Riforma costituzionale

«Con Renzi non vinceremo mai»

D’Alema: «Leader e candidato premier nuovi. Populisti bene nel governo locale»

L’ex presidente del Consiglio: anziché deprecarli, mettiamoci in sintonia con il popolo. Con Renzi non vinceremo mai. I dem e Berlusconi non avranno i numeri per il governo.

di Aldo Cazzullo – corriere.it, 18 gennaio 2017

Massimo D’Alema, lei è tra i vincitori del referendum. Che ha abbattuto l’ultimo leader di centrosinistra che resistesse in Europa. Ora si va verso il proporzionale e, se tutto va bene, un governo Pd-Berlusconi. Un vero trionfo.
«Non è che l’alternativa sarebbe stata migliore. Buona parte di questi guai li ha provocati Renzi. Diciamo le cose come stanno: la caduta di Renzi è stata costruita da lui stesso. È stato lui a imporre con tre voti di fiducia una legge elettorale incostituzionale, per poi dopo tre mesi considerarla anche sbagliata. È stato lui a impostare il referendum come un grande plebiscito sulla sua persona; dopo un’esperienza di governo fallimentare, nonostante il favore al di là di ogni ragionevole limite del sistema dell’informazione, almeno di quella ufficiale; che non mi pare abbia comunque avuto una grande influenza sull’esito finale del voto».

Fallimento totale?
«Legga il rapporto del World Economic Forum, che non è un’organizzazione trotzkista. Su 30 Paesi industrializzati, l’Italia è quartultimo come crescita inclusiva, terzultimo come equità tra generazioni con trend in netto peggioramento negli ultimi due anni, per fare alcuni esempi».

Renzi rivendica di aver cambiato segno: dal meno al più.
«Il segno è cambiato in tutto il mondo. Ma da noi la crescita economica è particolarmente bassa, mentre abbiamo una crescita impressionante delle disuguaglianze e della povertà, che si riflette nella geografia sociale del voto. Il Sì ha perso nelle periferie, al Sud, tra i giovani».

Le uniche città in cui ha vinto il Sì, a parte Milano, sono Firenze e Bologna. Renzi rivendica che il 91% degli elettori Pd l’ha sostenuto.
«Renzi dice tante cose che non hanno riscontro. In realtà, lui parla di elettori del Pd, mentre io parlo di elettori del centrosinistra, di cui una grande quota non vota più Pd. In pochi giorni abbiamo costituito 300 comitati: molti erano composti da persone di sinistra che non votavano più, e sono tornati alle urne per votare No. Sabato 28 gennaio ci riuniremo in assemblea, e proporremo di trasformare questi comitati in comitati per ricostruire il campo del centrosinistra».

Hanno votato Sì anche tutti gli ex dalemiani: Orfini, Latorre, Rondolino, da ultimo Cuperlo.
«Io non ho mai fondato correnti, non ho mai preteso fedeltà. Ognuno è sempre stato libero di fare le proprie scelte. La mia è stata quella di condividere il sentimento della grande maggioranza degli italiani».

Lei crede ci sia davvero nel Pd un’alternativa a Renzi?
«Siamo stati tormentati per mesi da maître à penser secondo cui Renzi era insostituibile. Invece è arrivato Gentiloni e abbiamo avuto un presidente del Consiglio più garbato, più accettabile dagli italiani. E ne conosco altri, nel Pd e nel centrosinistra, in grado di svolgere efficacemente quel compito. Ripeto, nessuno è insostituibile. È un principio che a suo tempo ho applicato anche a me stesso».

Chi potrebbe essere «il giovane Prodi» evocato da Bersani?
«Non lo so. So che Renzi ci porterebbe a perdere le elezioni. Bersani ha detto giustamente che bisogna individuare un nuovo segretario del partito e un candidato del centrosinistra alla guida del Paese; proprio perché il Pd non appare più in grado di esprimere una vocazione maggioritaria. Questo richiede una personalità capace di rimettere insieme i riformisti».

Non potrebbe essere ancora Renzi?
«Non mi pare la persona adeguata. Ormai è chiaro che con Renzi non vinceremo mai. Tra lui e una parte del nostro mondo si è determinata una rottura sentimentale, difficilmente recuperabile. Lui insiste sui ballottaggi; ma oggi il Partito democratico è un partito isolato. L’unica mano tesa verso il Pd è quella di Berlusconi, che ha bisogno del governo contro la scalata di Vivendi: do ut des. Ma non credo che la mano tesa di Berlusconi corrisponda al sentimento dell’elettorato di centrodestra. Mediaset, come ci spiegò lui stesso, si schierò per il Sì; non mi pare abbia avuto grandi riscontri».

Il futuro quindi non è un governo Pd-Forza Italia?
«Se la tendenza elettorale è quella che vedo, il Pd e Berlusconi non avranno i numeri per fare nessun governo».

