scuola

Non siate indifferenti

Segnalato da Barbara G.

Leggi razziali, 80 anni fa gli studenti ebrei via dalle scuole. Liliana Segre: Non siate indifferenti

Il 5 settembre 1938 il primo dei «decreti della vergogna»: esclusi dalle scuole tutti gli appartenenti alla «razza ebraica». Il sindaco di Pisa: «Chiedo scusa agli ebrei a nome della città»

Redazione scuola – corriere.it, 05/09/2018

«Non siate indifferenti, ascoltate la vostra coscienza». Si rivolge ai ragazzi delle scuole, e non solo a loro, Liliana Segre, senatrice a vita, reduce dell’Olocausto, sopravvissuta ai campi di concentramento nazisti. E ai microfoni di Radio1, nello speciale sugli 80 anni dall’introduzione delle leggi razziali volute dal fascismo, parla del silenzio degli italiani non ebrei di allora e avverte: «Anche adesso c’è l’indifferenza. Questa indifferenza è la mia nemica personale». E ricorda: «Io avevo 8 anni e avrei dovuto fare la III elementare. Sentirsi dire che si era stati espulsi è una cosa molto grave. Io chiesi subito: Ma perché? Che cosa ho fatto? Quando capii, con fatica, che ero stata espulsa perché ero di una religione diversa dalle mie compagne, ecco, quel sentimento dura per sempre, non si dimentica più», ha concluso Segre.

«Macchia indelebile»

Intanto, nella tenuta di San Rossore, in Toscana, dove la famiglia reale si trasferiva sei mesi all’anno e dove ottant’anni fa le leggi razziali vennero firmate, il rettore dell’Università di Pisa, Paolo Maria Mancarella, ha definito quelle norme che fecero sì che gli ebrei non fossero più cittadini come gli altri «una macchia indelebile per il mondo accademico italiano». Ricordando come allora alcuni accademici italiani firmarono il manifesto della razza. «Faremo tutta una serie di iniziative – ha spiegato il rettore – che culmineranno in una cerimonia che abbiamo chiamato “del ricordo e delle scuse”. Io ho sentito il dovere di fare queste iniziative come rettore dell’università della città in cui si sono firmate quelle infami leggi. Abbiamo il dovere di tenere viva la memoria perché queste cose non accadano più. Bisogna far rinascere la sensibilità per ricordare». Anche il sindaco di Pisa, Michele Conti, a San Rossore per la presentazione delle iniziative che la Regione Toscana, l’Università e l’amministrazione comunale pisana hanno organizzato per ricordare l’infamia delle leggi razziali, ha «chiesto scusa a nome della mia città a tutti gli ebrei per le infami leggi razziali che vennero firmate dal re Vittorio Emanuele III il 5 settembre del 1938 proprio a Pisa, nella tenuta di San Rossore».

Le scuse dell’Accademia

Professori ed accademici hanno annunciato nei giorni scorsi le scuse per quell’avvallo alle leggi razziali fasciste – che codificavano in norma una tesi sostenuta appunto da numerosi cattedratici italiani dell’epoca – accolte nel silenzio complice quando non sostenute scientificamente a spada tratta.

I decreti della vergogna

Il primo di quelli che sono stati definiti i «decreti della vergogna», tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta «questione ebraica» – firmati, tra l’estate e l’autunno 1938, da Benito Mussolini e promulgati dal re Vittorio Emanuele III – risale proprio al 5 settembre di quell’anno e fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» mentre è di due giorni dopo, il 7 settembre, il testo che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri».

Scuole

Tra i primi divieti posti agli ebrei, il divieto per i ragazzi che non fossero convertiti al cattolicesimo di iscriversi nelle scuole pubbliche. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole.

Limiti

Poi vennero gli altri odiosi limiti: non era autorizzato il matrimonio tra italiani ed ebrei, era vietato per gli ebrei avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto a ebrei stranieri di trasferirsi in Italia, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali. Lunghissima la serie di limitazioni, da cui erano esclusi i cosiddetti «arianizzati»: dal divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l’annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.

Il mondo dell’università

Al mondo della ricerca e dell’università le leggi razziali diedero un colpo mortale: più di trecento furono i docenti epurati, centinaia i professori di liceo, gli accademici, gli autori di libri di testo messi all’indice e tanti i giovani laureati e ricercatori, la cui carriera fu stroncata sul nascere. Tra gli scienziati e intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre che migrarono all’estero, personalità come Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Franco Modigliani, Arnaldo Momigliano, Uberto Limentani, Umberto Cassuto, Carlo Foà, Amedeo Herlitzka. Con loro lasciarono l’Italia anche Enrico Fermi e Luigi Bogliolo, le cui mogli erano ebree.

Le Comunità cristiane di base dicono No all’ora di religione

segnalato da Barbara G.

di Antonia Sani – temi.repubblica.it/micromega-online, 13/10/2017

E’ stato recentemente varato dalle CdB un interessante comunicato in relazione all’insegnamento della religione cattolica. Interessante, importante, opportuno.

Opportuno, poiché col trascorrere degli anni le battaglie contro la collocazione di questo insegnamento all’interno dell’orario scolastico obbligatorio hanno perso molto dello smalto che aveva contraddistinto la loro vitalità nei primi decenni dal Nuovo Concordato (1984).

Nei tempi immediatamente successivi alle disposizioni concernenti il marchingegno dell’“ora alternativa”, anche noi laici ci eravamo aggrappati a quella sorta di àncora di salvezza sospesa sul nulla che avrebbe connotato il tempo orario di alunni/e che non si avvalevano dell’IRC. Pesava il confronto con gli anni del Concordato fascista (1929): gli “esonerati”, pochi, quasi tutti/e di religione ebraica uscivano dall’aula e sostavano nei corridoi a chiacchierare coi bidelli. Nessuno si preoccupava minimamente della loro condizione.

La conquista della “facoltatività” dell’IRC in luogo dell’”obbligo”, con la collocazione di questo insegnamento nel quadro orario delle lezioni riproponeva di fatto una situazione analoga.

Benvenute dunque le attività alternative che – secondo la mozione della Camera del 1986 – dovevano avere il carattere di “insegnamenti certi”, un’equiparazione, insomma all’IRC per evitare discriminazioni.

I contributi di intellettuali, di movimenti ispirati alla difesa della democrazia costituzionale, per un autentico concetto di laicità della scuola, favorirono ben presto una presa di distanza dai contenuti di quella mozione. Così, mentre da un lato si tentava di evitare le discriminazioni sollecitando le scuole di ogni ordine e grado (compresa la Scuola dell’Infanzia cui il Nuovo Concordato aveva destinato 2 ore di IRC!) a istituire attività alternative, dall’altro lato si portava avanti un’azione tendente a stabilire la non equiparazione dell’IRC ad attività che non investivano la sfera della coscienza individuale, come invece era la decisione se “scegliere”o no la frequenza dell’IRC.

Decisive le sentenze di alcuni TAR (cfr. TAR del Lazio*) ma, sopra tutte, le sentenze emesse dalla Corte Costituzionale** con la definizione dello stato di non obbligo, che potevano aprire la strada a una collocazione dell’IRC al di fuori dell’orario scolastico obbligatorio, come prima potenziale fase verso l’abrogazione quanto meno dell’Art.9 del Nuovo Concordato).

A tali vittorie fu posto un argine dalla sentenza n.2749/2010 del Consiglio di Stato.

La sentenza era stata emanata nell’ambito di un ricorso contro l’assegnazione del credito scolastico anche all’IRC. La sentenza riconosceva tale credito (ritenuto peraltro irrilevante), ma nel contempo imponeva alle scuole di istituire attività alternative per i non avvalenti, (fatta salva la libertà per alunni/e di pronunciarsi su tutte le opzioni proposte dalla scuola).

Destò scalpore in quegli anni una sentenza del Tribunale di Padova che su istanza di un genitore condannò un Istituto scolastico che non aveva predisposto attività alternative all’IRC a una sanzione di 1500 euro; una multa fu comminata anche al MIUR per non avere controllato.

Da quel momento l’interesse di molti laici si spostò dalle contestazioni alla collocazione dell’ IRC nell’orario scolastico ai contenuti delle “attività alternative”. Si aprirono, confronti, dibattiti, sperimentazioni.

Il Ministero dell’Economia dispose finanziamenti per i docenti di tali insegnamenti. Fu emanata dal MIUR un’apposita circolare per i dirigenti di tutti gli istituti scolastici.

Per genitori e studenti si trattava di indicare alcune preferenze (diritti umani, storia delle religioni, elementi di ecologia…); per i docenti precari si aprivano possibilità inedite di lavoro.

Le scuole in cui non viene avviata alcuna attività alternativa sono a tutt’oggi una realtà, ma la maggior parte ottempera alla sentenza del Consiglio di Stato.

L’IRC continua ad essere inserito nell’orario scolastico, senza suscitare opposizioni ormai storiche. Nelle Scuole Superiori è in aumento il numero di coloro che non si avvalgono, nella Primaria i genitori disposti ad imbracciare la questione di principio sono in numero esiguo.

Da qui l’opportunità del documento delle Comunità Cristiane di Base per riaccendere interesse ed energie nella contestazione di un insegnamento confessionale nella Scuola dello Stato. Il comunicato prende il via dalla complessità della popolazione che oggi frequenta le nostre scuole, un quadro multietnico e multireligioso, oltre il pluralismo culturale nostrano di qualche decennio addietro.

E’ opportuno e necessario – si legge – “affidare la formazione che tenga conto di queste componenti ai docenti dei vari ordini e gradi di scuole per un approfondimento interdisciplinare”… Che il fatto religioso come manifestazione socio-culturale dei popoli dovesse essere parte dei programmi scolastici dei vari gradi e ordini di scuole e non patrimonio di una privilegiata confessione religiosa era la via sulla quale ci eravamo incamminati come movimenti laici all’epoca della sentenza 203/1989 della Corte Costituzionale.

