Ue

Scusate il ritardo.

Emissioni inquinanti, Italia inadempiente sui dati del 2015: ‘Comunicati fuori tempo per problemi tecnici’. Unico Paese dell’Ue

Triskel182

Roma non ha fornito a Bruxelles informazioni relative a oltre 3.000 stabilimenti. Lo si legge sul sito dell’E-Prtr, il Registro europeo del rilascio e trasferimento degli inquinanti: “Non sono state comunicate entro la data richiesta”, marzo 2017.

L’Italia è l’unico Paese a non aver fornito alla Commissione europea i dati relativi al 2015 sulle emissioni inquinanti di oltre 3.000 stabilimenti nei tempi stabiliti dal Regolamento comunitario. Così, ora che il registro è pubblico, nella mappa delle circa 30mila industrie dei Paesi membri e di Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Serbia e Svizzera, la Penisola è un buco nero senza alcuna informazione. E la situazione non cambierà almeno fino a novembre.

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#salvailsuolo

Il suolo ci sostiene: ci camminiamo sopra, ci nutriamo dei suoi prodotti, usiamo le sue risorse. Il suolo è in pericolo, sosteniamo il suolo.

Chiediamo alla UE di legiferare (finalmente) sulla tutela dal suolo: conto la cementificazione, per la sua protezione da inquinamento ed erosione.

Firmamo la petizione lanciata in tutta Europa da 400 associazioni.

HaiVolutoLaBici?

Di questa iniziativa avevo già parlato QUI, ma val la pena ricordarla. Centinaia di associazioni si sono riunite per chiedere al Parlamento Europeo di redigere una norma a tutela del suolo: serve un milione di firme da raccogliere entro settembre, si può firmare on line oppure su modulo cartaceo, rivolgendosi alle associazioni aderenti (per l’Italia ricordo, fra le altre: WWF, Legambiente, SlowFood, Acli, FAI, Salviamo il paesaggio, Oxfam e molte altre).

Dalla salvaguardia del suolo dipende il nostro futuro.

salvailsuolo-social-card01

Ogni anno in Europa spariscono sotto il cemento 1000 kmq di suolo fertile, un’area estesa come l’intera città di Roma.

Senza un suolo sano e vivo non c’è futuro per l’uomo. Oggi il suolo è violentato, soffocato, contaminato, sfruttato, avvelenato, maltrattato, consumato. Un suolo sano e vivo ci protegge dai disastri ambientali, dai cambiamenti climatici, dalle emergenze alimentari. Tutelare il suolo è il primo modo di proteggere uomini, piante…

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Il segreto di Emma

Migranti, Emma Bonino: “Siamo stati noi tra 2014 e 2016 a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia”

“All’inizio non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli”, ha spiegato l’ex ministra degli Esteri del governo Letta, evocando un accordo mirato a far sì che le operazioni fossero coordinate da Roma. Ora “disfare questo accordo adesso è piuttosto complicato”.

di F.Q., 5 luglio 2017

“Siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino”. Il sostanziale isolamento dell’Italia in Europa sulla questione immigrazione, secondo l’ex ministra degli Esteri del governo Letta Emma Bonino, è anche colpa dell’Italia stessa. “Nel 2014-2016”, quindi durante il governo Renzi, “che il coordinatore fosse a Roma, alla Guardia Costiera e che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi, violando di fatto Dublino”, ha detto alcuni giorni fa Bonino, intervistata dalla direttrice del Giornale di Brescia Nunzia Vallini durante la 69esima assemblea di Confartigianato Brescia.

Il riferimento era al fatto che l’operazione europea Triton, partita nel 2014 dopo la fine di quella italiana Mare Nostrum, prevede che le navi dei Paesi europei che pattugliano il Mediterraneo portino i migranti eventualmente soccorsi in Italia. Anche se Triton non è pensata come missione di salvataggio, bensì di controllo delle frontiere.

“All’inizio”, secondo l’ex titolare della Farnesina, “non ci siamo resi conto che era un problema strutturale e non di una sola estate. E ci siamo fatti male da soli. Un po’ ci siamo legati i piedi e un po’ francamente abbiamo sottovalutato la situazione”. Ora quindi si cerca di correre ai ripari, si litiga con Bruxelles e con gli altri Stati membri e facciamo fatica a farci ascoltare. Ma “disfare questo accordo adesso è piuttosto complicato”. Anche se “io non apprezzo per niente né l’atteggiamento spagnolo, né francese, né quello degli altri”.

Per la Bonino le speranze di migliorare la situazione al vertice di Tallinn, che inizia giovedì, per l’Italia sono davvero poche. Quanto alle intese con la Libia, “non si può fare un accordo, ammesso che sia accettabile, semplicemente perché ha due governi, due parlamenti, 140 tribù”. “Una delle cose di cui sono più orgogliosa – ha aggiunto – è Mare Nostrum”, l’operazione militare e umanitaria di salvataggio in mare avviata nell’ottobre 2013 proprio dal governo Letta e terminata nel novembre dell’anno successivo. “Sono convinta che sui cadaveri non si costruisce niente. Poi non l’abbiamo voluta più perché troppo cara. Poi è intervenuta l’Ue prima con Triton e poi con l’operazione Sophia“.

I pugni sul tavolo

segnalato da Barbara G.

di Mattia Feltri – lastampa.it, 19/05/2017

Ieri a Bruxelles c’erano due riunioni, una del Consiglio dei ministri europei degli Interni e l’altra del Consiglio dei ministri europei della Difesa. Ministri italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Nella prima riunione si parlava di un tema di cui noi italiani dovremmo avere orecchiato qualcosa: l’immigrazione; nella seconda si parlava di un tema già più ignoto, ma a occhio, abbastanza interessante: il futuro della difesa unica. Sottosegretari italiani presenti all’una e all’altra riunione? Zero. Dopo le due riunioni, i partecipanti dell’una e dell’altra si sono ritrovati in un pranzo collettivo per parlare di un tema che potremmo avere incrociato in qualche cronaca di tg: il terrorismo. Ministri o sottosegretari italiani presenti al pranzo? Zero. Certo è un vero peccato, perché se i nostri uomini di governo avessero incontrato i colleghi comunitari, si sarebbero cavati il gusto di battere i pugni sul tavolo, come è stato ripetutamente promesso. Invece, così, gli sarà toccato di batterli dall’Italia, e il rimbombo dell’irritazione arriva al massimo nella stanza accanto. E poi non è nemmeno la prima volta, succede di frequente, e purtroppo. Avranno di meglio da fare, oppure capiterà di perdere l’aereo, o più probabilmente gli toccherà di onorare convegni e salotti televisivi in cui dire che l’Europa così com’è non va. Anche se invece va, ma senza di noi.

Ps. Uno dei danni collaterali del riciclaggio sedentario di intercettazioni è che si finisce col non parlare mai delle colpe vere.

Il golpe e l’indignazione pelosa

segnalato da Barbara G.

Turchia: il golpe e l’indignazione pelosa

di Fulvio Scaglione – fulvioscaglione.com, 20/07/2016

“Scene rivoltanti di giustizia arbitraria e vendetta”, fa dire la cancelliera Merkel ai suoi portavoce. Per aggiungere di persona che la reintroduzione della pena di morte “significherebbe la fine delle trattative per l’ingresso nell’Unione Europea”. Il dopo-golpe della Turchia è scandito dagli arresti ordinati da Recep Erdogan, che ormai si contano a migliaia tra soldati, poliziotti, prefetti, governatori e magistrati. Ma anche dai moniti e, come si vede dal caso tedesco, anche dalle minacce che arrivano da Occidente.

La Merkel non è stata l’unica a legare pena di morte e accoglimento nella Ue. Lo hanno fatto anche Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza della Ue, e il nostro ministro degli Esteri Gentiloni. Al coro europeo si è unito il solista d’oltreoceano. Gli Usa, per bocca del segretario di Stato John Kerry, hanno addirittura legato “il mantenimento dei più alti standard di rispetto per le istituzioni democratiche e per l’applicazione della legge” alla permanenza della Turchia nella Nato.