Quindi toccherà a Lega e 5 Stelle?
«Anziché deprecare il populismo cercando di delegittimare i nostri competitori politici, dovremmo cercare di metterci in sintonia con il popolo. È vero che la Raggi sta pagando a caro prezzo i legami con gli ambienti della destra romana, ma la Appendino è considerata il miglior sindaco d’Italia. Tra i primi tre presidenti di Regione ci sono, insieme a Enrico Rossi, i due leghisti, Zaia e Maroni. Stiamo perdendo anche il primato del governo locale, da sempre nostro punto di forza».

Il renzismo è finito?
«Non saprei. Certo i risultati non sono positivi. La situazione del Paese è molto grave. La principale preoccupazione di Renzi è stata stabilire un rapporto forte con l’establishment, attraverso un enorme trasferimento di risorse pubbliche alle imprese: 15 miliardi che non sono stati reinvestiti. Sono stati distribuiti incentivi a pioggia, che hanno prodotto solo un po’ di occupazione assistita e precaria. Sono stati versati bonus e mance, di cui ora l’Europa ci chiede il conto, imponendoci una manovra. E sono state salvate le banche salvando i grandi debitori delle banche, con i soldi dei cittadini».

A chi si riferisce?
«Mi auguro che la commissione d’inchiesta porti alla luce i nomi. A cominciare dai debitori del Monte dei Paschi. Potremmo trovare alcuni editori di giornali. Ma la gente non si informa sui giornali, va in rete e si chiede: perché se non pago il mutuo mi tolgono la casa, mentre se non paga i debiti un gran signore sono sempre io, cittadino italiano medio, che devo rimediare di tasca mia?».

Il Monte dei Paschi è roba vostra. La banca della sinistra.
«Quando ero presidente del Consiglio mi battei perché il Monte fosse tolto dal controllo della Fondazione. Non volevamo “la banca della sinistra”: volevamo privatizzarla. A Siena ci fu una rivolta. Furono stampati manifesti con la scritta “D’Alema come Mussolini”. Credo che bisognerebbe raccontare la storia vera e non quella che fa comodo al potente di turno».

Renzi rivendica di aver redistribuito ricchezza con gli 80 euro.
«Io espressi apprezzamento per gli 80 euro, ma nello stesso tempo, tagliando l’Imu sulla prima casa, il reddito restituito alle famiglie più ricche è stato assai più consistente. Il ricco riceve 2 mila euro, l’occupato 80, l’emarginato zero. Non è antirenzismo; è matematica».

È stata fatta una legge contro la povertà.
«Una buona legge. Finanziata con un miliardo di euro, per nove milioni di poveri: faccia lei il conto. Non è che gli elettori sono cattivi o ingrati. L’82% dei giovani ha votato No; e un partito che ha contro 8 ragazzi su 10 non ha futuro».

Resta il 40% di Sì.
«Sulla scala mobile il Pci da solo conquistò il 45,7% di Sì. Alle Politiche successive andò sotto il 27».

Quando si vota secondo lei?
«Non credo a giugno. Mi pare un altro disegno velleitario. Ci sarà il test delle amministrative, che si annuncia molto difficile: dopo Torino rischiamo di perdere Genova. Servirebbe una discussione approfondita nel partito. Un congresso. E si dovrebbe avere il tempo di votare la proposta di legge per ridurre i parlamentari e abolire la “navetta” tra Camera e Senato».

Lei parlò di cinque mesi per fare la riforma costituzionale. Ne è passato uno e mezzo e non è successo nulla.
«Se il Pd vuole, si può fare. La proposta è depositata al Senato. L’hanno firmata esponenti del Pd e del centrodestra. Crimi dei 5 Stelle e Naccarato di Gal ne hanno presentate due analoghe. Può passare con l’80%, quindi senza bisogno di referendum. E sa perché l’esame non può cominciare? Perché il Pd non ha ancora scelto il nuovo presidente della commissione Affari costituzionali, al posto della Finocchiaro, nominata ministro».

La priorità ormai è la legge elettorale. Qual è il sistema migliore?
«Il ritorno al Mattarellum. Anche perché consentirebbe di ricostruire il centrosinistra a partire dai candidati nei collegi, scelti attraverso le primarie. Non so se ci sarà la forza per farlo, ma, come vede, almeno su questo sono d’accordo con Renzi».

Sono d’accordo con Prodi. E per questo voterò no

di Giulio Cavalli – left.it, 01/12/2016

Dice Prodi che le riforme contenute nella revisione costituzionale del trio Renzi-Boschi-Napolitano  “non hanno certo la profondità e la chiarezza necessarie” e chiarisce che molto dipenderà anche dalla “riforma della legge elettorale”.

Sono d’accordo con lui. Completamente. La revisione costituzionale pensata dal governo e caldeggiata da Renzi in ogni dove (e già questo mette i brividi, a proposito di ruoli e responsabilità di garanzia) è una superficialissima accozzaglia (cit.) di meccanismi imperfetti che con l’idea di superare l’esistente non fanno altro che moltiplicare i processi legislativi e spezzettare competenze in modo non chiaro (appunto) e inconcludente.