Un dibattito che tenderebbe oggi ad assopirsi trova in questo documento la forza di un incentivo alla sua riproposizione.

La finalità culturale prevale sull’appartenenza religiosa. A fronte della “grande ignoranza del fenomeno religioso – recita il documento – sarebbe auspicabile una minima conoscenza non solo della Bibbia ma quantomeno del Corano e delle altre tradizioni cultuali presenti nel nostro Paese”.

A questo proposito, interessante e dirompente emerge la seguente proposta: “da parte della Chiesa cattolica italiana sarebbe un segnale significativo operare per rendere plurale la conoscenza e non già l’insegnamento (compito delle famiglie e delle comunità religiose) delle diverse religioni e quindi disattendere unilateralmente il dettato concordatario, astenendosi dal nominare gli insegnanti destinati all’IRC”. “Gesto profetico questo – così lo definiscono gli estensori del documento – in grado di scuotere non solo la Chiesa ma la stessa società italiana”.

Notiamo in questa straordinaria affermazione, che riteniamo frutto di un forse non indolore dibattito all’interno delle CdB, qualche contraddizione con quanto affermato nella prima parte del documento laddove si parla di “IRC (ovvero Insegnamento religioso nelle scuole) come incongruo e antistorico nel suo essere appannaggio monopolistico della CEI)”.

L’IRC concordatario non può che essere appannaggio della CEI! Ma nessun insegnamento religioso – come tale, da chiunque impartito, sia pure liberato dai crismi delle gerarchie cattoliche – potrebbe aver luogo nella Scuola della nostra Repubblica.

La proposta raddrizza con determinazione l’ipotesi, in quel passo adombrata, di un insegnamento religioso nelle scuole non affidato alla CEI. Se l’ IRC non venisse più impartito da insegnanti nominati dall’Ordinario diocesano, cadrebbe automaticamente la sua natura confessionale, e verrebbe salvaguardato l’inserimento culturale del fenomeno religioso all’interno delle discipline previste nel piano di studi dei diversi ordini e gradi di scuole Ciò che i movimenti per la laicità della scuola vanno da tempo affermando.

Ma ancora più importante e coraggiosa è la parte conclusiva del documento: le CdB invitano apertamente le/gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado e “le loro famiglie a richiedere di non avvalersi dell’ora di religione confessionale nella consapevolezza che l’articolazione multiculturale della società italiana richieda oggi la rinuncia ad ogni privilegio… Le CdB italiane pertanto intendono promuovere il diritto al rifiuto ad avvalersi dell’IRC”. Un palese invito alle giovani generazioni a operare la distinzione fondamentale tra sfera personale, adesione a un credo religioso, e rinuncia nella sfera della civile convivenza ad ogni privilegio in nome del rispetto reciproco, dell’interazione delle differenze, nella ricerca della pace civile.

Optare per l’uscita dall’edificio o sottostare alle altre opzioni di attività alternative, benedette dalla citata sentenza del Consiglio di Stato? Nessuna indicazione in tal senso viene fornita dal documento. La sollecitazione al rifiuto delle attività alternative nella Scuola Superiore avrebbe rispettato – a nostro giudizio – la coerenza di un percorso, ma avrebbe riproposto l’equiparazione tra IRC e opzioni alternative in questo modo sapientemente evitata.

L’invito, semplice, chiaro al di là di tatticismi e burocraticismi giunge nelle scuole dove ormai da oltre 30 anni l’IRC è divenuto facoltativo, ma la sollecitazione promossa da coloro che laicamente della fede religiosa fanno la loro ragione di vita, può ottenere quel largo consenso che noi laici (spesso anche atei) non abbiamo a tutt’oggi riscosso.

La strada per una collocazione dell’IRC in orario aggiuntivo, al di fuori dell’orario scolastico obbligatorio (presente anche nel nuovo testo della LIP)**, si manifesta come la prosecuzione – resa più attrattiva dalla qualità dei promotori del documento – di quel cammino intrapreso da decenni ma ancora incompiuto.

* sent.1273/1987 del TAR del Lazio

“… non una scelta tra due distinte forme di insegnamento,che, certamente la riforma concordataria non contiene;né può logicamente contenere, riferimenti ad altro insegnamento che non sia quello religioso cattolico, sibbene tra l’avvalersi e non di questo insegnamento….”

** sent. Corte Costituzionale n.203/1989; n.13/1991

*** Legge di iniziativa popolare per la scuola della Costituzione

Istruzione o educazione?

segnalato da Barbara G.

di  Stefano Casarino – nuovatlantide.org, 24/02/2017

La scuola deve far pensare? Deve porsi l’obiettivo di contribuire ad impostare e formare riflessioni via via sempre più articolate e ponderate, attraverso le diverse specifiche discipline e nell’assoluto rispetto dei tempi della crescita psicofisica dello studente oppure quello di addestrare il prima possibile all’esecuzione di compiti sempre più complessi, dando istruzioni e consegne più o meno rigide e fornendo strumenti e materiali più o meno abbondanti?

Queste credo siamo le domande da porsi prima di impostare una qualsivoglia politica dell’istruzione in Italia: se poi per gli ultimi anni si possa parlare davvero di una “politica dell’istruzione”, di una visione strategica e lungimirante,  questa è una valutazione abbastanza facile, credo, da fare.

Negli ultimi vent’anni abbiamo rincorso modelli stranieri, introdotto artatamente, prima, e pesantemente, poi,  caratteristiche di altri sistemi scolastici, magnificando di volta in volta questo e quello e rinunciando con incredibile disinvoltura a ciò che invece gli altri ci invidiavano (e per certi aspetti ancora ci invidiano). Ad esempio, il fatto di non istruire degli esecutori ma di formare delle persone critiche e proprio per questo  in grado di adattarsi con straordinaria facilità ai cambiamenti repentini e imprevedibili dei contesti lavorativi e sociali: come dimostrano i brillanti successi dei nostri studenti all’estero, tanto che più di una volta vien da pensare che stiamo formando cervelli e ingegni che arricchiranno altri Paesi, non il nostro.

Abbiamo rinunciato da tanto tempo ormai al tema con titoli semplici ed essenziali: vero, insostituibile momento di libertà espressiva dello studente, che doveva ricavare da sé (e non da materiale preconfezionato ed impartito in pillole sul momento) le capacità di impostazione dell’argomento, di discussione e rielaborazione, facendo leva esclusivamente sulle proprie conoscenze, ben aldilà dello specifico scolastico.

E abbiamo rinunciato pure all’interrogazione come colloquio su argomenti disciplinari affrontati, nel quale mettere in gioco e dimostrare le proprie capacità interpretative e rielaborative.

Certo è molto più facile, immediato ed “economico” – ma nel senso deteriore del termine – propinare test, “misurare le competenze”, valutando quantitativamente invece che qualitativamente: e, va da sé, abbassando sempre di più gli standard, salvo poi accorgersi (meglio tardi che mai!) che gli studenti universitari non sanno più scrivere decentemente nella loro lingua madre.

D’altronde, a scuola si scrive e si fa scrivere sempre meno, se per scrivere non si intende la crocettatura di test con risposte chiuse oppure la compilazione di formulari oppure ancora la redazione di mini testi  in cui la correttezza ortografica è sempre più opzionale e l’utilizzo di abbreviazioni e codificazioni simboliche abbonda.

E a scuola nemmeno si espone più oralmente, si discute, si parla: lo spazio dell’”orale” è sempre più ridotto, a scuola e all’Università, a favore dello “scritto”, di quel particolare tipo di “scritto”, facile da correggere ed inevitabile quando si ha a che fare con qualche decina o qualche centinaio di studenti/utenti, con buona pace di ogni chiacchiera sulla “personalizzazione” dei processi di insegnamento/apprendimento.

E’ sotto agli occhi di tutti quelli che vogliono vederla, la realtà dell’istruzione italiana.

La scuola postmoderna sta celebrando la resurrezione e il trionfo di quel nozionismo avulso da ogni contestualizzazione e riflessione critica contro il quale avevamo tenacemente combattuto negli ormai lontani anni Settanta e Ottanta.

 La scuola postmoderna ha rinunciato, sta rinunciando alla sua vera “autonomia” per asservirsi come mai era accaduto prima alle richieste (più o meno chiare e coerenti) del mondo del lavoro: si veda proprio quell’alternanza scuola/lavoro così velocemente imposta (e magnificata) in ogni ordine di scuola superiore, mentre altrove è riservata solo a ben precisi indirizzi, mentre noi, col nostro consueto massimalismo, non solo imitiamo, ma imitiamo male e senza discernere.

C’è un lungo lasso di tempo, nella vita di ciascuno, che va dall’infanzia alla giovinezza in cui si hanno (si devono avere) tutte le possibilità per “maturare”: oggi questo verbo è aborrito, forse è stato abusato in passato, ma contiene in sé l’idea di uno sviluppo, di un progresso nel tempo, progresso che costa impegno e sforzo, idea ovviamente invisa nel momento attuale in cui impera il convincimento del “tutto, subito e senza fatica”.

“Maturare” idee, curare il proprio gusto, creare la propria personalità attraverso incontri ed esperienze culturalmente significative: già, la cultura! Ha ancora un posto nella scuola “professionalizzante” di oggi? “serve” a qualcosa? Probabilmente, secondo molti è una perdita di tempo oppure un lusso che in tempi di crisi non possiamo più permetterci, quando invece senza di essa alla crisi saremo perennemente condannati.