Tutto questo avrà di sicuro una qualche influenza sul modo in cui Erdogan deciderà di varare il nuovo atto del suo regno sulla Turchia: il terzo, quello del potere assoluto, dopo il primo del consenso conquistato con il decollo economico e il secondo dell’avventura imperialista neo-ottomana. Allo stesso tempo, però, rivela tutto il disagio con cui l’Occidente, e non da oggi, maneggia il “caso Turchia”.

Certo, la gigantesca purga che Erdogan vuole varare, agitando su golpisti veri e presunti la spada della pena capitale, lo porterà ben lontano da ciò che, in termini di applicazione della democrazia e amministrazione della giustizia, si richiede a un Paese dell’Unione Europea.Ma non è che prima del golpe la Turchia fosse molto vicina. Negli ultimi anni Erdogan ha varato una serie di riforme che hanno regalato ai servizi segreti (nei giorni scorsi il suo vero baluardo) poteri insindacabili, tolto alla magistratura gran parte dell’indipendenza rispetto al potere esecutivo, ridotto il diritto alla libera espressione, mortificato la libertà di stampa, limitato fortemente i diritti civili.

Non si sentivano, allora, molti appelli alla moderazione e al rispetto dei sacri principi.Allo stesso modo, nel recente passato né gli Usa né la Nato (di cui Kerry, è bene notarlo, parla come di una proprietà privata) si preoccupavano degli “alti standard” che ora invocano, nemmeno di fronte alla repressione nelle regioni curde o alla benevolenza della Turchia nei confronti delle decine di migliaia di foreign fighters che attraversavano il suo confine per andare a sterminare gente in Siria e in Iraq. Anzi, allora la Nato degli “alti standard” si impegnava a proteggerlo, quel confine, e a stendere il proprio velo militare a sostegno di Erdogan. Succedeva l’altro ieri, non mille anni fa.

Finché la Turchia faceva comodo per intercettare, ben pagata, i profughi che tanto inquietano gli europei o per smembrare la Siria di quell’Assad tanto inviso agli americani e ai loro alleati in Medio Oriente, la moderazione di Erdogan non sembrava così indispensabile. Oggi sì. Ma oggi forse è tardi: il cavallo scosso Erdogan da tempo non risponde alle redini dell’Occidente ed è difficile che lo faccia, sia che abbia superato un golpe vero (che comunque non può avere mandanti solo interni alla Turchia), sia che ne abbia organizzato uno finto. Comunque, dopo aver ottenuto un potere quasi assoluto.

In questo clamoroso riposizionamento collettivo, c’è un personaggio che bada bene a non farsi notare ma potrebbe intascare un ottimo dividendo economico e politico: Vladimir Putin. Il signore del Cremlino è stato uno dei primi a parlare con Erdogan dopo il vero-finto golpe e i due si sono promessi di incontrarsi al più presto. La crisi seguita all’abbattimento del caccia russo nel novembre del 2015 aveva mandato all’aria scambi commerciali del valore di 45 miliardi l’anno e un rapporto strategico per entrambi i Paesi, soprattutto nel settore dell’energia. Lo zar e il califfo si erano rappacificati poche settimane fa e rilanciare l’intesa è ora negli interessi di entrambi. Della Turchia, se vorrà proseguire nel duro confronto con l’Europa e gli Usa. Della Russia, che in quel confronto è da tempo impegnata.

Pubblicato su Avvenire del 19 luglio 2016

Varoufakis sbaglia (?)

segnalato da crvenazvezda76

Varoufakis sbaglia: la torre europea va sorretta, non buttata giù

di Roberto Sommella – huffingtonpost.it, 7 febbraio 2016

Yanis Varoufakis sbaglia, pur nel nobile intento di smuovere la palude in cui ci troviamo: la Torre pendente dell’Europa unita va puntellata, rafforzata nelle fondamenta, non buttata giù. Nel Manifesto dell’ex ministro delle Finanze greco, il Diem25, ci sono dei buoni punti di partenza – riassetto democratico dell’Ue, Assemblea costituente, fine della ‘burodittatura’ di Bruxelles – ma mancano proposte immediatamente operative (leggi QUI il documento di Varoufakis). Che in sintesi dovrebbero essere queste.

1) Noi europei siamo oggi il 7% della popolazione mondiale, produciamo il 25% e consumiamo il 50% del welfare: significa che abbiamo ancora la possibilità di ripartire dall’individuo e non dalle normative. Perché non trovare le risorse nel bilancio Ue di 1.000 miliardi di euro, per un reddito di cittadinanza?

2) Come evitare l’Ue a doppia velocità. L’integrazione europea, dal punto di vista economico, è soprattutto retta da Trattati internazionali ma non ancora europei e da Regolamenti che hanno assunto illegittimamente (e qui Varoufakis ha ragione) il rango di Atti costituenti, come il Patto di stabilità .

Il Fiscal Compact e il Six Pack, regolando invece in modo pro-ciclico la possibilità di indebitamento dei paesi dell’Eurozona, di fatto hanno peggiorato la recessione. A questo si aggiungono la direttiva sui salvataggi bancari (il bail in) e l’Unione bancaria. Quest’ultima poggia su tre gambe fondamentali: la Vigilanza centralizzata (attuata), il Meccanismo di risoluzione delle crisi creditizie (appunto il bail in, attuato ma a livello disomogeneo nell’Ue, come teme lo stesso Mario Draghi) e la Tutela centralizzata dei depositi. Berlino e i suoi alleati del Nord Europa sono contrari alla tutela dei depositi comunitari fin quando non verranno messi paletti al debito pubblico dei paesi e all’acquisto dei bond sovrani, eliminando la clausola del ‘risk free’, che di fatto permette all’Italia di vendere alle banche gran parte dei 300 miliardi all’anno di debito pubblico. Ma ridurre i rischi senza condivisione del debito, senza un Tesoro europeo che emetta eurobond e senza tutela unica dei depositi significa creare un euro di fascia A e un euro di fascia B. Per evitarlo serve un Tesoro unico europeo che emetta titoli di debito comunitari e indichi le politiche economiche da perseguire.

3) Serve una Costituzione Ue. L’euro ha comportato molti vantaggi ma non per le fasce più deboli della società e le istituzioni di Bruxelles sembrano lontane anni luce dai 500 milioni di persone che dovrebbero amministrare. Occorre indire subito, in previsione dei 60 dal Trattato di Roma, una grande Conferenza che stabilisca tre cose: la redazione di una Costituzione Europea, il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, la riforma della legge elettorale con espressa scelta del Presidente della Commissione da parte dell’elettorato. Solo così si riuscirà a passare dall’attuale Confederazione ad una vera Federazione di stati.

4) Conferenza europea sul debito. A parte le dispute, il 3% di rapporto deficit-Pil e il 60% del tetto di rapporto debito-Pil sono ormai anti-storici. Il primo, violato più volte da Francia e Germania all’inizio del Millennio, ha dovuto trovare la foglia di fico della ”flessibilità” concessa da Bruxelles legata alle emergenze (prima la crisi, poi i migranti e poi le spese anti-terrorismo) per essere di fatto sospeso, salvo i diktat improvvisi sulle leggi finanziarie nazionali. Il secondo è bypassato pressoché da tutti (la Grecia e l’Italia ne sanno qualcosa) ma ingabbiato nelle maglie del Fiscal Compact. E’ arrivato il momento di una moratoria su tutte le diavolerie contabili che stanno diventando ingestibili (deficit strutturale, deficit al netto del ciclo, squilibri economici) per gli stessi addetti ai lavori comunitari che controllano i bilanci dell’Eurozona. Servirebbe una Bretton Woods europea sul debito.

5) Senza Schengen l’euro non ha senso. Anche solo indebolire il Trattato sulla libera circolazione degli individui – nella versione che vorrebbe la Germania e cioè limitarlo a pochi paesi ritenuti affidabili del Nord Europa magari instaurando una tassa migranti – significa rendere priva di senso la stessa moneta unica. Schengen, come Maastricht e come il Trattato di Roma, è base fondante dell’Unione Europea, rappresenta la Costituzione materiale dell’Ue. Sospenderlo, lasciando liberi di viaggiare i capitali ma non le persone, darebbe ragione a chi sostiene che l’Europa è fatta solo per i ricchi. Insomma, a quel punto il Movimento Diem25 e i tanti partiti euroscettici avrebbero ragione da vendere.

