scuola
Non siate indifferenti
Segnalato da Barbara G.
Leggi razziali, 80 anni fa gli studenti ebrei via dalle scuole. Liliana Segre: Non siate indifferenti
Il 5 settembre 1938 il primo dei «decreti della vergogna»: esclusi dalle scuole tutti gli appartenenti alla «razza ebraica». Il sindaco di Pisa: «Chiedo scusa agli ebrei a nome della città»
Redazione scuola – corriere.it, 05/09/2018
«Non siate indifferenti, ascoltate la vostra coscienza». Si rivolge ai ragazzi delle scuole, e non solo a loro, Liliana Segre, senatrice a vita, reduce dell’Olocausto, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. E ai microfoni di Radio1, nello speciale sugli 80 anni dall’introduzione delle leggi razziali volute dal fascismo, parla del silenzio degli italiani non ebrei di allora e avverte: «Anche adesso c’è l’indifferenza. Questa indifferenza è la mia nemica personale». E ricorda: «Io avevo 8 anni e avrei dovuto fare la III elementare. Sentirsi dire che si era stati espulsi è una cosa molto grave. Io chiesi subito: Ma perché? Che cosa ho fatto? Quando capii, con fatica, che ero stata espulsa perché ero di una religione diversa dalle mie compagne, ecco, quel sentimento dura per sempre, non si dimentica più», ha concluso Segre.
«Macchia indelebile»
Intanto, nella tenuta di San Rossore, in Toscana, dove la famiglia reale si trasferiva sei mesi all’anno e dove ottant’anni fa le leggi razziali vennero firmate, il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, ha definito quelle norme che fecero sì che gli ebrei non fossero più cittadini come gli altri «una macchia indelebile per il mondo accademico italiano». Ricordando come allora alcuni accademici italiani firmarono il manifesto della razza. «Faremo tutta una serie di iniziative – ha spiegato il rettore – che culmineranno in una cerimonia che abbiamo chiamato “del ricordo e delle scuse”. Io ho sentito il dovere di fare queste iniziative come rettore dell’università della città in cui si sono firmate quelle infami leggi. Abbiamo il dovere di tenere viva la memoria perché queste cose non accadano più. Bisogna far rinascere la sensibilità per ricordare». Anche il sindaco di Pisa, Michele Conti, a San Rossore per la presentazione delle iniziative che la Regione Toscana, l’Università e l’amministrazione comunale pisana hanno organizzato per ricordare l’infamia delle leggi razziali, ha «chiesto scusa a nome della mia città a tutti gli ebrei per le infami leggi razziali che vennero firmate dal re Vittorio Emanuele III il 5 settembre del 1938 proprio a Pisa, nella tenuta di San Rossore».
Le scuse dell’Accademia
Professori ed accademici hanno annunciato nei giorni scorsi le scuse per quell’avvallo alle leggi razziali fasciste – che codificavano in norma una tesi sostenuta appunto da numerosi cattedratici italiani dell’epoca – accolte nel silenzio complice quando non sostenute scientificamente a spada tratta.
I decreti della vergogna
Il primo di quelli che sono stati definiti i «decreti della vergogna», tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta «questione ebraica» – firmati, tra l’estate e l’autunno 1938, da Benito Mussolini e promulgati dal re Vittorio Emanuele III – risale proprio al 5 settembre di quell’anno e fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» mentre è di due giorni dopo, il 7 settembre, il testo che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri».
Scuole
Tra i primi divieti posti agli ebrei, il divieto per i ragazzi che non fossero convertiti al cattolicesimo di iscriversi nelle scuole pubbliche. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole.
Limiti
Poi vennero gli altri odiosi limiti: non era autorizzato il matrimonio tra italiani ed ebrei, era vietato per gli ebrei avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto a ebrei stranieri di trasferirsi in Italia, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali. Lunghissima la serie di limitazioni, da cui erano esclusi i cosiddetti «arianizzati»: dal divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.
Il mondo dell’università
Al mondo della ricerca e dell’università le leggi razziali diedero un colpo mortale: più di trecento furono i docenti epurati, centinaia i professori di liceo, gli accademici, gli autori di libri di testo messi all’indice e tanti i giovani laureati e ricercatori, la cui carriera fu stroncata sul nascere. Tra gli scienziati e intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre che migrarono all’estero, personalità come Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Franco Modigliani, Arnaldo Momigliano, Uberto Limentani, Umberto Cassuto, Carlo Foà, Amedeo Herlitzka. Con loro lasciarono l’Italia anche Enrico Fermi e Luigi Bogliolo, le cui mogli erano ebree.
Le Comunità cristiane di base dicono No all’ora di religione
segnalato da Barbara G.
di Antonia Sani – temi.repubblica.it/micromega-online, 13/10/2017
E’ stato recentemente varato dalle CdB un interessante comunicato in relazione all’insegnamento della religione cattolica. Interessante, importante, opportuno.
Opportuno, poiché col trascorrere degli anni le battaglie contro la collocazione di questo insegnamento all’interno dell’orario scolastico obbligatorio hanno perso molto dello smalto che aveva contraddistinto la loro vitalità nei primi decenni dal Nuovo Concordato (1984).
Nei tempi immediatamente successivi alle disposizioni concernenti il marchingegno dell’“ora alternativa”, anche noi laici ci eravamo aggrappati a quella sorta di àncora di salvezza sospesa sul nulla che avrebbe connotato il tempo orario di alunni/e che non si avvalevano dell’IRC. Pesava il confronto con gli anni del Concordato fascista (1929): gli “esonerati”, pochi, quasi tutti/e di religione ebraica uscivano dall’aula e sostavano nei corridoi a chiacchierare coi bidelli. Nessuno si preoccupava minimamente della loro condizione.
La conquista della “facoltatività” dell’IRC in luogo dell’”obbligo”, con la collocazione di questo insegnamento nel quadro orario delle lezioni riproponeva di fatto una situazione analoga.
Benvenute dunque le attività alternative che – secondo la mozione della Camera del 1986 – dovevano avere il carattere di “insegnamenti certi”, un’equiparazione, insomma all’IRC per evitare discriminazioni.
