’abrogazione dell’uno ma non dell’altro.

Ciò non significa, che non possa essere chiesta l’abrogazione di più norme o anche di più istituti, purché abbiano una “matrice razionalmente unitaria”, individuata dalla Corte, la quale, fissandola a maglie più o meno larghe, può favorire l’ammissibilità di un quesito o al contrario determinare la sua inammissibilità. L’incertezza è accresciuta dal fatto che – sempre secondo la giurisprudenza costituzionale – un quesito deve non solo essere omogeneo (e quindi evitare di contenere qualcosa di troppo) ma anche completo e coerente, con la conseguente necessaria inclusione di tutte le norme connesse a quella matrice razionalmente unitaria, la dimenticanza di alcune delle quali ha determinato in più occasioni una pronuncia di inammissibilità.

Ma le strettoie dell’ammissibilità referendaria non finiscono qui. Sempre dal punto di vista della sola formulazione del quesito, la Corte – soprattutto dal 1997 – ha precisato che i quesiti non debbano essere “manipolativi”, e cioè tali da trasformare il referendum da abrogativo a “surrettiziamente propositivo”.

Pure in questo caso si tratta di un criterio non semplice da definire in concreto, anche considerato che la Consulta non considera manipolativo (o comunque inammissibilmente manipolativo) qualunque ritaglio di parole, ma soltanto quello che realizza una “saldatura di frammenti lessicali eterogenei”, sostituendo una previsione di legge con un’altra che “figura in tutt’altro contesto normativo”.

È quanto avveniva nel caso della sentenza n. 36 del 1997, relativa al limite di trasmissione dei messaggi pubblicitari da parte della concessionaria pubblica, fissato nel 4% dell’orario settimanale (e nel 12% di ogni ora), che – attraverso un ritaglio di alcune frasi – si mirava a far scendere al 2% che era, invece, il limite dell’eventuale eccedenza oraria da recuperare nell’ora antecedente o successiva.

Diversamente, però, altri ritagli di norme sono stati dichiarati ammissibili, pur determinando la sostituzione di una determinata disciplina con un’altra ,che, tuttavia, non risultava “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo”, ma al contrario determinava l’estensione di un criterio già esistente come residuale, facendolo diventare quello normalmente applicabile. È quanto la Corte costituzionale disse con la sentenza n. 13 del 1999, a proposito di un referendum sul Mattarellum dal quale sarebbe risultata la sostituzione delle particolari modalità di attribuzione dei seggi previste per la Camera con altre (previste dalla legge solo come residuali).

Ecco, questi aspetti diventano oggi importanti alla vigilia del pronunciamento della Corte costituzionale su tre quesiti proposti dalla CGIL, relativi, rispettivamente, alla disciplina sui licenziamenti illegittimi, alla responsabilità solidale in materia di appalti e ai voucher.

Alcune criticità potrebbe presentare proprio il primo quesito. Questo, infatti, elimina il decreto legislativo sui licenziamenti approvato sulla base di una delega contenuta nel jobs act, proprio come faceva il quesito già proposto da Possibile nel 2015, ma aggiunge poi l’abrogazione di alcune parti dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, come successivamente modificato (soprattutto dalla legge Fornero).

Ora, questo potrebbe determinare alcune difficoltà nella individuazione di una matrice razionalmente unitaria sufficientemente definita e quindi quell’omogeneità del quesito necessaria per renderlo ammissibile. Potrebbe infatti volersi votare a favore di una modifica delle conseguenze del licenziamento ingiustificato ma non della estensione di queste anche alle imprese con un più limitato numero di dipendenti (da quindici a cinque)?

La risposta sul punto finirà per dipendere proprio dalla individuazione che la Consulta farà della “matrice razionalmente unitaria”, perché se questa fosse fissata a maglie molto larghe (per esempio, nel “rafforzamento delle tutele rispetto ai licenziamenti illegittimi”) il quesito potrebbe risultare ammissibile, ma in caso diverso no.