La scuola tutta, dall’asilo all’Università, ha (aveva?) la funzione vitale ed irrinunciabile di fornire strumenti, occasioni, opportunità a tutti, nessuno escluso, per compiere questo processo affascinante di crescita interiore, puntando sulla riflessione, sull’analisi critica, sul dialogo educativo, aprendosi ai problemi dell’oggi, che ci riguardano come esseri umani e come cittadini prima ancora che come clienti, utenti e futuri lavoratori o professionisti.

Tutto questo oggi sembra non avere più alcuna importanza.

Il messaggio forte e chiaro è: “prima inizi a scegliere il mestiere che farai, meglio sarà per te e per il mondo del lavoro, così pronto (?!) ad accoglierti  e a remunerarti”.

Credevamo che andare a scuola volesse dire prepararsi alla vita: certo, anche al lavoro, ma non solo.

Sbagliavamo, abbiamo sbagliato per tanti anni, a quanto pare.

La scuola di per sé non ha alcun senso, è tempo sottratto alla fabbrica o all’azienda: a meno che esse sin da subito non la orientino e la condizionino. Come sta appunto avvenendo.

L’autogratificazione dello studio e del sapere, il conoscere ogni giorno qualcosa ed entusiasmarsi ad ogni piccola scoperta, la voglia e il dovere di leggere e di confrontarsi, il meditare sul passato per non ripeterne gli errori…la storia, la letteratura, l’arte: tutto vecchiume, che si può ridurre felicemente al minimo e magari spazzare via una buona volta.

Che male ci può mai essere, in fondo, se si crede, come ha recentemente denunciato un allibito Romani Prodi, che Maradona è stato Presidente della Repubblica Italiana?

Le conoscenze storiche non sono verificate in alcuna prova Invalsi, quindi non sono importanti, contano solo (e neppure tanto) inglese, matematica e scienze: ma, sia ben chiaro, anche qui senza perderci sopra troppo tempo.

Che male volete poi che faccia l’ignoranza della storia?

Non è una #buonascuola per disabili

segnalato da Barbara G.

«Ritirate le deleghe della Buona scuola, vanno contro i diritti dei più deboli». L’allarme di familiari e docenti

di Donatella Coccoli – left.it, 23/02/2017

«Quella delega rischia di gettare a mare tutta l’istruzione per i disabili. E anche le altre non facilitano la loro vita, vanno ritirate tutte». Per lanciare questo allarme ai parlamentari oggi davanti a Montecitorio a partire dalle ore 15 fino alle 19 è in corso un presidio di centinaia di associazioni, la Rete dei 65 movimenti, provenienti da tutta Italia, che rappresentano oltre centomila cittadini, tra insegnanti, genitori di ragazzi disabili. Alla protesta hanno aderito anche tutti i sindacati, sia confederali che di base, oltre alle associazioni degli studenti e a partiti come Sinistra italiana.

La protesta non si ferma qui. Domani venerdì 24, al liceo Tasso di Roma si terrà un seminario di formazione per docenti sull’inclusione, parteciperanno tra gli altri il sottosegretario all’Istruzione Vito De Filippo e il giudice onorario della Cassazione Ferdinando Imposimato, sempre molto critico contro le violazioni dei principi costituzionali.

Ma perché questa ribellione collettiva? Non è bastata la legge 107, che ha causato non pochi problemi non solo nei contenuti, ma anche nell’organizzazione scolastica. Adesso arrivano 8 decreti attuativi relativi ad altrettanti temi cruciali per l’istruzione e che il 17 marzo diventeranno legge. Vanno a completare, per così dire, la Buona scuola. Allora, nel 2015, si disse che le deleghe erano troppe, che si lasciava carta bianca al Governo su troppi temi sensibili. Poi il tempo è passato, il Governo senza ascoltare nessuno è andato avanti ed ecco qua le 8 deleghe, targate Renzi-Giannini, con il via libera della ministra Fedeli, arrivata con il governo Gentiloni. La delega contestata è la 378 “Norme per la promozione dell’inclusione scolastica degli studenti con disabilità”. In Commissione Istruzione e cultura di Camera e Senato si stanno tenendo le audizioni di associazioni, esperti, comitati, ma c’è poco tempo perché i parlamentari entrino dentro argomenti così complessi come quello dell’inclusione scolastica per i disabili oppure la formazione iniziale dei docenti o ancora la valutazione. È una delle critiche che fanno i sindacati: troppo poco tempo per cambiare qualcosa dei decreti attuativi.

Chi ha promosso la mobilitazione, ha individuato precisi punti che non vanno. Li elenca la professoressa Daniela Costabile, portavoce della Rete dei 65 movimenti che ha organizzato la protesta e che fa parte anche dei Partigiani della scuola, uno dei movimenti nati contro la Buona Scuola.

«Noi come rete siamo nati proprio per la delega disabilità, ma poiché i danni per i disabili vengono anche da tutte le altre deleghe, noi chiediamo il ritiro di tutti i decreti attuativi. Per questo motivo ha aderito alla nostra rete tutto il mondo della scuola. Questa è l’unica manifestazione contro i decreti», spiega.

La critica più forte è quella per cui le famiglie, con la delega sono tagliate fuori dal sistema dell’istruzione che nei casi di studenti disabili costituisce una rete complessa. Mentre prima della delega, grazie alla legge 104 del 1992 c’erano 41mila gruppi Glh, cioè gruppi di lavoro e studio che ogni dirigente creava nella propria scuola, formati da docenti di sostegno e curricolari, operatori sociali e familiari, adesso, tutto questo sistema viene spazzato via. La stessa legge 104 viene depotenziata e molti degli articoli della norma di 25 anni fa vengono cambiati. «Abbiamo scoperto dalla relazione tecnica – dice Costabile – che il Governo elimina tutti i gruppi che c’erano per ogni scuola, e al loro posto ha inserito dei Git, gruppi per l’inclusione territoriale, in cui ci sono 4 presidi e due docenti, i quali devono decidere le ore di sostegno da dare i ragazzi. Se prima con la legge 104 scattava automaticamente il docente di sostegno adesso non è più così. La 104 è stata depotenziata da questa delega». Trecento Git, uno per ogni ambito territoriale, la nuova geografia scolastica, ecco la novità della delega 378 che non va giù ai familiari.

«Dovranno decidere, senza conoscere i ragazzi, cercheranno di razionalizzare, ma c’è una sentenza, la n.80 del 2010 che dice che quando si tratta di ragazzi con disabilità, il pareggio di bilancio non c’entra nulla, bisogna dargli tutto quello che serve», continua la professoressa. Ma non è solo questo il punto contestato. Un altro riguarda la possibilità di aumentare il numero di alunni nelle classi in cui è presente uno studente disabile. Da 20 si passa a 22. Ma in quell’articolo 3 “Prestazioni e competenze”, c’è un passaggio che desta preoccupazioni. Laddove si parla della formazioni delle classi, si legge: «consentire, di norma, la presenza di non più di 22 alunni ove siano presenti studenti con disabilità certificata». «Questa norma è contestata da tutti – dice Daniela Costabile – anche da parte dell’osservatorio Miur per la disabilità, perché così sale il numero di alunni per classe». Inoltre, con la legge 104 bastavano 6 giorni per la certificazione del bambino all’inizio del suo percorso scolastico, adesso gli avvocati delle associazioni hanno calcolato che di giorni ne occorrono 60. «Quindi niente snellimento burocratico», sottolinea la portavoce della rete dei 65 movimenti. «La commissione medica è stata integrata da figure che non c’entrano nulla – continua – un terapista della riabilitazione, chissà, forse per vedere se un ragazzino è autonomo e può stare solo senza il sostegno… E poi c’è anche un medico dell’Inps, un ispettore che non risponde al ministero della salute, non vorrei che i ragazzini verranno trattati come falsi invalidi».

Altro articolo della delega che ha fatto sollevare tutti, familiari e insegnanti, è l’articolo 16 “continuità didatica”: «Per valorizzare le competenze professionali e garantire la piena attuazione del piano annuale di inclusione, il Dirigente scolastico propone ai docenti dell’organico dell’autonomia di svolgere anche attività di sostegno didattico, purché in possesso della specifica specializzazione».

Tradotto, significa che anche i docenti curricolari, se hanno una specifica specializzazione, sono chiamati a fare il docente di sostegno. «La prospettiva è che il preside faccia lavorare il docente sia sulla classe che sul ragazzino, quindi questo perde il docente di sostegno. È un tranello», sottolinea con amarezza Daniela Costabile.

In sintesi, il senso che emerge da questa delega è quello della razionalizzazione, del “fare cassa”. Ma  sostenere le ragioni del bilancio sulla pelle di chi è più debole non è possibile. D’altra parte anche la Corte Costituzionale, poche settimane fa ha sancito che il pareggio in bilancio non ha ragion d’essere rispetto ai diritti di chi ha una disabilità. Vedremo se il Parlamento recepirà l’allarme di migliaia di cittadini che partono da una situazione di svantaggio e che quindi devo essere tutelati ancora di più.

Ecco tutti gli errori di Renzi

Lunghissima e dettagliata analisi, capitolo per capitolo, della politica seguita dall’ex presidente del Consiglio, scritta e firmata da quattro economisti che da anni animano i dibattiti e gli studi del Nens come Salvatore Biasco, Vincenzo Visco, Pierluigi Ciocca e Ruggero Paladini. Risultato: “Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva”

di Salvatore Biasco, Pierluigi Ciocca, Ruggero Paladini e Vincenzo Visco

nuovatlantide.org, 22/01/2017

1. La nascita del Governo Renzi era stata accolta con molta fiducia e aspettative favorevoli, sia per la personalità del nuovo Presidente del Consiglio, che per la forza derivante dal fatto di essere il segretario del PD. In particolare ci si aspettava da Renzi il rilancio dell’economia e dell’occupazione, il contenimento del fenomeno populista e in particolare del M5S, il varo di riforme strutturali e istituzionali. A consuntivo dei tre anni di governo il bilancio non appare particolarmente positivo, anche se provvedimenti condivisibili non sono mancati quali quelli sui diritti civili, tema sul quale i Parlamenti precedenti non erano riusciti a deliberate, l’inizio di interventi di natura sociale, senza peraltro affrontare in modo organico il problema della diseguaglianza crescente, l’alternativa scuola lavoro, e l’aumento della tassazione di alcuni redditi finanziari.

