Siria

Siria, la guerra più lunga

segnalato da Barbara G.

Il 03/05/2017 a Cremona si è tenuto un incontro sul tema della guerra in Siria e dell’accoglienza, organizzato dalla Tavole della Pace e da altre associazioni. Gli ospiti erano Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo-siriana, e il sociologo Mauro Ferrari. La serata si è incentrata principalmente sulla testimonianza di Asmae. Di seguito riporto una intervista, pubblicata sul settimanale “Il Piccolo” di Cremona e ripresa dal portale Democratici nel Mondo, e il video dell’intervento della giornalista, pubblicato su welfarenetwork.it.

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Intervista ad Asmae Dachan, scrittrice e giornalista italo-siriana.

I suoi genitori sono nati ad Aleppo e lei ha tenuto un rapporto non solo affettivo, ma culturale e civile con il popolo siriano e il suo destino. Quando può, torna come giornalista in quelle aree martoriate e visita ai confini i campi profughi. ” La società siriana è stata spaccata in due, volutamente. Ma adesso è sbagliato descrivere quel dramma come una guerra civile. E’ un genocidio!” In questa intervista Asmae Dachan parla da musulmana, da teologa islamica, da pacifista, da ammiratrice di papa Francesco e sostenitrice del dialogo interreligioso. I negoziati internazionali in corso invece di spartirsi le aree di influenza dovrebbero assicurare prima di tutto il diritto del popolo siriano alla pace.

Il dramma della Siria può essere sintetizzato come “ la guerra più lunga” dei nostri tempi. Perchè sta durando così tanto e quali effetti sta producendo sulla stessa popolazione siriana?

La guerra in Siria è effettivamente la più lunga dell’ultimo secolo, sta durando più della Seconda Guerra mondiale. Sono passati 6 anni e ancora non se ne vede la fine. La stessa ONU la definisce la più grave crisi umanitaria dalla Seconda Guerra mondiale. Ma è una guerra di nuovo tipo: non c’è un esercito di uno Stato che combatte contro l’esercito di un altro Stato. La Siria non è invasa da uno Stato straniero. E’ lo stesso regime siriano di Bashar al Assad che combatte e bombarda il suo stesso popolo. La stessa opposizione armata, formata in un primo momento da militari siriani che si sono rifiutati di sparare sulla propria gente, hanno disertato e formato l’Esercito Libero Siriano, con l’andare del tempo sono stati ridimensionati se non sostituiti in ampie zone del Paese da formazioni estremiste e qaediste finanziate dagli Stati arabi del Golfo. Per questo sarebbe sbagliato analizzare il conflitto siriano solo con una interpretazione politica di parte: ha torto Bashar al Assad e hanno ragione i suoi oppositori. Oppure fa bene al Assad ad utilizzare la forza in una situazione di caos e hanno torto i suoi oppositori visto che, nel frattempo, in Siria si è infiltrato l’estremismo di radice islamica ed è nato l’Isis.

Qual’è allora il punto di vista che i negoziati sul futuro della Siria ma anche le opinioni pubbliche in Italia e in Europa dovrebbero privilegiare per capire meglio cosa sta succedendo in Siria ?

Adottare il punto di vista della società siriana, il punto di vista di una popolazione che nella sua grande maggioranza non ha voluto e non vuole ricorrere alla violenza, non vuole imbracciare per forza un fucile a sostegno o contro al Assad. Attenzione: non è una scelta di neutralità tra campi avversi. E’ la consapevolezza diffusa che la violenza speculare degli uni e degli altri non porta a nessuna liberazione. E’ soprattutto la consapevolezza che nel conflitto siriano sono entrati prepotentemente in gioco attori e interessi internazionali che ne hanno stravolto la portata: Iran e Russia da un lato, Arabia Saudita e Stati Uniti dall’altro non mostrano alcun interesse al destino e ai diritti umani del popolo siriano. Per non parlare della Turchia di Erdogan che ha fatto una sorta di doppio gioco: dichiararsi contro al Assad e poi bombardare i kurdi siriani; dichiararsi contro l’Isis e poi permettere che migliaia di giovani foreign fighters raggiungessero lo Stato Islamico. All’inizio non era così: nel marzo 2011, in coincidenza con le “primavere arabe” partite il 17 dicembre 2010 dalla Tunisia, gran parte dei giovani e degli intellettuali siriani si sono mobilitati pacificamente per chiedere democrazia e diritti. Per otto mesi in tutte le città siriane c’è stato un risveglio della società civile che chiedeva riforme e libertà. Il gesuita italiano padre Paolo dall’Oglio né è stato testimone e sostenitore, in coerenza con la tradizione siriana della convivenza e del dialogo tra le diverse religioni. Purtroppo il regime di al Assad ha deciso invece di ricorrere alla forza, di utilizzare l’esercito, ha scelto la repressione più violenta. Adesso quello che è sotto gli occhi degli osservatori che non si lasciano accecare dal tifo per gli uni o per gli altri è la realtà drammatica di un genocidio. In Siria non c’è una guerra civile, ma un genocidio.

Genocidio è un termine durissimo e ha anche una valenza giuridica importante nel Diritto internazionale: se c’è “genocidio” la Comunità internazionale avrebbe il “dovere” di fermarlo, di imporre almeno il cessate il fuoco. Che dati può fornire a proposito ?

Nel solo mese di aprile 2017 sono stati bombardati in Siria 24 obiettivi sanitari : ospedali, presidi da campo, banche del sangue, prontosoccorsi. Non si tratta di incidenti, ma di obiettivi scelti e ben individuati per terrorizzare la popolazione e costringerla ad andarsene. Il bilancio complessivo di questi 6 anni è spaventoso: non meno di 400.000 morti. In un Paese di circa 22 milioni di abitanti gli “sfollati” sono tra gli 8 e i 9 milioni. Attenzione: gli sfollati non sono i profughi. Sono siriani costretti ad abbandonare le loro case e che sono rimasti in Siria trovando riparo temporaneo in zone meno vicine alle linee di conflitto. A questi vanno aggiunti i siriani che, usciti dai confini, sono diventati “profughi”: almeno 6 milioni, 3 milioni dei quali in Turchia che per tenerli ha ottenuto il contributo finanziario dell’Unione Europea. Nel piccolo Libano che ha 3,5 milioni di abitanti i profughi siriani sono 1,2 milioni con enormi problemi di convivenza. Nella Giordania esiste in pieno deserto il più grande campo profughi che si possa immaginare, Zaatari: 80.000 siriani accampati nel nulla che sperano solo di andarsene e fuggire da scarsità di acqua, mancanza di servizi igienici, malattie infettive. In Siria è rimasta nelle proprie abitazioni un terzo della popolazione. E’ come se in Italia 40 milioni di abitanti su 60 fossero stati cacciati dalle proprie case. La violenza di questa guerra ha raggiunto livelli di disumanità spaventosi: bombe a grappolo, barili di esplosivo e acciaio, armi chimiche. I giovani costretti ad arruolarsi a forza da una parte o dall’altra. Per questo molti scappano. E poi l’uso dello stupro nei confronti di donne e persino dei bambini. E’ la logica di guerra che non è mai pulita né chirurgica. Infine l’adozione sistematica dello strumento militare dell’assedio di città, di quartieri, di villaggi per impaurire, cacciare o asservire. Dopo l’assedio di Sarajevo, tutti avevamo detto “mai più”. Invece….

Invece la storia si ripete in Siria in modo ancora più brutale, con ferite che sarà difficilissimo curare anche all’interno del mondo arabo e islamico. Oltre alle responsabiltà dell’Occidente, non c’è anche una responsabilità specifica dello stesso Islam soprattutto nei confronti dell’estremismo dell’Isis ?

