Comunismo

La profezia della pantera

La profezia della pantera Davis: «Rimpiangeremo Obama»

L’incontro. All’Università Roma Tre e poi a cena con Angela Davis

Angela Davis

di Luciana Castellina –  ilmanifesto.info, 16 marzo 2016

Ma qualcuno di questi studenti nati negli anni ’90 lo saprà chi è Angela Davis? Parteciperanno all’incontro promosso a Roma 3 dal rettore, il professor Panizza, e dal preside di filosofia Giacomo Marramao (che con lei ha addirittura studiato a Francoforte un secolo fa)? Saranno curiosi di conoscere quella che per noi, già maturi negli anni ’60 e ’70, è stata un mito? Quando arrivo all’Ostiense mi assale la preoccupazione che siano pochi quelli che verranno ad ascoltarla. Penso ai sondaggi che ci dicono che nessuno sa più chi era Berlinguer e crede che a vincere la seconda guerra mondiale sia stata, oltre l’America, anche la Germania.

Mi sbaglio di grosso: l’immensa Aula Magna dell’Università è stracolma, decine in piedi e a sedere per terra. Ci sono leader politici importanti, ma i miti sono un’altra cosa, non a caso continuano ad apparire sulle t-shirt di tutti i continenti. Angela è uno di questi miti: bella, nera, intelligente, coraggiosa, combattente del Black Panther Party, sicura di sé, oltretutto anche comunista, vittima del più orrendo razzismo, che l’ha portata in carcere senza alcuna prova imputata di omicidio, liberata dopo due anni grazie a una delle più vaste mobilitazioni innescate dal neonato ’68. Non a tutti è toccato di vedersi dedicare canzoni, diventate famose, dai più grandi: Sweet black Angela dai Rolling Stones, Angela da John Lennon, e da Noah, e da Perret, solo per nominarne alcuni. «Persino dal Quartetto Cetra» – ci informa il rettore, e questo significa davvero la popolarità.

Oggi la sua famosa capigliatura afro portata come un vessillo è grigia – di anni ne ha ormai 73 – ma la grinta le è restata tutta. I più di mille che affollano la sala dominano a stento la loro emozione, fra loro, oltre gli studenti, una quantità di femministe militanti arrivate da ogni dove, che vogliono sentire lei, solo lei, non gli importa niente di quanto diremo noi, invitati a interloquire dal palco. Vogliono dialogare loro con lei, un’occasione così non vogliono sprecarla, e si capisce. Il programma previsto salta subito – riuscirà a parlare solo la professoressa Rossini perché deve parlare del femminismo – e poi, alla fine, si formerà una lunghissima fila in attesa di prendere la parola. Ci riusciranno in poche, quasi tutte nere-italiane, e una straordinaria ragazza kurda, accolta da emozione e applausi incontenibili.

Angela parla naturalmente in inglese e non c’è traduzione, ma con mio grande stupore scopro che tutti seguono e infatti applaudono e ridono al momento giusto. Ci racconta di quanto il razzismo sia ancora esteso, non solo in America, ma ovunque: «Da voi in Europa – dice – solo ora, con i rifugiati, state facendo i conti col vostro colonialismo». E poi si sofferma molto sui palestinesi colpiti dal più indecente razzismo. («Ma da noi – avverte per ogni buon conto – chi brucia le chiese dei neri brucia anche le sinagoghe»).

Parla molto anche del femminismo nero, Angela; e comincia col dare una cifra terribile: un terzo delle donne incarcerate nel mondo, sebbene la popolazione statunitense rappresenti solo il 5%, è chiusa nelle carceri americane ed è costituita da nere. «Il genere non sta in piedi da solo» – ripete. «Questa categoria non è sufficiente a spiegare, occorre inserire anche la classe e la razza». «Guai a cadere nella trappola di un certo femminismo bianco borghese (ma anche guai a restare ciechi di fronte al maschilismo nero, comprese quello dei compagni ’pantere’)». «Hillary non ha capito – aggiunge – che il femminismo è cambiato: la questione di identità non è oggi la più importante, conta la politica di genere, non il genere in sé ormai scontato. C’è oggi un femminismo più radicale che capisce che la questione va contestualizzata, posta in rapporto al sistema dominante in cui si vive.