I contributi di intellettuali, di movimenti ispirati alla difesa della democrazia costituzionale, per un autentico concetto di laicità della scuola, favorirono ben presto una presa di distanza dai contenuti di quella mozione. Così, mentre da un lato si tentava di evitare le discriminazioni sollecitando le scuole di ogni ordine e grado (compresa la Scuola dell’Infanzia cui il Nuovo Concordato aveva destinato 2 ore di IRC!) a istituire attività alternative, dall’altro lato si portava avanti un’azione tendente a stabilire la non equiparazione dell’IRC ad attività che non investivano la sfera della coscienza individuale, come invece era la decisione se “scegliere”o no la frequenza dell’IRC.
Decisive le sentenze di alcuni TAR (cfr. TAR del Lazio*) ma, sopra tutte, le sentenze emesse dalla Corte Costituzionale** con la definizione dello stato di non obbligo, che potevano aprire la strada a una collocazione dell’IRC al di fuori dell’orario scolastico obbligatorio, come prima potenziale fase verso l’abrogazione quanto meno dell’Art.9 del Nuovo Concordato).
A tali vittorie fu posto un argine dalla sentenza n.2749/2010 del Consiglio di Stato.
La sentenza era stata emanata nell’ambito di un ricorso contro l’assegnazione del credito scolastico anche all’IRC. La sentenza riconosceva tale credito (ritenuto peraltro irrilevante), ma nel contempo imponeva alle scuole di istituire attività alternative per i non avvalenti, (fatta salva la libertà per alunni/e di pronunciarsi su tutte le opzioni proposte dalla scuola).
Destò scalpore in quegli anni una sentenza del Tribunale di Padova che su istanza di un genitore condannò un Istituto scolastico che non aveva predisposto attività alternative all’IRC a una sanzione di 1500 euro; una multa fu comminata anche al MIUR per non avere controllato.
Da quel momento l’interesse di molti laici si spostò dalle contestazioni alla collocazione dell’ IRC nell’orario scolastico ai contenuti delle “attività alternative”. Si aprirono, confronti, dibattiti, sperimentazioni.
Il Ministero dell’Economia dispose finanziamenti per i docenti di tali insegnamenti. Fu emanata dal MIUR un’apposita circolare per i dirigenti di tutti gli istituti scolastici.
Per genitori e studenti si trattava di indicare alcune preferenze (diritti umani, storia delle religioni, elementi di ecologia…); per i docenti precari si aprivano possibilità inedite di lavoro.
Le scuole in cui non viene avviata alcuna attività alternativa sono a tutt’oggi una realtà, ma la maggior parte ottempera alla sentenza del Consiglio di Stato.
L’IRC continua ad essere inserito nell’orario scolastico, senza suscitare opposizioni ormai storiche. Nelle Scuole Superiori è in aumento il numero di coloro che non si avvalgono, nella Primaria i genitori disposti ad imbracciare la questione di principio sono in numero esiguo.
Da qui l’opportunità del documento delle Comunità Cristiane di Base per riaccendere interesse ed energie nella contestazione di un insegnamento confessionale nella Scuola dello Stato. Il comunicato prende il via dalla complessità della popolazione che oggi frequenta le nostre scuole, un quadro multietnico e multireligioso, oltre il pluralismo culturale nostrano di qualche decennio addietro.
E’ opportuno e necessario – si legge – “affidare la formazione che tenga conto di queste componenti ai docenti dei vari ordini e gradi di scuole per un approfondimento interdisciplinare”… Che il fatto religioso come manifestazione socio-culturale dei popoli dovesse essere parte dei programmi scolastici dei vari gradi e ordini di scuole e non patrimonio di una privilegiata confessione religiosa era la via sulla quale ci eravamo incamminati come movimenti laici all’epoca della sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale.
Un dibattito che tenderebbe oggi ad assopirsi trova in questo documento la forza di un incentivo alla sua riproposizione.
La finalità culturale prevale sull’appartenenza religiosa. A fronte della “grande ignoranza del fenomeno religioso – recita il documento – sarebbe auspicabile una minima conoscenza non solo della Bibbia ma quantomeno del Corano e delle altre tradizioni cultuali presenti nel nostro Paese”.
A questo proposito, interessante e dirompente emerge la seguente proposta: “da parte della Chiesa cattolica italiana sarebbe un segnale significativo operare per rendere plurale la conoscenza e non già l’insegnamento (compito delle famiglie e delle comunità religiose) delle diverse religioni e quindi disattendere unilateralmente il dettato concordatario, astenendosi dal nominare gli insegnanti destinati all’IRC”. “Gesto profetico questo – così lo definiscono gli estensori del documento – in grado di scuotere non solo la Chiesa ma la stessa società italiana”.
Notiamo in questa straordinaria affermazione, che riteniamo frutto di un forse non indolore dibattito all’interno delle CdB, qualche contraddizione con quanto affermato nella prima parte del documento laddove si parla di “IRC (ovvero Insegnamento religioso nelle scuole) come incongruo e antistorico nel suo essere appannaggio monopolistico della CEI)”.
L’IRC concordatario non può che essere appannaggio della CEI! Ma nessun insegnamento religioso – come tale, da chiunque impartito, sia pure liberato dai crismi delle gerarchie cattoliche – potrebbe aver luogo nella Scuola della nostra Repubblica.
La proposta raddrizza con determinazione l’ipotesi, in quel passo adombrata, di un insegnamento religioso nelle scuole non affidato alla CEI. Se l’ IRC non venisse più impartito da insegnanti nominati dall’Ordinario diocesano, cadrebbe automaticamente la sua natura confessionale, e verrebbe salvaguardato l’inserimento culturale del fenomeno religioso all’interno delle discipline previste nel piano di studi dei diversi ordini e gradi di scuole Ciò che i movimenti per la laicità della scuola vanno da tempo affermando.
Ma ancora più importante e coraggiosa è la parte conclusiva del documento: le CdB invitano apertamente le/gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado e “le loro famiglie a richiedere di non avvalersi dell’ora di religione confessionale nella consapevolezza che l’articolazione multiculturale della società italiana richieda oggi la rinuncia ad ogni privilegio… Le CdB italiane pertanto intendono promuovere il diritto al rifiuto ad avvalersi dell’IRC”. Un palese invito alle giovani generazioni a operare la distinzione fondamentale tra sfera personale, adesione a un credo religioso, e rinuncia nella sfera della civile convivenza ad ogni privilegio in nome del rispetto reciproco, dell’interazione delle differenze, nella ricerca della pace civile.
