Una sintesi dell’intervento di Marta Fana alla puntata di Coffe Break, 22/01/2018.
Una sintesi dell’intervento di Marta Fana alla puntata di Coffe Break, 22/01/2018.
segnalato da Barbara G.
L’assurdo caso di una barista senza tutele. Ha chiesto un giorno libero per un grave lutto familiare. Che non le è stato concesso perché doveva richiederlo con una settimana di anticipo. «Sono disperata, ma la morte non avvisa prima». Prosegue la nostra inchiesta sul lavoro degli italiani: inviateci la vostra segnalazione a espressonline@espressoedit.it
di Maurizio Di Fazio – espresso.repubblica.it, 10/07/2017
Sono barista e commessa da 18 anni. Lavoro in nero da sempre. 3 euro e 50 l’ora, 53 ore la settimana, compresi il sabato e la domenica. Ferie e malattie non retribuite. Una figlia piccola a carico. Ho avuto, ieri, un grave lutto in famiglia e ho chiesto il giorno libero per recarmi ai funerali. Ma sapete cosa mi è stato risposto? ‘Il permesso non può esserti concesso’, perché avrei dovuto avvisare una settimana prima. E io ho replicato: ‘la morte non ti avvisa prima’.
Questa è la storia di Fulvia, vittima di ordinario sfruttamento in un centro commerciale italiano che non arretra nemmeno di fronte al tabù dell’evento più “straordinario” di tutti: la fine. Omettiamo il suo cognome perché del suo lavoro, nonostante non le riconosca i diritti più elementari come quello di dare l’ultimo saluto a un parente stretto, non può farne a meno. “Sono indignata. Non hanno rispetto neanche di un lutto. Sono disperata. Non ce la faccio più a sopportare tutto questo, le umiliazioni davanti ai clienti in primis, per una manciata di euro”. La testimonianza di Fulvia deve aver toccato un nervo scoperto e infranto un vaso di Pandora vista la catena di reazioni e rivelazioni che ha suscitato su Facebook.
Scrive Rosy N.: «22 anni fa, appena arrivata a Roma, sono stata per due anni in nero con la promessa del contratto. Poi è morta mia nonna, e mi hanno riservato lo stesso trattamento che è toccato a Fulvia. Impaurita e disgustata, ho cercato un altro lavoro ma prima ho aperto una vertenza sindacale che ancora se la ricordano. Avevo tanta di quella paura; ma i tre giorni di lutto previsti per legge me li sono fatti tutti».
La normativa nazionale (legge n. 53/2000 con relativo regolamento di attuazione D.M. 21.07.2000 n. 278) prevede questo: “La lavoratrice e il lavoratore hanno diritto a un permesso retribuito di tre giorni lavorativi all’anno in caso di decesso o di documentata grave infermità del coniuge o di un parente entro il secondo grado, o del convivente”. Permessi retribuiti dall’azienda pure per i lavoratori con contratto a tempo determinato. Ma quelli in nero come Fulvia (da quasi 20 anni…) sono tagliati fuori e la stessa prassi distorta investe, spesso, i dipendenti (privati e pubblici) contrattualizzati. «Io lavoro in un ex Provveditorato agli studi, un comparto, perciò, statale – afferma Ornella G. – a un collega che chiedeva un permesso per il funerale di un congiunto di primo grado, il dirigente gli ha sibilato che non poteva concedergli più di un’ora».
Paola V.: «Non troppo tempo fa, nonostante un regolare contratto a tempo indeterminato, quando morì mio zio, a cui ero legatissima, non mi consentirono di andare via un giorno prima. Volevo rivederlo un’ultima volta, anche se da defunto e dentro una bara. Sono arrivata al cimitero a funerale iniziato».
Stefania G.: «Cara Fulvia, capisco benissimo la tua rabbia. Successe anche a me. Chiesi un giorno di permesso per la cerimonia funebre e mi venne risposto: “Dovevi pensarci 15 giorni fa”».