La differenza tra me e Prodi è che questi motivi mi spingono a votare convintamente no mentre il Professore propende per il sì. Quella che Prodi definisce “una modesta riforma costituzionale” (alla faccia del cambiamento epocale evocato dai sostenitori del sì) in effetti ha la forma di un pollo che pretende di volare.

Dice Prodi che “nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone” e ha tutto il diritto di crederlo ma nella vita ci sono temi e momenti che richiedono di tenere la barra dritta, di rifiutare mediazioni al ribasso che sono spesso solo l’introduzione di storture ben più grandi e di prendere una posizione, parteggiare, essere partigiani. Se si fossero accontentati dell’osso al posto del bastone questa nostra Costituzione non sarebbe mai stata scritta e anche per questo mi piacerebbe che non venisse sporcata con approssimazione. La differenza tra me e Prodi forse è la stessa tra chi si accontenta per stanchezza e chi invece non svende al ribasso la speranza. Già, speranza, che scritta così sembra una parola altissima in questa tenzone referendaria ma è solo un problema di nanismo dei protagonisti. Ne sono convinto.

Col “meglio che niente” compro gli spazzolini o scelgo una pizzeria quando si fa tardi ma non tocco la Costituzione. No.

Buon giovedì.

La supremazia statale e le autonomie meno autonome

Chiamiamolo pure “la schiforma e l’ambiente, atto 1”. Spero di riuscire a scrivere l’atto 2 nei prossimi giorni

di Barbara G.

La riforma costituzionale, prevedendo una diversa ripartizione delle competenze fra Stato e Regioni rispetto alla Costituzione vigente e introducendo la clausola di supremazia, ha impatti potenziali non certo trascurabili sull’ambiente, sulla nostra vita, sul ruolo di istituzioni ed enti locali nelle scelte a tutela della popolazione.

Fra le materie di competenza esclusiva dello stato ci sono produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, infrastrutture e grandi reti di trasporto di interesse nazionale. In realtà questa ripartizione potrebbe essere ulteriormente modificata, più o meno “localmente”. All’art.117 c4 post riforma si afferma:

Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.

Nei paesi in cui tale clausola è prevista vengono indicate le materie per le quali è possibile farvi ricorso, e in quali condizioni. La riforma Renzi-Boschi non dice nulla. Ogni decisione è rimessa al Governo, con un’indicazione molto vaga relativamente ai casi in cui la clausola di supremazia può essere fatta valere, senza alcun vincolo relativamente alle materie. Qualora la Corte Costituzionale venisse chiamata ad esprimersi circa la sua applicazione, i giudici potrebbero trovarsi in seria difficoltà, vista la vaghezza delle indicazioni contenute nella proposta di modifica costituzionale.

In un certo senso, la clausola di supremazia è un déjà vu. E non è una bella sensazione…

Facciamo un po’ di storia – Lo sblocca Italia

L’11/11/2014 viene approvato, con voto di fiducia, il Decreto Sblocca Italia. Dovrebbe raccogliere misure urgenti per il rilancio del paese, si dice. Nel concreto, contiene provvedimenti che vanno a definire, tra le altre cose, alcuni aspetti legati alla politica ambientale ed energetica sul lungo periodo. Lo strumento del decreto, che dovrebbe avere carattere di urgenza e contenuto omogeneo, non è lo strumento adatto per definire aspetti della politica economica e ambientale di un paese. Le scelte di lungo periodo vanno ponderate e discusse; dovrebbero ovviamente essere coerenti con gli impegni presi a livello internazionale ed elaborate avendo bene in mente un’idea di futuro, quello che si vuole per il paese.

Beh, questo non è successo. Inoltre vengono previsti meccanismi per scavalcare la volontà e gli interventi di pianificazione delle regioni imponendo il volere del Governo su scelte strategiche. Alcune di queste disposizioni sono state oggetto di ricorsi alla Corte Costituzionale, che in certi casi si sono risolti in favore dei ricorrenti (si veda ad esempio il ricorso della Regione Puglia, estromessa dai processi autorizzativi per alcuni interventi sulle infrastrutture).

Mi soffermerò su due esempi che sono, a mio avviso, rappresentativi dell’impostazione del documento.

Problema rifiuti

Il titolo dell’art 35 è “Misure urgenti per la realizzazione su scala nazionale di un sistema adeguato e integrato di gestione dei rifiuti urbani e per conseguire gli obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio (…)”.

Mentre a livello internazionale si prendono impegni su riduzione produzione rifiuti, mentre si parla della necessità di ridurre la produzione pro capite di rifiuti, di tariffa puntuale come metodo per spingere la raccolta differenziata e contribuire ad innescare un’economia di tipo circolare, la strada scelta dal Governo per risolvere l’emergenza rifiuti è quella dell’incenerimento.