Optare per l’uscita dall’edificio o sottostare alle altre opzioni di attività alternative, benedette dalla citata sentenza del Consiglio di Stato? Nessuna indicazione in tal senso viene fornita dal documento. La sollecitazione al rifiuto delle attività alternative nella Scuola Superiore avrebbe rispettato – a nostro giudizio – la coerenza di un percorso, ma avrebbe riproposto l’equiparazione tra IRC e opzioni alternative in questo modo sapientemente evitata.
L’invito, semplice, chiaro al di là di tatticismi e burocraticismi giunge nelle scuole dove ormai da oltre 30 anni l’IRC è divenuto facoltativo, ma la sollecitazione promossa da coloro che laicamente della fede religiosa fanno la loro ragione di vita, può ottenere quel largo consenso che noi laici (spesso anche atei) non abbiamo a tutt’oggi riscosso.
La strada per una collocazione dell’IRC in orario aggiuntivo, al di fuori dell’orario scolastico obbligatorio (presente anche nel nuovo testo della LIP)**, si manifesta come la prosecuzione – resa più attrattiva dalla qualità dei promotori del documento – di quel cammino intrapreso da decenni ma ancora incompiuto.
* sent.1273/1987 del TAR del Lazio
“… non una scelta tra due distinte forme di insegnamento,che, certamente la riforma concordataria non contiene;né può logicamente contenere, riferimenti ad altro insegnamento che non sia quello religioso cattolico, sibbene tra l’avvalersi e non di questo insegnamento….”
** sent. Corte Costituzionale n.203/1989; n.13/1991
*** Legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione
Istruzione o educazione?
segnalato da Barbara G.
di Stefano Casarino – nuovatlantide.org, 24/02/2017
La scuola deve far pensare? Deve porsi l’obiettivo di contribuire ad impostare e formare riflessioni via via sempre più articolate e ponderate, attraverso le diverse specifiche discipline e nell’assoluto rispetto dei tempi della crescita psicofisica dello studente oppure quello di addestrare il prima possibile all’esecuzione di compiti sempre più complessi, dando istruzioni e consegne più o meno rigide e fornendo strumenti e materiali più o meno abbondanti?
Queste credo siamo le domande da porsi prima di impostare una qualsivoglia politica dell’istruzione in Italia: se poi per gli ultimi anni si possa parlare davvero di una “politica dell’istruzione”, di una visione strategica e lungimirante, questa è una valutazione abbastanza facile, credo, da fare.
Negli ultimi vent’anni abbiamo rincorso modelli stranieri, introdotto artatamente, prima, e pesantemente, poi, caratteristiche di altri sistemi scolastici, magnificando di volta in volta questo e quello e rinunciando con incredibile disinvoltura a ciò che invece gli altri ci invidiavano (e per certi aspetti ancora ci invidiano). Ad esempio, il fatto di non istruire degli esecutori ma di formare delle persone critiche e proprio per questo in grado di adattarsi con straordinaria facilità ai cambiamenti repentini e imprevedibili dei contesti lavorativi e sociali: come dimostrano i brillanti successi dei nostri studenti all’estero, tanto che più di una volta vien da pensare che stiamo formando cervelli e ingegni che arricchiranno altri Paesi, non il nostro.
Abbiamo rinunciato da tanto tempo ormai al tema con titoli semplici ed essenziali: vero, insostituibile momento di libertà espressiva dello studente, che doveva ricavare da sé (e non da materiale preconfezionato ed impartito in pillole sul momento) le capacità di impostazione dell’argomento, di discussione e rielaborazione, facendo leva esclusivamente sulle proprie conoscenze, ben aldilà dello specifico scolastico.
E abbiamo rinunciato pure all’interrogazione come colloquio su argomenti disciplinari affrontati, nel quale mettere in gioco e dimostrare le proprie capacità interpretative e rielaborative.
Certo è molto più facile, immediato ed “economico” – ma nel senso deteriore del termine – propinare test, “misurare le competenze”, valutando quantitativamente invece che qualitativamente: e, va da sé, abbassando sempre di più gli standard, salvo poi accorgersi (meglio tardi che mai!) che gli studenti universitari non sanno più scrivere decentemente nella loro lingua madre.
D’altronde, a scuola si scrive e si fa scrivere sempre meno, se per scrivere non si intende la crocettatura di test con risposte chiuse oppure la compilazione di formulari oppure ancora la redazione di mini testi in cui la correttezza ortografica è sempre più opzionale e l’utilizzo di abbreviazioni e codificazioni simboliche abbonda.
E a scuola nemmeno si espone più oralmente, si discute, si parla: lo spazio dell’”orale” è sempre più ridotto, a scuola e all’Università, a favore dello “scritto”, di quel particolare tipo di “scritto”, facile da correggere ed inevitabile quando si ha a che fare con qualche decina o qualche centinaio di studenti/utenti, con buona pace di ogni chiacchiera sulla “personalizzazione” dei processi di insegnamento/apprendimento.
E’ sotto agli occhi di tutti quelli che vogliono vederla, la realtà dell’istruzione italiana.
La scuola postmoderna sta celebrando la resurrezione e il trionfo di quel nozionismo avulso da ogni contestualizzazione e riflessione critica contro il quale avevamo tenacemente combattuto negli ormai lontani anni Settanta e Ottanta.
La scuola postmoderna ha rinunciato, sta rinunciando alla sua vera “autonomia” per asservirsi come mai era accaduto prima alle richieste (più o meno chiare e coerenti) del mondo del lavoro: si veda proprio quell’alternanza scuola/lavoro così velocemente imposta (e magnificata) in ogni ordine di scuola superiore, mentre altrove è riservata solo a ben precisi indirizzi, mentre noi, col nostro consueto massimalismo, non solo imitiamo, ma imitiamo male e senza discernere.