Ma la morte non avvisa prima, non timbra il badge. «Mi è capitato varie volte che morisse un nostro collega di lavoro, che magari conoscevamo da 30 anni, ma non potevamo partecipare al suo funerale perché la produzione doveva andare avanti, solo chi era fuori turno poteva andarci – racconta all’Espresso Francesco Iacovone, sindacalista del settore commercio -. Per non dire delle battaglie per poter abbassare anche solo un minuto gli altoparlanti che diffondono la musica nei centri commerciali, quando muore uno di noi. Capita persino che blocchino le comunicazioni di morte per farti finire regolarmente il turno. L’azienda viene a conoscenza prima di te del decesso di tua madre, tua moglie o tuo nonno, ma non ti dice nulla per non lasciare scoperta la cassa». Il profitto über alles, che viene prima di tutto: prima della vita, e prima della morte.
segnalato da Barbara G.
Lavorano in condizioni disumane attorno al “villaggio della solidarietà” voluto dal governo Berlusconi. Il Cara di Mineo è diventato una fabbrica di braccianti a basso costo. Richiedenti asilo che l’Italia dovrebbe proteggere e che invece finiscono nella filiera dello sfruttamento. Lo rivela la seconda edizione del dossier “Filiera sporca”
di Giovanni Tizian – espresso.repubblica it, 23/06/2016
Il Cara di Mineo
Fuggiti da guerre e dittature. Accolti in Italia da caporali e sfruttati come schiavi nei campi di arance rosse. Il frutto siciliano più pregiato, e venduto in tutto il mondo, raccolto dai migranti del Cara di Mineo: il grande “villaggio della solidarietà” voluto dalla coppia Maroni-Berlusconi e grande affare per cooperative bianche, rosse e S.p.a. del calibro di Pizzarotti. Già, perché il centro per richiedenti asilo altro non è che un insieme di villette all’americana destinate, un tempo, ai militari dell’Us Navy della vicina Sigonella. La proprietà è del colosso imprenditoriale di Parma, Pizzarotti, che riceve annualmente un lauto compenso.
Il villaggio della solidarietà è un complesso costruito nel nulla. In un deserto dell’entroterra siculo, tagliato in due da una lingua d’asfalto chiamata Catania-Gela. Strada tra le più pericolose d’Italia per numero di incidenti. Da una parte colline e rocce, dall’altra aranceti a perdita d’occhio. Nell’attesa di ricevere lo status di rifugiati molti migranti hanno iniziato a lavorare nelle campagne limitrofe. Una manna dal cielo per quegli imprenditori che cercano di limare il più possibile sui costi di produzione. Alle storie dei nuovi schiavi delle arance è dedicato un intero capitolo del secondo rapporto “Filiera Sporca”.
Grafico Produttori I dati relativi al 2011-2012 indicano che in Sicilia ci sono 5692 produttori e 45 OP con una media di 126 produttori per OP. Per avere un termine di paragone basti pensare che in Emilia Romagna ci sono 25 OP per 26.790 produttori e in Trentino Alt Adige ci sono 7 OP per 26.741 produttori. Anche un report della Commissione europea pubblicato nel 2014 sottolinea che “in Italia il tasso di organizzazione dei produttori relativamente elevato a livello nazionale (circa 47%) risulta dalla media tra l’elevato tasso di organizzazione in alcune regioni settentrionali e la scarsa organizzazione in numerose altre regioni”
Una vera e propria inchiesta sul campo. Oltre che una campagna di sensibilizzazione che pone questioni politiche irrisolte. La repressione del caporalto non è sufficiente. Alla base dello sfruttamento in condizioni disumane in cui costretti a lavorare i richiedenti asilo c’è il fallimento di un sistema industriale, che avvantaggia pochi e affama molti. Il progetto di ricerca è il frutto di una joint venture tra diverse associazioni: daSud, Terra!, Terrelibere.org, con il patrocinio di Open Society Foundation.
I giornalisti che hanno curato la seconda edizione di “Filiera sporca” analizzano i diversi passaggi della produzione: dalla concimazione alla grande distribuzione. E nel mezzo la descrizione delle singole storture che inquinano il settore e le deviazioni che portano, poi, all’impoverimento dell’intero mercato.