Le reponsabilità storiche recenti e passate di Stati europei o degli Stati Uniti è evidente, ma preferisco non utilizzare mai il termine “Occidente” che lascia presagire come inevitabile lo scontro di civiltà. Francia e Gran Bretagna si sono spartite il Medio Oriente dopo la caduta dell’impero ottomano. La Siria e il Libano sono stati assegnati alla Francia. L’iniziale bandiera siriana è quella del 17 aprile 1946 quando la Siria diventa indipendente. La bandiera attuale è invece un’altra, quella preferita dalla famigli degli al Assad. In anni più recenti, gravissimo errore è stato quello di invadere l’Irak fortemente voluto dall’amministrazione Bush, ma non dall’ONU. Ci sono giovani irakeni che hanno vissuto solo in guerra, non sanno cosa sia vivere periodi di pace. La stessa cosa vale per molti giovani afghani e ceceni. L’Isis è riuscita ad arruolarli anche perchè la logica di guerra e del ricorso alla violenza è per loro più familiare della scuola, della libertà di giocare, della convivenza con altre etnie o religioni. La Siria dei miei genitori, originari di Aleppo, era composta da 47 etnie diverse e crocevia di molte religioni e correnti religiose. Adesso la possibilità di ricostruire quella convivenza su basi nuove, su basi democratiche è stata mandata in frantumi. Certo la Russia di Putin fa il suo gioco, visto che da decenni ha in Siria le proprie basi militari navali. Certo gli Stati Uniti pretendono di contare ancora in quello scacchiere così vitale per la produzione e il trasporto del petrolio. Ma c’è una responsabilità specifica gravissima di Stati come l’Arabia Saudita, sunnita, e l ‘Iran sciita che strumentalizzano la religione islamica per accrescere le proprie aspirazioni egemoniche. L’estremismo barbaro e folle dell’Isis è cresciuto in questo contesto fatto di ambiguità e rivalità tra Stati che invece di collaborare, mirano a indebilire l’altro. C’è infine una questione dottrinale all’interno dello stesso Islam. Come donna di fede islamica, laureata in teologia e Diritto islamico, come democratica sostengo che noi musulmani possiamo e dobbiamo delegittimare totalmente l’ isis e le sue giustificazioni e dichiarare incompatibili l’Islam e l’uso della violenza. Come dice papa Francesco le religioni possono e debbono essere solo religioni di pace e il Dio unico che preghiamo ammette un solo estremismo: quello della carità. Del resto la stessa parola islam deriva da salam che significa pace.

Le opinioni molto calunniate di Rania Khalek sulla Siria

segnalato e tradotto da nammgiuseppe

di Rania Khalek e Justin Podur – znetitaly.altervista.org, 31/03/2017

Quando la conferenza della giornalista Rania Khalek è stata cancellata il 27 febbraio il gruppo che l’aveva invitata, Students for Justice in Palestine – Università della Carolina del Nord (SJP-UNC), ha diffuso una dichiarazione che affermava che la cancellazione era dovuta alle “idee” di Rania sulla Siria e che il gruppo riteneva che “il suo invito avrebbe erroneamente implicato che il SJP condivideva tali idee”. Il gruppo ha anche aggiunto che “non sottoscrive né respinge le sue idee sulla guerra civile in Siria in quanto restano relativamente poco chiare secondo diverse opinioni dei nostri membri riguardo alle analisi di Rania”.

In reazione alla cancellazione un vasto numero di firmatari, molti dei quali impegnati nella solidarietà alla Palestina, ha sottoscritto una dichiarazione contro la messa al bando di Rania ma anche contro le liste di proscrizione in generale. Tale dichiarazione concludeva:

“I firmatari di questa dichiarazione hanno una pluralità di opinioni sulla Siria. Alcuni concordano con la Khalek; altri dissentono, in alcuni casi molto vigorosamente. Ma noi sentiamo che quando un gruppo che persegue la giustizia in Palestina sottopone oratori o membri a un banco di prova relativo alle loro opinioni sulla Siria, ciò conduce inevitabilmente a scissioni, messe a tacere, confusione e una grave erosione della fiducia. Va contro la possibilità che si apprenda gli uni dagli altri, cambiando punto di vista e ci si educhi a vicenda mediante l’attivismo. Dissensi su temi politici esistono all’interno di qualsiasi movimento di coalizione. Non devono essere resi materia di denigrazione mirata di attivisti del movimento”.

La dichiarazione “contro le liste di proscrizione” ha suscitata un’altra ondata di diffamazioni, poiché alcune delle stesse persone che avevano esercitato pressioni sul SJP perché cancellasse la sua conferenza hanno avvicinato firmatari per sostenere che non avrebbero dovuto firmare. Tra i loro argomenti che esiste e dovrebbe esistere un banco di prova politico, uno che Rania non ha superato. Da firmatario iniziale io stesso sono stato avvicinato più di una volta da amici che mi suggerivano che io non conoscevo realmente le idee di Rania.

Le persone che hanno scritto pubblicamente su Rania spaziano da molestatori davvero loschi ad accademici di sinistra che hanno sparato una rapida serie di articoli calunniosi e poi hanno manifestato sconcerto per le reazioni a essi. Ma a parte quelli che parlano a proposito di lei, è in realtà piuttosto difficile trovare fonti di quelle sue “idee” che apparentemente la squalificano dal parlare o pubblicare su qualsiasi argomento.

Preoccupato del fatto che forse non le conoscevo davvero ho cercato Rania per chiederle di queste “idee” molto calunniate ma raramente messe in onda.

Justin Podur (JP): Sei un’assadista?

Rania Khalek (RK): Non sono una tifosa del governo siriano. Non ho intenzione di sostenere il governo siriano.

Ciò cui mi oppongo è allo smantellamento dello stato siriano che è ciò che numerose potenze hanno fatto negli ultimi sei anni. Mi oppongo a questo perché abbiamo visto come vanno queste cose in Libia, Iraq, Afghanistan, Somalia e non vogliono vederle succedere in Siria.

Mi oppongo anche all’attuale alternativa al governo siriano, che è un mosaico di gruppi jihadisti salafiti che vogliono imporre una rigida legge religiosa, uccidere minoranze e lapidare donne per adulterio. Questo è inaccettabile a me e a molte persone, compresi miei parenti che vivono in Siria e che accade appartengano a minoranze.

JP: Dunque questa è la tua prima “idea”. In base alla tua interpretazione di ciò che è accaduto dopo la rimozione di Gheddafi in Libia, di Saddam in Iraq, e in altri paesi, ti opponi alla distruzione dello stato e sulla base della tua interpretazione di gruppi come Nusra e ISISI non appoggi l’opposizione al governo siriano. Quelli che per questo di definiscono assadista dovrebbero anche definire saddamisti quelli che erano contro la guerra in Iraq, gheddafisti quelli che si opponevano alla guerra in Libia, eccetera.

RK: Esattamente. E io penso che sia una presentazione scorretta e un dualismo inaccurato la tesi che se non appoggi questi gruppi islamisti ribelli che hanno ambizioni ultraconservatrici ciò ti dovrebbe rendere un sostenitore di un dittatore, e questo non è corretto.

Mi piacerebbe vedere una Siria democratica. Mi piacerebbe vedere una Siria in cui partiti diversi dal Ba’ath possano prosperare e partecipare a elezioni. Il fatto ora è che c’è un’insurrezione di estrema destra finanziata da alcune delle maggiori potenze del mondo alla ricerca della distruzione del paese. Nella situazione attuale è impossibile per il popolo sollecitare e ottenere riforme.

JP: Ah, anche qui c’è una genuina diversità di opinioni con i sostenitori della rivoluzione siriana che sostengono il contrario: che fintanto che Assad resta al potere non si possono avere riforme.

RK: Sì, ma questo dovrebbe essere un punto controverso di una discussione politica. Perché non possiamo discuterne?

JP: Sono d’accordo. La tua affermazione che le riforme sono impossibili mentre prosegue questa ribellione e l’affermazione che le riforme sono impossibili mentre il regime è al potere sono valutazioni diverse della situazione che dovrebbe essere possibile dibattere all’interno del movimento.

La mia domanda successiva: hai partecipato a una conferenza di pubbliche relazioni (PR) patrocinata da Assad a Damasco?

RK: Ho potuto recarmi in Siria, ho potuto ottenere il visto per la Siria, accettando di partecipare a una conferenza di due giorni a Damasco condotta da una ONG britannica filogovernativa.

Ci sono andata insieme con numerosi giornalisti di spicco di ogni canale importante in occidente: New York Times, Washington Post, NPR, BBC, LA Times, Telegraph, The Times (UK).

JP: Ho recentemente seguito un documentario della PBS di alcuni anni fa intitolato Inside Assad’s Siria[Dentro la Siria di Assad). Quel giornalista partecipava a una visita guidata del regime.

RK: Quello è l’unico modo per entrare nelle aree della Siria controllate dal governo. Permettono solo di vedere determinate cose. Se sei un giornalista dovresti tenerlo presente e renderlo chiaro.

JP: Capita spesso che se sei un giornalista che riferisce su un qualsiasi genere di conflitto, il solo modo per entrare consiste nell’andare con una parte o con l’altra. E’ uno dei motivi per cui è così difficile buone informazioni sui conflitti e una cosa su cui ha scritto l’hanno scorso Patrick Cockburn.