Per questo, del resto – dice – le donne operaie nere erano restate lontane dal femminismo, oggi non è più così». Il genere e la razza sono dunque meno importanti dell’appartenenza sociale? «No, sono contraddizioni che si intrecciano, ma che sono cambiate perché è oramai emersa una borghesia nera, frutto di una lotta contro la segregazione e che però ha significato integrazione dentro la nave del capitalismo». Molti applausi per una sua frase: «Non c’è un solo femminismo, ce ne sono molti».

L’assemblea finisce in un tripudio che accoglie le sue parole conclusive: «Qualche volta dobbiamo dire anche quello che pure ci appare irrealistico. Il ruolo della filosofia è anche questo: guardare oltre. Proprio ora dobbiamo ricominciare a immaginare cosa potrebbe essere un mondo diverso da quello in cui ora viviamo».

In queste sue parole sento l’eco forte di Herbert Marcuse, che è stato suo maestro, prima, negli anni ’60, a Francoforte, con Adorno e Oskar Negt, poi negli Stati Uniti. Dico Marcuse perché ricordo quanto ripeteva sempre: oggi l’utopia ha perduto il suo carattere irrealistico, la scienza e la tecnica permetterebbero a tutti di realizzare quanto sognava Marx, una vita in cui ci fosse il tempo liberato per far musica – aveva scritto nell’Ideologia Tedesca – preparare buoni cibi e addobbare la propria casa. Sono i rapporti sociali di produzione che ce lo impediscono.

Angela, a San Diego, dove il filosofo tedesco aveva trovato il suo rifugio, è poi andata a insegnare per molto tempo. Quando andai a passare da lui un weekend e lo intervistai per il Manifesto (che lui amava molto, pur non riuscendo a leggerlo) proprio di Angela mi parlò a lungo. Perché lui non era un intellettuale separato, si sentiva parte del movimento di contestazione, che non a caso in quegli anni aveva come emblema «i tre M»: Marx, Mao, Marcuse. «Durante gli anni ’60, grazie a Marcuse – mi dice Angela – ho capito che un intellettuale può essere, anzi deve essere, parte del movimento».

Di questo e di altro chiacchieriamo a assemblea terminata, al tavolo del ristorante Biondo Tevere, in fondo al tratto urbano di via Ostiense, quello dove andava Pasolini e Visconti girò una indimenticabile scena di Bellissima. Le chiedo perché i nuovi movimenti che pur hanno animato la scena politica americana in questi anni sono rimasti bianchi o neri, poco mischiati. Per esempio Occupy Wall Street. Le ricordo la testimonianza di una militante nera che resta a disagio perché a Zuccotti Park vede tutti bianchi. E poi – la incalzo ancora – la grande mobilitazione dei neri contro la catena di assassini della polizia cominciata con l’omicidio di Mike Brown a Ferguson, il Black Lives Matters: quasi tutti neri. Un dato confermato dai sondaggi: la solidarietà con le lotte dei neri da parte dei bianchi era molto più forte negli anni ’60.

E ancora: le nuove importantissime lotte che si sviluppano a livello locale ma poi si estendono a macchia d’olio, sembrano essere, anche queste, o bianche o nere. Penso – la interrogo – al movimento dei lavoratori dei fast food per i 15 dollari all’ora, un salario minimo e il diritto a darsi un sindacato, che ha per slogan «non mi importa chi sia il candidato alla presidenza, voglio i miei diritti»: un movimento quasi tutto nero. E poi penso a quello cresciuto invece nelle università, animato da un milione di studenti-lavoratori che chiedono di esser pagati meglio e di aver una clausola di «giusta causa» (la scoperta dell’art.18!): quasi tutto bianco. E che è tutto per Bernie Sanders, mentre le comunità nere votano massicciamente per Hillary. Cosa succede?

«In realtà – mi risponde Angela – i neri in Occupy sono stati molto più numerosi di quanto non sia apparso, anche se la scena è stata presa dai militanti bianchi. Ma è vero che c’è separatezza: per culture, per abitudine, per luoghi in cui si abita, per condizioni lavorative. Il razzismo penetra tutto e tutti, ne siamo tutti in un modo e nell’altro infiltrati. Pensa al voto tedesco – mi dice – Non è forse effetto del razzismo?».