Si afferma infatti (primo comma) che il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e sentita la Conferenza Stato Regioni, deve emanare un decreto nel quale viene valutata la capacità degli impianti di incenerimento (in esercizio o autorizzati), a livello nazionale e per ciascun impianto, e da realizzare per coprire il fabbisogno residuo. Gli impianti così individuati costituiscono infrastrutture e insediamenti strategici di preminente interesse nazionale. Si fa riferimento, contemporaneamente, a:

  • riequilibrio socio-economico fra le aree del territorio nazionale;
  • obiettivi di raccolta differenziata e di riciclaggio, tenendo conto della pianificazione regionale;
  • autosufficienza nella gestione dei rifiuti;
  • superare e prevenire ulteriori procedure di infrazione per mancata attuazione delle norme europee di settore e limitano il conferimento di rifiuti in discarica.

Ovvero: siamo sotto procedura di infrazione e il problema lo risolviamo aprendo nuovi inceneritori, facendo funzionare a pieno regime gli altri, eventualmente spostando rifiuti da una regione all’altra. Se si parla di “fabbisogno residuo” e si danno pochi mesi per fare la valutazione è evidente che il discorso “differenziata” passa in secondo piano. Nuovi inceneritori al sud, dove la raccolta differenziata è ridotta, utilizzo degli inceneritori del nord, da riclassificare come “produttori di energia”, secondo la loro capacità massima per sopperire alle carenze delle zone non attrezzate. Con gli inceneritori si “attua un sistema integrato e moderno di gestione di rifiuti urbani e assimilati”, tutto questo in barba ai Piani Regionali di Gestione Rifiuti, che in certi casi avevano già individuato impianti da dismettere perché obsoleti, in un contesto in cui l’aumento della frazione di rifiuti recuperata toglieva di fatto “cibo” agli inceneritori. E l’Europa non ha certo chiesto di incenerire i rifiuti per uscire dal procedimento di infrazione.

Conseguenza: le comunità virtuose, dove si fa la differenziata, si trovano a dover bruciare rifiuti mal differenziati (e quindi potenzialmente più inquinanti). Inoltre: se proprio si deve risolvere un’emergenza, ci vuole molto meno tempo per avviare una raccolta differenziata piuttosto che costruire inceneritori, che poi richiedono lunghi tempi per ammortizzare costi…

Fonti fossili

Con lo Sblocca Italia di fatto sono state estromesse le Regioni dal processo di pianificazione sullo sfruttamento delle risorse fossili. E’ stato dato un gran potere alle imprese del settore, che con un unico titolo possono fare ricerca ed estrazione. E’ stato dato carattere di strategicità, indifferibilità e urgenza delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi; le infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi sono diventate strategiche. In base alla legge vigente in precedenza le Regioni dovevano essere coinvolte nel processo. Ciò ha causato la richiesta, da parte di alcune regioni, di 6 quesiti referendari.

Il governo è così corso ai ripari modificando alcune parti della legge con il preciso scopo di evitare i referendum, e il quesito residuo, rimodulato sulla base delle indicazioni della Corte di Cassazione, non è stato compreso nella su portata (sia tecnica che simbolica), e sappiamo tutti come è andata a finire. Per inciso, alcune settimane orsono c’è stata la prima applicazione del concetto di vita utile dell’impianto.

Cosa potrebbe succedere con la “riforma”

Introdurre la clausola di supremazia dopo aver ridotto le competenze delle regioni, sostanzialmente senza limiti al campo di applicazione e senza paletti ben definiti, significa dare facoltà all’Esecutivo di “espropriare” le Regioni delle loro competenze residue, le comunità e gli Enti locali della possibilità di far sentire la propria voce, di far valere le proprie scelte nel campo della pianificazione. Significa far subire alla collettività scelte calate dall’alto in favore di pochi, negli interessi di pochi.

Quello che era stato previsto nello Sblocca Italia e poi tolto con il preciso scopo di far fallire il referendum sulle trivelle in sostanza è introdotto in costituzione.

Presumibilmente si proseguirà con la logica delle grandi opere senza una seria valutazione delle reali necessità della zona, dei flussi di traffico.

L’Italia ha invece bisogno di fare un cambio di passo: riduzione ulteriore del ricorso alle fonti fossili, passare ad un’economia circolare nella logica della riduzione dei rifiuti e nella loro valorizzazione come risorsa, passaggio dalla logica delle grandi opere a quella della manutenzione del territorio, della prevenzione, delle opere puntuali per risolvere le criticità, di opere fatte bene e con logica di rete nelle zone più svantaggiate (perché non è più possibile pensare di impiegare 4 ore per andare in treno da Trapani a Palermo o vedere la Sicilia tagliata in due da frane e cantieri mai terminati). E queste opere non necessitano l’imposizione dall’alto, ma un continuo dialogo con le comunità locali, per intercettare le esigenze da in lato e cambiare la mentalità dall’altro. Viviamo in un Paese con notevoli criticità dal punto di vista ambientale, infrastrutturale; la stragrande maggioranza dei comuni sono a rischio idrogeologico e/o sismico e noi continuiamo ad affrontare le problematiche con la logica dell’emergenza invece che con quelle della prevenzione e della pianificazione.

Se vogliamo sperare in un serio cambio di passo non possiamo che votare no alla riforma, dobbiamo farlo noi come cittadini e dovrebbero farlo gli amministratori per evitare di consegnare un’arma carica al Governo, da usare alla bisogna…di qualche potente o amico degli amici.