RK: Tutti quei giornalisti hanno accettato di andare a quella conferenza in modo di potersi recare nelle aree governative, dove vive la maggior parte delle persone che ancora restano nel paese. Se vuoi parlare con quelle persone devi ottenere un visto, il che significa che devi avere l’assenso del governo. Tutti hanno pagato il loro arrivo, il soggiorno, i trasporti. Io non sono stata finanziata dal regime. Ho pagato di tasca mia. Non ho neppure finito per presenziare alla conferenza. Ho deciso di non andarci quando ho scoperto che il mio nome era stato incluso nel programma anche se non avevo accettato di parlare (insieme con molti altri che non avevano accettato di parlare).

Giornalisti tradizionali hanno parlato a questa conferenza, in più di una sessione. Nessuno di loro è stato diffamato al modo in cui lo sono stata io. E’ stata una campagna per cacciarmi e ha funzionato. A causa di queste calunnie c’è stato un boicottaggio morbido di tutti i miei servizi, e questo è il punto.

Chiunque ripeta che io ho “parlato a una conferenza di pubbliche relazioni patrocinata da Assad in Siria” può essere fuorviato o malevolo, ma nell’un caso e nell’altro partecipa a un processo che cerca di assicurare che nessuno dei miei servizi sia messo in onda.

JP: Dunque, riguardo a questo punto: come ogni giornalista tradizionale che lavora sulla Siria e insieme con molti di loro ti sei recata in aree controllate dal governo e hai partecipato a eventi governativi con il permesso del governo.

La mia domanda successiva: Reuters, Al Jazeera e altri canali hanno riferito a dicembre 2016 che i ribelli avevano avvelenato l’acquedotto di Damasco. Ricordo che tu hai scritto via Twitter al riguardo. E in marzo un rapporto dell’ONU, esaminando fotografie satellitari e interrogando persone del luogo, ha affermato che si trattato di un bombardamento governativo contro il suo stesso acquedotto. Secondo il NYT nel marzo  del 2017 “investigatori hanno affermato che video dei bombardamenti, racconti di testimoni e immagini satellitari dimostravano che il sistema idrico era stato danneggiato in almeno due attacchi aerei usando bombe ad alto esplosivo”, e che l’idea le strutture idriche fossero state bombardate da terra era “incongrua con evidenze fisiche osservabili”. Cosa ne dici?

RK: I ribelli di cui parlavamo erano a Wadi Barada ed erano di al-Nusra (al-Qaeda in Siria; hanno cambiato nome di nuovo da allora, ma sono di al-Qaeda). Wadi Barada è da dove proviene l’acqua di Damasco. Le mie fonti sul campo hanno detto che i ribelli affiliati ad al-Qaeda avevano messo diesel nell’acqua. C’è stata un’interruzione dell’acqua: un male per tutti a Damasco, compresi miei amici che vivono là. La valle dove si trova quest’acqua è stata distrutta in alcuni bombardamenti. Entrambe le parti hanno incolpato l’altra, anche se ci sono state foto di ribelli in piedi sull’infrastruttura idrica distrutta. Ci sono affermazioni di entrambe le parti e in questo caso per me non ha senso che il governo bombardasse la sua stessa fornitura d’acqua.

JP: Damasco è la capitale, un’area tenuta dal governo. Anche questo a me pare discutibile. Il governo è stato brutale nei confronti di aree tenute dai ribelli, ma è difficile identificare quale potrebbe essere la logica della distruzione da parte del governo della propria fornitura d’acqua, e facile identificare perché i ribelli avrebbero voluto compierla.

RK: I ribelli lo hanno già fatto in passato, ad Aleppo; l’ISIS l’ha fatto quando controllava l’Eufrate.

Non ho alcun problema a credere che il governo in Siria abbia fatto brutte cose. Le ha fatte. In questo caso fonti di cui mi fido, che non sono del governo, mi dicono che questo rapporto è inaccurato. Non c’è alcun modo in cui io o i miei detrattori possiamo dimostrarlo una versione o l’altra.

JP: Dunque, secondo te, questa è una domanda aperta e oggettiva cui è difficile rispondere. Come molti altri tu hai riferito che i ribelli avevano danneggiato l’acquedotto e continui a ritenere che siano stati i ribelli. Anche questa a me pare un’area in cui si potrebbe dissentire dalle tue valutazioni delle prove e della logica.

Ora ho una domanda su cui persone ragionevoli non possono dissentire, affermazioni su di te che io ritengo sbagliate e voglio verificare. Un accademico ha detto che tu difendi “il bombardamento siriano di aree civili densamente popolare”. E’ così?

RK: Non l’ho mai detto. Nemmeno una volta. Mai. Questo è tutto.

JP: Farlo ti renderebbe una specie di mostro. Sarebbe una cosa orrenda da dire, come quando Hussam Ayloush del Comitato per le Relazioni USA-Islam (CAIR), uno dei tuoi detrattori, ha twittato che era “triste” che la caduta di un aereo militare russo ha ucciso “solo 92” persone, mentre l’aereo avrebbe potuto trasportarne 180. In seguito si è scusato, ma è difficile non notare che il suo primo istinto è stato di festeggiare delle morti e desiderarne di più.

RK: Non appoggio la violenza praticata dal governo siriano. Non l’ho mai fatto. Non lo farei mai. Non ho mai applaudito la violenza del governo siriano contro al-Qaeda. Civili? Non appoggerei mai, nemmeno in un milione di anni, la violenza contro i civili e non l’ho mai fatto.

JP: Lo stesso professore che ha detto che l’hai fatto ha detto anche che tu attacchi “organizzazioni rispettabili per i diritti umani che documentano simili crimini di guerra”. Non sono sicuro di che cosa egli intenda con “attacchi” ma qual è la tua risposta a ciò?

RK: Trovo davvero sorprendente che così tanti vogliano accettare qualsiasi narrazione ricevano da qualsiasi organizzazione, è solitamente si tratta delle stesse persone che contestano costantemente tali organizzazioni a proposito di altri temi, specialmente in relazione alla Palestina. Sulla Palestina sappiamo che tutto è tanto prevenuto. Sulla Siria si suppone che noi accettiamo  qualsiasi affermazione da parte degli stessi canali e delle stesse organizzazioni. Dovremmo sempre mettere in discussione queste cose, specialmente quando è implicato il nostro governo. Non sto negando che ci siano state atrocità. Ritengo necessario contestare organizzazioni per i diritti umani quando riferiscono affermazioni fatte senza prove.

JP: Dunque, per sintetizzare, se hai un’”idea” su questo, è che si dovrebbero “contestare organizzazioni per i diritti umani quando riferiscono affermazioni fatte senza prove”.

RK: Queste organizzazioni hanno una storia di ipocrisia riguardo ai fatti quando i paesi accusati sono dalla parte sbagliata della politica estera statunitense. Ci sono organizzazioni per i diritti umani che ricevono finanziamenti da USAID. E’ cruciale che mettiamo in discussione le loro affermazioni.

JP: Dunque stai dicendo: quando si riceve l’affermazione di un’atrocità, indipendentemente dalla fonte, si deve guardare alle prove.

JP: Sì, verificare le prove. Non prendere le affermazioni di gruppi ribelli alla lettera quando non ci sono sul campo organizzazioni indipendenti per i diritti umani. Il governo siriano mente molto. Penso non si debbano accettare neppure le sue affermazioni senza prove. A Gaza c’erano investigatori per i diritti umani e giornalisti indipendenti. In Siria non è così in nessuna delle parti. Tutto ciò che arriva dalla Siria, da una parte o dall’altra, dovrebbe essere considerato con una grossa dose di scetticismo.

JP: Dunque se il professore avesse riformulato “attacchi a rispettabili organizzazioni per i diritti umani” in “contestazioni di affermazioni che arrivano senza prove, anche da organizzazioni rispettabili per i diritti umani”, sarebbe stato su un terreno solido.

L’ultima cosa che questo professore ha aggiunto è stata che tu apparentemente insisti “che la resistenza siriana è composta solo da terroristi islamisti sostenuti dall’estero”. Immagino che lui sia turbato perché per chi è a favore dell’opposizione l’Esercito Siriano Libero (FSA) non è costituito da “terroristi islamisti sostenuti dall’estero”. Insisti che lo siano? Anche se lo facessi io penso che anche questa è una valutazione che potrebbe essere discussa, ma per favore dimmi come la pensi.