6) Ellis Island europea. Il caos generatosi dalla combinazione del flusso degli immigrati con la paura di nuovi attacchi terroristici di matrice Isis mette a nudo la mancanza di politica estera dell’Unione Europea. Gli attentati a Parigi e tutti gli altri assalti alle libertà, che hanno coinvolto in vario modo i paesi che sono snodi cruciali dell’immigrazione, dimostrano che serve un’identificazione di pochi e chiari approdi europei (hotspot) e la salda collaborazione dei paesi dell’Unione allargata, che oggi sembrano invece solo prendere dall’Ue senza dare nulla in termini di solidarietà. In vista dei tanti appuntamenti elettorali nel biennio 2016-2017 (politiche spagnole forse di nuovo alle porte, amministrative italiane, presidenziali francesi, elezioni tedesche, referendum inglese sulla Brexit, per non dire della Grexit sempre incombente) che inevitabilmente avranno come tema anche il ritorno alle frontiere, sarebbe cruciale scegliere una Ellis Island europea per dimostrare che l’Unione c’è ma aiuta solo chi rispetta le regole. Col ritorno dei confini e la fine dell’Unione, l’Italia si troverebbe poi di nuovo da sola a vigilare su buona parte tutto del Mediterraneo, cosa che peraltro già fa con la sua Guardia Costiera, sempre in prima linea anche in acque greche e maltesi.

7) Desecretazione degli atti di Commissione, Eurogruppo ed Ecofin. Se questi organi davvero ci rappresentano, occorre che gli atti che preludono e accompagnano tutti i vertici comunitari, vengano resi noti all’opinione pubblica. Non è possibile leggere sui giornali e non in documenti ufficiali che la Germania vuole la Grecia fuori dall’euro o limitare l’emissione di debito pubblico italiano. Questi si’ che sono atti anti-democratici.

Bruxelles corrotta, Europa infetta

segnalato da Barbara G.

Tangenti. Sprechi. Inefficienza. Istituzioni al servizio di lobby potenti e occulte. Ecco tutti i pubblici vizi della capitale. Che affossano la fiducia nell’Unione.

di Gianluca di Feo – espresso.repubblica.it, 01/10/2015

È un tour tra gli edifici più importanti della città: dalla residenza reale al museo di belle arti, dagli uffici ministeriali alle carceri, dall’osservatorio astronomico al palazzo di giustizia. Sono maestosi, coperti di marmi e statue a testimoniare la solidità della virtù pubblica. Eppure per dieci anni a gestirli è stata una cricca: ogni appalto una mazzetta, altrimenti non si lavorava. Tutti sapevano, nessuno ha mai denunciato la rete criminale che ha trasformato il cuore del Paese in una vera Tangentopoli. Non stiamo parlando delle gang romana di Mafia Capitale, questa è Bruxelles: due volte capitale, del Belgio e dell’Europa. E due volte corrotta, nell’intreccio d’affari tra poteri locali e autorità continentali.

Qui non si decide soltanto la vita di una nazione lacerata dalle tensioni tra valloni e fiamminghi, ma il destino di mezzo miliardo di persone, cittadini di un’Unione che mai come in questo momento si mostra debole e inconcludente. Dall’inizio del millennio la fiducia degli italiani, come evidenzia il sondaggio Demopolis, è crollata e solo uno su quattro crede ancora nell’Europa. Bruxelles però è anche il laboratorio in cui la corruzione si sta evolvendo. La mutazione genetica delle vecchie bustarelle in un virus capace di intaccare in profondità la reputazione delle istituzioni europee, diffuso silenziosamente da quei soggetti chiamati lobby. Realtà estranee alla tradizione democratica dei nostri Stati nazionali e molto diverse dai modelli statunitensi, perché qui non ci sono leggi che le regolino, né sanzioni che le spaventino: le lobby sono invisibili e allo stesso tempo appaiono onnipotenti.

LA GIUSTIZIA IMPRIGIONATA

Il simbolo è Place Poelaert, la grande piazza panoramica affacciata sul centro storico di Bruxelles. Da un lato c’è il palazzo di giustizia, con la cupola dorata che svetta sull’intera città: una muraglia di impalcature lo imprigiona da cima a fondo, soffocando le colonne dietro un gigantesco castello di assi che marciscono tristemente. Il cantiere dei restauri è abbandonato da otto anni, da quando i titolari sono stati arrestati, assieme ad altri 33 tra imprenditori e funzionari accusati di avere depredato l’intero patrimonio immobiliare statale.

Proprio di fronte al palazzo della giustizia impacchettato c’è uno splendido complesso rinascimentale, con un giardino impeccabile. È la sede del Cercle de Lorraine, “the business club”, come recita la targa: l’associazione che raccoglie gli industriali più prestigiosi del Paese, baroni e visconti da sempre padroni del vapore assieme ai manager rampanti della new economy. Lì, tra sale affrescate e camerieri in livrea, promuovono i loro interessi. Insomma, sono una lobby. Una delle oltre seimila che presidiano la capitale europea, con più di 15 mila dipendenti censiti mentre altrettanti si muovono nell’oscurità. A Bruxelles il colore degli affari rispecchia il cielo perennemente coperto: si va dal grigio al nero. Non a caso, la frase magica della cricca degli appalti era «bisogna che il sole splenda per tutti».

IL CANTIERE INFINITO

Oggi la città è tutta un cantiere. Sono centinaia. Dall’aeroporto al quartiere generale della Nato, dalla periferia al centro storico si vedono ovunque gru e ruspe all’opera. Per non essere da meno, anche il Parlamento europeo vuole abbattere l’edificio dedicato a Paul-Henri Spaak, completato nel 1993 con un miliardo di spesa: il progetto prevede altri 750 uffici per i deputati del presente e del futuro, rappresentanti delle nazioni che aderiranno all’Unione negli anni a venire. Se però dal Palazzo di Giustizia si va verso il Parlamento percorrendo la chaussée d’Ixelles, la frenesia cementizia si mostra in una luce diversa. La lunga arteria è stata completamente rifatta nel 2013, solo che al momento dell’inaugurazione c’è stata una sorpresa: i marciapiedi erano troppo larghi e gli autobus finivano per incastrarsi l’un contro l’altro. Hanno ricominciato da capo, di corsa. Appena riaperta al traffico, però, la pavimentazione allargata non ha retto al peso dei pulmann e si è riempita di buche, manco fosse Roma. E giù con la terza ondata di lavori: ora la strada sembra una chilometrica sciarpa rattoppata.

Ixelles è un comune autonomo, perché Bruxelles in realtà è un insieme di diciannove piccoli municipi indipendenti, ciascuno con il suo borgomastro. In questo periodo il meno sereno è il sindaco di Uccle, che per undici anni è stato pure presidente del Senato belga. Come avvocato ha difeso una masnada di magnati kazaki, ottenendone l’assoluzione. In cambio ha ricevuto 800 mila euro. «Compensi professionali», ha spiegato Armand De Decker. Il sospetto invece è che la scarcerazione degli oligarchi sia il tassello di un intrigo internazionale: una clausola del patto segreto tra il presidente kazako Nazarbayev e l’allora collega francese Sarkozy per la vendita di elicotteri, in cui era previsto anche «di fare pressione sul senato di Bruxelles». Un’accusa formulata dagli inquirenti parigini, perché le procure locali si guardano bene dall’indagare.

Gli investigatori belgi non hanno fama di efficienza né di indipendenza. La storia recente del Paese è costellata di scandali che si perdono nel nulla, tra trame occulte e massoneria: i parallelismi con l’Italia sono forti e anche qui prospera una cultura del sospetto, che porta i cittadini a diffidare della giustizia. L’inchiesta sulla tangentopoli capitale è partita nel 2005, le sentenze di primo grado ci sono state solo quattro mesi fa. I dieci dirigenti della Régie des Batiments, che per un decennio hanno intascato almeno un milione e 700 mila euro, se la sono cavata con condanne irrisorie. «I fatti sono gravi, ma ormai antichi», ha riconosciuto la corte.