Referendum, che confusione su ambiente e cultura

segnalato da Barbara G.

di Tomaso Montanari – libertaegiustizia.it, 30/10/2016

Con il referendum d’autunno saremo chiamati a decidere anche del futuro dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Non molti lo sanno, perché il dibattito sulla riforma costituzionale non ha finora lasciato spazio all’analisi dell’impatto che essa avrà su quest’ambito cruciale. Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze rilevanti.

Come è ben noto, l’assetto attuale di quell’articolo è frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega. Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali». Una mediazione che ha funzionato solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica. Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del patrimonio culturale.

Una riforma di quella riforma era dunque auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno dividendo le competenze con chiarezza.

Non è questo, purtroppo, l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una parte l’articolo 117 ricompone l’unità naturale assegnando (condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici», dall’altra lo stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici». Esattamente come nel caso, ben più noto, dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso commerciale nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso.

Ma cosa ha in mente il riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di promozione? Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che, d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti ufficiali del Mibact arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del 2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo».

Se, dunque, la promozione è questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario, l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.

La grave approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle competenze – strettamente collegate – in materia di governo del territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei piani paesaggistici.

L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Tutte materie, queste, che l’articolo 116 esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua, invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il paesaggio.

La ratio di queste norme era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle. E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria.

Insomma: se si tratta di decidere come consumare il suolo, le Regioni vengono escluse. Ma vengono invece riammesse al banchetto della mercificazione del patrimonio culturale. C’è evidentemente del metodo in questa, pur confusa, revisione costituzionale: ma è un metodo che rafforza le ragioni di chi si appresta a votare No.

La riforma che fa bene alla crescita

di Francesco Gesualdi (*) – comune-info.net, 05/10/2016

Che la riforma della Costituzione rappresenti un picconamento della democrazia è fuor di dubbio. C’è chi si ostina a pensare, tuttavia, che si tratterebbe di un male minore, un prezzo da pagare in nome di due grandi obiettivi: stabilità di governo e leggi veloci, due condizioni ritenute indispensabili al bene massimo, la crescita, la medicina miracolosa che, secondo imprenditori, politici e sindacati, potrebbe curarci da ogni male. Che si tratti di debito pubblico, pensioni, disoccupazione, degrado ambientale, povertà, la ricetta è sempre la stessa: crescita. Ce lo ripetono settanta volte al giorno. Sulle capacità miracolose della ricetta, tuttavia, esistono molti dubbi. Non solo per i risultati niente affatto garantiti sul piano sociale ma, soprattutto, per i sicuri effetti indesiderati sul piano ambientale. E tuttavia, perfino ammesso che la crescita fosse in grado di salvarci dal baratro, perché per inseguirla è così essenziale cambiare la Costituzione? Che sia perché lo sport nazionale di ogni governo è diventato la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese?

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Sulle ragioni per cui la riforma della Costituzione sarebbe ormai diventata una questione di vita o di morte, se ne sono sentite di tutti i colori. Da chi la vuole per risparmiare sui costi della politica, a chi la pretende per essere  al passo coi tempi. Come se concetti come democrazia, sovranità parlamentare, partecipazione, potessero essere variabili dipendenti dai contesti che mutano.

L’innovazione tecnologica ci ha abituato a rottamare stili di vita, modi di lavorare e di comunicare, ma certi principi hanno valore assoluto: non invecchiano col tempo che passa, né sono messi fuori moda dall’incalzare di  nuovi ritmi, nuove tecnologie e nuovi interessi economici. La democrazia non ha come obiettivo la fretta, ma scelte meditate e partecipate finalizzate ad ottenere leggi giuste. Leggi, cioè, varate, nel rispetto della volontà popolare a favore di equità, libertà, sostenibilità, dignità per tutti, come sancito dalla Costituzione. Per questo i nostri padri costituenti avevano progettato un assetto istituzionale che intendeva avvicinare i  livelli decisionali   ai cittadini tramite gli enti locali, che affermava la sovranità del Parlamento sul governo, che prevedeva oculatezza attraverso un doppio passaggio legislativo.

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La riforma di oggi va in direzione opposta: vuole espropriare le Regioni rispetto a temi  cruciali come la salvaguardia dei territori e dei beni comuni, vuole ridurre il potere elettivo del popolo impedendogli di eleggere il Senato, vuole azzoppare il Parlamento riservando la piena potestà legislativa alla sola Camera dei deputati, vuole trasformare l’unica Camera pienamente legiferante in un leggificio al servizio del governo, vuole ridurre i momenti di confronto fra governo e Parlamento  mantenendo in vita un Senato che  fra i propri compiti non ha più quello di accordare la fiducia al governo.  In una parola è una riforma che non solo punta ad accentrare le decisioni a livello nazionale ma anche a spostare l’asse del potere dal Parlamento al governo, impedendo sempre di più al popolo di esprimere la propria rappresentanza. E lo dimostra non solo la decisione di non farci più eleggere il Senato, ma di accompagnare la riforma costituzionale con una legge elettorale che garantisce la maggioranza parlamentare  al partito   che  in rapporto agli altri ottiene più voti, non importa quanti. Il che, considerato l’astensionismo crescente che si va affermando nel paese, ci condurrà a maggioranze parlamentari che rappresentano solo una  parte molto esigua dell’elettorato.