C’è un lungo lasso di tempo, nella vita di ciascuno, che va dall’infanzia alla giovinezza in cui si hanno (si devono avere) tutte le possibilità per “maturare”: oggi questo verbo è aborrito, forse è stato abusato in passato, ma contiene in sé l’idea di uno sviluppo, di un progresso nel tempo, progresso che costa impegno e sforzo, idea ovviamente invisa nel momento attuale in cui impera il convincimento del “tutto, subito e senza fatica”.
“Maturare” idee, curare il proprio gusto, creare la propria personalità attraverso incontri ed esperienze culturalmente significative: già, la cultura! Ha ancora un posto nella scuola “professionalizzante” di oggi? “serve” a qualcosa? Probabilmente, secondo molti è una perdita di tempo oppure un lusso che in tempi di crisi non possiamo più permetterci, quando invece senza di essa alla crisi saremo perennemente condannati.
La scuola tutta, dall’asilo all’Università, ha (aveva?) la funzione vitale ed irrinunciabile di fornire strumenti, occasioni, opportunità a tutti, nessuno escluso, per compiere questo processo affascinante di crescita interiore, puntando sulla riflessione, sull’analisi critica, sul dialogo educativo, aprendosi ai problemi dell’oggi, che ci riguardano come esseri umani e come cittadini prima ancora che come clienti, utenti e futuri lavoratori o professionisti.
Tutto questo oggi sembra non avere più alcuna importanza.
Il messaggio forte e chiaro è: “prima inizi a scegliere il mestiere che farai, meglio sarà per te e per il mondo del lavoro, così pronto (?!) ad accoglierti e a remunerarti”.
Credevamo che andare a scuola volesse dire prepararsi alla vita: certo, anche al lavoro, ma non solo.
Sbagliavamo, abbiamo sbagliato per tanti anni, a quanto pare.
La scuola di per sé non ha alcun senso, è tempo sottratto alla fabbrica o all’azienda: a meno che esse sin da subito non la orientino e la condizionino. Come sta appunto avvenendo.
L’autogratificazione dello studio e del sapere, il conoscere ogni giorno qualcosa ed entusiasmarsi ad ogni piccola scoperta, la voglia e il dovere di leggere e di confrontarsi, il meditare sul passato per non ripeterne gli errori…la storia, la letteratura, l’arte: tutto vecchiume, che si può ridurre felicemente al minimo e magari spazzare via una buona volta.
Che male ci può mai essere, in fondo, se si crede, come ha recentemente denunciato un allibito Romani Prodi, che Maradona è stato Presidente della Repubblica Italiana?
Le conoscenze storiche non sono verificate in alcuna prova Invalsi, quindi non sono importanti, contano solo (e neppure tanto) inglese, matematica e scienze: ma, sia ben chiaro, anche qui senza perderci sopra troppo tempo.
Che male volete poi che faccia l’ignoranza della storia?
Non è una #buonascuola per disabili
segnalato da Barbara G.
«Ritirate le deleghe della Buona scuola, vanno contro i diritti dei più deboli». L’allarme di familiari e docenti
di Donatella Coccoli – left.it, 23/02/2017
«Quella delega rischia di gettare a mare tutta l’istruzione per i disabili. E anche le altre non facilitano la loro vita, vanno ritirate tutte». Per lanciare questo allarme ai parlamentari oggi davanti a Montecitorio a partire dalle ore 15 fino alle 19 è in corso un presidio di centinaia di associazioni, la Rete dei 65 movimenti, provenienti da tutta Italia, che rappresentano oltre centomila cittadini, tra insegnanti, genitori di ragazzi disabili. Alla protesta hanno aderito anche tutti i sindacati, sia confederali che di base, oltre alle associazioni degli studenti e a partiti come Sinistra italiana.
La protesta non si ferma qui. Domani venerdì 24, al liceo Tasso di Roma si terrà un seminario di formazione per docenti sull’inclusione, parteciperanno tra gli altri il sottosegretario all’Istruzione Vito De Filippo e il giudice onorario della Cassazione Ferdinando Imposimato, sempre molto critico contro le violazioni dei principi costituzionali.
Ma perché questa ribellione collettiva? Non è bastata la legge 107, che ha causato non pochi problemi non solo nei contenuti, ma anche nell’organizzazione scolastica. Adesso arrivano 8 decreti attuativi relativi ad altrettanti temi cruciali per l’istruzione e che il 17 marzo diventeranno legge. Vanno a completare, per così dire, la Buona scuola. Allora, nel 2015, si disse che le deleghe erano troppe, che si lasciava carta bianca al Governo su troppi temi sensibili. Poi il tempo è passato, il Governo senza ascoltare nessuno è andato avanti ed ecco qua le 8 deleghe, targate Renzi-Giannini, con il via libera della ministra Fedeli, arrivata con il governo Gentiloni. La delega contestata è la 378 “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”. In Commissione Istruzione e cultura di Camera e Senato si stanno tenendo le audizioni di associazioni, esperti, comitati, ma c’è poco tempo perché i parlamentari entrino dentro argomenti così complessi come quello dell’inclusione scolastica per i disabili oppure la formazione iniziale dei docenti o ancora la valutazione. È una delle critiche che fanno i sindacati: troppo poco tempo per cambiare qualcosa dei decreti attuativi.
Chi ha promosso la mobilitazione, ha individuato precisi punti che non vanno. Li elenca la professoressa Daniela Costabile, portavoce della Rete dei 65 movimenti che ha organizzato la protesta e che fa parte anche dei Partigiani della scuola, uno dei movimenti nati contro la Buona Scuola.
«Noi come rete siamo nati proprio per la delega disabilità, ma poiché i danni per i disabili vengono anche da tutte le altre deleghe, noi chiediamo il ritiro di tutti i decreti attuativi. Per questo motivo ha aderito alla nostra rete tutto il mondo della scuola. Questa è l’unica manifestazione contro i decreti», spiega.