2. Per quanto riguarda l’economia, discutibile e contradittoria appare la linea seguita in Europa. La presidenza italiana dell’Unione Europea poteva essere l’occasione per porre in discussione formalmente la politica economica seguita, imposta dalla Germania, in quanto errata sul piano teorico e inefficace o controproducente su quello pratico (salvo che per la Germania stessa). Gli argomenti non mancavano certo. A questo si è arrivati molto più tardi dopo un periodo che è sembrato di acquiescenza alle posizioni di Schauble. Ci si è arrivati con una linea indebolita dall’obiettivo di ottenere individualmente una maggiore flessibilità di bilancio da utilizzare non già per maggiore spese per investimenti bensì per finanziare la politica dei bonus, senza rendersi conto che la credibilità di un Paese fortemente indebitato come l’Italia dipendeva (e dipende) dalla capacità di rispettare gli impegni assunti, pur mantenendo i propri punti di vista, cercando eventualmente di farli valere anche con convergenze e alleanze con altri Paesi, con il Parlamento europeo, ecc.. Anche questo è stato carente. Poco si è puntato sul ridisegno della architettura complessiva. Non si è cercato di porre sul tappeto la questione della ristrutturazione del debito europeo, nonostante che a una proposta italiana (Visco) se ne fosse aggiunta una (pressoché identica) avanzata dai “saggi” consulenti della signora Merkel. Non si è posta sul tappeto neppure la questione della concorrenza fiscale in Europa. Durante la crisi greca, invece di fornire un sostegno al governo di Tsipras, si preferì defilarsi lasciando la Grecia al suo destino, secondo una deriva nazionalista che è andata inevitabilmente crescendo.
3. Per quanto riguarda la politica interna, la strategia seguita dal Governo Renzi si è ispirata sostanzialmente a una politica dell’offerta: riforme strutturali (in primis quella del mercato del lavoro), riduzione delle imposte, tagli alla spesa pubblica, maggiore libertà all’azione privata e riduzione dei vincoli amministrativi. In sostanza l’approccio mainstream che ha dominato il pensiero economico negli ultimi decenni, ma che, dopo la crisi del 2007-08, appariva non solo carente, ma anche superato sia in concreto, in quanto del tutto inadatto ad affrontare una situazione di deflazione e stagnazione come quella attuale, sia da un punto di vista teorico. Il risultato inevitabile è stato quello di sprecare ingenti risorse con l’obiettivo di rilanciare il consumo delle famiglie che invece è rimasto stagnante (per es. la Banca d’Italia ha valutato che l’erogazione degli 80 euro si è tradotta in consumi solo per il 40%), e di aumentare i profitti delle imprese nella speranza che esse avrebbero aumentato gli investimenti, cosa che in carenza di domanda non poteva accadere. Peraltro, anche la riduzione del cuneo fiscale (Irpef e imposte sulle imprese) tentata dal II Governo Prodi nel 2006 non aveva avuto successo: la riduzione delle imposte, invece di tradursi in investimenti determinò similmente un aumento degli accantonamenti delle imprese (e degli imprenditori).
Anche l’occupazione è stata massicciamente sussidiata con risultati complessivi che andranno valutati allo scadere degli incentivi previsti, ma probabilmente non esaltanti. Inoltre bisogna chiedersi quanto gli incentivi non abbiano contribuito a rendere conveniente impiegare lavoratori a bassa qualifica piuttosto che investire in nuove tecnologie e quindi contribuito alla riduzione della produttività.
4. Un altro approccio era invece possibile, come auspicato da molti e dimostrato dal XV rapporto Nens sugli andamenti e prospettive della finanza pubblica italiana che ha simulato gli effetti di una diversa strategia di politica economica basata sul riassorbimento progressivo delle clausole di salvaguardia oggi previste, su una efficace politica di contrasto all’evasione (come quella più volte proposta da uno degli autori) con il contestuale utilizzo dei proventi per misure di riduzione dell’Irpef e dei contributi sociali (cuneo) e di sostegno delle situazioni di povertà, e utilizzando tutte le altre risorse disponibili, incluse quelle derivanti dalla flessibilità europea, per spese di investimento ad elevato moltiplicatore.
Come si ricorderà, questa è la politica che recentemente è stata proposta dal FMI, dall’OCSE, e da autorevoli economisti in tutto il mondo. Pur prendendo con cautela i risultati ottenuti dalla simulazione, le direzioni cui avrebbe portato una strategia alternativa sono inequivocabili e di rilievo: nel periodo 2015-18 il PIL sarebbe cresciuto di (almeno) il 6% invece che del 3,8% implicito nelle manovre governative considerando i risultati acquisiti nel 2015 e quelli previsti nei documenti governativi per i tre anni successivi (e probabilmente sovrastimati); l’indebitamento pubblico per il 2017 si sarebbe collocato sull’1,6% invece del 2,3-2,4% oggi previsto; il debito pubblico sarebbe sceso al 130,2% del PIL, 2,5 punti in meno della stima del Governo. Inoltre ci sarebbero stati effetti positivi sull’occupazione, le aspettative e il clima di fiducia generale nei confronti della nostra economia sia in Italia che all’estero.
5. Un’altra grave carenza dell’azione economica del Governo Renzi (in parte da condividere col Governo Letta) riguarda la crisi bancaria che è stata causata in Italia non già da un eccesso di investimenti in prodotti strutturati, come in UK, USA, Germania, ecc., bensì dalla doppia recessione che ha determinato il fallimento di decine di migliaia di imprese e l’esplosione delle sofferenze. In tale situazione era necessario costituire al più presto una bad bank per smaltire i crediti deteriorati e rimettere in funzione il sistema. Non è stato fatto, e la crisi si è trascinata fino alla deprimente conclusione della vicenda MPS. Alla base di tale comportamento vi è stato un pregiudizio ideologico, condiviso e rafforzato dalla comunità dei banchieri, contro ogni intervento pubblico diretto nel settore. Se i Monti bonds fossero stati convertiti in azioni tra il 2013 e il 2014 (Governi Letta e Renzi), la situazione si sarebbe stabilizzata, non si sarebbero sprecati aumenti di capitale per 8 miliardi, e non si sarebbe verificata la massiccia fuga di depositi dal Monte che è la causa principale della richiesta da parte della BCE di una maggiore capitalizzazione della banca. La questione bancaria è stata più volte evidenziata come urgente dalla Banca d’Italia, ma senza successo. Che sarebbe entrato in vigore l’accordo sul bail in non poteva sfuggire al Governo. Inoltre, le mancate dimissioni del ministro Boschi in occasione della vicenda della banca Etruria che, pur non strettamente necessarie, sarebbero state politicamente utili, ha fortemente indebolito il Governo esponendolo a critiche spesso infondate, ma sempre efficaci da un punto di vista comunicativo, da parte delle opposizioni, contribuendo alla sostanziale paralisi operativa, alla politica dei rinvii e delle “soluzioni di mercato”, in nome delle quali si è deciso perfino di sostituire d’autorità il vertice del MPS. Incomprensibile ed inaccettabile, comunque, è non essere intervenuti almeno subito dopo lo stress test del luglio scorso a salvare il Monte, lasciando marcire la situazione a causa della priorità del momento, il referendum istituzionale. Il costo ulteriore per i contribuenti è rappresentato dai 4 miliardi di maggior aumento di capitale richiesto. Né va dimenticato che anche le riforme delle banche popolari e di credito cooperativo non sono state fatte in modo da evitare rilievi sia di carattere amministrativo che costituzionale.
6. E’ difficile valutare quale sia stata la politica industriale del Governo Renzi, sempre che ce ne sia stata una. Con industria 4.0 si è cercato di recuperare il terreno per quanto riguarda la digitalizzazione del Paese, ma il processo deve ancora partire. Analogamente la digitalizzazione della PA stenta a decollare e non si vede un disegno ed una visione unitaria. Sono stati confermati gli sgravi fiscali per ristrutturazioni e interventi energetici e ambientali, ma senza disegnare una strategia complessiva di trasformazione ecologica di settori dell’economia (a differenza di quando fatto in altri Paesi, Germania in testa). Si sono predisposti strumenti per affrontare le crisi industriali utilizzando la CDP, ma non si è saputo affrontare la questione delle infrastrutture da una prospettiva generale. Per quanto il Piano per la logistica e i Porti abbia un approccio condivisibile (e così quello relativo agli interventi delle Ferrovie) esso è rimasto del tutto laterale rispetto all’azione di Governo diretta verso altri fronti. Gli impegni di spesa sono stati essenzialmente collocati verso gli anni di scadenza (2020) del piano e di fatto lo stato di avanzamento su tutti i lavori concernenti i corridoi europei è in ritardo a causa della esiguità dei fondi disponibili. Sulla banda larga si rischia di creare concorrenza tra più operatori, con relativo spreco di risorse trattandosi di un monopolio naturale. Si difende l’italianità di Mediaset, e si è lasciato che Vivendi acquisisse il controllo di Telecom. In concreto la politica industriale di Renzi si è basata soprattutto e principalmente su un consistente insieme di misure di detassazione e incentivazione fiscale a pioggia, sicuramente molto gradito alle imprese, ma non in grado di indirizzare il Paese verso un nuovo assetto industriale e neppure di recuperare il potenziale industriale perso durante la crisi. L’idea di fondo è sempre la stessa: se lo Stato riduce il suo perimetro (riducendo le tasse, i contributi, ecc.) il mercato, le imprese, troveranno nuova energia e nuove opportunità di crescita a beneficio di tutti. Non si è fatto nessuno sforzo, né si è suscitato nessun dibattito su quali settori potrebbe essere utile sviluppare in Italia con il sostegno pubblico tenendo conto delle esigenze del Paese, delle possibili sinergie con la ricerca e le Università, della possibilità di creare occupazione, né si è avviato un dibattito sulla possibilità di utilizzare in modo diverso e coordinato il residuo sistema delle partecipazioni statali, che continua ad essere visto soprattutto come fonte di reddito per la finanza pubblica, prova ne sia la privatizzazione di Poste che è avvenuta prima di esplorare le sinergie che poteva avere con la digitalizzazione del Paese e con lo sviluppo della logistica di consumo. Non è stata elaborata nessuna strategia valida per il Mezzogiorno, mentre si ripropone drammaticamente la questione del dualismo del Paese. Tardiva è stata la predisposizione di Patti con Regioni e Città, che pur andando nella giusta direzione, appaiono spesso affrettati oltre che imperniati su progetti tirati fuori dai cassetti degli Enti locali, e in ogni caso improntati a una logica frammentaria e priva di visione organica. In tutte le politiche verso cui sono state indirizzate risorse pubbliche o varati mutamenti di assetto è mancata una vera e propria regia di attuazione e coordinamento degli attori, in un attivismo mirato a poter vantare interventi e riforme in vari campi, più che curarne la completezza, la qualità, il raccordo e l’implementazione.
7. Particolarmente discutibile è stata la politica tributaria del Governo Renzi. Dall’ultima riforma organica del fisco italiano, quella del 1996-97, sono passati 20 anni e quindi sarebbe necessaria una revisione complessiva. Ma il problema di fondo del sistema fiscale italiano rimane quello della evasione di massa, considerevolmente ridotta (in via permanente) dai governi di centrosinistra tra il 1996 e il 2000, tollerata e incentivata dal centrodestra, ridotta di nuovo durante il Governo Prodi del 2006-08, aumentata durante il successivo Governo Berlusconi. Renzi ha ignorato il problema di una revisione sistematica del sistema e anzi ne ha accentuato il degrado con provvedimenti ad hoc, frammentari, episodici senza alcuna consapevolezza della necessità di una visione organica. Per quanto riguarda il contrasto all’evasione, all’inizio Renzi sembrava orientato ad intervenire, ed infatti adottò alcune delle misure proposte in un rapporto del Nens del giugno 2014, in particolare il reverse charge e lo split payment, misure che, visto il successo ottenuto (anche al di là delle previsioni) , sono state sistematicamente presentate come la dimostrazione dell’impegno e del successo del Governo nel contrasto all’evasione, sempre riaffermato pubblicamente, ma ben poco praticato in realtà. Le altre proposte contenute nel rapporto Nens sono state invece ignorate, tra queste l’uso dell’aliquota ordinaria nelle transazioni intermedie IVA, l’adozione del sistema del margine in alcune transazioni al dettaglio, la trasmissione telematica obbligatoria dei dati delle fatture IVA….In verità quest’ultima misura è stata adottata con l’ultima legge di bilancio, ma in modo tale da risultare in buona misura inefficace, in quanto è esclusa la trasmissione automatica dei corrispettivi delle vendite finali, non è previsto l’accertamento automatico in caso di evasione manifesta, non sono state introdotte misure di cautela nel caso in cui la reazione dei contribuenti comportasse una riduzione del margine abituale sui ricavi (mark up); le sanzioni, già modeste, sono state ulteriormente ridotte, l’entrata in funzione rinviata….In sostanza si è seguita la stessa logica in base alla quale, in seguito all’introduzione obbligatoria del POS ci si dimenticò di prevedere una sanzione in caso di inadempienza. Eppure il rapporto Nens stimava che la misura fosse potenzialmente in grado di produrre oltre 40 miliardi di recupero di evasione.