Che la riforma in atto rappresenti un picconamento della democrazia è fuori di dubbio. Ma secondo molti si tratterebbe di un male  da accettare in nome di due grandi obiettivi: stabilità di governo e leggi veloci.  Il tutto come precondizione per raggiungere quello che oggi è ritenuto  il massimo bene. Per chi non l’avesse capito stiamo parlando della crescita,   la medicina miracolosa che secondo l’accordo unanime di imprenditori, politici e sindacati sarebbe capace di curarci da ogni male. Che si tratti di debito pubblico, di pensioni, di disoccupazione, di degrado ambientale, di povertà, la ricetta è sempre la stessa: crescita. Ce lo ripetono all’unisono settanta volte al giorno. Ma sulla miracolosità della ricetta  esistono molti dubbi, non solo per i risultati non garantiti sul piano sociale, ma soprattutto per i sicuri effetti indesiderati sul piano ambientale.  E tuttavia, anche ammesso e non concesso che la ricetta sia corretta, una domanda continua a rimanere nell’aria: perché per avere la crescita è così importante riformare la Costituzione?

Il nesso non verrà mai afferrato finché non si mette a fuoco che nella testa dei politici non esiste altro soggetto economico se non le imprese private. Un tempo il ventaglio dei soggetti economici comprendeva anche la comunità, nelle sue varie articolazioni (Stato, Regioni, Comuni),  che poteva, anzi doveva intervenire per creare ricchezza al servizio dei cittadini nella sue componenti più nobili: la difesa dei beni comuni,  la garanzia dei servizi alla persona, il soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Ma il vento neoliberista ha fatto piazza pulita di ogni idea di comunità imprenditrice di se stessa convincendoci che solo le imprese orientate al mercato sono autorizzate ad avviare attività produttive. Oggi, però, non è facile trovarne di disposte ad investire in Italia perché nel tempo della globalizzazione le imprese hanno acquisito il privilegio  di poter sfarfallare da un paese all’altro alla ricerca di quello che offre le condizioni più vantaggiose. Ecco perché lo sport nazionale di ogni governo è diventato la riforma di tutto ciò che non piace alle imprese per invogliarle ad investire nel proprio paese.

Sulle riforme da introdurre per attirare gli investimenti,  i governi non hanno molto da inventare, ha già scritto tutto Il World Economic Forum,l’associazione delle multinazionali che tutti gli anni, a gennaio, organizza l’incontro di Davos per dettare l’agenda politica  dell’anno che verrà. Nei suoi rapporti sono elencate le condizioni che piacciono alle imprese: non solo  un basso regime fiscale, bassi oneri sociali, alta flessibilità del lavoro, ma anche un assetto istituzionale sicuro e veloce. Che tradotto significa governi stabili capaci di garantire continuità politica e parlamenti veloci capaci di produrre in fretta leggi favorevoli agli affari. Del resto già nel 2013, la banca internazionale JP Morgan aveva messo nero su bianco il percorso di riforme per l’Italia: «I sistemi politici dell’Europa meridionale soffrono di esecutivi deboli, strutture statali centrali deboli rispetto alle Regioni, protezione costituzionale dei diritti dei lavoratori, sistemi di costruzione del consenso che favoriscono il clientelismo politico, diritto di protestare se intervengono cambiamenti non graditi. (…) Il test più importante sarà per l’Italia dove il nuovo governo dovrà dimostrare di sapersi impegnare per una riforma politica significativa».

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JP Morgan è la sesta banca del mondo per valori amministrati, qualcosa come 2.500 miliardi di dollari. Lavora per l’1% del pianeta, quelli che da soli controllano il 50% della ricchezza mondiale. Amministra le loro ricchezze affinché ne abbiano sempre di più. E pur di servirli non si fa neanche scrupolo ad elaborare truffe che mandano in rovina i risparmiatori più sprovveduti. Dal 2012 al 2015 JP Morgan ha collezionato multe, per comportamenti illeciti, pari a 30 miliardi di dollari. Ma il suo amministratore delegato, Jamie Dimon guadagna sempre di più. Nel 2015 ha ottenuto compensi per 27 milioni di dollari, permettendogli l’ingresso trionfale nell’olimpo dei miliardari. Per queste imprese e questi personaggi stiamo rinunciando alla nostra democrazia, ma è davvero ciò che ci conviene?

La “Guida Partigiana alla riforma”, dossier grafico predisposto dal Centro Nuovo modello di Sviluppo, è disponibile QUI

Il lato oscuro della carta

segnalato da Barbara G.