IL BAROMETRO DELL’ONESTÀ

Questa giustizia lenta e spesso inefficace è anche arbitro di parecchi dei misfatti che avvengono nei palazzi della Ue. Sono le magistrature nazionali a procedere penalmente contro i corrotti, perché le agenzie europee possono minacciare soltanto sanzioni amministrative: la punizione massima è il licenziamento, una rarità, mentre più frequenti sono le retrocessioni di grado e soprattuto le lettere di richiamo. Di certo, non un grande deterrente per rinsaldare la moralità dei commissari, dei 751 deputati e dei 43 mila funzionari che gestiscono ogni anno oltre 140 miliardi di euro e scrivono leggi vincolanti per 28 Paesi. Mentre anche dalla loro onestà dipende la credibilità di un organismo sempre meno rispettato.L’istituto statistico più autorevole, Eurobarometro, due anni fa ha lanciato l’allarme: il 70 per cento dei cittadini ritiene che la corruzione sia entrata nelle istituzioni europee. Lo credono 27.786 persone, selezionate scientificamente per rappresentare l’intera popolazione dell’Unione. È un dato choc. La Commissione ha reagito annunciato una crociata contro le tangenti in tutto il Continente. Ovunque, tranne che nei suoi uffici: nel 2014 il primo rapporto anti-corruzione nella storia della Ue ha sezionato i vizi di ogni Paese, senza però fare cenno ai peccati dentro casa: quella che la Corte dei Conti europea ha definito nero su bianco «un’infelice e inspiegabile omissione». D’altronde la presidenza di Jean-Claude Juncker è cominciata nel peggiore dei modi.

Le rivelazioni di LuxLeaks – pubblicate in Italia da “l’Espresso” – hanno messo a nudo il suo ruolo nel trasformare il Lussemburgo nel Bengodi delle aziende in cerca di tasse irrisorie. Per riscattarsi, Juncker ha promesso una sterzata contro l’iniquità fiscale legalizzata. «Ma finora la Commissione è stata passiva su questa materia», sottolinea Eva Joly, per anni il giudice istruttore più famoso di Francia, che ha portato alla sbarra i crimini delle grandi aziende, ed ora è eurodeputato verde: «La follia è che abbiamo al vertice dell’Europa l’uomo che ha arricchito il Lussemburgo grazie alle tasse rubate agli altri, con guadagni che continuano a crescere. Nel Parlamento i verdi hanno imposto la creazione di un comitato speciale: il primo rapporto sarà pronto tra un mese e sarà molto duro. Anche i conservatori ora hanno capito e c’è la volontà di piegare i paradisi fiscali: sono convinta che il Lussemburgo dovrà adeguarsi o uscire dall’Unione».

IL GRANDE CIRCO

Quello che Juncker costruito in Lussemburgo, a Malta lo ha realizzato John Dalli, il ministro che ha fatto dell’isoletta una piazzaforte finanziaria, graditissima agli investitori italiani più spregiudicati e ai miliardi rapidi delle scommesse. Poi nel 2010 Dalli è entrato nel governo dell’Unione: come commissario per la salute ha avuto in mano dossier fondamentali, incluso il via libera alle coltivazioni ogm. Finché la sua carriera non si è trasformata in circo. Letteralmente. Il suo vecchio amico Silvio Zammit, pizzaiolo e impresario circense part-time, è andato in giro chiedendo soldi per conto del «boss». Ha prospettato a una holding svedese la possibilità di spalancare il mercato europeo a un prodotto che piace molto agli scandinavi: lo snus, il tabacco da masticare. Una passione da pirati e cowboy, finora proibita nel resto della Ue, con potenzialità miliardarie: rimpiazza le sigarette anche dove il fumo è vietato. In cambio Zammit ha chiesto una somma niente male: 60 milioni di euro, poco meno della storica tangentona Enimont.

La questione è arrivata sul tavolo dei detective dell’Olaf, l’unità antifrode europea guidata dall’italiano Giovanni Kessler. Con investigatori provenienti dalla Guardia di Finanza, perquisendo di notte l’ufficio del commissario, sono stati trovati «indizi plurimi» del coinvolgimento personale di Dalli. Nell’ottobre 2012 l’allora presidente Barroso ha obbligato il maltese alle dimissioni, firmate molto controvoglia. Tant’è che quando, dopo la sostituzione del capo della polizia, l’indagine penale nell’isola è stata archiviata, Dalli ha cominciato a sparare denunce dichiarandosi vittima di un’ingiustizia. E il parlamento ha criticato l’azione dell’Olaf: «Dal rapporto dei supervisori emergono molti dubbi sui metodi del nostro istituto antifrode più importante, che nei resoconti manipola le statistiche per presentare risultati migliori del reale», sancisce l’eurodeputato verde Bart Staes, membro di spicco del comitato che vigila sul budget, altro caposaldo del sistema di controllo.

L’Olaf si è trovata ai ferri corti pure con la Corte dei conti, a cui ha contestato appalti oscuri. Che a sua volta ha rimandato le accuse al mittente. Insomma, un tutti contro tutti, con esiti abbastanza deprimenti per l’affidabilità dei custodi di Bruxelles. Oggi l’Europa sembra avere tanti cani da guardia litigiosi. E tutti con la museruola: abbaiano, ma non mordono. Il loro compito infatti si limita a suggerire provvedimenti. Fuori dai palazzi della Commissione, non hanno poteri e devono invocare l’aiuto delle polizie nazionali. Che – tra interessi patronali e differenze normative – non sempre collaborano. I detective europei hanno bisogno di un’autorizzazione pure per ascoltare i testimoni. All’Olaf ogni indagine è affidata a una coppia di ispettori, senza assistenti: si fanno da soli pure le fotocopie e passano più tempo a difendersi da tiro incrociato delle altre autorità che non a investigare. Il feeling che si respira è negativo, come se la lotta alla corruzione interna non fosse una priorità, anzi.

EMENDAMENTI CASH

Eppure i campanelli d’allarme non mancano, anche in Parlamento. L’ultimo a essere condannato due mesi fa è stato un ex deputato inglese, Ashley Mote, che ha rubato 355 mila euro grazie a rimborsi gonfiati. È stato uno dei primi eletti del movimento anti-europeo inglese: nei comizi urlava contro il malaffare di Bruxelles, poi falsificava le note spese. Janice Atkinson, sempre dell’Ukip, a marzo si è fatta triplicare la ricevuta dopo il cocktail con la moglie del leader Nigel Farage – 4350 euro invece di 1350 – mentre la sua assistente si vantava: «È un modo di riportare a casa i nostri soldi». E quando nel 2011 un reporter del “Sunday Times” si è finto lobbista, offrendo denaro in cambio di emendamenti a sostegno della sua società, tre deputati hanno abboccato subito. Due – un austriaco e uno sloveno – si sono dimessi e sono stati condannati in patria. Il terzo, l’ex ministro degli Esteri romeno Severin, è ancora al suo posto mentre l’istruttoria a Bucarest langue.

Distinguere tra lobbisti veri e falsi non è facile. A Bruxelles è stato istituito un registro per queste figure, senza vincoli né sanzioni: chi vuole si accredita. L’attivissima sezione europea di Transparency International un mese fa ha dimostrato che metà delle 7821 dichiarazioni ufficiali delle lobby erano «incomplete o addirittura insensate». E in tanti si sottraggono al censimento, a partire dagli studi legali: un’armata che esercita un’influenza nascosta. La soluzione? «Rendere obbligatoria l’iscrizione al registro», spiega Carl Dolan di Transparency. «E bisogna vietare ogni contatto con chi non è iscritto», aggiunge Staes: «Devo ammettere però che in Parlamento non esiste una maggioranza favorevole al registro obbligatorio. Noi verdi, come i 5stelle italiani e alcuni esponenti socialdemocratici, ci stiamo battendo, molti invece sono contrari».