La critica più forte è quella per cui le famiglie, con la delega sono tagliate fuori dal sistema dell’istruzione che nei casi di studenti disabili costituisce una rete complessa. Mentre prima della delega, grazie alla legge 104 del 1992 c’erano 41mila gruppi Glh, cioè gruppi di lavoro e studio che ogni dirigente creava nella propria scuola, formati da docenti di sostegno e curricolari, operatori sociali e familiari, adesso, tutto questo sistema viene spazzato via. La stessa legge 104 viene depotenziata e molti degli articoli della norma di 25 anni fa vengono cambiati. «Abbiamo scoperto dalla relazione tecnica – dice Costabile – che il Governo elimina tutti i gruppi che c’erano per ogni scuola, e al loro posto ha inserito dei Git, gruppi per l’inclusione territoriale, in cui ci sono 4 presidi e due docenti, i quali devono decidere le ore di sostegno da dare i ragazzi. Se prima con la legge 104 scattava automaticamente il docente di sostegno adesso non è più così. La 104 è stata depotenziata da questa delega». Trecento Git, uno per ogni ambito territoriale, la nuova geografia scolastica, ecco la novità della delega 378 che non va giù ai familiari.
«Dovranno decidere, senza conoscere i ragazzi, cercheranno di razionalizzare, ma c’è una sentenza, la n.80 del 2010 che dice che quando si tratta di ragazzi con disabilità, il pareggio di bilancio non c’entra nulla, bisogna dargli tutto quello che serve», continua la professoressa. Ma non è solo questo il punto contestato. Un altro riguarda la possibilità di aumentare il numero di alunni nelle classi in cui è presente uno studente disabile. Da 20 si passa a 22. Ma in quell’articolo 3 “Prestazioni e competenze”, c’è un passaggio che desta preoccupazioni. Laddove si parla della formazioni delle classi, si legge: «consentire, di norma, la presenza di non più di 22 alunni ove siano presenti studenti con disabilità certificata». «Questa norma è contestata da tutti – dice Daniela Costabile – anche da parte dell’osservatorio Miur per la disabilità, perché così sale il numero di alunni per classe». Inoltre, con la legge 104 bastavano 6 giorni per la certificazione del bambino all’inizio del suo percorso scolastico, adesso gli avvocati delle associazioni hanno calcolato che di giorni ne occorrono 60. «Quindi niente snellimento burocratico», sottolinea la portavoce della rete dei 65 movimenti. «La commissione medica è stata integrata da figure che non c’entrano nulla – continua – un terapista della riabilitazione, chissà, forse per vedere se un ragazzino è autonomo e può stare solo senza il sostegno… E poi c’è anche un medico dell’Inps, un ispettore che non risponde al ministero della salute, non vorrei che i ragazzini verranno trattati come falsi invalidi».
Altro articolo della delega che ha fatto sollevare tutti, familiari e insegnanti, è l’articolo 16 “continuità didatica”: «Per valorizzare le competenze professionali e garantire la piena attuazione del piano annuale di inclusione, il Dirigente scolastico propone ai docenti dell’organico dell’autonomia di svolgere anche attività di sostegno didattico, purché in possesso della specifica specializzazione».
Tradotto, significa che anche i docenti curricolari, se hanno una specifica specializzazione, sono chiamati a fare il docente di sostegno. «La prospettiva è che il preside faccia lavorare il docente sia sulla classe che sul ragazzino, quindi questo perde il docente di sostegno. È un tranello», sottolinea con amarezza Daniela Costabile.
In sintesi, il senso che emerge da questa delega è quello della razionalizzazione, del “fare cassa”. Ma sostenere le ragioni del bilancio sulla pelle di chi è più debole non è possibile. D’altra parte anche la Corte Costituzionale, poche settimane fa ha sancito che il pareggio in bilancio non ha ragion d’essere rispetto ai diritti di chi ha una disabilità. Vedremo se il Parlamento recepirà l’allarme di migliaia di cittadini che partono da una situazione di svantaggio e che quindi devo essere tutelati ancora di più.
Ecco tutti gli errori di Renzi
Lunghissima e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall’ex presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco, Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato: “Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva”
di Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini e Vincenzo Visco
1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD. In particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali. A consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.
L’eros in classe
segnalato da Barbara G.
Sesso e viralità, perché l’educazione all’eros in classe è ancora un tabù
di Alex Corlazzoli – ilfattoquotidiano.it, 20/09/2016
Oggi di Tiziana non si parla più. Sono bastati un paio di giorni per dimenticare il caso della 31enne di Casalnuovo di Napoli che si è tolta la vita per la gogna online a seguito di un video hot condiviso su WhatsApp e diventato virale. Tiziana è già fuori dalla cronaca. Tra qualche settimana non ci ricorderemo nemmeno il suo nome e il suo cognome.
Ma devono restare alcune domande a tormentarci: perché una ragazza di 31 anni ha voluto filmare la sua intimità? Perché una giovane donna ha condiviso via WhatsApp la nudità del suo corpo? Perché così tante persone hanno reso pubblici quei pochi minuti, quegli istanti di sesso tra un uomo e una donna? Che interessava al popolo del Web vedere due corpi che si intrecciano?
Ciò che è accaduto non riguarda Tiziana ma tutti noi. Se anche dovessimo dimenticare il caso della ragazza di Casalnuovo non possiamo girare pagina. E’ di stamattina il caso, riportato dalCorriere della Sera di due coppie di fidanzatini cagliaritani di 14 e 16 anni che si sono lasciati fotografare a letto nudi. Un gioco, hanno spiegato. Ancora una volta quelle immagini finiscono in Rete, su WhatsApp e poi su Facebook. Scatta la denuncia, le indagini e la goliardata finisce. Inizia la gogna.
Ancora domande: tutta colpa del Web? Dei social network?
Al festival della filosofia di Modena, domenica, Umberto Galimberti si è scagliato contro la digitalizzazione della scuola, contro una scuola che si butta sui computer.
Qualche ora dopo Enzo Bianchi ha parlato dell’animalità dell’uomo ricordando che “nella società spettacolarizzata la sessualità è spersonalizzata. Le giovani generazioni soffrono di analfabetismo erotico”.
Troppo facile dare la colpa al Web, allo strumento, alla tecnologia. La vicenda di Tiziana e dei ragazzi di Cagliari ci riporta più in là, al compito essenziale di chi educa: non nascondersi dietro la foglia di fico, affrontare gli argomenti della vita.