Chi vive sulla propria pelle tutte le contraddizioni del neoliberismo applicato all’agricoltura sono loro, i migranti, gli anelli più deboli e indifesi della catena. Marcus, per esempio, è scappato dal regime del Gambia. Come tanti suoi coetanei e connazionali sognava l’Europa. Il continente dei diritti, delle opportunità, del lavoro senza ricatti. Eppure prima in Libia, poi in Italia, ha trovato esattamente il contrario: schiavitù e ricatti. È uno dei tanti rifugiati che invece di essere protetto raccoglie arance destinate alla trasformazione (diventeranno i succhi che compriamo nelle nostre città) per pochi euro al giorno.
«O così, Marcus, oppure ne troviamo a centinaia», gli ha detto il padrone siciliano. E Marcus che non è libero di poter scegliere ha accettato di essere sfruttato. È arrivato a Lampedusa dopo un giorno di mare con il gommone. Dopo avergli preso le impronte lo hanno traferito nel “villaggio della solidarietà” di Mineo. In quel nulla di cemento sul quale persino mafia Capitale ha fatto affari. Qui, per lui, inizia una lunga attesa.
Il costo delle arance
Il Gambia è riconosciuto come un paese sotto dittatura. Arrivano migliaia di gambiani da anni. Ma ogni volta si inizia da zero. Una lunga procedura burocratica in attesa di incontrare la commissione che deve valutare le richieste degli aspiranti rifugiati. A volte danno un pocket money da 2,5 euro al giorno, a volte sigarette e una carta telefonica. «Ma io non fumo. Mi servono soldi da mandare ai miei genitori malati» dice Marcus. Tutti i migranti del Cara hanno presentato richiesta d’asilo. Chi la ottiene avrà i documenti. Gli altri dovrebbero essere espulsi. Negli ultimi anni, per avere una risposta passavano anche 24 mesi. Altrettanti per il ricorso in caso di diniego. Non è stata predisposta una commissione all’interno, la più vicina è a Siracusa. Così, rispettare i termini di legge è impossibile.
Che fare durante tutto questo tempo? La direttiva europea prevede che dopo sei mesi un richiedente asilo abbia un permesso temporaneo. In questo modo può lavorare regolarmente. Eppure, in passato, spesso non veniva consegnato. Per ottenerlo bisognava fare ricorso, come hanno denunciato gli avvocati Asgi. «Dunque si può scegliere tra limbo e schiavitù. Basta un rapido giro per incontrare estensioni senza fine. di piccoli proprietari e grandi latifondi. Tutti hanno bisogno di braccia. I padroni senza scrupoli scelgono quelle a basso costo» scrivono gli autori del rapporto. «Ho comprato una bicicletta qui dentro per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le 8. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno per la giornata», Marcus è diventato una merce a basso costo. Un bracciante senza diritti. Le condizioni di lavoro sono durissime.
«Ma non è questa la cosa più grave. Dove vanno a finire le arance raccolte dai rifugiati? Fanno parte di un circuito illegale parallelo? Oppure confluiscono nel normale flusso che porta al succo delle multinazionali?». Un salto nel buio del passato della Sicilia, terra di rivolte, di sindacalisti uccisi da cosa nostra per aver difeso i contadini dall’arroganza dei latifondisti.
La trasparenza delle aziende Chi ha risposto e chi no alle domande degli autori del dossier. Molte aziende della Gdo, come si evince dai grafici, hanno evitato il confronto
«Accanto al Cara di Mineo non ci sono soltanto i campi di arance. Ci sono i magazzini di conferimento, dove i produttori portano le arance. E ci sono le industrie di trasformazione. Che vendono ai maggiori marchi, dai supermercati alle multinazionali del succo. Tra le arance che finiscono nel normale circuito distribuitivo possono esserci anche quelle raccolte dai richiedenti asilo del Cara?» si chiedono in i giornalisti del dossier.
A questo interrogativo gli autori cercano di rispondere coinvolgendo i diretti interessati: «Diciamo che può essere una realtà» spiega il presidente di una cooperativa che si trova nei pressi di Mineo. «Noi siamo un punto di incontro per i produttori ma se qualcuno di loro mette al lavoro persone provenienti dal Cara non è nelle mie competenze verificarlo. Quello che posso fare io è sensibilizzare i produttori a una cultura del lavoro differente». «La ricerca sul campo, e il tentativo di risalire la filiera che dal Cara di Mineo porta alla produzione di succhi, non vuole puntare il dito contro nessuna azienda. Quella che emerge però è la fotografia di una filiera estremamente frammentata in cui nessuno può essere certo delle condizioni di lavoro in cui la raccolta delle arance avviene».