«Quanto a Bernie Sanders -mi spiega – devi tener conto che gioca anche il fatto che tradizionalmente i neri sono restati estranei alla politica elettorale, non ne sono mai stati davvero coinvolti. E poi Bernie Sanders è espressione della cultura politica del nord, di uno stato molto speciale come il Vermont, che è come dire ’Trentino in Sicilia’. Lui non sa parlare ai neri, è daltonico, non ha incorporato la problematica razziale, solo quella sociale, ma il suo universalismo, deve capire, è falso. E però devo dire che sta imparando, ora è già molto meglio di quanto era all’inizio».

Come gioca in questo scenario il presidente nero, Obama? «Io – risponde – penso che lo rimpiangeremo. Lo stesso movimento Occupy non avrebbe potuto svilupparsi se ci fosse stato un altro presidente. Ma, proprio perché nero, le aspettative fra i neri erano molto alte, forse troppo rispetto a quanto poteva concretamente fare, e quindi ci sono molti delusi e risentiti, cui il presidente appare solo come l’esponente della nuova borghesia nera. Mentre da Clinton non si aspettavano niente, proprio perché era bianco. E gli sono grati. Così ora votano per sua moglie. Invece che per un socialismo che sentono come cultura estranea».

Ci sarebbero milioni di cose di cui discutere. Mi piacerebbe parlare con lei, che è stata militante di un partito comunista molto ortodosso come quello americano, di cosa sia oggi il comunismo per lei, di cosa pensa dell’esperienza sovietica. Proprio lì l’avevo conosciuta, a Mosca, nel 1986, in occasione di una conferenza per la pace. C’era Gorbachev e tutte e due eravamo speranzose che qualcosa di nuovo potesse accadere in quel paese. Non è andata così. Vorrei parlarne. Ma non c’è tempo: Angela deve prendere il treno perché l’aspetta l’Università di Bologna.

Chiodo e Martello (Il Comunismo nel XXI Secolo)

di Antonio “Boka”

Si parla tanto di secolarizzazione, scristianizzazione, laicità, ma, in realtà, si è sostituito un dio-fuori-dal-mondo con un-dio-nel-mondo. L’economia è la nuova religione. Le parole magiche crescita, progresso, tecnica sono la nuova trinità. La tecnica garantisce il progresso, il progresso si misura con la crescita, ma anche viceversa: la crescita ci informa e ci rassicura che il progresso avanza.

Se il progresso è alla base dell’economia, l’economia è a sua volta necessaria per convalidare il progresso. Senza un sistema di prezzi, sarebbe impossibile stabilire un parametro come il PIL pro capite e, senza l’aumento del PIL, cosa potrebbe convincere la gente che le sorti dell’umanità stanno migliorando? Tutti gli altri parametri sono opinabili e soggettivi, ma il PIL no. Il PIL è misurabile. Una religione che si traveste da scienza e che, con un ribaltamento dialettico stupefacente, in un circolo vizioso, indimostrabile (come nelle funzioni di verità, da una premessa falsa tutte le proposizioni deducibili sono vere), afferma: c’è progresso perché c’è crescita, c’è crescita perché c’è progresso (purché sia misurato da un sistema dei prezzi). Ma c’è un ma… L’economia è un’invenzione storica e, come diceva Gramsci, “la Storia insegna, ma non ha alunni”.

Per partire di nuovo, forse “ciò di cui avremmo realmente bisogno – ha scritto Derk Rasmussen – sarebbe un movimento per l’ateismo economico, un’onda lunga d’incredulità».

Come mi è capitato di scrivere in maniera frammentaria, ciò che veramente interessa alle oligarchie finanziarie è la riscrittura delle regole. Non hanno bisogno di convincerci che la crescita del PIL sia necessaria, che vadano fatti sacrifici per permettere al PIL di crescere, né di convincerci ad accettare come denaro qualsiasi nuova forma sottoscriveremo di obbligazione debitoria. Il passo finale (con un po’ di melodrammaticità) è tatuarci un codice a barre comprensivo degli interessi che i nostri figli dovranno pagare, quando saremo trapassati, in cambio del permesso di averci lasciato vivere e indebitare. Curiosamente, nella piccola micro-economia quotidiana ci sono dei piccoli cambiamenti, così piccoli (e così convenienti), in cui il capitalismo ha già superato la forma della proprietà privata. In un tempo non molto lontano, all’acquisto di un’auto, una casa, uno stereo, un telefonino, si accusavano quei poveretti degli acquirenti d’essersi venduta l’anima al consumismo, alla gioia di possedere persino ciò di cui non avevano bisogno.