Referendum costituzionale, la “legge oscura” che può diventare la nuova Carta: rigonfia di parole e di frasi infinite

La Costituente, prima di approvare il testo, lo fece rileggere a scrittori e letterati per renderlo più semplice e chiaro a tutti, con periodi lunghi in media 20 parole. Per De Mauro è l’unico testo comprensibile alla stragrande maggioranza degli italiani. Il testo della riforma Renzi-Boschi ha articoli di oltre 300 e 400 parole. In un caso si è passati da 9 a 439 e il punto arriva dopo oltre 170 vocaboli

di Diego Pretini – ilfattoquotidiano.it, 26/07/2016

Articolo 1l’Italia è Repubblica democratica, fondata sul lavoro. I 556 della Costituente l’avevano scritto così, forse solenne ma bruttino. Una, mancava una, una Repubblica. A mettere un colpetto di matita dopo la quarta parola della bozza di Costituzione uscita nel 1947 non fu un giurista né un funzionario del ministero né unsmall_110220-232300_to141207sto_0065parlamentare. Fu uno scrittore, si chiamava Pietro Pancrazi, scriveva anche sul Corriere della Sera, era di Cortona, non lontano da Laterina. Fu il presidente dell’Assemblea, Umberto Terracini, a chiamarlo a rivedere la legge fondamentale dello Stato che stava nascendo. A qualcuno dei costituenti il testo non piaceva, in qualche parte era troppo rigido, troppo tecnico, aulico. Insieme a Pancrazi, prima dell’approvazione finale, la Costituzione fu rivista anche dal latinista Concetto Marchesi (amico di Togliatti) e dal saggista Antonio Baldini. E’ così che diventò la più bella del mondo. “Un monumento in termini di sobrietà, di essenzialità, di economia e anche di eleganza del linguaggio” ha definito la Costituzione Michele Ainis.

Nel 2011 – molto prima che Matteo Renzi diventasse presidente del Consiglio e molto dopo la bocciatura delle riforme di Berlusconi – il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, suggerì che i primi due articoli di ogni legge costituzionale dovrebbero essere sempre: “Articolo 1: ogni norma legislativa deve essere formulata in maniera completa, comprensibile e senza rimandi. Articolo 2: l’inosservanza dell’articolo precedente comporta la incostituzionalità della norma”. Ancora prima, nel 2008, il linguista Tullio De Mauro – invitato al Senato a parlare della Costituzione più bella – spiegò che “l’ideale sarebbe scrivere frasi conSenato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio sul prossimo Consiglio europeomeno di 25 parole, se si vuole essere capiti”. Secondo De Mauro la Costituzione vigente ha “una media esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase”. Per il 93 per cento è scritta con un vocabolario di base, “che già nelle scuole elementari, per chi le fa, può essere noto”. I costituenti “non solo scelgono le parole più trasparenti, per il possibile, ma scelgono di scrivere frasi esemplarmente brevi”. La Costituzione è uno dei pochissimi testi italiani, secondo De Mauro, comprensibile dalla stragrande maggioranza della popolazione. Come la Costituzione, forse, c’è solo Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani. Poi se “uno vuole abbandonarsi all’estro dell’arte fa quello che vuole come Joyce”.

Come fosse il Monologo di Molly Bloom, la parte della Costituzione che aspetta di essere confermata o bocciata nel referendum di autunno, ha articoli di 323, 438, 439 parole. Quasi l’equivalente dell’intero testo della Carta attuale, che contiene 1357 vocaboli. L’articolo 70 – che parla del funzionamento del Parlamento ed è l’applicazione dell’abolizione del bicameralismo perfetto – oggi è composto da 9 parole: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. La riforma istituzionale che porta il nome del ministro Maria Elena Boschi ne aggiunge 430. Quell’articolo riesce a citare, tutti in fila, 9 tra commi di altri articoli della Carta, senza dire di cosa parlano. In un caso non si trova un solo punto per la lunghezza di 173 parole. Per leggere la possibile nuova Costituzione, insomma, non basterebbe un professore di diritto: servirebbe anche uno pneumologo per leggerla fino in fondo. “Di solito chi ha idee chiare le esprime in maniera chiara” ha già spiegato nei mesi scorsi Ainis, consigliando ai riformatori di rileggere i classici. Dell’articolo 70, messa da parte la complessità formale, a un certo punto sfugge il senso per colpa dell’italiano.

Quella sottoposta a referendum – a prescindere dal merito – è una Carta rimpinzata di roba. L’articolo 55 – che parla della composizione del Parlamento – attualmente si sviluppa in due frasi per un totale di 31 parole, soggetto-verbo-complemento, soggetto-verbo-complemento. Quello nuovo ha 5 commi per un totale di 8 frasi187 vocaboli. L’articolo 57 – che si occupa del Senato – dovrebbe essere uno dei passaggi-chiave, perché è alla base del superamento del bicameralismo perfetto. Ma al taglio di un ramo del Parlamento corrisponde una moltiplicazione di parole. Un’aggiunta all’articolo 85 – che regola elezioni, mandato e poteri del presidente della Repubblica – complica tutto: “Quando il presidente della Camera esercita le funzioni del presidente della Repubblica nel caso in cui questi non possa adempierle, il presidente del Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune”.