PORTE GIREVOLI

Tra i palazzi delle istituzioni e quelli dei potentati economici ci sono tante porte girevoli. Si passa dagli uffici della Commissione a quelli delle corporation e viceversa. Figure come Lord Jonathan Hill, con trascorsi in società di lobby della City, imposto dal governo Cameron al vertice della struttura Ue che si occupa di mercati finanziari. O il caso sensazionale di Michele Petite, il direttore europeo degli affari legali che si tramuta in consigliere della Philip Morris e poi rientra come presidente del comitato etico che dirime i conflitti d’interesse nella Ue. Ma queste sono le pedine sullo scacchiere di una partita più complessa. Le manovre dei lobbisti intrecciano network che possono seguire la geopolitica dei governi, dei partiti o semplici reti di conoscenze trasversali adeguatamente retribuite. Il terreno di caccia favorito è la zona grigia in cui i grandi propositi dei legislatori europei si trasformano in regolamenti, spesso modesti. Uno dei passaggi più opachi avviene nei “gruppi di esperti” che studiano i dossier caldi. Una ong ha appena svelato che il 70 per cento degli esperti incaricati di valutare la questione del fracking, la discussa tecnica di estrazione petrolifera, hanno relazioni con le compagnie del settore. Non si tratta di un’eccezione, ma di un andazzo molto diffuso.

L’Ombudsman europeo, l’autorità etica più piccola e dinamica, apre un’istruttoria dietro l’altra. Senza spezzare la cortina di ferro che protegge gli intrallazzi. «Bisogna incrementare al massimo la trasparenza, deve esserci sempre una traccia scritta di chi interviene nelle discussioni interne», sintetizza Carl Dolan. I conflitti di interessi pullulano: nel 2012 sono stati segnalati 1078 dipendenti europei con incarichi extra. Quelli sanzionati sono una ventina, quasi sempre con reprimende scritte o verbali. L’impunità è pressoché certa. Per anni il funzionario Karel Brus ha fatto sapere in anticipo agli emissari di due colossi dei cereali, l’olandese Glencore e la francese Univivo, i prezzi stabiliti dall’Europa per gli aiuti agricoli: notizie d’oro, che permettevano di investire a colpo sicuro. In cambio si ipotizza che abbia incassato almeno 700 mila euro. Prima della condanna penale però sono passati dieci anni e il travet è sparito in Sudamerica. E per le due società c’è stata solo una multa: mezzo milione, un’inezie rispetto ai profitti.

LA NUOVA CORRUZIONE

La Commissione ha in mano un’arma micidiale: può bandire le aziende corruttrici da tutti i contratti europei. Misura applicata solo due volte negli ultimi anni. Perché la volontà di fare pulizia sembra labile. Prendiamo il dieselgate di Volskwagen: gli uffici tecnici dell’Unione avevano segnalato i trucchi della casa tedesca da parecchi mesi, ma la denuncia è rimasta lettera morta fino all’intervento delle autorità statunitensi. «Questa è la nuova corruzione. Ed è il nuovo mondo, in cui si agisce tramite logaritmi che falsificano i dati dei computer: la realtà si riduce a schermate digitali, mentre Volskwagen otteneva fondi per produrre auto ecologiche e contribuiva ad aumentare l’inquinamento che uccide migliaia di persone», tuona Eva Joly: «Ma la portata dello scandalo è ancora più grave, perché dimostra che il rispetto delle regole non è più un valore. La Germania, il Paese della legge e dell’ordine, ha ingannato tutti; la loro azienda simbolo ha mentito per anni. Le nazioni che hanno costruito questa Unione stanno perdendo credibilità e non capiscono quanto ciò peserà sul futuro delle nostre istituzioni».

In quello choccante 70 per cento di cittadini che percepisce un’Europa corrotta si proietta una sfiducia più vasta. «È un dato che nasce dallo sconcerto per la debolezza della reazione davanti ai problemi: la crisi economica, il tracollo greco e adesso l’esodo dei migranti», commenta Bart Staes: «La gente sente i racconti sulle pressioni delle lobby, si diffonde il sospetto che l’Unione serva più per tutelare gli interessi economici che i cittadini. C’è la necessità di riforme profonde, che non sono nell’agenda di Juncker. Ma soprattutto bisogna dare risposte concrete: fatti, non storytelling. Partiamo dalla Volskwagen: quasi tutti i produttori di auto sfruttano i buchi nella legislazione per alterare i test, noi verdi abbiamo proposto di cambiare le regole e punire chi mente. Se agisci e la gente vede che i guasti vengono risolti, allora avrà di nuovo fiducia».

CORSI E RICORSI STORICI

Un professore dal cognome altisonante, David Engels, in un saggio ha paragonato il declino dell’Unione al crollo della repubblica nella Roma antica. Oggi come allora, l’allargamento troppo rapido dei confini, il confronto con un’economia globalizzata, la crisi dei modelli religiosi – all’epoca i nuovi culti importati nell’Urbe, adesso l’Europa cristiana alle prese con l’Islam – e il contrasto tra i privilegi dei patrizi e l’impoverimento dei ceti popolari, logorano le istituzioni democratiche. Un’analisi che riecheggia le parole scritte da Altiero Spinelli nel 1941, in quel manifesto di Ventotene che ha partorito l’idea di Europa unita. «La formazione di giganteschi complessi industriali e bancari… che premevano sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi, minacciava di dissolvere lo Stato stesso. Gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo stato totalitario, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi». Era la situazione che ha fatto trionfare le dittature e spinto il continente nel baratro della guerra. L’Europa unita è nata da questa lezione, che ora sta dimenticando.

 

Sinistra di lotta e di governo

Portogallo, fine della macelleria sociale, sinistra pronte a governare

Portogallo. L’esecutivo di destra di Coelho, il meno longevo della storia della democrazia portoghese, è già caduto. Bocciati i diktat di Bruxelles. A Lisbona per la prima volta un’alleanza frentista, di sinistra, anti austerity, potrebbe diventare realtà.

di Goffredo Adinolfi – ilmanifesto.info, 11 novembre 2015

Dopo due giorni di discussione alle 17.05 di ieri pomeriggio al parlamento portoghese inizia la votazione della mozione di sfiducia delle sinistre contro il governo Passos Coelho. Prova di quorum, il dispositivo elettronico sugli scranni non funziona! L’esecutivo meno longevo della storia della democrazia conquista qualche secondo di vita. Si procede così al ben più lento voto manuale. Conteggio, maggioranza! Alle 17 e 17 la mozione è approvata, nessuna defezione, 123 deputati contro 107, governo sfiduciato! Le destre, ora, salvo sorprese provenienti dal palazzo di Belém (presidenza della repubblica), dopo una legislatura all’insegna della macelleria sociale, dovranno tornare all’opposizione.

Passati 40 anni di conventio ad excludendum si è infine «rotto un tabù e si è abbattuto un muro» dice Antonio Costa nel suo intervento all’Assembleia da Repubblica durante il dibattito per l’approvazione della mozione di sfiducia. Passo dopo passo, con grande pazienza, tenacia, coraggio e determinazione il percorso di una alleanza frentista sembra stia per diventare realtà.

Le sinistre, unite per la prima volta, hanno gridato un assordante «no» a Pedro Passos Coelho, uno dei simboli più visibili della politica austeritaria europea e che, nella sua variante lusitana, ha mostrato una intransigenza non inferiore a quella del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble.

Dopo settimane di incertezze la lunga discussione alla camera dei deputati di ieri è stata certamente catartica. Nel principale organo rappresentativo della sovranità popolare, dopo contrattazioni avvenute in modo perlopiù discreto, si sono messe in chiaro le ragioni che hanno portato all’intesa quattro forze politiche — Partido Socialista (Ps), Partido Comunista Português (Pcp), Bloco de Esquerda (Be) e Partido Ecologista os Verdes (Pev) — che sono state, restano e resteranno molto differenti tra di loro. Convergenze parallele di una sinistra — soggiunge Costa — orgogliosamente plurale.

Il segretario Ps affronta a viso aperto una delle maggiori critiche che arrivano da chi si è battuto affinché una maggioranza alternativa a quella della Coligação non fosse costruita: «Essere contro la Nato, l’Euro e le politiche energetiche non implica che non si possa trovare un terreno comune di mediazione.

Un accordo che parte dal presupposto di come sia ora necessario voltare definitivamente pagina al radicalismo ideologico che ha animato la coalizione di destra e inauguri un nuovo ciclo politico che ridia speranza e un futuro di fiducia». È finita l’èra del «cinismo di classe — dice Jeroninmo de Sousa segretario generale del Partido Comunista Português — per cui si finge di parlare in nome del paese per poi occuparsi degli interessi di una piccola minoranza».