RK: Non uso il termine “terroristi”, dunque non accetterei quell’affermazione su di me. Quanto a quello che penso del FSA: era un insieme variegato di fazioni combattenti. Possono esserci stati alcuni moderati all’inizio, ma la cosa non è durata, e quello che conta è ciò che è diventato, cioè fondamentalmente assorbito negli altri gruppi islamisti armati. Il FSA ha operato al fianco di Nusra. Hanno un obiettivo simile, che è una qualche specie di stato con elementi islamisti. Ciò non significa che tutti quelli che hanno combattuto nel FSA stavano tentando di imporre uno stato islamico. Ma i combattenti più duri erano islamisti e settari ed è quel filone che è prosperato. A questo punto nel 2017 nessuno può citare un gruppo combattente che cerchi di rovesciare il governo che non sia completamente sunnita. L’opposizione armata non ha mai ottenuto il sostegno della maggioranza del popolo perché era settaria e alla fine interamente sunnita; combatteva per fini islamisti e per imporre uno stato islamico. La vasta maggioranza del popolo in Siria si oppone a ciò, persino persone che non appoggiano il governo. Temono più i ribelli di quanto temano il governo. Sto parlando dei fatti, qui, non delle mie opinioni. Nel 2017 c’è una forza combattente in Siria in cerca di rovesciare il governo che non sia settaria e islamista? Io non ne vedo una.

JP: E riguardo all’idea che ci sono consigli locali che fioriscono in aree ribelli?

RK: I consigli locali hanno rapidamente perso il controllo nelle aree ribelli. C’è ancora controllo locale in aree che hanno elaborato accordi di riconciliazione. Probabilmente procedendo ci sarà più controllo locale e questa è una buona cosa. I consigli locali nelle aree ribelli sono stati venduti da persone che volevano l’intervento.

Quello che vedo in Siria è molto diverso. Persone che appoggiavano l’opposizione ora partecipano a processi di riconciliazione e ci sono ONG mediatrici. I consigli locali alla testa di tali aree di accordi di riconciliazione non hanno avuto la possibilità di operare in aree dell’opposizione armata. L’opposizione armata dai sauditi, da Qatar, Turchia, Stati Uniti non ha alcun interesse alla democrazia reale, ai progressisti o alle femministe liberali nella regione. Quelle persone non hanno mai avuto alcuna possibilità.

JP: Dunque abbiamo qui due domande fattuali o forse analitiche: 1) Qual è la portata dell’opposizione non islamista armata? 2) In quale misura l’opposizione non armata è stata in grado di fiorire in aree tenute dai ribelli? Secondo la tua analisi la risposta a entrambe le domande è “virtualmente nessuna”. Ma anche questa a me sembrano domande su come uno valuta le prove riguardanti la guerra, non sul fatto che uno abbia qualche specie di ottica discriminatrice.

RK: Guarda, io sono una donna di una minoranza araba con parenti sia in Siria sia in Libano. I gruppi di opposizione diversi da al-Qaeda hanno spesso operato parallelamente a essa. Hanno ucciso persone come me unicamente in base alla loro identità. Qui non si tratta di appoggiare la dittatura. Si tratta della sopravvivenza per molte persone della regione. Per persone che non vogliono vivere in un sistema in stile Arabia Saudita. E’ questo che sta succedendo qui. Molte persone che stanno facendo questo a me provengono da un luogo realmente settario. Sono attaccata dagli elementi più conservatori della mia comunità. E’ stato davvero sorprendente vedere tante persone  prendere per buona la loro parte della storia e cancellarmi totalmente senza considerare che, ehi, forse persone come Rania …  non sto parlando per conto di altri ma sto parlando di un’opinione presente nella regione … c’è un motivo per cui qualcuno come me non vorrebbe vivere sotto persone simili.

JP: La cancellazione del tuo invito in febbraio è arrivata dopo alcuni tweet a proposito del wahabismo e del salafismo.  Hai scritto: “Sì, essere salafiti o wahabiti non significa essere violenti, ma decisamente significa essere fanatici e misogini”. Ho notato una velocissima e straordinaria reazione a quel tweet. Una delle prime reazioni che ho visto è stata qualcuno che ti ha detto: “Smettila di parlare della Palestina”, se ci credi. Ho visto quella reazione molte volte. L’ho trovata una reazione molto interessante: “smettila di parlare della Palestina”. Perché è quella la prima reazione? C’è un argomento che è fondamentalmente tabù in occidente, qualcosa di cui non si può parlare senza conseguenze potenzialmente gravi, e quando dici qualcosa che a questa gente non piace, ti dicono di “smetterla di parlare della Palestina” come se ogni altra parte della società non ti stesse già dicendo di chiudere il becco a proposito della Palestina.

RK: E’ davvero impressionante il modo in cui la solidarietà, i canali e gli attivisti a favore della Palestina siano stati attaccati fin dall’inizio da persone che appoggiano l’intervento in Siria. Fanno di tutto per mettere a tacere l’attivismo palestinese.

Persino nella regione oggi la Palestina è l’ultimo dei pensieri della gente. C’è anche un tentativo di equiparare la Siria alla Palestina. La tattica dell’affermare: se appoggi la resistenza in Palestina ma non l’opposizione siriana, allora sei un ipocrita e non hai diritto a parlare della Palestina. Ma sono diverse. La Palestina è occupata e colonizzata. Non occorre amare l’esercito siriano per riconoscere che è di quel paese e che combatte un’insurrezione in cui vi sono elementi stranieri. Non si può semplicemente appoggiare qualsiasi resistenza. Conta per cosa combatti. Se combatti il colonialismo, posso essere a favore. Se combatti per imporre uno stato islamico, non posso appoggiare questo.

Non c’è unanimità tra i palestinesi riguardo alla Siria. Molti palestinesi vivono in Siria. Ci sono palestinesi che appoggiano l’opposizione, palestinesi che hanno tentato di restare neutrali e palestinesi che combattono con il regime. Non è una situazione facile. Non c’è unanimità tra gli arabi o tra i palestinesi. E’ ipocrita usare la questione della Palestina per far passare la propria posizione sulla Siria.

JP: Sono stato colpito da come tutto è concentrato sull’impedire alle persone di parlare.

Ma tornando a quel tweet. Posso capire come essere definito “fanatico e misogino estremista” possa far imbestialire qualcuno che si identifica come salafita o wahabita e possa indurlo a ribattere definendoti islamofoba. Come reagisci a tale accusa?

RK: Ho fatto una dichiarazione al riguardo su Facebook. Non è islamofobo criticare salafismo e wahabismo, ideologie di estrema destra che promuovono il genocidio di minoranze e i cui sistemi di credenze sono alla radice ispiratrice di ciò che muove al-Qaeda e l’ISIS e gruppi simili a loro.  Per me è scandaloso vedere persone che cercano di sopprimere la critica di ideologie ultraconservatrici evocando l’islamofobia. L’islamofobia è un problema serio nel paese e non dovrebbe essere buttata lì superficialmente. E’ analogo a dire che chi critica il sionismo è colpevole di antisemitismo. C’è chi ha detto che io non sono mussulmana e dunque non posso criticare. Ma quelle ideologie mi riguardano direttamente; affermano che io sono da uccidere e non umana. Dunque da minoranza della regione ho ogni diritto di parlarne.

JP: L’accademico citato prima che ti accusa di mascherare i crimini del governo indica un articolo da te scritto su come le sanzioni stanno danneggiando l’economia siriana. Non sono sicuro di come la seconda cosa porti alla prima. Forse puoi approfondire.

RK: Io non nego che il governo siriano uccida gente. Ho visto i risultati dei suoi bombardamenti. Bombardano qualsiasi cosa. E’ un livello schiacciante, indiscriminato di violenza contro aree dell’opposizione. E l’opposizione ha ucciso decine di migliaia di soldati governativi. E’ una guerra tra due schieramenti. Ho detto che questa è una guerra tra due parti.

Ma non si dovrebbe credere alle classifiche che affermano che il governo è responsabile del 95% di tutte le uccisioni. Se il governo ha ucciso il 95% dei civili, allora la parte in guerra in cui c’è al-Qaeda ha ucciso solo forze governative ed è la forza combattente più nobile della storia. Non maschero le atrocità del governo. Ho detto qualcosa che è evidente: ci sono due parti che combattono e due parti che uccidono civili.

JP: Al-Qaeda è famosa per operazioni contro i civili. Ma continuiamo riguardo alle sanzioni.