La soluzione? «Un’etichetta trasparente per eliminare ogni dubbio sull’eticità di ciò che stiamo bevendo». Per capire fino in fondo se l’aranciata nel nostro frigorifero è stata prodotta da braccia che fuggono da guerre. Trasformate da imprenditori europei in schiavi senza futuro.
segnalato da Barbara G.
E’ dello scorso anno, ma val la pena rileggerlo….
di Luca Billi – ipensieridiprotagora.blogspot.it, 04/04/2015
In questo verbo, la cui etimologia risale – come per gran parte della nostra lingua – al latino, si riconosce un’antica radice am- che ha il significato di prendere e di comperare.
Nei giorni scorsi un’agenzia di lavoro interinale ha diffuso un volantino per pubblicizzare i propri servizi. Al di là della retorica commerciale, credo sia utile riportare alcuni degli slogan utilizzati.
Vinci la crisi, cosa stai ancora aspettando: chi utilizza un lavoratore interinale rumeno risparmia. Beneficia del massimo della flessibilità ed in più: niente Inail, niente tredicesima, niente Inps, niente quattordicesima. Niente malattia, niente Tfr, niente infortuni, no problems, niente consulenti paghe. Alla tua azienda non rimane che pagare undici mensilità e non più 14 più Tfr, come stai facendo, ed in più senza nemmeno dover anticipare l’Iva essendo le nostre fatture intracomunitarie.
C’è un po’ di inglese, che fa sempre “moderno”, come insegna il presidente del consiglio. Ma soprattutto è un inno alla libertà: nessun vincolo, nessun controllo, nessuna complicazione. Finalmente un lavoratore che non dà problemi.
Uscita la notizia, i corifei del renzismo – compreso il sedicente professor Taddei, responsabile economico del partito mal nato – hanno detto che si tratta di comportamenti illegali e che, come tali, dovranno essere perseguiti. Naturalmente queste prese di posizione – per quanto in malafede – mi fanno piacere – evidentemente qualcuno in quel partito ha ancora il senso della vergogna – ma mi pare che la questione non possa essere liquidata in questo modo.
Il problema è che tutti questi predatori sentono ormai l’odore del sangue, vedono che le loro vittime sono braccate, indifese e ferite, sanno che non ci sono più limiti alla loro ferocia. E quindi attaccano. Qualcuno, come l’estensore di questo volantino, lo fa in maniera scomposta e probabilmente rimarrà a bocca asciutta. Ma tutti gli altri lo stanno facendo in silenzio, senza gridare, senza vantarsi, ma con la stessa cinica indifferenza per gli altri.
Vuoi continuare a lavorare? Va bene, sei brava. Ma intanto ti riduco l’orario di lavoro da 40 a 35 ore, anche se naturalmente continuerai a lavorare 40 ore, senza essere pagata per quelle cinque ore in più. Lei si può rifiutare? Teoricamente sì, ma praticamente no, perché il suo stipendio è l’unico che arriva in casa – e ovviamente il suo padrone lo sa – e ci sono altre venti ragazze che potrebbero sostituirla. Naturalmente questo non lo troverete scritto in nessun volantino, ma succede, è successo. E deve anche ringraziare di avere ancora un lavoro.
Al di là della retorica, questo è il renzismo. Al di là dei provvedimenti legislativi, che sono molto negativi e che hanno riportato il nostro paese agli anni Cinquanta, è il clima politico e sociale ad essere cambiato. I padroni sanno che questo governo è apertamente schierato al loro fianco, perché ogni giorno dice che deve essere più facile licenziare, perché non fa nulla per impedire che padroni disonesti si comportino in questo modo, perché non fa nulla di concreto per alleviare la crisi e la crisi è la migliore alleata dei padroni che vogliono sfruttare i lavoratori. Perché i padroni, questi padroni, con la crisi ci guadagnano: il lavoro costa meno – solo undici mensilità, come recita il volantino – ma loro continuano a venderci le cose prodotte da quel lavoratore meno “pretenzioso” allo stesso prezzo, e quindi la differenza, che è cresciuta, va tutta in tasca a loro. Alla faccia della crisi.