Questa destra non solo ha applicato pedissequamente il memorandum con la Troika, ma lo ha reinterpretato in una chiave tanto estensiva da non lasciare nessun settore escluso da una rimodulazione dei rapporti tra lo stato e il cittadino. I bilanci, dice Catarina Martins, sono stati soltanto la punta di un iceberg, perché è il contratto sociale stesso ad essere stato alterato.

Ed é per questo, continua la portavoce del Be, che oggi la destra è isolata nel parlamento, perché in questi anni essa è stata isolata nel paese.
Ultimo a pronunciarsi, prima della votazione finale, è un Passos Coelho che sembra riemergere da un passato ormai superato. Minoritario all’Assembleia, nominato nonostante fosse chiaro che le sinistre, maggioritarie, intendevano farsi governo, si considera purtuttavia vittima, vittima di un parlamento che non gli vuole riconoscere una vittoria mai ottenuta.

Ora il lato orientale e quello occidentale del continente sembrano incamminarsi verso una strada di rifiuto pragmatico ma deciso delle politiche iperliberiste.

Un governo di sinistra anti-austerità — afferma Panos Trigazis membro del comitato centrale di Syriza in una dichiarazione inviata all’agenzia Lusa — rappresenta un sostegno indispensabile agli sforzi portati avanti da Atene a livello europeo.

È inoltre un contributo essenziale per la creazione di una base programmatica anti-austerità e rafforza l’aspettativa di sviluppi simili nella vicina Spagna alle prossime elezioni del 20 dicembre.

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Portogallo, c’è un programma di sinistra

Portogallo. Pronta mozione di sfiducia contro il governo di Pedro Passos Coelho.

di Goffredo Adinolfi – ilmanifesto.info, 10 novembre 2015

Dopo più di un mese dalle elezioni l’accordo tra socialisti, Bloco de Esquerda (Be) e Partido Comunista (Pcp) è stato finalmente concluso. Durante lo scorso fine settimana le segreterie dei tre partiti hanno ratificato in via definitiva il documento programmatico che dà il via libera ad Antonio Costa per formare un governo appoggiato dalle sinistre.

Il testo prevede la cancellazione di fatto di grande parte delle riforme austeritarie di questi ultimi anni. Scorrendo le 138 pagine si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un vero e proprio percorso di smantellamento di quanto fatto a partire dal 2009–2010 quando, a causa della tempesta scatenatasi sui debiti sovrani, il premier socialista José Socrates è stato costretto a firmare con la Troika — Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Unione — un piano di contenimento draconiano del bilancio dello stato e di svalutazione salariale.

Al primo punto dell’intesa misure volte ad «aumentare il reddito delle famiglie per rilanciare l’economia». Nel corso del 2016, se Costa sarà nominato primo ministro, verranno annullati per intero i tagli degli stipendi della funzione pubblica e il salario minimo verrà portato da 505 a 600 Euro entro il 2019 (ovvero una crescita di quasi il 20% che riguarderà circa 500 mila persone). Agli aumenti diretti occorre poi aggiungere quelli indiretti che comunque incidono in modo sostanziale sul potere d’acquisto. I contributi previdenziali verranno ridotti del 4% e compensati da un investimento maggiore da parte della Segurança Social (Inps). Sono inoltre previste una serie di riforme atte a combattere l’uso ingiustificato del lavoro autonomo, per favorire l’occupazione e ridurre i livelli di precarietà. Infine verranno reintrodotti i giorni festivi aboliti nel 2011 che passeranno da 9 a 13.

Riguardo all’Europa — una delle tematiche più controverse visto il presunto antieuropeismo di comunisti e blocchisti — ci si trova di fronte a una sorta di paradosso. Dal documento concordato sembrerebbe infatti emergere la volontà di portare ulteriormente in avanti il processo di integrazione e, soprattutto, di democratizzazione dei processi di decision-making (ri)dando maggiore centralità, in quanto principale organo rappresentativo della sovranità popolare, al parlamento. Intanto ieri pomeriggio è iniziato il dibattito all’Assembleia da Republica che si concluderà oggi con l’approvazione della mozione di sfiducia contro il governo guidato da Pedro Passos Coelho. A questo punto il capo dello stato Aníbal Cavaco Silva dovrà decidere quale cammino intende seguire: se dare luce verde ad un esecutivo frentista, mantenere un governo di gestione o addirittura promuovere un governo di iniziativa presidenziale.

Al momento le polemiche riguardo le denunce di «colpo di stato» lanciate dal Telegraph qualche settimana fa e che tanta eco hanno avuto nei media internazionali, sembrano essersi sopite. Anche il potente ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble ha mostrato tranquillità dicendosi convinto che il Portogallo proseguirà comunque sulla strada della crescita.

Sia come sia da questa sera inizierà un percorso del tutto inedito e quindi ancora molto incerto nella recente storia portoghese e che, ne siamo certi, avrà un impatto non solo interno ma anche sulla Spagna (si voterà il prossimo 20 dicembre) e sull’intero continente (basti pensare al peso giocato dal centro-destra portoghese in sede di eurogruppo). Anche se il compromesso storico lusitano è stato perlopiù accettato le prossime giornate si prospettano delicate perché, come sottolinea Catarina Martins portavoce del Bloco, le pressioni «da parte dell’Europa dell’austerità saranno gigantesche, così come gigantesche saranno le pressioni da parte di quel potere finanziario che in questi anni ha lucrato con la svendita del nostro paese».

Trucchi Crucchi

Volkswagen, la caduta del mito tedesco che fa scendere Angela Merkel dall’Olimpo

Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Tanto più che il caso Vw è solo il più clamoroso di una lunga serie.

di Leonardo Coen – ilfattoquotidiano.it, 25 settembre 2015

Ah, la sublime arte della manipolazione alemanna! Chissà se Der Spiegel sbatterà in copertina un bel piatto di wurstel e crauti mettendo al posto della senape un gustoso modellino di Volkswagen, o se userà il cliché del Barone di Münchausen, il re dei contaballe, mostrandolo a cavalcioni di una Volkswagen, invece della celebre palla di cannone, mentre viene sparato nientepodimeno che sulla Luna. Lo dovrebbe. Almeno per coerenza. Nel luglio del 1997 il settimanale di Amburgo volle dire la sua sull’Italia con la choccante foto del piatto di spaghetti condito da una pistola. Poi toccò alla Spagna, sull’orlo dell’abisso. E la Grecia, povera derelitta. Per anni, gli austeri maestrini tedeschi ci hanno bacchettato a noi europei del Sud spendaccioni e furbastri. Cicale e Maggiolini. Loro onesti, noi furbi. Loro economicamente corretti. Noi sempre al di sopra dei nostri mezzi. Austeritaten über alles! La severità ed intransigenza luterana contro l’ipocrisia cattolica, prima pecchi e poi tanto c’è il perdono, basta una piccola penitenza…

Beh, qualche affinità con le madornali e mirabolanti avventure raccontate dal Barone di Münchausen la Volkswagen che impersonava la granitica certezza del German engineering – mito dell’indiscutibile primato ingegneristico tedesco molto in voga nel pianeta anglosassone – ce l’ha, eccome ce l’ha. Per esempio, ha basato per decenni gran parte delle sue campagne promozionali sulla fiducia e la verità, instaurando una sorta di complicità col consumatore, un legame che coinvolgeva cuore e testa. La Volkswagen “parla chiaro”. Sottinteso: gli altri no. Ci sono spot che oggi stanno spopolando sul web tanto sono ridicoli, rivisti col senno di poi. In uno la protagonista è una distinta e anziana signora che cerca di vendere la sua auto a un giovane, prudentemente accompagnato dal padre per evitare – ovviamente, non si sa mai – qualche brutta sorpresa. I due alla fine la comprano, dopo un intenso scambio di occhiate tipo per un dollaro d’onore con l’anziana donna: “Potete dubitare delle vecchie signore. Ma potete fidarvi di tutte le Golf”. Specie quelle a diesel: non ammorbano l’atmosfera perché noi della Volkswagen siamo i migliori. BlueMotion Polo. Nobody’s perfect, altro slogan per convincere che tuttavia, i prodotti Volkswagen puntano alla perfezione. E alla possibilità che tu ne possa fruire. Senza fatica. Think small. Pensa piccolo per avere grande. La Grande Germania: per la quale l’auto rappresenta il 20 per cento dell’export tedesco e il 14 per cento del Pil. Rappresenta o rappresentava?