RK: Ho scritto un articolo che diceva che le sanzioni sono distruttive per i civili. Non mi vergogno di scrivere al riguardo. Hanno cercato di distorcere i miei servizi sulle sanzioni dicendo che nascondono le atrocità del governo. Le sanzioni hanno distrutto l’economia siriana e reso realmente difficile ottenere aiuti umanitari in una delle maggiori catastrofi umanitarie. Gli Stati Uniti hanno inondato la Siria di armi e soldi a gruppi armati sanzionando contemporaneamente gli aiuti umanitari alla gente presa in mezzo al fuoco incrociato. E’ qualcosa che andrebbe contrastato. Stephen Zunes ha scritto a proposito delle sanzioni contro l’Iraq e su quanto orribili sono state. Dice che io copro il regime perché ho la stessa posizione sulle sanzioni contro la Siria, che per inciso hanno negato farmaci anticancerogeni per i bambini in Siria. L’ipocrisia è ridicola. Persone che si sono opposte alle sanzioni contro l’Iraq mi stanno attaccando perché ho la stessa posizione.

JP: E’ davvero bizzarro, perché se opporsi alle sanzioni contro la Siria ti rende un’apologeta di Assad, opporsi alle sanzioni contro l’Iraq deve renderti un apologeta di Saddam, e Saddam non è uno cui queste persone vorrebbero vedersi associate, non più che con Assad.

RK: Penso che la differenza sia questa: gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq con decine di migliaia di soldati statunitensi. La Siria è stata una guerra per procura in cui gli Stati Uniti hanno appaltato a gruppi jihadisti salafiti. Così non si vede che c’è una guerra contro la Siria.

JP: Per concludere vedo quattro cose qui:

1) un insieme di valutazioni che tu hai su argomenti specifici come l’acquedotto di Damasco, la portata dei gruppi armati non islamisti e del sostegno popolare all’opposizione e l’impatto delle sanzioni;

2) un insieme di tue idee politiche che sono piuttosto comuni nella sinistra, compreso un forte sostegno al laicismo, l’opposizione alle ideologie wahabita e salafita e scetticismo anche nei confronti di principali organizzazioni per i diritti umani quando presentano affermazioni che vanno oltre le prove da loro offerte;

3) un insieme di dichiarazioni su di te che sono false (ad esempio che tu “difendi attacchi contro civili”, “hai partecipato a un tour di pubbliche relazioni patrocinato da Assad, eccetera);

4) una combinazione di tutte queste cose per parlare delle tue “idee” come se tu avessi opinioni discriminatrici su determinati gruppi di persone.

Ma non è così. Tu sei una sostenitrice di sinistra di diritti uguali per tutti e hai idee inequivocabilmente antidiscriminatorie. Nessuno dovrebbe fare 3) e 4) e se qualcuno ha problemi con 1) e 2) dovremmo discuterne nel merito.

(Originale: https://zcomm.org/znetarticle/the-much-maligned-views-of-rania-khalek-on-syria/)

Siria come la Polonia

segnalato da Barbara G.

Il leader druso Jumblatt: Usa e Mosca già d’accordo
di Giordano Stabile – lastampa.it, 02/03/2016
«Stiamo per assistere alla spartizione della Siria. Come la Polonia nel 1939. Stati Uniti e Russia si sono già messi d’accordo. Si parla di soluzione federale. Ma sarà un federalismo mediorientale. Settario. La guerra non finirà mai davvero». Walid Jumblatt, leader storico dei drusi, a 66 anni è ancora un King Maker del Libano. Riceve nel palazzo di famiglia a Clemenceau, nel cuore di Beirut, con indosso il suo solito giubbotto di pelle nera. Sotto il pergolato nel cortile, davanti ai due leoni assiri in marmo che vegliano all’ingresso della casa, si sente il peso particolare della storia in Medio Oriente: «E il Libano? Ormai è una provincia dell’Impero persiano».

Presidente Jumblatt, chi ha vinto in Siria?  

«Chi è intervenuto direttamente. Chi ha mandato uomini sul terreno. L’appoggio degli iraniani, dei loro alleati libanesi Hezbollah, e dei russi, è determinante. Il regime sta vincendo. La tregua non significa molto. Non ci sarà mai una vera pace, ma una spartizione su base confessionale e settaria. Cioè un conflitto senza fine».

Chi l’ha decisa?

«Russi e americani si sono messi d’accordo alle spalle del popolo siriano. Parlano di Stato federale ma è come la Polonia nel 1939, un pezzo a me e un pezzo a te. I curdi avranno la loro parte, gli alawiti la loro, e poi i sunniti. Drusi e cristiani sono alleati di complemento. Circola già una mappa realizzata dalla Rand Corporation, che dice tutto. Ma la Siria non esiste più. Un Paese distrutto, dieci milioni di profughi e sfollati».

Poteva finire diversamente?  

«La svolta poteva esserci già nella grande battaglia di Homs, alla fine del 2011. Obama allora diceva: «Bashar al-Assad se ne deve andare». Se ne andrà prima lui dalla presidenza degli Stati Uniti, perché Assad probabilmente vincerà un altro mandato. Allora, all’inizio della guerra, Obama doveva fornire ai ribelli i missili anti-aerei, anti-elicotteri. I famosi Stinger che hanno sconfitto i sovietici in Afghanistan. Non l’ha fatto e ora ha perso».

Ma la tregua appare fragile, Turchia e Arabia Saudita non sembrano molto d’accordo con la linea russo-americana.

«L’unico pericolo serio lo vedo da parte della Turchia, che si è ritagliata una sorta di sua enclave nel Nord della Siria e vuole mantenerla. Se c’è un rischio di escalation del conflitto, di scontro diretto fra potenze, è fra russi e turchi».

La Siria è però parte della grande guerra fra sunniti e sciiti in Medio Oriente. Ci sono rischi per il Libano?  

«La coalizione russo-iraniana sta vincendo, perché gli avversari non sono sul terreno. Gli iraniani sono più forti, tutto qui. Anche in Libano, con i loro alleati».

E il Libano aspetta un presidente da 21 mesi.  

«C’è il fronte filo-sunnita e il fronte filo-sciita, con Hezbollah. Per questi ultimi va bene così, non hanno fretta di avere un nuovo presidente. In questo momento il campo di battaglia principale è la Siria. Il Libano è un campo di battaglia secondario. Ma siccome il regime siriano con l’aiuto dei russi e degli iraniani si sta rafforzando, vedremo una crescente pressione della Siria sul Libano. Torneremo a essere un satellite della Siria».

Può sopravvivere il Libano in questa situazione?  

«È sopravvissuto. La gente si è abituata. Non possiamo farci nulla per il momento».

Vede un rischio di nuova guerra civile?  

«No. Sono più preoccupato della crescente influenza della Siria e dell’Iran. Andiamo verso un maggior isolamento nei confronti del resto del mondo. E la crisi economica è grave. È tutto fermo: il turismo, l’edilizia, gli investimenti. In Libano abbiamo molti giovani di talento. Abbiamo uno dei più elevati livelli di istruzione nel Medio Oriente. Ma siamo troppo divisi. E il sistema premia attraverso criteri settari, politici, famigliari. Non premia il merito. Questo è il nostro maggiore problema».

Lei è il leader storico dei drusi, dello Shuf. È preoccupato per il futuro del suo popolo, anche alla luce di quello che accade in Siria?  

«Sono un libanese prima di tutto. Dobbiamo restare uniti. In questo senso l’accordo fra i due leader cristiani Michel Aoun e Samir Geagea è un buona cosa, va nel senso dell’unità. È la mia linea: essere corretto e onesto con tutti. Almeno fino all’elezione del presidente. Ma quella verrà decisa a Teheran, o a Mosca, non lo so. Siamo parte dell’Impero persiano, ormai».

L’Isis siamo noi

segnalato da Barbara G.

Parigi – Iraq, sola andata. L’ISIS siamo noi

di Gabriele Neri – battibit.org, 14/11/2014

Ci deve essere stato un fraintendimento. Noi vi massacriamo dal 2001 per il petrolio e il gas. La nostra è una guerra per le risorse. Voi adesso ci massacrate per la religione.
Fermate i  lavori. In realtà è meglio dirla diversamente.
Noi vi massacriamo per il petrolio dicendo che è per la democrazia e contro il terrorismo. E così facendo, qualche anno fa, abbiamo armato il nuovo esercito iracheno sciita per contenere la guerriglia per bande che si è scatenata mentre abbiamo compiuto uno dei più grandi genocidi contemporanei. Per di più motivato con prove false (le armi di distruzione di masse inventate dai nostri Colin Powell).

Abbiamo buttato fosforo bianco su Falluja, diviso etnicamente un paese prima laico, importato la democrazia reintroducendo la pena di morte con processi sommari all’ex regime di Saddam Hussein, spiegato al mondo qual è la democrazia secondo noi, con le torture dei nostri soldati ad Abu Grahib (ricordate?), introdotto manuali sulla tortura, sequestrato persone in tutto il mondo con voli segreti (anche in Italia!), allestito Guantanamo, carcere degno dei nemici che diciamo di combattere.