E quindi, benvenuti nel paese dove i lavoratori non si assumono, si comprano.
Intervista. Le ragioni che hanno spinto una donna americana a decidere di partorire una bimba per una coppia che non può avere figli.
di Luca Tancredi Barone – ilmanifesto.info, 1 febbraio 2016
C’è un fantasma che ieri si aggirava per il Circo Massimo. È lo spauracchio che brandiscono le famiglie «canoniche», la minaccia che mina i pilastri della società italica maschia, ordinata ed eterosessuale. È il male assoluto che temono uomini e donne di destra e di sinistra, eterosessuali e anche molti e molte omosessuali. Ha la faccia di Kathy, trentanovenne statunitense, acconciatrice ed estetista, due figlie di 9 e 6 anni, un marito italiano. E un sorriso bellissimo. Lei ha scelto di essere una gestante per altri, una madre surrogata. Le tre parole che secondo lei definiscono le persone che decidono di fare la sua scelta sono «altruismo, orgoglio, regalo».
Perché ha deciso di prestarsi a portare in grembo il figlio di qualcun altro?
C’è una cosa che unisce me e mio marito: la voglia di aiutare gli altri, di restituire alla società qualcosa in cambio di tutte le opportunità che abbiamo ricevuto dalla vita. Ognuno ha scelto di farlo a modo suo. Essere gestante per altri è una cosa speciale che possono fare solo le donne. Sapevo che non desideravamo altri figli per noi. L’esperienza delle mie gravidanze mi era piaciuta. Durante la mia vita ho conosciuto moltissime coppie frustrate per le loro difficoltà ad avere figli. E ho un’amica del liceo che lo ha fatto, leggere il suo blog mi ha ispirato.
Che bisogna fare per diventare gestanti per altri?
Io mi sono rivolta a un’agenzia. Negli Stati Uniti ce ne sono decine. Io ne ho scelta una che lavorava localmente con madri e coppie del Texas e gestita da una donna. Bisogna fare domanda, superare una serie di esami psicologici, fisici ed economici. Ovviamente vogliono che tu sia fisicamente sana, ma anche che sia una persona equilibrata, capace di saper gestire le difficoltà – a volte ci vuole del tempo per rimanere incinta -, di saperti mettere in relazione con gli altri – perché dovrai mantenere un rapporto con i futuri genitori durante tutto il processo -, che abbia già avuto figli, e che non abbia alcuna difficoltà finanziaria o bisogno di denaro.
Come ha incontrato i futuri genitori?
La prima coppia che ho incontrato era una coppia eterosessuale. All’inizio, ti ci fanno parlare per telefono, poi ti incontri da qualche parte per chiacchierare. Ma con quella coppia non c’è stata chimica. Il marito era simpatico, ma la moglie era troppo ossessiva. Avevo l’impressione che avrebbe voluto controllare la mia vita, quello che mangiavo, quando riposavo. Così ho chiesto all’agenzia di farmi incontrare una coppia gay, perché mi sembrava che così nessuno avrebbe voluto amministrare il mio corpo. Per me è importante stabilire una relazione di fiducia: fai quel che è giusto, ci fidiamo. Dopo una settimana ho incontrato questa coppia di papà: tra l’altro, uno dei due è italiano, all’agenzia sembrava l’accoppiamento ideale con noi. Una donatrice anonima ha fornito gli ovuli, ed è nata una bella bambina 11 mesi fa.
Lo rifarebbe? Com’è stata l’esperienza?
Dal punto di vista emotivo e mentale, bellissima. Fisicamente invece ci sono state delle complicazioni gravi alla fine della gravidanza. Tanto che è finita con un’isterectomia, per cui non lo potrei rifare, no.
Un trauma, quindi.