Mai come in queste ultime ore Angela Merkel viene descritta così tanto a disagio, angustiata, preoccupata. Al vertice di Bruxelles per l’emergenza rifugiati è apparsa stanca, poco incisiva. Non ha nemmeno replicato alle solite invettive di Viktor Orban che ha detto: “Quello della Merkel è imperialismo morale”. Gli stessi suoi compatrioti cominciano ad essere delusi da lei, un sondaggio del 23 settembre le dava infatti il 49 per cento di popolarità. Il minimo, dall’inizio dell’anno. Lo scandalo – “crepuscolo di un’icona”, titola Le Monde – rimette in causa il modello di cogestione alla tedesca di cui la Vw era l’emblema. La descrivono pallida, non più sicura e determinata come prima. Per forza. Proprio all’apice della sua canonizzazione politica ed etica – pensate alla vicenda migranti, agli estenuanti bracci di ferro con Putin – nel giorno stesso in cui avrebbe dovuto festeggiare il decennale della sua vittoria elettorale (il 18 settembre 2005) che le avrebbe fatto conquistare la carica di Cancelliere del Paese più importante d’Europa, le è arrivata dagli Stati Uniti una bordata che dire devastante è minimizzare. Perché la Volkswagen è più di un grande gruppo industriale, “Volkswagen è la Germania”, ha detto Gitta Connemann, influente deputata Cdu. Lo ha del resto sottolineato Spiegel online: “Non sono i miliardi di multa che minacciano la Volkswagen, bensì il danno d’immagine (…) La giustizia americana segue una linea molto dura per combattere la criminalità economica”. Il vulnus è di proporzioni inaudite (come le avventure del Barone di Münchausen…) che non soltanto colpisce l’azienda di Wolfsburg ma la Germania intera e la sua credibilità planetaria. Piglia di mira la sua spocchia da prima della classe. Da imbrogliona come coloro che disprezzava. Altro che ruolo di “grande accusatore”, come ricorda Angelo Bolaffi. Adesso la Germania della Vw magliara si ritrova sullo stesso banco degli accusati “nello stesso giorno in cui Tsipras ‘il grande accusato’ (e con lui la Grecia) sembra forse esserne uscito. Insieme allo sconcerto per la rivelazione quasi epifanica della Grande Truffa, si cela la gioia maligna di chi ha subito gli strali dei supponenti leader germanici…

Persino la cancelliera è indirettamente coinvolta, come ha accusato il quotidiano Frankurter Rundschau, uno dei pochi giornali tedeschi a non avere circoscritto lo scandalo al mondo dell’industria automobilistica: “Angela Merkel da anni si posiziona come la lobbista in capo dei costruttori tedeschi d’auto. Il suo ministro dei Trasporti brilla per la febbrile attività di questi giorni e ciò avviene da anni, il suo ministero deve sapere che i costruttori imbrogliano sistematicamente sulle informazioni tecniche delle loro auto rispetto ai consumi e alle emissioni. Idem per il ministro-presidente della Bassa Sassonia dove si trova la sede della Vw. Il Land è il secondo azionista del gruppo. Nulla si fa alla Vw senza il suo consenso”. Se la Grecia ha truccato i conti dei suoi bilanci, la Germania ha truccato le macchine e ha inquinato l’ambiente. L’equazione è a furor di popolo. Anzi di popoli. La reputazione è un valore aggiunto. Se cade, è un macigno che rischia di far traballare un Paese intero. Dirty secrets of the car industry, titola l’ultimo The Economist. E per i tedeschi e gli americani la menzogna è un’aggravante particolarmente condannabile.

Adesso che il vaso di Pandora è scoperchiato e che le connivenze mediatiche – la pubblicità delle quattroruote è fondamentale per giornali e tv – sono state smascherate (da anni c’era chi inutilmente denunciava le sopercherie ma veniva ignorato: penso al rapporto“Mind the Gup! Why official car fuel economy figures don’t match up to reality” del 2013 di Transport&Environment, l’organizzazione europea che si occupa di sostenibilità ambientale dei trasporti), abbiamo l’effetto Domino. Vi siete dimenticati del caso Germanwings (gruppo Lufthansa)? Il 24 marzo scorso un suo Airbus A320 precipitò in Francia, causando la morte di 150 persone. Per un raptus di follia suicida del copilota Andreas Lubitz. Allora furono messi sotto accusa i test della compagnia. Vogliamo parlare del Berlin Brandenburg Flughafen? Dovevano aprirlo nel 2012. I tecnici scoprirono che i sistemi antincendio erano insufficienti. Dopo, fu la volta dei banchi del check-in ad essere insufficienti. Indi toccò al tetto della sala principale: non in grado di sopportare il peso e le sollecitazioni dei condizionatori. Comunque, avevano promesso di inaugurarlo a metà del 2016. Promessa rimangiata. Sarà aperto nel 2017: forse. Intanto i costi sono lievitati, passando da 3 a 6 miliardi di Euro. Tra sospetti di corruzione e pessima progettazione: “un aeroporto con 150mila difetti”, hanno scritto i giornali tedeschi. Se lo dicono loro…

Già, corruzione. Se i Greci erano corrotti, come sbraitavano in Germania, c’era chi doveva corromperli. I tedeschi. Siemens, Daimler, Rheinmetall – fu Business Insider Uk a fare una rassegna circostanziata dei maggiori casi di corruzione – sono oggetto di inchieste giudiziarie. Secondo i giudici greci, la Siemens ha dispensato mazzette per 70 milioni di euro. Il fascicolo che la riguarda conta 2.300 pagine, l’indagine è durata nove anni. La statunitense CorpWatch – gli americani sono spettatori assai interessati alle vicende tedesche – definì il caso Siemens “il più grande scandalo aziendale della storia greca dal dopoguerra”. In questo, i tedeschi confermano la loro tendenza al gigantismo. Vw ha un gito d’affari annuo di oltre 200 miliardi di euro, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo (ci vuole genio per realizzare il software fregone). Eurointelligence aggiunge che la Vw ha un rapporto consolidato con la politica tedesca. Facile paragonare la sua vicenda con la crisi dei subprime del 2007-2008 e il crack Lehman Brothers. Allora la Casa Bianca decise che la banca andava salvata perché “troppo grande per fallire” (too big to fail). Analogo destino attenderà la Vw. È la sindrome del cigno nero. Con qualche postilla, tanto per capire i veleni del contesto. Intanto, chi acquistava le presunte virtuose vetture diesel taroccate godeva dei bonus statali e europei. Essendo frutto di truffa, dovrebbero essere rimborsati. Andateglielo a dire agli acquirenti … Dulcis in fundo, non è che gli americani si sono vendicati dopo che erano stati beccati loro con le mani nella marmellata, per le intercettazioni telefoniche abusive della NSA (National Security Agency) fatte ai danni di Angela Merkel e di altri 55 politici tedeschi, come rivelò il sito di Julian Assange? In una telefonata la Merkel criticava il piano del Segretario del Tesoro Usa che aveva posto l’eventualità di sollevare le banche dalla responsabilità per i titoli tossici. In un’altra sosteneva che la Cina avrebbe dovuto avere maggiore influenza nel Fondo Monetario Internazionale. È guerra. Senza esclusione di colpi. Muoia Sansonen con tutti i Filistei. Speriamo che noi della Grande Bellezza Mediterranea ce la caviamo.

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Grecia al voto (ter)

Una Syriza per l’Europa

Grecia. Gli ellenici tornano al voto per la terza volta in meno di un anno. Tsipras è ancora il favorito nei sondaggi ma deciderà l’astensionismo. Il leader della sinistra greca spera di arginare la scissione del partito dopo l’accordo con la Ue. In caso di vittoria possibile coalizione con il Pasok.

di Dimitri Deliolanes – ilmanifesto.info, 20 settembre 2015

Atene ha accolto la vigi­lia del voto con una splen­dida gior­nata di sole che ha offerto agli ate­niesi la ten­ta­zione di fuggire dalla cam­pa­gna elet­to­rale verso un bagno risto­ra­tore nel golfo Saro­nico. Chi aveva deciso di aste­nersi prolungherà la breve eva­sione anche oggi, a urne aperte. La per­cen­tuale degli asten­sio­sni­sti deci­derà anche il vincitore di que­ste ele­zioni per­ché si sa che la mag­gior parte di loro sono ex elet­tori di Syriza delusi e sco­rag­giati dal brutto esito della trat­ta­tiva. Lo sa anche Ale­xis Tsi­pras, che si è speso come non mai in que­sta cam­pa­gna pur di farli tor­nare da lui.