L’espansione della Carta è dovuta anche al fatto che – forse per paura di poca chiarezza – ripete due volte le stesse cose. Il giudizio preventivo della Corte costituzionali sulle leggi elettorali compare sia all’articolo 73 sui poteri di promulgazione del presidente della Repubblica (per il momento spiegato con tre frasi) sia all’articolo 134 dedicato alla Consulta. L’articolo 70 – sulla formazione delle leggi – non solo si espande, ma si intreccia:

Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. L’esame del Senato della Repubblica per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti. I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione

Lo Statuto Albertino, 1848, 168 anni fa, regolava la legislazione così: “Ogni proposta di legge debb’essere dapprima esaminata dalle Giunte che saranno da ciascuna Camera nominate per i lavori preparatorii. Discussa ed approvata da una Camera, la proposta sarà trasmessa all’altra per la discussione ed approvazione; e poi presentata alla sanzione del Re. Le discussioni si faranno articolo per articolo”.

Joyce non c’entra, dunque. I partiti che si propongono di riformare le istituzioni hanno scritto la nuova Costituzione come se fosse una legge come le altre. E le altre leggi, tendenzialmente, sono scritte male. Zagrebelsky non si stanca mai di ricordare l’articolo 111, riformato nel 1999, cosiddetto del “giusto processo”. Lì ci sono “retorica, linguaggi cifrati e il contemporaneo svuotamento dei contenuti normativi”. Ma anche un vero e proprio errore lessicale. Il 111 dice che “La giurisdizione si attua attraverso il giusto processo”. “Ma la giurisdizione si esercita, non si attua – dice l’ex presidente della Consulta – Perché altrimenti diventa un concetto metafisico. Di sicuro, però, gli artefici non pensavano ad Aristotele o a San Tommaso. Pensavano forse a qualche amico degli amici”.

La linguista Bice Mortara Garavelli, parlando di testi di giustizia, l’ha definita “complicazione indiscreta”: “Indebita complessità sintattica e profonda oscurità semantica”. Il referendum, per Zagrebelsky, è su “un testo scritto malissimo. In certe parti contraddittorio e incomprensibile. La chiarezza, per una Costituzione, è anche un fatto di democrazia”.

Costituzione: Landini, si dovrà rispondere a questa piazzaLa legge oscura è un libro dello stesso Ainis in cui si elencavano tutte le mostruosità dei testi di legge. Anzi il giurista ritiene incostituzionali le disposizioni “oscure” perché violano vari articoli tra cui il 54 che prevede il dovere dei cittadini di osservare le leggi, cosa impossibile quando le leggi sono incomprensibili. “Leggi oscuramente scritte – ha scritto Gianrico Carofiglio, magistrato ed ex senatore, in Con parole precise – non solo richiedono l’intermediazione sapienziale degli esperti, ma consentono anche a quegli esperti una più ampia – e soggettiva – interpretazione”. L’ex presidente del Consiglio e ora giudice costituzionale Giuliano Amato è solito fare l’esempio di Vincenzo Scotti, ministro del Lavoro di un governo Fanfani: “Il lodo Scotti non si riuscì mai a capire se aveva abolito o prorogato la “scala mobile”, ma il suo scopo era quello di ottenere su di esso il consenso sia degli uni che degli altri. Scotti era bravissimo nell’ottenere questo risultato”. “Se tu arrivi ad una efficace e concisa messa a fuoco di ciò che hai nella testa – spiegava l’ex capo del governo – trovi le parole che corrispondono a questa messa a fuoco”, mentre il legislatore non chiaro è il legislatore “che vuole nascondere un difficile compromesso che ha raggiunto tra le varie parti politiche e questo compromesso può esprimersi solo con nozioni che si prestano a più letture. È dunque un lessico che sta tra l’oscuro e l’ambivalente”.

Un linguaggio che ha bisogno dell’interprete, qualcuno che sciolga il dubbio. “La parola formulare e magica del giurista sacerdote e stregone dell’antico diritto romano sopravvive ancora oggi – scriveva sempre Carofiglio – E’ lo strumento attraverso il quale i giuristi poco consapevoli della responsabilità democratica del loro lavoro (o troppo consapevoli del loro potere e dell’aspirazione a conservarlo) s’identificano in casta“. E le leggi da interpretare sono sempre pericolose: “Le nostre leggi oscure – aveva anticipato tuttiCesare Beccaria oltre tre secoli fa – finiscono con l’essere benevolmente interpretate se alla porta bussa un amico e viceversa applicate in modo rigido ai nemici e ai forestieri”. Perché le leggi scritte “in una lingua straniera al popolo” lo pongono “nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà”. La differenza tra cittadini e sudditi.

Anche per questo i costituenti – classe dirigente e non casta – non accettarono tutte le modifica del professor Pancrazi. All’articolo 3 (“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…”) sostituì “compito” con “ufficio”. I 556 ringraziarono e lasciarono che quell’articolo, quello sull’uguaglianza dei cittadini, fosse il più chiaro possibile a tutti.