Contemporaneamente l’amministrazione finanziaria è stata delegittimata e indebolita, non si è salvaguardata la sua autonomia, si è consentito che membri del Governo attaccassero l’Agenzia delle Entrate, non si è data soluzione al problema creato da una discutibile sentenza della Corte Costituzionale relativa agli incarichi dirigenziali. Non si sono investite risorse nell’informatica.
Ma più in generale, l’intera politica fiscale si è indirizzata in direzione opposta a quella di serietà e di un ragionevole rigore: il sistema sanzionatorio è stato modificato innalzando le soglie di punibilità penale e restringendo le fattispecie incriminatrici; inizialmente era stato perfino proposto di depenalizzare la frode fiscale, misura poi rientrata; l’abuso del diritto (elusione) è stato depenalizzato e ridotto ad una fattispecie residuale, senza considerare il fatto che prima o poi la Cassazione e la Corte di Giustizia europea ristabiliranno l’interpretazione corretta. Ciò peraltro è già avvenuto con il falso in bilancio per cui la Cassazione ha già vanificato la portata della norma che allentava ben oltre quella approvata dal Governo Berlusconi, e per anni criticata dal centrosinistra, la possibilità di punire tale comportamento. E’ stato abolito il termine lungo di accertamento amministrativo per le condotte penalmente rilevanti, contrariamente a quanto previsto dalla normativa prevalente in Europa. La riscossione dei tributi è stata fortemente indebolita prevedendo la possibilità di rateazioni fino a 72 rate per i debitori decaduti negli ultimi due anni da un precedente piano di dilazione, ciò mentre per i debiti nei confronti di privati (banche) si sono accelerate le procedure di riscossione coattiva creando una inaccettabile discriminazione tra pubblico e privato. Ci si è uniformati alla propaganda del M5S sopprimendo, anche se solo in apparenza, Equitalia, e introducendo un condono (rottamazione) delle cartelle esattoriali, relative – è bene ricordarlo – a evasori conclamati, spesso sanciti come tali da più gradi di giudizio. Si sono varate due voluntary disclosures in apparente ossequio a un indirizzo internazionale, senza considerare che negli anni precedenti erano già stati varati da Tremonti ben due condoni in materia. Si è cercato di introdurre una sorta di riciclaggio di Stato prevedendo la sanatoria anche per il contante, norma che fortunatamente non è sopravvissuta alle critiche. Si è innalzata a 3000 euro la soglia di utilizzazione del contante favorendo così non solo l’evasione ma anche il riciclaggio. La norma sugli 80 euro, operando in un ristretto intervallo di reddito, da un lato ha penalizzato relativamente i redditi più bassi, e dall’altro ha introdotto un’aliquota marginale implicita pari al 79,5% (48% a causa del venir meno degli 80 euro, cui si aggiunge l’aliquota effettiva (formale e implicita) Irpef del 31,5%) per i contribuenti collocati sul limite superiore di applicazione della misura (tra i 24000 e i 26000 euro), per cui è stato necessario inserire nella ultima legge di bilancio, e in previsione degli aumenti contrattuali, una norma di deroga che non si sa ancora come opererà. L’Irpef è stata ulteriormente distorta dalla detassazione dei premi di produttività che fa sì che neanche i redditi di lavoro entrino più interamente nella base imponibile della imposta sul reddito in deroga a qualsiasi principio di progressività. Molte sono state le norme a favore delle imprese: dalla eliminazione dall’Irap dei redditi di lavoro (il che equivale ad escluderli da qualsiasi contributo specifico per la spesa sanitaria), alla decontribuzione per i nuovi assunti, alla patent box, al rafforzamento dell’ACE col recupero dell’incapienza sull’Irap, alla assegnazione agevolata dei beni ai soci, alle norme di accelerazione degli ammortamenti, alla riduzione dell’aliquota Ires al 24% e all’introduzione dell’IRI, all’eliminazione dell’IMU sui cosiddetti “imbullonati”. L’agricoltura è stata ulteriormente detassata (Irap, imposta patrimoniale), senza considerare che il settore era già quello più agevolato sul piano fiscale e quello in cui maggiore è l’evasione. La condivisibile esigenza di redistribuire il prelievo alleviandolo per alcuni settori e fattispecie non è stata affrontata, in altre parole, in modo organico e secondo un disegno preciso, ma con provvedimenti frammentari e ad effetto guidati da preoccupazioni di consenso. Si è inoltre rinunciato alla revisione del catasto dei fabbricati che era in dirittura d’arrivo e necessario avviare, e si è eliminata l’imposizione patrimoniale sulla casa di abitazione. Con le modifiche dell’Irap, della Tasi, e con le misure connesse all’obbligo di pareggio di bilancio e al funzionamento del fondo di solidarietà si è svuotata l’autonomia impositiva di regioni ed enti locali. Si è rinviato l’esercizio della delega di revisione delle cosiddette tax expenditures, che sono viceversa di molto aumentate. In tema di tassazione delle rendite finanziarie è stato aumentato il differenziale con la tassazione dei titoli pubblici, e nel complesso, pur essendo l’obiettivo condivisibile, il sistema il sistema è stato reso sempre più irrazionale.
8. Per quanto riguarda le riforme “strutturali”, quella più importante per il Governo era ovviamente la riforma istituzionale. Oggi è senso comune criticare Renzi per aver “personalizzato” e politicizzato lo scontro sul referendum confermativo, ma il problema nasce prima. La personalizzazione infatti è avvenuta immediatamente, fin dall’inizio del dibattito parlamentare quando Renzi ha imposto la sua peculiare visione della riforma senza accettare critiche né mediazioni, visione che aveva a cuore nella sostanza il fatto che i futuri senatori non dovessero beneficiare di alcuna retribuzione per ridurre i costi della politica oltre a quella derivante dalla drastica riduzione del loro numero. Questo è stato l’unico punto considerato irrinunciabile perché tutto il resto della proposta iniziale è stato oggetto di cambiamento per cercare convergenze tattiche. Questo approccio ha compromesso fin dall’inizio la possibilità di successo della riforma. Ed in verità il dibattito parlamentare al Senato mostra chiaramente che se si fossero accettati due punti essenziali, vale a dire che anche il numero dei deputati fosse ridotto a 400, e quello dei senatori a 200, e che i senatori fossero eletti direttamente dal popolo, ferma restando la differenza delle funzioni delle due assemblee e l’attribuzione del voto di fiducia alla sola Camera dei Deputati, la riforma avrebbe ottenuto un consenso molto ampio evitando la necessità del referendum, o comunque depotenziandone la portata politica. E’ qui emersa una caratteristica di fondo dell’approccio di Renzi alle riforme: la necessità di determinare in ogni caso rotture, divisioni, contrapposizioni, secondo una logica amici-nemici che, a ben vedere, riguardava principalmente una parte rilevante della sua costituency e del suo stesso partito. La questione di fondo era ideologica: le tradizionali posizioni della sinistra italiana non dovevano avere più legittimità: esse rappresentavano comunque il vecchio, qualcosa da rimuovere e “rottamare”.
9. La stessa logica è stata seguita sul jobs act, dove l’avversario principale è diventato il sindacato e in particolare la CGIL. Una riforma contro, quindi, e non una riforma utile per tutti. E anche in questo caso sarebbe stato sufficiente evitare alcuni eccessi e adottare, per esempio, il modello di contratto a tutele crescenti proposto da tempo da Tito Boeri, per ottenere un consenso pressoché unanime. Il risultato è stato quello di rischiare di sottoporre il Paese ad un ‘altra prova referendaria di cui non si sentiva certo il bisogno. Sui vouchers si sono allargate le maglie senza pensare ai possibili abusi, tanto che ora sarà necessario un intervento correttivo.
10. La riforma della scuola è avvenuta secondo lo stesso approccio: anche in questo caso il “nemico” era inizialmente il sindacato, ma ben presto sono diventati gli insegnanti. Il modello proposto è stato quello dell’autonomia scolastica interpretata come meccanismo in grado di simulare una sorta di mercato all’interno del settore pubblico, meccanismo che avrebbe inevitabilmente aumentato le diseguaglianze nei livelli di insegnamento tra le diverse zone del Paese e quartieri delle città. Ciò di cui avrebbe invece bisogno la scuola italiana è una modernizzazione dei programmi, un ripensamento dei cicli scolastici, una migliore qualità dei docenti, una carriera per i docenti, e investimenti rilevanti per ridurre le distanze tra le scuole di migliore qualità e le altre, rivalutando il ruolo sociale dei docenti, limitando le ingerenze indebite delle famiglie, prevedendo concorsi per le assunzioni, ecc. Ora il Governo Gentiloni è costretto a ritornare indietro (anche troppo) su alcuni punti della riforma cercando un accordo con i sindacati. E’ stata giusta l’introduzione nella nostra scuola dell’alternanza tra studio e lavoro. Ma al solito con fondi insufficienti e senza adeguata regia. Rimane non coordinato il canale dell’istruzione professionale di competenza statale con quello di competenza regionale e manca un Sistema Nazionale di Valutazione. Anche la ricerca pubblica non ha avuto alcuna razionalizzazione visto che non si è posto mano alla dispersione dei centri e al loro scarso coordinamento. L’Italia rimane nel mezzo delle due grandi direttrici della ricerca, quella dei grandi progetti diretti ai paradigmi tecnologici e che mettono insieme alte capacità realizzative industriali, Università, centri di ricerca (che può solo svolgersi come partecipazione a progetti di ricerca internazionali, in primo luogo quelli europei) e quella che si adatta alle situazioni concrete e esigenze tecnologiche specifiche. Di fatto l’Italia non segue né l’una né l’altra. Sebbene siano stati finalmente aumentati, dopo anni di tagli, i fondi per la ricerca pubblica, questi sono stati allocati in modo tale da suscitare una vera e propria sollevazione della comunità scientifica. L’eccessivo affidamento a criteri di mercato, soprattutto attraverso criteri di valutazione tecnicamente molto discutibili, si è riprodotto con l’Università producendo gli stessi problemi della scuola di determinare una frattura e differenziazioni che senza governance e correttivi del processo, rischiano di penalizzare pesantemente gli Atenei meridionali, non si capisce con quale vantaggio per il Paese.
11. La riforma della giustizia è rimasta al palo. In questo caso, la categoria presa di mira è stata quella dei magistrati attaccati sulle ferie, sulle retribuzioni e sulla età pensionabile, sulla quale, peraltro, si è fatta una parziale marcia indietro che si spera non diventi totale. In questo caso, tuttavia, va riconosciuto che, data la composizione del Governo, la riforma non era agevole. Va però sottolineato che il problema della legalità (corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata) non sembra essere stato al centro delle preoccupazioni e del programma di Governo. In diverse occasioni Renzi ha negato che in Italia esista un problema di evasione di massa, o che in alcune regioni italiane il potere dello Stato è contestato e talvolta vanificato dall’esistenza delle mafie. Molta propaganda è stata fatta all’Autorità anticorruzione guidata da Cantone, e sono state approvate nuove norme, secondo alcuni insufficienti, ma il punto di fondo è che i tre fenomeni sopra ricordati sono intrinsecamente collegati e andrebbero affrontati insieme e posti all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, cosa che non è avvenuta. Uno degli strumenti possibili era quello di varare finalmente una buona legge sui partiti, legge di cui si è parlato, ma che non ha fatto passi avanti.
12. Quanto alla riforma della PA, si è seguito un vecchio modello, già sperimentato e fallito più di una volta, secondo una visione organicistica della PA, attaccando la dirigenza pubblica e portando alle estreme conseguenze una logica privatistica che mal si adatta al settore pubblico i cui dirigenti non possono essere assimilati a quelli delle imprese private, ma necessitano di competenze specifiche e specializzazioni. Anche in questo caso la riforma si è esposta a rilievi di ordine amministrativo e costituzionale.
13. Alla luce delle considerazioni precedenti, è difficile sostenere che quella del Governo Renzi sia stata un’esperienza positiva. Il Paese è oggi più diviso, il PD è politicamente isolato (salvo l’alleanza con Alfano e Verdini) ed è diviso, data la radicalità dello scontro sul referendum, si sono verificate fratture nelle famiglie e nelle amicizie. Le riforme sono state contestate e in parte sono rimaste sulla carta. L’opinione pubblica è confusa, disorientata, arrabbiata, e sempre più influenzabile da posizioni qualunquiste e di antipolitica. Dopo il risultato del referendum è inoltre diffusa, soprattutto all’interno dell’establishment la convinzione che il Paese è irriformabile e rassegnato al proprio destino. La colpa sarebbe della gente che non capisce. Ma così non è, la gente desidera riforme, ma vorrebbe capirne finalità e modalità, desidera essere coinvolta, e soprattutto vedere una classe dirigente preoccupata dei problemi e delle difficoltà dei cittadini comuni. Soprattutto ci sarebbe bisogno di un a classe dirigente competente e all’altezza. Uno dei lasciti del Governo Renzi rischia di essere proprio quello di aprire la strada a una classe dirigente ancora meno qualificata.