La mani­fe­sta­zione di chiu­sura a Syn­tagma, venerdì sera, ha dimo­strato che non è stato tutto vano. La piazza era piena. Non pie­nis­sima come alla vigi­lia del refe­ren­dum ma sicu­ra­mente ha visto la più grande par­te­ci­pa­zione di tutta la cam­pa­gna elet­to­rale. Una parte con­si­stente del suo elet­to­rato è tor­nato a dare fidu­cia a Syriza. La vit­to­ria è a portata di mano, anche se l’obiettivo della mag­gio­ranza asso­luta sem­bra lontano.

I greci sono testardi e orgo­gliosi. Se uno vuole farli infu­riare basta che fac­cia cenno alla loro pre­sunta «imma­tu­rità poli­tica» e alla con­se­guente neces­sità che si lascino gui­dare da forze «respon­sa­bili» per­ché ispi­rate da cen­tri stranieri. Ecco in breve il ritratto della destra in cerca di rivin­cita, alzando la ban­diera dell’«unità nazio­nale». Un espe­diente made in Ger­many per neu­tra­liz­zare per sem­pre gli anta­go­ni­sti. No, il gioco è tal­mente sco­perto che nessuno ci è cascato. Nuova Demo­cra­zia ha recu­pe­rato alcuni elet­tori, ma erano voti suoi che a gen­naio si erano presi una libera uscita: non segnano uno spo­sta­mento a destra dell’elettorato.

La sini­stra può aver sba­gliato, essere uscita scon­fitta nel nego­ziato, ma è sem­pre quella che ha tenuto testa ai dik­tat di Bru­xel­les e di Ber­lino, è quella che ha dato bat­ta­glia, men­tre la destra si inchi­nava ser­vile di fronte alla Mer­kel. Cose ben vive nella memo­ria col­let­tiva. Tsi­pras lo sa e per que­sto è apparso ieri rilas­sato e sor­ri­dente al tra­di­zio­nale incon­tro «Un ouzo con il capo» con i gio­vani di Syriza, in un locale alter­na­tivo di Mona­sti­raki, il quar­tiere tradizionale sotto l’Acropoli. Nes­suna dichia­ra­zione pre­let­to­rale (la legge lo proi­bi­sce) ma una chiac­chie­rata con i pochi stu­denti rima­sti nel par­tito dopo la defe­zione di tutta l’organizzazione gio­va­nile verso Unità Popo­lare. Domanda: «Pre­si­dente sarà ridotto il ser­vi­zio mili­tare?», ora della durata di 9 mesi. Rispo­sta sor­ri­dente di Tsi­pras: «Andate a difen­dere la patria, sfac­cen­dati». Risata generale.

Il distacco di Syriza rispetto alla destra sarà di almeno quat­tro punti. Me lo con­ferma il diret­tore dell’agenzia di stampa ate­niese Micha­lis Psi­los, oss­ser­va­tore neu­trale ma dispo­sto a scom­met­tere anche in favore di una scon­fitta ancora più umi­liante per la destra. Che in que­sti ultimi giorni ha mostrato il suo volto peg­giore: venerdì era il secondo anni­ver­sa­rio dell’assassinio di Pavlos Fys­sas e il fuh­rer di Alba Dorata Micha­lo­lia­kos ha riven­di­cato pubblica­mente la «respon­sa­bi­lità poli­tica» per l’uccisione. Alla fine di una delle tante mani­fe­sta­zioni per l’anniversario, un gruppo di anar­chici ha assal­tato a colpi di molo­tov il com­mis­sa­riato di Exar­chia. Sette mino­renni fer­mati sono stati sel­vag­gia­mente pestati dai poli­ziotti. Ecco la destra elle­nica in tutta la sua magni­fi­cenza: pestaggi nei com­mis­sa­riati e gara con i nazi­sti su chi la spara più grossa nella reto­rica xeno­foba. Il lea­der di Nuova Democrazia Van­ge­lis Mei­ma­ra­kis aveva preso di mira anche l’ex mini­stra dell’Immigrazione Tasia Christodoulopoulou, ren­den­dola un obiet­tivo visi­bile per le squa­dracce naziste.

All’incontro ha fatto la sua com­parsa anche l’ex mini­stro della Cul­tura Nikos Xida­kis, per tanti decenni respon­sa­bile delle pagine cul­tu­rali di Kathi­me­rini. È can­di­dato di Syriza ma non è mem­bro del par­tito. Anche lui è otti­mi­sta e mi espone con grande fer­vore la sua con­vin­zione che la sini­stra al governo greco può fare la dif­fe­renza in Europa.

Ad Atene tutti sono con­vinti che i nego­ziati con i cre­di­tori non sono per niente finiti. Il terzo memo­ran­dum, quello sot­to­scritto da Tsi­pras il 13 luglio, non segue alcuna logica eco­no­mica. È un testo messo su solo per ragioni poli­ti­che, per umi­liare e dele­git­ti­mare il governo di Atene. Ben pre­sto quindi dovrà essere rivi­sto, se non si vuole con­ti­nuare que­sto logo­rante brac­cio di ferro tra Atene e l’Ue per altri cin­que anni. Se Tsi­pras riu­scirà nel frat­tempo a por­tare avanti le riforme giu­ste, sarà in grado di rine­go­ziare gli aspetti più aspri. Con il van­tag­gio di aver otte­nuto anche una seria ristrut­tu­ra­zione del debito, nei nego­ziati che ini­ziano a ottobre.

Tsi­pras insieme con chi? Le alleanze al governo sono il quiz della vigi­lia. I Greci Indi­pen­denti, che hanno fatto la cam­pa­gna Tv di gran lunga più spi­ri­tosa, rischiano di non supe­rare la soglia del 3% e rima­nere fuori dal Par­la­mento. In que­sto caso, oppure nell’eventualità che nean­che i loro depu­tati siano suf­fi­cienti, ci sarebbe un accordo di massima già pronto. Non è con To Potami, come tutti cre­de­vamo, cioè la for­ma­zione di pla­stica del pre­sen­ta­tore Tv Sta­vros Theo­do­ra­kis, ma con i socia­li­sti del Pasok. Secondo fonti di Syriza, la nuova lea­der Fofi Gen­ni­matà ha ricevuto forti pres­sioni da alcuni par­titi socia­li­sti euro­pei per­ché pro­ce­desse verso una rifon­da­zione del socia­li­smo elle­nico. In pra­tica, met­tere da parte gli espo­nenti più espo­sti e più chiac­chie­rati, come l’ex lea­der Evan­ge­los Venizelos, per poter col­la­bo­rare con il pre­mier Tsi­pras. Per la Gen­ni­matà, poli­tica ine­sperta e senza grande cari­sma, è un’occasione d’oro per affer­mare in pieno la sua lea­der­ship. Per Tsi­pras l’obiettivo sarebbe di con­di­zio­nare gli equili­bri interni del par­tito di cen­tro­si­ni­stra in modo da sgan­ciarlo dall’alleanza subal­terna con la destra libe­ri­sta europea.

È que­sta la poli­tica sotto l’ombra del Par­te­none, antica pas­sione dei greci, ora in mano a una sini­stra che aspira a gui­darla e con­di­zio­narla. Dal gen­naio scorso molta acqua è pas­sata sotto i ponti ma non inu­til­mente: «Scon­fitta non è cadere per terra, scon­fitta è non poter rial­zarsi», ha gri­dato Tsi­pras nel suo ultimo comi­zio, para­fra­sando Hum­ph­rey Bogart. Sta­sera si rial­zerà in piedi e get­terà di nuovo il suo guanto di sfida all’Europa dell’austerità.

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