Ha ragione il priore di Bose: l’educazione all’eros deve diventare una priorità. Oggi, in classe (dalla primaria alla secondaria di secondo grado), quando parli di sessualità partono i risolini. Nelle scuole di questo Paese parlare di sessualità (compresa l’omosessualità) è ancora un tabù. Quando ho affrontato questo argomento in una classe quinta, mentre iniziavo a parlare, Marco si è alzato ed è andato a chiudere la porta della classe (sempre aperta nelle mie ore). Al momento non ho capito perché l’avesse fatto. Ho riaperto la porta e dopo qualche minuto il mio alunno si è alzato a richiuderla. Alla terza volta ho chiesto a Marco: “Perché chiudi la porta?”. Risposta: “Sai maestro quando si parla di certe cose…”.
Eppure dobbiamo chiedere ai nostri alunni senza paura: cos’è l’amore per te? Cos’è il sesso?
Quando una Tiziana di turno si suicida spargiamo lacrime di coccodrillo, commenti scontati. Troppo tardi.
I nostri ragazzi sono analfabeti dell’eros ma anche analfabeti digitali.
Galimberti (e non solo lui) è convinto che i nostri giovani sappiano già tutto e che a scuola ci sono troppi insegnanti che prediligono lo schermo. Non è così: i nostri ragazzi e noi insegnanti siamo la generazione che passa parecchie ore davanti ad un computer ma non conosce le regole del Web e non lo sanno usare come strumento che può arricchire ma si fa usare per far arricchire.
Il Garante della privacy in questi giorni ha chiesto l’introduzione dell’educazione civica digitale tra le materie scolastiche. Sacrosanto appello ma dobbiamo dirci con franchezza che oggi non si fa nemmeno educazione civica.
Se non vogliamo più leggere casi come quello di Tiziana abbiamo una sola strada da percorrere: formare chi educa, ri-assegnare il compito di maestro della vita a chi entra in aula.
Come ti confeziono il nemico
segnalato da Barbara G.
di Chiara Cruciati – ilmanifesto.info, 21/10/2015
Saggi. «La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione», di Nurit Peled-Elhanan. L’autrice analizza 17 manuali (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati negli istituti pubblici israeliani dal 1997 al 2009, evidenziando la fabbricazione della memoria collettiva ad uso e consumo dell’odio per gli arabi.
A quattro anni dalla sua prima pubblicazione arriva in Italia uno dei libri che meglio analizza la società israeliana e la narrazione collettiva su cui fonda la sua apparente unità: La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele, pp.288, euro 18) apre uno squarcio nel radicato sistema di propaganda interna che ha accompagnato per decenni la costruzione dello Stato di Israele. Un sistema che si regge su pilastri indiscutibili e che accompagna ogni israeliano nel percorso di crescita, dalla scuola all’esercito fino al mondo del lavoro: la disumanizzazione del palestinese, la cancellazione e l’omissione della narrativa araba, la creazione di una memoria collettiva in contrasto con la Storia.
Partendo dallo studio dettagliato di 17 libri (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, Peled-Elhanan imbastisce un’analisi onesta ed approfondita della natura stessa dello Stato israeliano attraverso diversi strumenti: da «analista della narrativa», come si definisce nella prefazione, Peled-Elhanan intesse una trama fatta di studi sociologici e antropologici, esperienza diretta e conoscenza profonda della realtà politica e sociale israeliana, ricerca sul campo. I risultati si dipanano sotto gli occhi del lettore, in un incalzante elenco di esempi volti a dimostrare la tesi dell’autrice: la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per uno Stato e un popolo frammentati, frutto di un’immigrazione «forzata» da ogni angolo del mondo. L’istituto scolastico è il cuoco che sforna un’identità condivisa e comune, non fondata su fatti storici ma sulla loro interpretazione, la loro negazione o la loro omissione.
Così la memoria fabbricata finisce per prevalere sulla Storia e si radica nelle menti delle giovani generazioni, mantenenedo in piedi una società che riproduce, sempre uguali a se stessi, i propri schemi mentali. La conseguenza, tuttora visibile in Israele, è la creazione a tavolino di una società «sotto assedio», convinta di essere preda di un mondo ostile. La «mentalità da accerchiamento», spiega l’autrice permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata.
Gli esempi riportati nel libro variano, spaziando dalle immagini a corredo dei testi scolastici fino alla terminologia utilizzata. Merito dell’autrice è l’analisi del libro di scuola nella sua interezza: ne studia il linguaggio, le mappe, le immagini, la grafica. Niente è lasciato al caso, tanto meno la presenza più o meno occulta di giudizi morali ed etici. Ed ecco che i massacri compiuti dalle milizie paramilitari sioniste nel ’47 e ’48 (Haganah, Irgun-Etzel, Stern) si trasformano in «atti gloriosi, azioni di redenzione e salvezza, compiuti da ’superbi combattenti, eroi dall’eccellente audacia’».
A completare il quadro, c’è la presenza-assenza palestinese. Disegnando mappe senza confini, senza Linea Verde, dove la Cisgiordania diventa Giudea e Samaria e Gaza e le Alture del Golan Siriano parte integrante del grande Israele, l’altro, l’arabo, non esiste. E se esiste, spiega l’autrice, è marginalizzato o additato come pericolo all’identità ebraica nazionale. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata; il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, «geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo», caricatura negativa di se stesso. È parte integrante di quel mondo araboin cui va esiliato, ma allo stesso tempo è privato della cultura e le tradizioni che nei secoli ha prodotto: «In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese – scrive l’autrice – Né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura».
Muovendosi su piani diversi, evitando stereotipi e semplificazioni e curando i dettagli, Peled-Elhanan decostruisce il sistema della propaganda israeliana verso i suoi stessi cittadini. Il cui obiettivo è chiaro, come si legge nelle pagine finali: «I libri di testo presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, il comportamento ebraico-israeliano come allineato ai valori universali».