L’eros in classe

segnalato da Barbara G.

Sesso e viralità, perché l’educazione all’eros in classe è ancora un tabù

di Alex Corlazzoli – ilfattoquotidiano.it, 20/09/2016

Profilo bloggerOggi di Tiziana non si parla più. Sono bastati un paio di giorni per dimenticare il caso della 31enne di Casalnuovo di Napoli che si è tolta la vita per la gogna online a seguito di un video hot condiviso su WhatsApp e diventato virale. Tiziana è già fuori dalla cronaca. Tra qualche settimana non ci ricorderemo nemmeno il suo nome e il suo cognome.

Ma devono restare alcune domande a tormentarci: perché una ragazza di 31 anni ha voluto filmare la sua intimità? Perché una giovane donna ha condiviso via WhatsApp la nudità del suo corpo? Perché così tante persone hanno reso pubblici quei pochi minuti, quegli istanti di sesso tra un uomo e una donna? Che interessava al popolo del Web vedere due corpi che si intrecciano?

Ciò che è accaduto non riguarda Tiziana ma tutti noi. Se anche dovessimo dimenticare il caso della ragazza di Casalnuovo non possiamo girare pagina. E’ di stamattina il caso, riportato dalCorriere della Sera di due coppie di fidanzatini cagliaritani di 14 e 16 anni che si sono lasciati fotografare a letto nudi. Un gioco, hanno spiegato. Ancora una volta quelle immagini finiscono in Rete, su WhatsApp e poi su Facebook. Scatta la denuncia, le indagini e la goliardata finisce. Inizia la gogna.

Ancora domande: tutta colpa del Web? Dei social network?

Al festival della filosofia di Modena, domenica, Umberto Galimberti si è scagliato contro la digitalizzazione della scuola, contro una scuola che si butta sui computer.
Qualche ora dopo Enzo Bianchi ha parlato dell’animalità dell’uomo ricordando che “nella società spettacolarizzata la sessualità è spersonalizzata. Le giovani generazioni soffrono di analfabetismo erotico”.

Troppo facile dare la colpa al Web, allo strumento, alla tecnologia. La vicenda di Tiziana e dei ragazzi di Cagliari ci riporta più in là, al compito essenziale di chi educa: non nascondersi dietro la foglia di fico, affrontare gli argomenti della vita.
Ha ragione il priore di Bose: l’educazione all’eros deve diventare una priorità. Oggi, in classe (dalla primaria alla secondaria di secondo grado), quando parli di sessualità partono i risolini. Nelle scuole di questo Paese parlare di sessualità (compresa l’omosessualità) è ancora un tabù. Quando ho affrontato questo argomento in una classe quinta, mentre iniziavo a parlare, Marco si è alzato ed è andato a chiudere la porta della classe (sempre aperta nelle mie ore). Al momento non ho capito perché l’avesse fatto. Ho riaperto la porta e dopo qualche minuto il mio alunno si è alzato a richiuderla. Alla terza volta ho chiesto a Marco: “Perché chiudi la porta?”. Risposta: “Sai maestro quando si parla di certe cose…”.
Eppure dobbiamo chiedere ai nostri alunni senza paura: cos’è l’amore per te? Cos’è il sesso?