Oggi, però, non è più necessario, perché nascono i mutui per il pagamento dei soli interessi. Paghi per tutta la vita, e con la tua vita, il capitale su cui hai pagato gli interessi, più gli interessi sulla tua vita, che hai assicurato per restituire quel capitale che non è mai stato tuo, ma hai potuto usare: è la vittoria del valore d’uso sul valore di scambio! O la morte totale di ogni valore d’uso, la cui esistenza è permessa solo grazie all’esistenza di un valore di scambio, non più esaurito in una sola transazione. Anzi, resta una sola transazione, ma dura tutta la vita. La lavatrice, i mobili, l’auto: tutto può essere usato (non c’è più bisogno di possedere) in cambio del pagamento di interessi su quello che ormai è un unico immenso capitale.

Oh, certo che il comunismo era la fase successiva al capitalismo. La svista (piccola) consiste nel fatto che si è cancellata la proprietà privata e instaurato il comunismo del capitale. “Da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo il suo credit score“.

“Quando si ha un martello nella testa, si ha la tendenza a vedere tutti i problemi sotto forma di chiodo” (M. Twain), versione nobile della barzelletta che, tristemente, riassume la trattativa di Tsipras in Europa:

– Papà, per quanto tempo devo continuare a girare in tondo?

– Stai zitto, altrimenti ti inchiodo pure l’altro piede!

Le analisi della struttura economica sono importanti per capire le macrovariabili che hanno portato ai cambiamenti, ma non è nell’economia che riusciremo a trovare la soluzione per uscire dalla crisi e dalla sempre maggiore diseguaglianza sociale (e parlo delle opportunità in piena sintonia con gli amanti del “mercato”). E qui si torna, invariabilmente, al primato della politica, la cui dignità (nel senso astratto, generale) è stata abilmente trascinata nel fango al fine di avere una massa sempre più imponente di disaffezionati che della politica percepiscono solo l’inutilità (della partecipazione) o il livello di comitato d’affari cui, lo sanno benissimo, non saranno mai invitati.

Si tratta, come ho già scritto, di ripartire dalla democrazia con la d minuscola e dalla politica con la p minuscola. Quella di tutti i giorni, basata sull’esempio, sul ristabilire il valore del senso di comunità, ma anche sulla disponibilità a pagare i prezzi necessari. Non si tratta di trovare eroi pronti al martirio o al sacrificio personale: si tratta di far capire che opporsi a pratiche aberranti è l’esercizio di un sano egoismo e non di un purissimo altruismo. Non ci interessa costruire la sinistra dei puri e duri, ma quella degli egoisti intelligenti. Lo so, è facile parlare (o scrivere), ma se ogni giorno non ricominciamo daccapo, con pazienza infinita, a rispiegare il perché e il percome di ciò che succede e ciò che si dovrebbe fare, gli imbonitori non avranno nemmeno bisogno di essere astuti nel convincerci che ciò che accade è per il nostro bene, ma si limiteranno a un ammiccamento appena accennato e, come cagnolini ben addestrati, ci metteremo seduti, riconoscenti e pronti a essere imboccati.

Nota finale. Tutto lo sproloquio poteva essere facilmente riassunto con una citazione del buon, caro, vecchio bardo di Treviri:

Il processo di produzione capitalistico, considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalistico stesso: da una parte il capitalista, dall’altra l’operaio salariato (Il Capitale, libro I, cap. XXI),

dove per operaio salariato (notate che Marx non fa distinzione fra contratti a tempo indeterminato e determinato) s’intende dall’operaio all’ingegnere.

Quel che ho cercato di fare (non mi pronuncio sul risultato) è trovare un modo per spiegarlo senza costringervi a leggere tutto il Capitale.