La sua autrice, Nurit-Peled Elhanan, è docente di Educazione del Linguaggio alla Facoltà di Scienze dell’Educazione Linguistica alla Hebrew University di Gerusalemme e fondatrice del Tribunale Russell per la Palestina. Nel 2011 è stata insignita dal Parlamento europeo del Premio Sacharov per la libertà di pensiero e diritti umani. Un percorso, il suo, segnato da una storia personale strettamente intrecciata agli sconvolgimenti di questa terra: nipote di Avraham Katsnelson, che firmò la Dichiarazione di indipendenza di Israele e figlia del generale Matti Peled, in prima linea durante la guerra del ’48 e quella del ’67, perse sua figlia Smadar nel 1997 in un attentato suicida. La bimba aveva 13 anni.
Un evento drammatico che non ha modificato l’approccio di Nurit all’occupazione israeliana, ritenuta la responsabile della morte della figlia. E per questo la ricerca si rivolge al mondo fuori: «La versione originale è in inglese, poi tradotta in spagnolo, italiano e arabo – spiega Peled-Elhanan al manifesto – Non esiste in ebraico perché non avrei trovato editori. Ma soprattutto perché, trattandosi di una ricerca accademica, è rivolta a professori, ricercatori, studenti di tutto il mondo. Voglio parlare alle opinioni pubbliche straniere, nessuno getta mai lo sguardo sulla società israeliana».
«Il mio obiettivo era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo». E il sistema, come si evince dal libro, è vincente: «Gli israeliani diventano buoni soldati da subito, dall’età di 3 anni – ci dice l’aturice – Molti di loro non hanno mai visto un palestinese prima di entrare nell’esercito e quando lo incontrano lo identificano come un nemico. È un sistema di successo perché pervasivo, invade ogni settore. Non c’è un’altra realtà visibile. Nessuno in Israele sa cosa sta succedendo in questi giorni, chi vive a Tel Aviv non lo sa, chi vive a Gerusalemme Ovest non mette piede a Gerusalemme Est».
La stagione dei referendum sociali
segnalato da Barbara G.
L’autonomia dei movimenti, la consapevolezza dei propri limiti, la voglia di connettere temi (la scuola, le trivellazioni, il ricatto del lavoro, gli inceneritori e l’acqua) e pezzi di società, ma soprattutto il rifiuto del dominio dall’alto. Il puzzle dei referendum sociali mostra, prima di tutto, mondi che vogliono una società diversa, qui e adesso. Ecco perché è un percorso tutto da accompagnare nei territori, a cominciare dal Firma day (14 e 15 maggio), con mille banchetti nelle piazze di tutta Italia
di Paolo Carsetti (*) – comune-info.net, 13/05/2016
In due anni di governo Renzi, abbiamo visto applicare nei fatti la nota lettera del luglio 2011 alla BCE, ispirata da una ferrea logica neoliberista. Su questa base, si è attaccato il ruolo della scuola pubblica, privatizzati i beni comuni e i servizi pubblici, aggredito l’ambiente, a partire dalle trivellazioni e dal moltiplicarsi degli inceneritori, abbattuti i diritti del lavoro. Con la controriforma costituzionale, poi, si progetta di rendere permanente quest’impostazione, passando attraverso la riduzione degli spazi di democrazia e il primato del potere esecutivo e dell’”uomo solo al comando”.
Queste scelte sono passate anche perché si è fatto pesare il ricatto della crisi; e tutto ciò in un quadro di debolezza della politica e di frammentazione, anche volutamente costruita, delle mobilitazione e dei soggetti che hanno provato a contrastarle.
Attraverso la campagna sui referendum sociali vogliamo provare ad invertire questa tendenza, in primo luogo rilanciando il conflitto e la mobilitazione diffusa contro quelle scelte. Soprattutto iniziando a dare gambe ad un processo di connessione e costruzione di legami tra i soggetti che hanno animato l’opposizione a quelle politiche. Da qui, pur con la consapevolezza della nostra parzialità, nasce la nostra idea di fondo di lanciare un’alleanza sociale dei movimenti per la scuola pubblica, di quello per l’acqua, della campagna contro la devastazione ambientale che si oppone alle trivellazioni e dal movimento che si batte contro il piano nazionale inceneritori.
In questo quadro, collochiamo anche l’opzione di ricorrere allo strumento referendario per abrogare e contrastare la legge 107 sulla scuola, la legislazione che consente le trivellazioni in mare e in terraferma, quanto prevede lo Sblocca Italia rispetto a un piano strategico per nuovi inceneritori e una grande raccolta di firme per una petizione popolare che vuole contrastare la ripresa dei processi di privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni promossa attraverso il decreto sui servizi pubblici locali attuativo della legge Madia e lo stravolgimento della legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua compiuta alla Camera il 20 aprile scorso con l’approvazione di un testo completamente diverso dall’originale (leggi Le mani sull’acqua di Marco Bersani).
È questa un’iniziativa e un percorso che muove dall’autonomia dei movimenti e dei soggetti sociali e, dunque, prevede che si costituiscano comitati promotori referendari composti da movimenti e soggetti sociali e comitati di sostegno in cui trovano posto anche i soggetti politici che concordano con tale iniziativa.
Con la nostra iniziativa, incrociamo anche il tema della democrazia e della sua espansione, che altro non è se non il rovescio della medaglia dell’affermazione dei diritti fondamentali. La nostra stagione dei referendum (e della raccolta firme) sociali, pur nella sua dimensione autonoma, vuole contribuire anche alla campagna per il NO alla controriforma istituzionale nel referendum confermativo che si dovrebbe tenere in autunno, con la convinzione che parlare di democrazia non significa ragionare puramente di architettura istituzionale ma del potere che hanno le persone di decidere sulle scelte di fondo che riguardano gli assetti della società.
Si apre una stagione di grande impegno, che necessita della mobilitazione e dell’intelligenza diffusa di tante persone nei territori volta a riprendere un rapporto largo con tante persone e soggetti interessati ad uscire dalla crisi affermando un’altra idea di modello sociale e di democrazia.
Per informazioni referendumsociali.info.
(*) Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
Oggi è emergenza cultura
segnalato da Antonella
di Tomaso Montanari, vice presidente di Libertà e Giustizia
Giuseppe Dossetti avrebbe voluto in Costituzione un articolo che dicesse che:
«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».
Oggi tutti noi siamo in questa piazza romana perché sentiamo questo dovere. E perché vogliamo esercitare questo diritto.