Ci siamo spaventati quando abbiamo saputo che la placenta era cresciuta fuori dall’utero e che questo avrebbe potuto mettere in pericolo la mia vita. Mi hanno costretto al riposo assoluto. È durata tre settimane, fino al parto che è stato anticipato per questo. C’è stata una convalescenza più lunga che per un cesareo normale, ma si sono tutti presi cura di me, anche i papà della bimba. Io davo loro il latte – anche se questa è una scelta libera di ciascuna gestante – e loro mi portavano i pasti in ospedale. Ma, spavento a parte, l’esperienza è stata comunque molto bella.
Come lo ha spiegato a suo marito e alle sue figlie?
Con mio marito è stato facile: condivide il desiderio di aiutare chi ne ha bisogno. Con loro anche: ho dato loro una spiegazione molto concreta. Farò crescere un bimbo che non è mio per una famiglia che non lo può fare. Alle poche domande che hanno fatto, abbiamo risposto con tutta la precisione necessaria. Abbiamo anche spiegato la scienza che c’è dietro, che un dottore ha messo assieme le cellule e le ha messe dentro di me. Ora la adorano, e la trattano come una cuginetta.
Quindi mantenete i contatti con loro?
Certo. Sono una coppia bellissima, siamo diventati molto amici. C’è un’ammirazione reciproca. Loro, molto affettuosi, mi definiscono addirittura la loro hero. Li capisco, chiunque faccia questo regalo a una coppia sterile diventa il loro eroe.
E gli amici, come hanno reagito?
In generale, bene. Solo una mia amica, il cui marito è stato adottato, mi ha chiesto: perché non adottano invece di ricorrere a questa tecnica? Ma a parte lei, gli unici problemi sono venuti dal lato italiano della famiglia. Hanno fatto un sacco di domande. Sono sicura che non erano del tutto sinceri con me – penso che non abbiano capito davvero tutto il processo, anche se non mi hanno mai criticata apertamente. Ma i silenzi a volte possono essere molto espliciti.
Ci sono molte donne che credono che sia una violenza separare un figlio dalla madre biologica, e che prestarsi a portare il figlio di altri sia una forma di schiavitù femminile.
Mi sembra ridicolo. Non stai separando nessuno dai suoi genitori, non lo penso io e non lo penserà neppure lei quando crescerà. Non perché sia uscita dal mio grembo necessariamente ha a che vedere con me. La sua famiglia lei ce l’ha. Quanto alla schiavitù. Ovviamente, c’è una linea sottile. Sì, sono stata compensata anche io. Ma le dirò una cosa: la fatica non vale proprio i soldi che ti danno! All’inizio devi sottometterti a iniezioni dolorose per dieci settimane. Prendere farmaci e ormoni. Poi la fatica della gravidanza. E magari, come nel mio caso, finisci col rischiare la vita. Nessuna quantità di denaro ti ripaga per tutto questo. Ci saranno persone che lo fanno per soldi, non lo so. Ma la maggior parte delle persone lo fa per altri motivi. Quanto ai soldi, io la vedo così. Se esci la sera e devi prendere una baby sitter, o devi mandare tuo figlio all’asilo, paghi qualcuno per prendersi cura di tuo figlio o tua figlia. Per me è lo stesso per la surrogazione: paghi una persona perché si prenda cura di tuo figlio per nove mesi e per assicurarti che prenda tutte le precauzioni possibili per non fargli del male.
C’è una regolamentazione giuridica per tutto ciò?
Oh sì! Prima ancora di cominciare devi firmare 200 pagine di contratto legale, in cui c’era scritto che io ero solo responsabile di prendermi cura di me stessa. Nel contratto si esplicitava tutto. Per dire, loro avevano l’obbligo di identificare 3 persone di backup disposte a prendere in adozione il bambino nel caso fossero morti in un incidente prima del parto. È tutto molto controllato per proteggere la portatrice, i genitori e anche il bambino.
Sa che in Italia qualcuno ha proposto di condannare con due anni di carcere e un milione di multa chiunque faccia uso di questa tecnica per ottenere un figlio?