Lo abbiamo fatto MENTRE Shell, Exxon, Eni, Total, Repsol e molte altre industrie del petrolio saccheggiavano oro nero dall’Iraq, garantendo la sicurezza degli impianti con mercenari privati. Abbiamo dipinto l’Iran come il mostro assoluto, fiancheggiatore di Al Qaeda. I barili di petrolio se ne andavano dal Golfo Persico e pensavamo che questa situazione di instabilità politica permanenete in Iraq ci conveniva, perché uno stato fantoccio non avrebbe turbato i nostri interessi. E il terrorismo stesso della banda di Bin Laden sembrava quasi sconfitto, lui stesso morto (?).

Solo che brutalizzare, stuprare, dividere, umiliare, massacrare milioni di persone nell’area ha avuto un effetto. Creare una banda di fanatici che, facendo leva sulla disperazione e la disumanizzazione dei disperati, ha colto l’opportunità di costruire uno stato dentro l’Iraq. L’ISIS o Daesh, come volete. Si appella alla vendetta dei sunniti vessati dagli sciiti che si sono ritrovati alla guida del traballante Iraq post invasione. E allora l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, con cui facciamo grandi affari (vendiamo loro squadre di calcio e ci aiutano a pagare il debito pubblico), hanno drizzato le antenne. E mentre stringono mani a Obama, Renzi e Hollande da un lato, con l’altra allungano dollari e armi a questa nuova Isis. Con la scusa che combatte in Siria contro Assad.

Gli americani lo sanno e lo vedono ma non dicono nulla. Saranno pure dei fanatici ma ci servono per rovesciare un regime che ci sta sulle balle. Gli americani dopo l’Iraq hanno bisogno di porti sul Mediterraneo per ottimizzare l’espropriazione del petrolio medio orientale. La Siria è un obiettivo strategico, lo dicevano già dai tempi di Bush. E così chiudono tutti e due gli occhi. L’Isis diventa quello che è, uno stato organizzato tra Siria e Iraq. E mentre gli americani e gli occidentali si preoccupavano solo di garantire la sicurezza dei pozzi petroliferi coi contractor, l’ISIS, con armi e finanziamenti sauditi, conquistava il resto dell’Iraq, svaligando anche banche (come a Tikrit nel 2014) con riserve d’oro per milioni di dollari.

Questo nemico è truffaldino nei moventi tanto quanto noi che diciamo di essere in Medio Oriente per la democrazia o l’antiterrorismo. L’ISIS non fa una guerra di religione. Anche se la proclama e attacca in casa nostra il nostro modo di vivere, il nostro stile di vita. L’ISIS combatte una guerra di dominio e sfruttamento delle risorse. Si appella a Dio secondo una logica malata e deviata perché serve a far presa su una comunità umana lì in Medio Oriente brutalizzata e de-umanizzata dalla nostra guerra, una comunità disposta ad ogni forma di violenza e vendetta per quello che ha subito lì. La storia ci insegna che la guerra disumanizza sempre e porta a violenze  e sopraffazioni che sembrano inspiegabili. Come ci sembrano i fatti di Parigi. Ma l’ISIS ha presa anche qui, rastrellando il fondo della società, gli esclusi, gli alienati, quelli messi fuori dalla catena di montaggio sociale. I Jihadi John. Ovvero quegli umani brutalizzati e disumanizzati non dalla guerra, ma dall’alienazione prodotta dal capitalismo. E la risposta diventano le fregnacce para religiose dell’ISIS che offrono un movente a disperati che non hanno alcuno strumento culturale o morale per dare un senso alla loro vita.

E finché percepiremo lo shock solo quando toccherà a noi, in casa nostra, subire violenze ingiustificate e amorali, rimuovendo le stragi come quella di Beirut qualche giorno fa o, per citarne una, degli studenti socialisti che volevano aprire una biblioteca a Kobane, allora siamo disumani anche noi. Burattini incapaci di dare un senso e una visione alla nostra vita. Alla mercé della nostra personale ISIS: i Salvini che invocano altri (ancora!) bombardamenti sul medio Oriente indistinto, il Papa che parla di reazione dura e di terza guerra mondale (sì lo ha fatto), Obama e tutti gli altri cialtroni che ci governano, che sono parte integrante del problema.
Finché ci sarà sfruttamento, deprivazione della dignità e della sovranità dei popoli, i poveri saranno boccaloni dei fanatici che li manovrano. Qui e in Medio Oriente. L’Isis adesso va fermata sul campo, ma poteva essere fermata a monte, bloccando lo scempio della guerra in Iraq a suo tempo e cambiando politica nei confronti dei suoi finanziatori, che sono anche nostri finanziatori: gli sceicchi sauditi. E mi dispiace dirlo ma gli unici che stanno facendo qualcosa di concreto contro l’ISIS sono i curdi, che sono nell’elenco dei terroristi di qualsiasi governo occidentale. Preferiamo tenerci stretta la Turchia di Erdogan che schierarci dalla parte di un popolo che non ha neanche nazione ma che si è preso la briga di respingere il fanatismo sul campo di battaglia (mentre si deve difendere pure dai turchi contemporaneamente.)

Se vivessimo in un mondo multi polare per davvero, i paesi del mondo tutto si siederebbero attorno ad un tavolo all’ONU e con una forza militare internazionale metterebbero a tacere l’ISIS e la guerra civile in Siria. Come dovrebbero anche disarmare palestinesi e israeliani e porre fine alla follia attuando finalmente la soluzione di due popoli e due stati. Ma per farlo si dovrebbe anche dire che il mondo si impegna a ricostruire queste aree, non solo con le infrastrutture, ma a recuperare l’infanzia per le nuove generazioni, mandare a scuola chi deve starci, invece di tenere un fucile in mano. Amministrare per decenni queste aree con una forza internazionale, estromettendo gli interessi occidentali o regionali da queste zone. Ricostruire il senso morale e civile di popolazioni che non ce l’hanno più.  E’ un’utopia che il mondo non vuole e non può affrontare. Perché preferisce tenersi il regime di paura che ci rende tutti schiavi di logiche obbligate: la violenza chiama violenza. Che accresce e consolida gli interessi dell’ISIS. Che è il nome di un’organizzazione terroristica e anche il nome che dovremmo dare a tutto il fanatismo violento che tranquillamente pervade la nostra politica e la nostra visione religiosa, quando ci appelliamo alla guerra come risposta a un problema che per altro abbiamo creato noi.

http://www.battibit.org/parigi-iraq-sola-andata-lisis-siamo-noi/

 

A proposito di Isis

Attentati Parigi: per sconfiggere l’Isis è meglio essere razionali

di Peter Gomez – ilfattoquotidiano.it, 14 novembre 2015

“Ora saremo spietati su tutti i fronti”, Francois Hollande reagisce così alla carneficina islamista. Ed è comprensibile che lo faccia mentre a Parigi si contano i morti e ci si chiede se qualche terrorista sia ancora in fuga. D’ora in poi però più che spietati è bene tentare di essere razionali. Partendo da una serie di dati di fatto. La guerra con lo Stato Islamico è in corso ed è destinata a durare anni. Nell’opinione pubblica europea sono minoritarie le posizioni di chi, come il presidente della Camera, Laura Boldrini, afferma che “ci sono alternative all’azione militare”. A torto o a ragione, la maggioranza degli europei e dei loro governi dopo il massacro all’ombra della torre Eiffel vuole una reazione. Che prevedibilmente ci sarà.

Partendo da questa constatazione è quindi il caso di avviare una spiacevole riflessione su cosa si può davvero fare in Siria, in Iraq e in Europa. Dal punto di vista militare va ricordato che la guerra allo Stato Islamico non può essere vinta con i bombardamenti. Le bombe possono servire per rallentare l’avanzata dei guerrieri di Al Baghdadi. Ma non li sconfiggono. E anzi, con le centinaia di vittime civili che producono, finiscono per dare nuove ragioni a chi è intenzionato a colpire nel vecchio continente. Il probabile attentato all’aereo di linea russo di una decina di giorni fa e il massacro di Parigi ne sono la dimostrazione. L’Isis cita le operazioni francesi in Siria tra le ragioni che dal suo punto di vista hanno giustificato le azioni. E, verosimilmente, dà per scontati nuovi e più numerosi raid.