Quando una Tiziana di turno si suicida spargiamo lacrime di coccodrillo, commenti scontati. Troppo tardi.
I nostri ragazzi sono analfabeti dell’eros ma anche analfabeti digitali.
Galimberti (e non solo lui) è convinto che i nostri giovani sappiano già tutto e che a scuola ci sono troppi insegnanti che prediligono lo schermo. Non è così: i nostri ragazzi e noi insegnanti siamo la generazione che passa parecchie ore davanti ad un computer ma non conosce le regole del Web e non lo sanno usare come strumento che può arricchire ma si fa usare per far arricchire.
Il Garante della privacy in questi giorni ha chiesto l’introduzione dell’educazione civica digitale tra le materie scolastiche. Sacrosanto appello ma dobbiamo dirci con franchezza che oggi non si fa nemmeno educazione civica.
Se non vogliamo più leggere casi come quello di Tiziana abbiamo una sola strada da percorrere: formare chi educa, ri-assegnare il compito di maestro della vita a chi entra in aula.

Come ti confeziono il nemico

segnalato da Barbara G.

di Chiara Cruciati – ilmanifesto.info, 21/10/2015

Saggi. «La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione», di Nurit Peled-Elhanan. L’autrice analizza 17 manuali (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati negli istituti pubblici israeliani dal 1997 al 2009, evidenziando la fabbricazione della memoria collettiva ad uso e consumo dell’odio per gli arabi.

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Una scuola bilingue in israeliano e arabo a Gerusalemme © Foto Reuters

A quattro anni dalla sua prima pubblicazione arriva in Italia uno dei libri che meglio analizza la società israeliana e la narrazione collettiva su cui fonda la sua apparente unità: La Palestina nei libri scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione, di Nurit Peled-Elhanan (EGA-Edizioni Gruppo Abele, pp.288, euro 18) apre uno squarcio nel radicato sistema di propaganda interna che ha accompagnato per decenni la costruzione dello Stato di Israele. Un sistema che si regge su pilastri indiscutibili e che accompagna ogni israeliano nel percorso di crescita, dalla scuola all’esercito fino al mondo del lavoro: la disumanizzazione del palestinese, la cancellazione e l’omissione della narrativa araba, la creazione di una memoria collettiva in contrasto con la Storia.

Partendo dallo studio dettagliato di 17 libri (10 di storia, 6 di geografia e uno di studi civici) utilizzati nelle scuole pubbliche israeliane dal 1997 al 2009, Peled-Elhanan imbastisce un’analisi onesta ed approfondita della natura stessa dello Stato israeliano attraverso diversi strumenti: da «analista della narrativa», come si definisce nella prefazione, Peled-Elhanan intesse una trama fatta di studi sociologici e antropologici, esperienza diretta e conoscenza profonda della realtà politica e sociale israeliana, ricerca sul campo. I risultati si dipanano sotto gli occhi del lettore, in un incalzante elenco di esempi volti a dimostrare la tesi dell’autrice: la scuola è il primo mezzo di creazione della memoria collettiva, di una narrativa nazionale per uno Stato e un popolo frammentati, frutto di un’immigrazione «forzata» da ogni angolo del mondo. L’istituto scolastico è il cuoco che sforna un’identità condivisa e comune, non fondata su fatti storici ma sulla loro interpretazione, la loro negazione o la loro omissione.

Così la memoria fabbricata finisce per prevalere sulla Storia e si radica nelle menti delle giovani generazioni, mantenenedo in piedi una società che riproduce, sempre uguali a se stessi, i propri schemi mentali. La conseguenza, tuttora visibile in Israele, è la creazione a tavolino di una società «sotto assedio», convinta di essere preda di un mondo ostile. La «mentalità da accerchiamento», spiega l’autrice permette alle autorità di modellare l’individuo, accompagnarlo nel cammino da studente a soldato a lavoratore verso la forma mentis desiderata.

Gli esempi riportati nel libro variano, spaziando dalle immagini a corredo dei testi scolastici fino alla terminologia utilizzata. Merito dell’autrice è l’analisi del libro di scuola nella sua interezza: ne studia il linguaggio, le mappe, le immagini, la grafica. Niente è lasciato al caso, tanto meno la presenza più o meno occulta di giudizi morali ed etici. Ed ecco che i massacri compiuti dalle milizie paramilitari sioniste nel ’47 e ’48 (Haganah, Irgun-Etzel, Stern) si trasformano in «atti gloriosi, azioni di redenzione e salvezza, compiuti da ’superbi combattenti, eroi dall’eccellente audacia’».

A completare il quadro, c’è la presenza-assenza palestinese. Disegnando mappe senza confini, senza Linea Verde, dove la Cisgiordania diventa Giudea e Samaria e Gaza e le Alture del Golan Siriano parte integrante del grande Israele, l’altro, l’arabo, non esiste. E se esiste, spiega l’autrice, è marginalizzato o additato come pericolo all’identità ebraica nazionale. La Nakba, la catastrofe del popolo palestinese, non è citata o è giustificata; il palestinese è disumanizzato, descritto come selvaggio a cavallo di asini o cammelli, non educato, «geneticamente terrorista, rifugiato o primitivo», caricatura negativa di se stesso. È parte integrante di quel mondo araboin cui va esiliato, ma allo stesso tempo è privato della cultura e le tradizioni che nei secoli ha prodotto: «In nessuno dei libri di testo viene trattato, verbalmente o visivamente, alcun aspetto culturale o sociale positivo del mondo palestinese – scrive l’autrice – Né la letteratura, né la poesia, né la storia o l’agricoltura, né l’arte o l’architettura».

Muovendosi su piani diversi, evitando stereotipi e semplificazioni e curando i dettagli, Peled-Elhanan decostruisce il sistema della propaganda israeliana verso i suoi stessi cittadini. Il cui obiettivo è chiaro, come si legge nelle pagine finali: «I libri di testo presentano la cultura ebraico-israeliana come superiore a quella arabo-palestinese, il comportamento ebraico-israeliano come allineato ai valori universali».

La sua autrice, Nurit-Peled Elhanan, è docente di Educazione del Linguaggio alla Facoltà di Scienze dell’Educazione Linguistica alla Hebrew University di Gerusalemme e fondatrice del Tribunale Russell per la Palestina. Nel 2011 è stata insignita dal Parlamento europeo del Premio Sacharov per la libertà di pensiero e diritti umani. Un percorso, il suo, segnato da una storia personale strettamente intrecciata agli sconvolgimenti di questa terra: nipote di Avraham Katsnelson, che firmò la Dichiarazione di indipendenza di Israele e figlia del generale Matti Peled, in prima linea durante la guerra del ’48 e quella del ’67, perse sua figlia Smadar nel 1997 in un attentato suicida. La bimba aveva 13 anni.

Un evento drammatico che non ha modificato l’approccio di Nurit all’occupazione israeliana, ritenuta la responsabile della morte della figlia. E per questo la ricerca si rivolge al mondo fuori: «La versione originale è in inglese, poi tradotta in spagnolo, italiano e arabo – spiega Peled-Elhanan al manifesto – Non esiste in ebraico perché non avrei trovato editori. Ma soprattutto perché, trattandosi di una ricerca accademica, è rivolta a professori, ricercatori, studenti di tutto il mondo. Voglio parlare alle opinioni pubbliche straniere, nessuno getta mai lo sguardo sulla società israeliana».

«Il mio obiettivo era svelare l’architettura della propaganda sionista, un modello che si propaga a educazione, arte, letteratura, archeologia, musica, teatro. Tutte le discipline sono reclutate per dare vita a una storia comune che ovviamente il popolo israeliano non ha, provenendo da ogni parte del mondo». E il sistema, come si evince dal libro, è vincente: «Gli israeliani diventano buoni soldati da subito, dall’età di 3 anni – ci dice l’aturice – Molti di loro non hanno mai visto un palestinese prima di entrare nell’esercito e quando lo incontrano lo identificano come un nemico. È un sistema di successo perché pervasivo, invade ogni settore. Non c’è un’altra realtà visibile. Nessuno in Israele sa cosa sta succedendo in questi giorni, chi vive a Tel Aviv non lo sa, chi vive a Gerusalemme Ovest non mette piede a Gerusalemme Est».

La stagione dei referendum sociali

segnalato da Barbara G.

L’autonomia dei movimenti, la consapevolezza dei propri limiti, la voglia di connettere temi (la scuola, le trivellazioni, il ricatto del lavoro, gli inceneritori e l’acqua) e pezzi di società, ma soprattutto il rifiuto del dominio dall’alto. Il puzzle dei referendum sociali mostra, prima di tutto, mondi che vogliono una società diversa, qui e adesso. Ecco perché è un percorso tutto da accompagnare nei territori, a cominciare dal Firma day (14 e 15 maggio), con mille banchetti nelle piazze di tutta Italia

di Paolo Carsetti (*) – comune-info.net, 13/05/2016

In due anni di governo Renzi, abbiamo visto applicare nei fatti la nota lettera del luglio 2011 alla BCE, ispirata da una ferrea logica neoliberista. Su questa base, si è attaccato il ruolo della scuola pubblica, privatizzati i beni comuni e i servizi pubblici, aggredito l’ambiente, a partire dalle trivellazioni e dal moltiplicarsi degli inceneritori, abbattuti i diritti del lavoro. Con la controriforma costituzionale, poi, si progetta di rendere permanente quest’impostazione, passando attraverso la riduzione degli spazi di democrazia e il primato del potere esecutivo e dell’”uomo solo al comando”.