Tuttavia, l’inammissibilità del quesito è stata sostenuta da più parti, nelle ultime settimane, sulla base della “manipolatività”, in quanto questo quesito – attraverso il ritaglio di alcune parole e frasi – non determinerebbe una semplice abrogazione ma sarebbe propositivo di una nuova disciplina. La questione si pone, in particolare, per l’ottavo comma dell’articolo 18, relativo alla dimensione dell’impresa alla quale si applicano le tutele previste rispetto al licenziamento illegittimo. Infatti, attraverso la cancellazione di alcune parole, si intende sostituire, ai limiti attualmente previsti, calcolati sulla singola impresa o sulle diverse imprese del medesimo imprenditore nell’ambito del Comune (con una disciplina specifica per le imprese agricole), un unico limite, oggi previsto per le sole aziende agricole, dato dalla presenza di almeno cinque dipendenti.

Ora, come abbiamo detto, non qualunque ritaglio che porti a un cambiamento della disciplina vigente è inammissibilmente manipolativo, ma soltanto quello che, saldando frammenti lessicali eterogenei, relativi a “tutt’altro contesto normativo” produca un effetto surrettiziamente propositivo. Se, invece, il ritaglio porta all’espansione di un criterio già presente, senza operare una sostituzione con un’altra disciplina “assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo (…), ma utilizza un criterio specificamente esistente”, il referendum è ammissibile.

La domanda, quindi, è se la soglia dei cinque dipendenti, prevista oggi per l’applicabilità dell’articolo 18 alle sole aziende agricole, divenendo valida per tutte le aziende (per le quali attualmente è di quindici dipendenti), determini una semplice espansione di una disciplina prevista e non estranea al contesto normativo o no. E da questo potrebbe dipendere l’ammissibilità del quesito o la sua inammissibilità.

E problemi simili potrebbero forse esservi anche per un’altra disposizione oggetto di abrogazione e in particolare per quella relativa alla determinazione dell’indennità risarcitoria per il licenziamento dichiarato inefficace per difetto di motivazione, per la quale, attraverso una serie di ritagli, si applica uno dei criteri (quello della reintegrazione con pagamento di indennità) previsti per il licenziamento ingiustificato.

Di fronte a un esito incerto, soprattutto quando i quesiti sono particolarmente complessi e articolati, rimane da sottolineare la necessità di fornire il giudizio di ammissibilità di parametri meglio definiti e soprattutto l’importanza che la Corte costituzionale arrivi a pronunce quanto più possibile solide, chiare e trasparenti, nel presupposto che, a norma della Costituzione, per il referendum abrogativo l’ammissibilità è la regola e l’inammissibilità l’eccezione.

I criteri che determinano quest’ultima, quindi, ferma restando la necessità di garantire un’autentica libertà di voto, non dovrebbero essere oggetto di un’interpretazione estensiva (rispetto alla quale talvolta la Corte ha ecceduto, come sottolineato anche dall’autore della sentenza n. 16 del 1978, Livio Paladin, in un seminario svoltosi proprio alla Consulta nel 1996).

Democrazia recitativa

Rodotà: quando i referendum diventano un boomerang

Il giurista smonta il mito della democrazia referendaria: “L’errore di Cameron è stato usare la consultazione per fini politici, attenti a non ripeterlo anche in Italia”.
di Jacopo Iacoboni – lastampa.it, 27 giugno 2016
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«Questo referendum è stato brandito da Cameron per ragioni interne al suo partito, un uso del tutto strumentale di uno degli istituti giuridicamente più delicati. Ma così facendo il referendum diventa – da strumento di democrazia diretta e partecipazione – lo strumento distorcente di un appello al popolo, peraltro un popolo disinformato. E muore».

Professor Rodotà, la vicenda del referendum sulla Brexit – e oggi i tre milioni di firme, il premier scozzese Sturgeon che prova a fermare l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, e anche molti laburisti che ricordano che dovrà comunque decidere un voto del Parlamento – ecco, tutto questo logora definitivamente il mito della democrazia referendaria?  

«Una situazione analoga a quella attuale si creò in Francia nel 2000, all’epoca del referendum sul trattato costituzionale. Io, da estensore della Carta dei diritti fondamentali, partecipai a quella campagna referendaria francese; ero a favore del sì, consapevole dei limiti di quel testo, e mi trovai dinanzi anche tanti amici socialisti francesi, gente con cui avevo collaborato alla stesura, che mi dicevano “eh no, votiamo no perché Fabius…”, “eh no, votiamo no perché l’idraulico polacco…”. Anche allora, come oggi in Inghilterra, il referendum fu strumentalizzato neanche per interessi nazionali, per interessi di un partito. È il primo punto da capire».