Contro il Califfato, se si sceglie la guerra, servono operazioni di terra. Ma se a muoversi fossero solo, o in maggioranza, gli eserciti occidentali il risultato politico sarebbe scontato: una sorta di scontro tra civiltà destinata a radicalizzare fasce sempre più ampie di popolazione mussulmana in tutto il mondo. Anche questo, a ben vedere, è uno degli obiettivi dell’Isis. Coinvolgere gli altri stati islamici è dunque una via obbligata. Ma, va detto chiaro, è pure una via complicatissima. In Iraq gli Stati Uniti non sono finora nemmeno riusciti a ottenere un vero appoggio da parte delle tribù sunnite, hanno speso 500 milioni di dollari per addestrare 60 (sessanta) miliziani siriani in funzione anti stato islamico, e la partecipazione di Emirati Arabi Uniti, Giordania e Arabia Saudita alla coalizione che bombarda i guerrieri è sostanzialmente di facciata. Gli accordi con gli sciiti (che continuano a subire attentati dinamitardi, l’ultimo a Beirut il 12 novembre ha fatto 43 morti) sono poi resi ardui dal loro legame col dittatore siriano Bashar Al Assad, appoggiato da Mosca. È indispensabile, per tentare di mettere assieme il puzzle, che Russia e Stati Uniti finalmente si parlino e trovino una via comune.

Per questo il premier italiano Matteo Renzi ha ragione quando dice che “la battaglia sarà lunga e difficile”. E lo sarà pure per l’Italia visto che il rischio terrorismo nel nostro Paese cresce di giorno in giorno. Roma per l’Isis è un obbiettivo reale. L’esperienza insegna che quello che lo Stato Islamico ha finora dichiarato via internet di volere fare, ha poi tentato di farlo. Spesso, come a Parigi, riuscendoci.

I nostri investigatori e la nostra intelligence, anche in virtù di antiche relazioni con le autorità di una serie di paesi dell’aerea, sono fino a oggi stati particolarmente bravi nel proteggerci. La stragrande maggioranza della comunità musulmana in Italia non vuole poi avere a che fare nulla con i terroristi. Ed è il caso che tutti i partiti politici si rendano conto di come, non per ideologia, ma almeno per convenienza, rafforzare rapporti con i suoi esponenti sia la cosa giusta da fare. Solo chi vive in quel mondo può segnalare i pericoli in essa presenti. Esattamente come è accaduto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in molte fabbriche italiane dove erano i sindacalisti, gli operai e gli iscritti al Pci a indicare i simpatizzanti dei brigatisti. Oggi si deve seguire la medesima strategia. Ricordando, senza voler lanciare inutili allarmismi, che per 4 volte negli ultimi 5 anni le autorità di paesi dell’Est come la Moldavia hanno scoperto tentativi di vendere materiale radioattivo a gruppi estremisti da parte di organizzazioni criminali. E che, salvo quanto mai opportuni ripensamenti, il Giubileo è alle porte. Come alle porte, o già tra noi, sono gli uomini e le donne dell’Isis.

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Le reclute dell’odio (Quegli assassini della “Scheda S” che crescono nelle banlieue)

di Renzo Guolo – Repubblica.it, 14 novembre 2015 (segnalato da GiuliaPingon)

LA FRANCIA ancora sotto tiro del jihad. Questa volta non più la redazione di un giornale o un ristorante ebraico, comunque simboli direttamente collegabili all’ostilità palese degli islamisti radicali ma bar e locali notturni, considerati dai fanatici luoghi di perdizione e del vizio occidentali. È quella che, dopo l’attacco a un deposito di gas di un “lupo solitario”, avevamo chiamato la jihad della vita quotidiana. La più subdola e pericolosa, perché, nell’intento di generare terrore, colpisce luoghi nei quali non ci si aspetta di essere colpiti dal furore ideologico e la sorveglianza è difficile.

Accade non casualmente, nel giorno in cui in Siria viene colpito Jihadi John, nell’Esagono ormai terra della jihad. Lo dicono i numeri dei foreign fighters transalpini e dei simpatizzanti radicali che non hanno voluto o potuto espatriare. Sono circa millecinquecento i giovani francesi riconducibili alla filiera islamista radicale coinvolti nel conflitto siro- iracheno. L’età media è tra i 15 e i 30 anni. Nel totale sono aumentati, nel 2015, dell’84% rispetto all’anno precedente. I convertiti autoctoni sono circa un quarto del totale: il 22% degli uomini, il 27% delle donne. I francesi che si trovavano nelle zone di combattimento all’inizio del 2015 erano 413 fra cui 119 donne. In 261 hanno lasciato la regione: 200 dei quali per tornare in Francia. Alla metà del 2015 erano 126 i caduti in combattimento. Cifre che facevano presupporre quello che è accaduto Le partenze sarebbero verso Siria e Iraq state molte di più se senza l’azione di prevenzione delle forze di sicurezza, che hanno fermato centinaia di persone prima che partissero, e i colloqui “dissuasivi” avviati dalla Dcri, i servizi d’informazione interni, mirati a fare sentire al potenziali jihadisti il fiato sul collo dello Stato. Un panorama ancora più problematico, se lo sguardo si allarga ai titolari di una scheda “S”, sigla che indica quanti sono ritenuti potenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato: sono oltre cinquemila gli islamisti radicali che ricadono in questa classificazione. Cifra che impedisce una sorveglianza necessariamente indirizzata verso individui il cui grado di pericolosità viene ritenuto elevato. Non è casuale che alcuni degli autori degli attentati che, a partire dal 2012, hanno periodicamente colpito il paese, fossero titolari di una fiche “S”.

Questa terribile istantanea, che fissa numeri da brivido, fa comprendere come il livello di rischio sia enorme in Francia. Da tempo l’Is rivolge particolare attenzione all’Esagono, come ricorda la rivista

Dar Al Islam, edita da Al Hayat e specificamente rivolta al mondo francofono. Il fatto che l’Isis pubblichi una rivista in francese, testimonia l’importanza assegnata nella sua strategia alla penetrazione tra i musulmani francesi e francofoni. Dopo gli attentati a Charlie Hebdo la copertina di un numero della rivista, che ritraeva la Torre Eiffel, era titolata Allah maledica la Francia”. All’interno, oltre un articolo sul dovere di attaccare chi insulta il Profeta, un omaggio al “Soldato del califfato” Koulibaly, con la giustificazione religiosa del suo operato e un pezzo sull’inimicizia storica tra la Francia e l’islam. Alla Francia “crociata” gli jihadisti imputano il ruolo avuto nei conflitti in Afghanistan, Iraq, Siria e Mali. Ma la colpa si estende anche al passato, dal momento che, per gli islamisti radicali, la pesante eredità coloniale di Parigi ha prodotto deculturazione e secolarizzazione, anche nei paesi della Mezzaluna decolonizzati.

Odio e reclutamento prosperano per il diffondersi a livello globale dell’ideologia radicale. Ma nel caso francese si nutre anche di un malessere tutto transalpino. La situazione esplosiva nelle banlieue; la mancata integrazione, in assenza di politiche pubbliche falcidiate dalla crisi del welfare, dei giovani che le popolano. Il difficile rapporto tra i banlieusardes e le forze di polizia nei quartieri difficili, in un contesto nel quale la vita di strada ne fa presto clienti fissi di commissariati e tribunali. Naturalmente, tutto ciò non giustifica in alcun modo lo stragismo sanguinario che colpisce un paese che si vuole brutalmente terrorizzare con la violenza. Con le conseguenze sul piano della deriva xenofoba e delle torsioni della democrazia che si possono immaginare. Sparando sulla folla, gli jihadisti cercano una drammatica semplificazione del campo secondo la logica amico/nemico. Nell’intento di chiamare alle armi sempre più sostenitori in uno scontro che, nonostante la reazione che si profila all’orizzonte, non pare volgere al termine in tempi brevi.

La colpa è dell’Islam (?)

Parigi sotto attacco: la colpa è dell’Islam (?)

di Shady Hamadi – ilfattoquotidiano.it, 14 novembre 2015

“È l’Islam il problema. La violenza che vediamo è il naturale frutto di una religione violenta” è questa l’idea che si diffonde a macchia d’olio in queste ore. Era la stessa idea che dilagava nelle ore, e nei giorni, dopo la strage di Charlie Hebdo. Tutte le responsabilità sono affidate a questa fede che sarebbe in antitesi con tutte le cose belle (democrazia, libertà e illuminismo – una parola molto ricorrente) dell’Occidente. La nuova strage a Parigi, dove hanno perso la vita 127 persone, sarebbe l’ennesima conferma dell’idea all’inizio. Allora si può cominciare a dare la responsabilità di quello che succede a oltre un miliardo di persone.