Queste scelte sono passate anche perché si è fatto pesare il ricatto della crisi; e tutto ciò in un quadro di debolezza della politica e di frammentazione, anche volutamente costruita, delle mobilitazione e dei soggetti che hanno provato a contrastarle.

Attraverso la campagna sui referendum sociali vogliamo provare ad invertire questa tendenza, in primo luogo rilanciando il conflitto e la mobilitazione diffusa contro quelle scelte. Soprattutto iniziando a dare gambe ad un processo di connessione e costruzione di legami tra i soggetti che hanno animato l’opposizione a quelle politiche. Da qui, pur con la consapevolezza della nostra parzialità, nasce la nostra idea di fondo di lanciare un’alleanza sociale dei movimenti per la scuola pubblica, di quello per l’acqua, della campagna contro la devastazione ambientale che si oppone alle trivellazioni e dal movimento che si batte contro il piano nazionale inceneritori.

In questo quadro, collochiamo anche l’opzione di ricorrere allo strumento referendario per abrogare e contrastare la legge 107 sulla scuola, la legislazione che consente le trivellazioni in mare e in terraferma, quanto prevede lo Sblocca Italia rispetto a un piano strategico per nuovi inceneritori e una grande raccolta di firme per una petizione popolare che vuole contrastare la ripresa dei processi di privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni promossa attraverso il decreto sui servizi pubblici locali attuativo della legge Madia e lo stravolgimento della legge d’iniziativa popolare per la ripubblicizzazione dell’acqua compiuta alla Camera il 20 aprile scorso con l’approvazione di un testo completamente diverso dall’originale (leggi Le mani sull’acqua di Marco Bersani).

È questa un’iniziativa e un percorso che muove dall’autonomia dei movimenti e dei soggetti sociali e, dunque, prevede che si costituiscano comitati promotori referendari composti da movimenti e soggetti sociali e comitati di sostegno in cui trovano posto anche i soggetti politici che concordano con tale iniziativa.

Con la nostra iniziativa, incrociamo anche il tema della democrazia e della sua espansione, che altro non è se non il rovescio della medaglia dell’affermazione dei diritti fondamentali. La nostra stagione dei referendum (e della raccolta firme) sociali, pur nella sua dimensione autonoma, vuole contribuire anche alla campagna per il NO alla controriforma istituzionale nel referendum confermativo che si dovrebbe tenere in autunno, con la convinzione che parlare di democrazia non significa ragionare puramente di architettura istituzionale ma del potere che hanno le persone di decidere sulle scelte di fondo che riguardano gli assetti della società.

Si apre una stagione di grande impegno, che necessita della mobilitazione e dell’intelligenza diffusa di tante persone nei territori volta a riprendere un rapporto largo con tante persone e soggetti interessati ad uscire dalla crisi affermando un’altra idea di modello sociale e di democrazia.

Per informazioni referendumsociali.info.

(*) Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua

Oggi è emergenza cultura

segnalato da Antonella

di Tomaso Montanari, vice presidente di Libertà e Giustizia

Il discorso è stato pronunciato in occasione della manifestazione Emergenza Cultura, che si è tenuta il 7 maggio a Roma.

Giuseppe Dossetti avrebbe voluto in Costituzione un articolo che dicesse che:

«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino».

Oggi tutti noi siamo in questa piazza romana perché sentiamo questo dovere. E perché vogliamo esercitare questo diritto.

Lo vogliamo fare con tutta la nostra voce: e siamo felici che alle nostre voci si aggiunga quella potente della tromba marina del Tritone di Gian Lorenzo Bernini, che oggi è un nostro speciale compagno di lotta.

In questi mesi una serie di decisioni scellerate di questo governo – un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare resa possibile da una legge formalmente dichiarata incostituzionale – sta di fatto sradicando dalla Costituzione l’articolo 9.

Denuciamo che oggi la Repubblica non promuove lo sviluppo della cultura.

Non promuove la ricerca.

Non tutela il paesaggio, cioè l’ambiente.

Non tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Oggi è emergenza cultura!

Nei primi colloqui che ho avuto con lui, il ministro Dario Franceschini (allora appena nominato) mi disse che il presidente del Consiglio aveva il progetto di abbattere la tutela pubblica del paesaggio e del patrimonio («far fuori le soprintendenze», mi disse). E che lui, il ministro, si sarebbe opposto.

Ebbene, i fatti – i fatti che ci hanno portato in questa piazza – certificano che quel confronto, se mai c’è stato davvero, l’ha vinto il presidente del Consiglio, e l’ha perso il ministro per i Beni culturali.

Anzi l’hanno perso il paesaggio e il patrimonio artistico: cioè tutti noi, e i nostri figli.

Noi chiediamo l’abrogazione dello Sblocca Italia: una legge criminogena che consegna l’Italia ai signori del cemento e del petrolio. Una legge scritta sotto la dettatura telefonica dellelobbies.

Vogliamo, invece, una legge che porti a zero il consumo suolo: una legge vera, non come quella, ipocrita e dannosa, che giace in Parlamento.

Chiediamo al governo di ritirare l’odioso provvedimento del silenzio assenso. Prima si sono svuotate le soprintendenze di mezzi e di personale. E, ora che non ce la fanno più a rispondere in tempi brevi, si vuol far pagare il conto ai cittadini: perché il famoso silenzio assenso servirà solo a costruire Grandi Opere Inutili. Utili, anzi, solo a chi le costruisce, e fatali per l’ambiente: e non di rado per la vita stessa dei cittadini, falciati da alluvioni e da frane provocate dal cemento.

Chiediamo al governo di rinunciare alla bestemmia del Ponte sullo Stretto.

Vogliamo l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento e la messa in sicurezza del territorio.

Chiediamo al governo di ritirare l’articolo della Legge Madia che mette le soprintendenze sotto i prefetti: che mette, cioè, la tutela tecnico-scientifica del territorio sotto il potere del governo stesso.

Nemmeno un governo eletto plebiscitariamente (e questo, notoriamente, non lo è) ha il potere di distruggere ciò che dobbiamo lasciare alle future generazioni. Siamo custodi, non padroni.

E la nostra voce è umile: ma contiene quella dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli: finché non si spenga la luna. È il futuro che ci supplica di non distruggere la bella Italia.

Vogliamo che la soprintendenza sia una vera magistratura del territorio e del patrimonio storico e artistico. Indipendente dal potere politico.

Chiediamo, dunque, che ad essere finanziato sia il bilancio ordinario della tutela: e che il governo rinunci alle misure propagandistiche e clientelari del miliardo a pioggia su siti già ricchi, mentre il patrimonio diffuso (cioè il 90% del patrimonio), e le biblioteche e gli archivi muoiono, inesorabilmente, di fame e di sete.

Chiediamo che cessino l’umiliazione, il disprezzo e il mobbing di Renzi e Franceschini contro i lavoratori del Ministero per i Beni culturali. Un’arroganza intollerabile sta colpendo chi ha dedicato la vita a questi insostituibili beni comuni.

Quei funzionari che hanno provato a parlare con noi in questi giorni sono stati colpiti da provvedimenti disciplinari: imbarazzanti, umilianti anticostituzionali.

Ma queste misure fasciste non ci intimidiscono: la nostra voce è la loro voce.

Vogliamo che la cultura diventi davvero un servizio pubblico essenziale: ma non per comprimere i diritti sindacali dei lavoratori che la fanno vivere, ma perché tutti possano accedervi, gratuitamente.

E chiediamo che i ministri della Repubblica che non garantiscono questo servizio, si dimettano.

Chiediamo lavoro per i nostri laureati, specializzati, dottorati. Chiediamo lavoro Vero: non Nero.

Non stages. Non tirocinii. Non contratti di formazione. Non volontariato. Non assunzioni una tantum a numeri tondi: che servono solo alla propaganda del ministro.

Vogliamo un lavoro vero, dignitoso, sicuro. Con assunzioni regolari, ogni anno.

Diciamo no ai musei-supermercato, con direttori, consigli d’amministrazione e perfino consigli scientifici nominati dalla politica, nazionale e locale.

Vogliamo invece che i musei siano vissuti da comunità di ricercatori residenti: che ne facciano spazi di cittadinanza inclusivi, luoghi liberi dal mercato e dal marketing. Luoghi di cultura vera: cioè libera.

Vogliamo una scuola buona: non la #buonascuola.

Non vogliamo una scuola che sia l’avviamento alla vendita del brand Italia.

Vogliamo, invece, che a scuola gli italiani imparino fin da bambini la storia dell’arte come una lingua viva.

Per saper leggere, per saper amare, per saper godere di questo paese ancora, nonostante tutto, straordinariamente bello.

Oggi siamo in questa piazza per la cultura. Ma cos’è la cultura?

La cultura è la costruzione della nostra umanità.

La cultura è lo strumento per esercitare la nostra sovranità.

È la misura della nostra capacità di partecipare alla democrazia.

La cultura è un antidoto al potere totalitario del mercato.

La cultura è la condizione fondamentale per il pieno sviluppo della persona umana, per un’inclusione vera, per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale.

La cultura – ha detto Claudio Abbado – serve a distinguere il bene dal male. A giudicare chi ci governa. La cultura salva.

«La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione»

Siamo qua per chiedere con tutta la nostra voce che il nono articolo della Costituzione italiana non venga tradito, estirpato, distrutto.

Siamo qua per chiedere che venga finalmente attuato

Non smetteremo di combattere finché questo non accadrà.

Grazie per aver condiviso il cammino di emergenza cultura. Questo è solo l’inizio.

W l’articolo 9, W la Costituzione, W la Repubblica!