Qual è il secondo?  

«Proprio nella carta dei diritti, giugno ’99, ma anche nel Trattato di Lisbona, si scrisse che fondamentale non è solo il “mercato comune”, ma la costruzione di un “popolo comune” europeo. L’Unione avrebbe fallito se fosse rimasta alle procedure economiche, senza creare procedure di legittimazione popolare, cioè senza la politica. Il caso Grecia è stato esemplare. Il principio di solidarietà, che è nel trattato di Lisbona, è stato ridotto all’interesse nazionale; il “popolo comune” non è mai nato».

L’informazione e il sistema dei media non sono stati complici? Il referendum sulla Brexit è stato costellato di bugie scandalose, si è lasciato dire a Johnson che in caso di uscita dall’Ue in Gran Bretagna sarebbero calati d’un colpo i migranti di 350mila unità…  

«Il referendum senza vera informazione è una distorsione. I costituenti italiani erano stati più accorti, previdero una lunga fase, dall’inizio della campagna referendaria e il voto, che generalmente va da gennaio a giugno».

Il Labour ora si appella a un voto del Parlamento, ma la strumentalizzazione di cui Cameron è stato campione forse non ha lasciato del tutto indenne Jeremy Corbyn, troppo silenzioso, non trova?  

«Corbyn ha pensato che non gli conveniva fare campagna dura per il Remain, perché in qualche modo il Remain avrebbe vinto comunque, sia pure di poco, e lui non si sarebbe alienato i voti dei più scontenti. Ma questo è un altro modo di strumentalizzare il referendum, piegare un istituto delicatissimo a calcoli interni a un partito».

Non pensa che bisogna essere meno ottimisti, a questo punto, sull’idea di democrazia diretta, referendaria? In Italia questa idea è agitata molto soprattutto dalla propaganda M5S.  

«Io, tolto quello del 2 giugno, i referendum li ho fatti tutti, e obiettivamente c’è un degrado. Ci sono anche esempi di referendum positivi, che hanno aumentato la partecipazione, penso a quello sull’acqua. Ma un referendum male usato produce un effetto divisivo fortissimo: il rischio qui è creare non uno, ma due popoli europei totalmente separati».

Andiamo verso un referendum italiano in cui penso si scontrino due propagande, quella di Renzi, palese, e quella del M5S, meno denunciata. È possibile, in questo quadro, aspettarsi qualcosa di buono?  

«Ormai l’ambiente informativo è molto più sensibile alle suggestioni, e alla propaganda, di quanto non fosse anche nel passato recente. Siamo, direbbe il titolo di un bel libro di Emilio Gentile, in una Democrazia recitativa, in cui è più la recita che l’informazione. In questo quadro il referendum, da forma di democrazia diretta dei cittadini, si trasforma nell’appello al capo e alla folla. Renzi ha commesso l’errore di cavalcare questo quadro, che gli si può ritorcere contro».

Oltre al Capo, infatti, c’è la Folla informe, diceva Canetti.

Lunga vita al giacimento

segnalato da Barbara G.

Le piattaforme esistenti entro le 12 miglia dalla costa sono 88

Trivelle, la genesi dell’emendamento che ha allungato la vita ai giacimenti

A metà dicembre 2015 il Governo presenta una modifica alla legge di Stabilità messa a punto dal dicastero dello Sviluppo economico guidato allora da Federica Guidi. Si tratta della “clausola di salvaguardia” per i titoli già “rilasciati” che sposta alla “durata di vita utile” il termine delle concessioni e sulla quale voteranno gli italiani. La proposta dell’esecutivo, però, era accompagnata da una relazione tecnica che negava “effetti finanziari”