Lo vogliamo fare con tutta la nostra voce: e siamo felici che alle nostre voci si aggiunga quella potente della tromba marina del Tritone di Gian Lorenzo Bernini, che oggi è un nostro speciale compagno di lotta.
In questi mesi una serie di decisioni scellerate di questo governo – un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare resa possibile da una legge formalmente dichiarata incostituzionale – sta di fatto sradicando dalla Costituzione l’articolo 9.
Denuciamo che oggi la Repubblica non promuove lo sviluppo della cultura.
Non promuove la ricerca.
Non tutela il paesaggio, cioè l’ambiente.
Non tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Oggi è emergenza cultura!
Nei primi colloqui che ho avuto con lui, il ministro Dario Franceschini (allora appena nominato) mi disse che il presidente del Consiglio aveva il progetto di abbattere la tutela pubblica del paesaggio e del patrimonio («far fuori le soprintendenze», mi disse). E che lui, il ministro, si sarebbe opposto.
Ebbene, i fatti – i fatti che ci hanno portato in questa piazza – certificano che quel confronto, se mai c’è stato davvero, l’ha vinto il presidente del Consiglio, e l’ha perso il ministro per i Beni culturali.
Anzi l’hanno perso il paesaggio e il patrimonio artistico: cioè tutti noi, e i nostri figli.
Noi chiediamo l’abrogazione dello Sblocca Italia: una legge criminogena che consegna l’Italia ai signori del cemento e del petrolio. Una legge scritta sotto la dettatura telefonica dellelobbies.
Vogliamo, invece, una legge che porti a zero il consumo suolo: una legge vera, non come quella, ipocrita e dannosa, che giace in Parlamento.
Chiediamo al governo di ritirare l’odioso provvedimento del silenzio assenso. Prima si sono svuotate le soprintendenze di mezzi e di personale. E, ora che non ce la fanno più a rispondere in tempi brevi, si vuol far pagare il conto ai cittadini: perché il famoso silenzio assenso servirà solo a costruire Grandi Opere Inutili. Utili, anzi, solo a chi le costruisce, e fatali per l’ambiente: e non di rado per la vita stessa dei cittadini, falciati da alluvioni e da frane provocate dal cemento.
Chiediamo al governo di rinunciare alla bestemmia del Ponte sullo Stretto.
Vogliamo l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento e la messa in sicurezza del territorio.
Chiediamo al governo di ritirare l’articolo della Legge Madia che mette le soprintendenze sotto i prefetti: che mette, cioè, la tutela tecnico-scientifica del territorio sotto il potere del governo stesso.
Nemmeno un governo eletto plebiscitariamente (e questo, notoriamente, non lo è) ha il potere di distruggere ciò che dobbiamo lasciare alle future generazioni. Siamo custodi, non padroni.
E la nostra voce è umile: ma contiene quella dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli: finché non si spenga la luna. È il futuro che ci supplica di non distruggere la bella Italia.
Vogliamo che la soprintendenza sia una vera magistratura del territorio e del patrimonio storico e artistico. Indipendente dal potere politico.
Chiediamo, dunque, che ad essere finanziato sia il bilancio ordinario della tutela: e che il governo rinunci alle misure propagandistiche e clientelari del miliardo a pioggia su siti già ricchi, mentre il patrimonio diffuso (cioè il 90% del patrimonio), e le biblioteche e gli archivi muoiono, inesorabilmente, di fame e di sete.
Chiediamo che cessino l’umiliazione, il disprezzo e il mobbing di Renzi e Franceschini contro i lavoratori del Ministero per i Beni culturali. Un’arroganza intollerabile sta colpendo chi ha dedicato la vita a questi insostituibili beni comuni.
Quei funzionari che hanno provato a parlare con noi in questi giorni sono stati colpiti da provvedimenti disciplinari: imbarazzanti, umilianti anticostituzionali.
Ma queste misure fasciste non ci intimidiscono: la nostra voce è la loro voce.
Vogliamo che la cultura diventi davvero un servizio pubblico essenziale: ma non per comprimere i diritti sindacali dei lavoratori che la fanno vivere, ma perché tutti possano accedervi, gratuitamente.
E chiediamo che i ministri della Repubblica che non garantiscono questo servizio, si dimettano.
Chiediamo lavoro per i nostri laureati, specializzati, dottorati. Chiediamo lavoro Vero: non Nero.
Non stages. Non tirocinii. Non contratti di formazione. Non volontariato. Non assunzioni una tantum a numeri tondi: che servono solo alla propaganda del ministro.
Vogliamo un lavoro vero, dignitoso, sicuro. Con assunzioni regolari, ogni anno.
Diciamo no ai musei-supermercato, con direttori, consigli d’amministrazione e perfino consigli scientifici nominati dalla politica, nazionale e locale.
Vogliamo invece che i musei siano vissuti da comunità di ricercatori residenti: che ne facciano spazi di cittadinanza inclusivi, luoghi liberi dal mercato e dal marketing. Luoghi di cultura vera: cioè libera.
Vogliamo una scuola buona: non la #buonascuola.
Non vogliamo una scuola che sia l’avviamento alla vendita del brand Italia.
Vogliamo, invece, che a scuola gli italiani imparino fin da bambini la storia dell’arte come una lingua viva.
Per saper leggere, per saper amare, per saper godere di questo paese ancora, nonostante tutto, straordinariamente bello.
Oggi siamo in questa piazza per la cultura. Ma cos’è la cultura?
La cultura è la costruzione della nostra umanità.
La cultura è lo strumento per esercitare la nostra sovranità.
È la misura della nostra capacità di partecipare alla democrazia.
La cultura è un antidoto al potere totalitario del mercato.
La cultura è la condizione fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana, per un’inclusione vera, per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale.
La cultura – ha detto Claudio Abbado – serve a distinguere il bene dal male. A giudicare chi ci governa. La cultura salva.
«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»
Siamo qua per chiedere con tutta la nostra voce che il nono articolo della Costituzione italiana non venga tradito, estirpato, distrutto.
Siamo qua per chiedere che venga finalmente attuato
Non smetteremo di combattere finché questo non accadrà.
Grazie per aver condiviso il cammino di emergenza cultura. Questo è solo l’inizio.
W l’articolo 9, W la Costituzione, W la Repubblica!