Le forze reazionarie in Europa, i paladini dell’identitarismo, non aspettavano altro per cominciare il loro proselitismo politico: la raccolta del consenso. «Più sicurezza contro il nemico esterno, l’Islam» gridano in questi istanti gli imprenditori della paura in tutta Europa. E come potrebbero avere torto? Perfino persone che sono sempre state disposte al dialogo si arrendono di fronte a quella che pare l’evidenza: l’Islam è una religione dell’odio. Ripongono il dialogo nell’armadio dei ricordi e da moderati passano al gruppo di chi vuole la chiusura delle frontiere. “Questi musulmani”, ci diranno fra un po’, “sono tutti pericolosi. Il fondamentalista islamico è il nostro vicino di casa. Obblighiamoli a indossare un segno di riconoscimento. Magari una mezza luna”. Qualcuno potrebbe proporre di ritirare la cittadinanza a chi è nato e cresciuto nei nostri paesi da genitori musulmani perché potenzialmente pericoloso. Sarebbe sbagliata una scelta del genere? No, se viene generalizzato il problema e la colpa diventa di tutti indistintamente. Alla fine sono “Bastardi islamici” come titola Libero. Di fronte alla facilità di cadere nel bacino, sempre più capiente, dei partiti xenofobi europei l’unica cura pare quella difficile dell’analisi di quello che è il Medioriente oggi e la rilettura della nostra Storia, quella europea. Scopriremmo molte cose interessanti e, fra le tante, che, in alcuni periodi storici, quando è stata generalizzata la colpa a una etnia o gruppo religioso si sono aperti gli anni bui che sono terminati con i massacri di questi capri espiatori.

Buttare le colpe sull’Islam, questa entità vuota, sconosciuta a troppi, è un gioco estremamente semplice che si alimenta grazie all’ignoranza e che ci impedisce di ragionare su quali sono i motivi che creano il fondamentalismi. Dico fondamentalismi perché Boko Haram è differente da Isis; l’Isis è differente da Al Qaida. I contesti sociali, linguistici, storici dove sono nati questi fenomeni non hanno nulla in comune fra di loro se non l’estrema povertà causata dallo sfruttamento di risorse e lo strapotere di élite politiche e economiche che creano dislivelli di ricchezza enormi.

Al fondamentalismo islamico c’è chi, come le formazioni di estrema destra, invoca il ritorno allo status quo precedente al 2010, alle primavere arabe. “Bisogna far tornare i vecchi regimi perché davano stabilità!”, dichiarano, “perché Saddam, Asad, Gheddafi ecc… sono il male minore”. Ai musulmani servirebbero dei tutori, dei massacratori. Poco importa se chi li aiuta a instaurarsi al potere si definisce democratico. La morale qui non vale. Non vediamo invece che la maggior parte dei giovani arabi che entrano nelle formazioni fondamentaliste hanno 30 anni e sono cresciuti educati e formati proprio sotto questi governi considerati “mali minori e laici”. Con questo intendo che dobbiamo domandarci “cosa spinge alcuni giovani nati e cresciuti sotto i regimi – buoni, come li considera qualcuno – a propendere verso il fanatismo?”. La risposta è la costante mancanza di libertà, l’asfissia sociale, la consapevolezza di non poter cambiare le cose e l’accettazione – da parte di alcuni di loro − della morte come eventualità quotidiana.

Quest’ultimo punto è stato per me evidente due giorni fa. Camminavo nel centro di Beirut con un mio amico e da qualche ora c’era stato l’attentato che aveva causato quasi 50 morti. Intorno a noi la gente riempiva i bar e la vita procedeva tranquilla. Questo amico mi ha chiesto che cosa pensassi: “non ti sembra strano che tutto proceda come se nulla fosse”? “È la temporaneità”, gli ho risposto, «”la concezione che nulla sia duraturo. È tutto fragile. Domani può arrivare un aereo di chissà quale Stato, sganciare una bomba e andarsene. Tutti sanno che non ci sarà nessuna reazione. La vita si è plasmata qui, e in altri luoghi del mondo arabo, intorno alla costante insicurezza”. Non è una concezione vittimistica della vita ma direi l’accettazione dell’eventualità della morte. Così, noi in Europa, non capiamo che le vittime di Beirut sono vicine, insieme a quelle in Siria, in Palestina, Israele, Iraq e Yemen a quelle di Parigi.

Ma solo le ultime raggiungono lo status di vittime perchè ci identifichiamo con loro mentre le altre sono numeri. Quando proveremo empatia verso tutti; quando la smetteremo di chiedere a ogni musulmano vicino di casa di sentirsi in colpa e condannare gli attentati; quando proveremo tutti insieme, musulmani, cristiani, ebrei – tutti noi – la solidarietà a prescindere dalla nazionalità, allora il fondamentalismo avrà fine. Questo sforzo deve arrivare da tutte le parti. Preme però sottolineare che il punto essenziale, oggi, è capire che la Siria e la guerra (incompresa) che si combatte lì, ha ripercussioni dirette nelle nostre società. Solo la risoluzione di quella catastrofe, che miete centinaia di morti al giorno, può dare un contributo fondamentale alla stabilità dell’area. Ma la scelta per risolverlo non deve essere fra un regime e il fondamentalismo: dobbiamo scegliere il popolo, la gente.

Solo il dialogo ci salva dai tempi bui, ma questa strada è sempre la più difficile.

Giocare col fuoco

in risposta a Roberto Saviano (http://www.repubblica.it/cronaca/2015/01/17/news/l_odio_per_il_bene-105127589/?ref=HRER3-1)

di Lame

Abbiamo pagato per salvare Vanessa e Greta. Lo dice la legge delle probabilità (ovvero: acca’ nisciuno è fesso). Sono contenta che lo abbiamo fatto perché non sarebbe stato umano lasciarle a morire nell’inferno in cui si trovavano.
Sono invece dispiaciuta che il ministro degli esteri neghi continuamente il pagamento. È una menzogna che ci tiene confinati nel dibattito intellettualmente e umanamente volgare di questi giorni. Ci impedisce di ragionare sui fatti e quindi di costruire un pensiero collettivo sensato sulla spinosissima questione sequestri&riscatti.
Detto questo però, vorrei avere maggiori dettagli sulla missione delle due ragazze.
Perché, mi spiace per Saviano, ma dire che le due “avevano esperienza” nel campo è una orribile e pericolosissima balla.
Hanno 20 e 21 anni e il massimo delle loro esperienze internazionali (come ricavo da stringate biografie) sta in qualche mese passato al riparo delle missioni cattoliche in paesi tra i più tranquilli (Zambia e India, stando alle cronache).
Posso dire con sicurezza che non bastava per avventurarsi in Siria.
Non discuto il diritto di assumersi dei rischi per ragioni ideali. È giusto e generoso. Pure se le conseguenze sono pagate con soldi (anche) miei. L’ho già detto: sono contenta che abbiamo pagato.
Ma assumersi dei rischi, avendo valutato la situazione ed essendo adeguatamente preparati, è cosa diversa da buttarsi nel fuoco senza difese.
Mi domando, ad esempio, quale preparazione psicologica avessero queste due ragazzine infiammate da grandi ideali (com’è giusto che sia alla loro età). Penso che in realtà siano partite con le seguenti due idee di fondo: primo ”noi siamo i buoni”, secondo “abbiamo amici locali che ci proteggono”.
Senza capire che chi ti vende di solito è la tua guida locale. Senza rendersi conto che entrare in situazioni come quella siriana vuol dire non potersi fidare mai di nessuno e doversi sempre guardare le spalle. Senza avere coscienza di essere un bancomat ambulante anche per i tuoi amici o collaboratori sul posto. Gente che certamente non ha niente a che fare con i tagliagole, ma che per disperazione può convincersi che una piccola informazione sui tuoi spostamenti non è una cosa grave. Soprattutto se quell’informazione viene pagata soldi vitali per la sopravvivenza. O se in cambio di quell’informazione ti promettono che lasceranno in vita tua moglie o i tuoi figli.
In molte situazioni nel mondo, essere bianco e occidentale, equivale a diventare un bancomat ambulante, a vari livelli. Saperlo e capire il contesto, capire come organizzare una missione, è cosa che riesce a fatica a gente di ben altra esperienza e visione delle situazioni.
E perfino così non hai certezze.
Ma se hai vent’anni e sei animato da sacri fuochi, e sei impreparato, ti infili nella bocca del leone da sola.
Quindi, sono contenta che abbiamo pagato per liberarle. Ma per favore dite a Saviano di smetterla di dire cazzate, che non venga in mente ad altri di buttarsi nel fuoco a mani nude.