di Duccio Facchini – altreconomia.it, 05/05/2016

Un punto chiave del dibattito pubblico sul referendum del 17 aprile in merito alla durata delle trivellazioni in mare entro le 12 miglia dalla costa è rimasto ancora senza risposta. Si tratta cioè della “genesi” di quella “clausola di salvaguardia” ai “titoli abilitativi già rilasciati” -tradotto, alle piattaforme già in funzione- per tutta la “durata di vita utile del giacimento”, dovuta a una modifica della legge di Stabilità 2016 messa a punto dal Governo e proposta durante una lunga domenica di dicembre all’attenzione della commissione Bilancio della Camera dei deputati. Il concetto di “vita utile” venne bollato come un “autentico inganno” dal comitato No Triv, un falso accoglimento dello spirito referendario, tanto che sia la Cassazione sia la Corte Costituzionale confermarono la chiamata alle urne.
Tutto il resto è noto, eccetto il percorso di quell’emendamento al testo della Stabilità -che era già stato approvato dal Senato- che viene illustrato ai commissari nella seduta fiume (terminerà alle 23.25) di domenica 13 dicembre 2015 dal viceministro dell’Economia Enrico Morando (il numero era 16.293, che aggiungeva il comma 129-bis). L’esecutivo ci tiene particolarmente, tanto che, il giorno seguente, è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianclaudio Bressa a “raccomandarne” l’approvazione (così riportano i resoconti sommari), ottenendo il via libera dalla commissione.
Se Morando lo presenta e Bressa ne caldeggia l’approvazione, nessuno dei due ne è l’autore. Il primo, interpellato da Ae, si limita a sintetizzare la prassi: “Le proposte di partenza provengono volta per volta dai ministeri competenti e dagli organi di coordinamento quali ad esempio la presidenza del Consiglio. In questo caso -ha affermato il viceministro all’Economia- immagino si trattasse del ministero dello Sviluppo economico (Mise, ndr), anche se non è detto che sia così nel caso specifico, diciamo che è vero in generale”.
L’emendamento destinato a diventare il cuore del quesito del 17 aprile, dunque, proveniva dal Mise all’epoca guidato da Federica Guidi. Non solo. La procedura prevede infatti che ai commissari chiamati ad approvare o meno le proposte emendative venga sottoposta una relazione “illustrativa” e una “tecnica” in grado di tradurre il linguaggio normativo o ragionieristico in modo comprensibile. L’illustrativa sintetizza il contenuto, la tecnica dà conto di eventuali “effetti finanziari”. Sono documenti fondamentali, una sorta di carta di identità di un emendamento apparentemente tecnico. Sul punto Morando aggiunge un dettaglio importante: “Solitamente la relazione tecnica viene predisposta ed elaborata dal ministero competente (quindi dal Mise, ndr) e poi inviata alla Ragioneria generale dello Stato la quale poi può decidere, se quella relazione è convincente, di apporre il proprio bollino, o al contrario, se è negativa, di ordinare il reperimento di una copertura diversa”.
Eppure, nonostante sia più volte citata negli allegati alla Stabilità, la “relazione tecnica” dell’emendamento che ha introdotto il concetto di “vita utile del giacimento” non è mai stata pubblicata (“È la prassi”, hanno spiegato dalla segreteria della commissione Bilancio della Camera). I presentatori, cioè il Mise, spendono 21 parole: “Le disposizioni di cui ai commi 129 bis e 129 ter disponendo modifiche prevalentemente di carattere procedurale non determinano effetti finanziari”. Il Ragioniere generale, Daniele Franco, approva ed esprime parere favorevole.
C’è un però, al di là dell’uso disinvolto degli avverbi –“‘Prevalentemente’ che cosa significa? Ha effetti o non ha effetti”, ragiona a voce alta un ragioniere di un ente locale cui abbiamo sottoposto il documento-. E il “però” guarda a quanto gas e petrolio decideranno di estrarre le compagnie in campo d’ora in avanti, dopo la garanzia di quella “clausola di salvaguardia” resa ormai orfana di una data certa di scadenza.