Sono basita. Pensa che, nel nostro caso, il papà “principale”, quello che è apparso subito sul certificato di nascita del bimbo, è proprio l’italiano. Ma lo trovo anche interessante. Nella mia agenzia, ho conosciuto una donna che venne dall’Italia e che finse con la sua famiglia di essere rimasta incinta negli Stati Uniti. Tornò a casa con il bimbo, senza raccontare come l’aveva avuto davvero. Mi era sembrato curioso. Ora la capisco molto meglio.
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Daniela, la rappresentante per l’Italia al convegno mondiale che ha chiesto il divieto dell’utero in affitto: «La madre è quella che partorisce. Così si crea un mercato di bambini».
di Chiara Pizzimenti – vanityfair.it, 6 febbraio 2016
«La madre è quella che partorisce, punto. Non si può creare un mercato di bambini». Daniela Danna è forse la maggiore esperta italiana sulla maternità surrogata. Ricercatrice all’Università degli studi di Milano e insegnante di politica sociale, era a Parigi a rappresentare l’Italia al convegno sull’utero in affitto.
Il tema, è bene ripeterlo, non è inserito nel disegno di legge Cirinnà che regolamenta le Unioni Civili. Queste pratiche sono peraltro vietate in Italia dalla Legge 40. Eppure si parla più di questo argomento che degli articoli effettivamente presenti nel testo. «Forse unioni civili e stepchild adoption andavano separate. Così il testo sarebbe stato meno attaccabile sulla questione della maternità».
Lei era a Parigi all’incontro organizzato per dire no alla maternità surrogata.
«Abbiamo chiesto a tutti gli Stati di non permettere questa forma oppressiva con contratti perché va contro le basi della civiltà. Non può esistere un obbligo economico e giuridico di questo tipo».
Qual è secondo lei il rischio?
«Che la donna diventa una “fattrice contrattualizzata”, attrice di un mercato di bambini».
Come in India?
«Sì, un Paese con una grande disuguaglianza sociale, direttamente proporzionale alla possibilità di pagare una donna un’inezia per portare a termine una gravidanza. La donna non compare sul certificato di nascita e non può rivendicare la continuità alla crescita del figlio o della figlia».
Chi è secondo lei la madre?
«La madre è colei che resta incinta, anche con una fecondazione extracorporea, e poi partorisce. Nella gestazione il neonato o la neonata in divenire non hanno cognizione della madre biologica, della donatrice dell’ovulo, ma di chi li sta portando. Poi le madri possono essere più di una, una sociale e una biologica».
Nel suo ultimo libro, Contract Children. Questioning Surrogacy, lei spiega che in italiano sostituirebbe il termine «surrogata» con «maternità per altri».
«Sì, è la promessa che una donna fa ad altre persone di portare a termine una gravidanza e lasciare poi il bimbo alla cura di queste persone».
Se una persona senza contratto, per libera scelta, volesse partorire per altri, per lei sarebbe fattibile?
«Assolutamente sì a una gestazione per altri che sia etica, cioè libera, volontaria e gratuita».
Segnalato da Barbara G.
ACQUA SHOCK, IN MOSTRA A MILANO GLI SCATTI DI EDWARD BURTYNSKY
di Elena de Stabile – espresso.repubblica.it, 02/09/2015
Centrale termica di Cerro Prieto
Una raccolta di fotografie per analizzare tutti gli aspetti connessi all’origine e all’utilizzo dell’acqua: dal delta dei fiumi ai pozzi a gradini, dalle colture acquatiche alle irrigazioni a pivot centrale, dai paesaggi disidratati alle sorgenti indispensabili. Le immagini realizzate dal fotografo canadese Edward Burtynsky sono raccolte nella mostra intitolata “Acqua Shock”, in programma dal 3 settembre al 1 novembre a Palazzo della Ragione a Milano, a cura di Enrica Viganò. “Dobbiamo imparare a pensare più a lungo termine alle conseguenze di ciò che stiamo facendo, mentre lo stiamo facendo – afferma l’autore – La mia speranza è che queste immagini stimolino un pensiero rivolto a quegli elementi essenziali per la nostra sopravvivenza che spesso diamo per scontati, finché non scompaiono”.
Riserva indiana Salt River Pima – Maricopa
Acqua Shock
Milano – Palazzo della Ragione
03/09/2015 – 01/11/2015
Per info: sito web