Come ha già spiegato Greenpeace, infatti, delle 88 piattaforme operanti in Italia entro le 12 miglia dalla costa, ben “26 […] da anni ‘erogano’ così poco da rimanere costantemente sotto la franchigia; ovvero, sotto la soglia di produzione (50mila tonnellate per quanto riguarda il petrolio, 80 milioni di standard metri cubi per il gas) che esenta i petrolieri dal pagamento delle royalties”.
Il combinato disposto del crollo prezzo del petrolio -coerentemente a quello del gas- e della cancellazione di una fine certa della concessione, potrebbe eventualmente spingere una compagnia a “diluire” l’estrazione nel tempo, restando sempre al di sotto della soglia che fa scattare il pagamento delle royalties.
Per non parlare del rinvio a data da definirsi dello smantellamento e del ripristino ambientale dei siti produttivi.
Lo scenario di un’estrazione volutamente “sotto soglia” e del rinvio del ripristino ambientale è stato sottoposto al ministero dello Sviluppo economico, lo stesso che a dicembre 2015 aveva invece negato ogni effetto finanziario dell’emendamento alla Stabilità nell’apposita relazione tecnica.
Il nuovo regime di concessione sarà comunque vincolato da termini e controlli, in particolare in relazione al buon governo del giacimento -ha risposto il Mise ad Altreconomia-. Le norme vigenti impegnano il concessionario a presentare all’autorità di vigilanza (l’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse presso la Direzione generale per la sicurezza anche ambientale delle attività minerarie ed energetiche) ogni anno il piano di produzione che viene valutato anche sotto l’aspetto dei corretti livelli produttivi, che devono essere tali da consentire il recupero di tutte le riserve nei tempi previsti, senza accelerazioni suscettibili di produrre danno irreversibili al giacimento per accelerare il profitto, senza rallentamenti per godere surrettiziamente di regimi di esenzione.
Lo smantellamento e ripristino dei siti interessati dalle attività produttive rimane fissato alla fine della vita utile del giacimento”.
Il Mise assicura vigilanza (il decreto direttoriale di riferimento è del 15 luglio 2015), ma ogni verifica è di fatto collegata a doppio filo al concetto di “durata di vita utile del giacimento”. Chi lo stabilirà? Chi cioè disegnerà i confini del “buon governo del giacimento”, come l’ha definito il ministero?
“Sarà il concedente (lo Stato, ndr) a stabilire quali sono i tempi di vita utile del giacimento sulla base dell’indicazione del concessionario (le aziende, ndr) -ha spiegato ad Ae una fonte del ministero-. Questo regime normativo è abbastanza nuovo ma è evidente che il gestore dell’impianto deve fare l’analisi della vita residua del giacimento in base alle condizioni tecniche ed economiche di oggi. Oggi può dire che alle condizioni attuali quel giacimento durerà fino al 2040. Fra tre anni potrà dire che dura fino al 2030 o al 2050, perché nel frattempo alcuni livelli produttivi si sono rilevati migliori e si possono mettere in produzione oppure il prezzo dell’olio è calato del 30%. Tutti questi fattori consentono di dire che la vita utile del giacimento è un elemento variabile nel tempo. L’amministrazione pubblica fotografa l’ipotesi di vita utile e poi ne fa monitoraggio nel corso del tempo”.
Dal giorno dopo il referendum è successo qualcosa? “Premesso che si sta ancora approfondendo la ‘nuova’ normativa, posso dire che sì, in parte qualcosa è avvenuto -prosegue il dirigente del ministero-: abbiamo cioè ricevuto degli studi tecnici ed economici che hanno permesso ad alcuni concessionari di formulare una certa ipotesi di vita utile. I nostri uffici tecnici sul territorio, in contraddittorio con le aziende, forniranno una loro valutazione sulla vita utile al centro, al ministero, e, con l’ausilio della Commissione per gli idrocarburi e le risorse minerarie, valuteranno le considerazioni e stimeranno la vita utile. Quella del concessionario, quindi, sarà solo una proposta”.
Dunque gli “effetti finanziari” potrebbero esserci -seppure il funzionario del ministero definisca “più che altro teorica” l’ipotesi di future estrazioni sotto soglia-, contrariamente a quanto scritto con 21 parole in quella “relazione tecnica” già dimenticata.

Ci hanno presi per il…

segnalato da Barbara G.

L’allarme della Cgil sul futuro degli impianti

Trivelle in crisi: il Governo aveva mentito

Persi 600 posti di lavoro nel 2016, zero investimenti programmati, tutte le grandi aziende guardano altrove. Le trivelle non creano posti di lavoro, e ormai è un dato di fatto: il referendum del 17 aprile non c’entra nulla

rinnovabili.it, 13/06/2016

Renzi lo ripeteva come un mantra per far fallire il referendum sulle trivelle: “se vince il Sì a rischio migliaia di posti di lavoro”. Il Governo dipingeva scenari apocalittici, con l’intero comparto degli idrocarburi in ginocchio nell’ipotesi di una vittoria dei No Triv. I sostenitori della consultazione del 17 aprile scorso invece battevano un altro tasto: il settore è in crisi nera di suo e non sarà il referendum a incidere. Chi aveva ragione? Basta dare un’occhiata a quello che sta succedendo a Ravenna per farsi un’idea.

Le trivelle non creano posti di lavoro, anzi li perdono con un’emorragia impressionante. La Cgil lancia l’allarme: da inizio anno sono già 600 i posti di lavoro persi. E gli investimenti? Adesso che lo spauracchio del referendum sulle trivelle – così era dipinto – non c’è più, si potrebbe pensare, saranno certamente arrivati a pioggia, in linea con quello che andava ripetendo il premier: “È un referendum per bloccare impianti che funzionano”.

A quanto pare, invece, le grandi aziende del ravennate non sono assolutamente d’accordo. «Le principali services company multinazionali – commenta Alessandro Mongiusti, della Filctem Cgil Ravenna e responsabile nazionale di categoria per il comparto perforazione – hanno avviato piani di ristrutturazione devastanti che vedono coinvolte anche le basi operative nel nostro paese e nella nostra città. Dimensionalmente le tre big, Halliburton, Baker Hughes e Schlumberger hanno già ridotto il personale di oltre il 50% e stanno proseguendo nel percorso di riduzione».

A fine mese probabilmente si fermerà pure l’Atwood Beacon, cioè l’ultimo impianto di perforazione che sta operando nella zona. Un record, visto che a Ravenna non era mai accaduto che tutti gli impianti fossero fermi. «Altra certezza, purtroppo – continua Mongiusti – sono i futuri piani operativi comunicati da Eni per Ravenna. Stante l’attuale situazione di mercato non vi sono operazioni in programma per tutto il 2016 e credo sia inutile andare oltre e fare i veggenti per il 2017. Se le operazioni non ripartono a breve termine quanto rimasto della forza lavoro dell’intero comparto subirà nei prossimi mesi una decimazione irrecuperabile».

È chiaro che l’avventura fossile dell’Italia era già in declino prima della consultazione popolare. La penisola ha una produzione risibile e in costante calo, sia di gas che di greggio.  Il crollo del prezzo del barile rende l’estrazione in mare sempre più antieconomica. Secondo l’ultimo rapporto della società di consulenza Deloitte, il 35% delle compagnie sarebbe ad alto rischio di fallimento nel 2016. Nonostante il governi seguitino a foraggiare l’industria fossile con oltre 5 mila miliardi di dollari l’anno, nonostante l’Italia abbia destinato a carbone, gas e petrolio una quota di finanziamenti pubblici 42 volte superiore a quelli accantonati per l’azione climatica, le prospettive per il mercato del lavoro nel settore non sono affatto incoraggianti.

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E visto che ora non ci sono più scuse, cosa aspettate a firmare per il referendum? Evitiamo che vengano rilasciate concessioni inutili, per favorire i soliti noti, e cambiamo strategia energetica.

Ci sono ancora pochi giorni a disposizione.

Il quesito sulle trivelle vuole cancellare i riferimenti a certe zone dell’Italia che limitano le attività petrolifere esclusivamente in quei luoghi, in modo da render applicabile il divieto di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi a tutta Italia, per i nuovi interventi in terraferma e in mare al di fuori delle 12 miglia. Dopo il referendum del 17 aprile contro le concessioni già esistenti in mare nelle prime 12 miglia, un quesito sui progetti nella restante parte del territorio italiano.

Non riguarda le concessioni già assegnate dallo Stato, perché colpirle lo avrebbe reso inammissibile.

Votare “Sì” significa voler bloccare tutti i nuovi progetti di perforazione e estrazione, ridurre devastazioni e problemi di salute connessi ai progetti petroliferi e rispondere alle analisi di scienziati di tutto il mondo: estrazione e combustione degli idrocarburi causano sconvolgimenti climatici, con grave rischio per la vivibilità della Terra. Le attuali richieste dei petrolieri per concessioni in terraferma e in mare sono oltre 100, su vaste aree del Paese. Fermiamole!

Leggi il quesito referendario