A proposito di Isis

Attentati Parigi: per sconfiggere l’Isis è meglio essere razionali

di Peter Gomez – ilfattoquotidiano.it, 14 novembre 2015

“Ora saremo spietati su tutti i fronti”, Francois Hollande reagisce così alla carneficina islamista. Ed è comprensibile che lo faccia mentre a Parigi si contano i morti e ci si chiede se qualche terrorista sia ancora in fuga. D’ora in poi però più che spietati è bene tentare di essere razionali. Partendo da una serie di dati di fatto. La guerra con lo Stato Islamico è in corso ed è destinata a durare anni. Nell’opinione pubblica europea sono minoritarie le posizioni di chi, come il presidente della Camera, Laura Boldrini, afferma che “ci sono alternative all’azione militare”. A torto o a ragione, la maggioranza degli europei e dei loro governi dopo il massacro all’ombra della torre Eiffel vuole una reazione. Che prevedibilmente ci sarà.

Partendo da questa constatazione è quindi il caso di avviare una spiacevole riflessione su cosa si può davvero fare in Siria, in Iraq e in Europa. Dal punto di vista militare va ricordato che la guerra allo Stato Islamico non può essere vinta con i bombardamenti. Le bombe possono servire per rallentare l’avanzata dei guerrieri di Al Baghdadi. Ma non li sconfiggono. E anzi, con le centinaia di vittime civili che producono, finiscono per dare nuove ragioni a chi è intenzionato a colpire nel vecchio continente. Il probabile attentato all’aereo di linea russo di una decina di giorni fa e il massacro di Parigi ne sono la dimostrazione. L’Isis cita le operazioni francesi in Siria tra le ragioni che dal suo punto di vista hanno giustificato le azioni. E, verosimilmente, dà per scontati nuovi e più numerosi raid.

Contro il Califfato, se si sceglie la guerra, servono operazioni di terra. Ma se a muoversi fossero solo, o in maggioranza, gli eserciti occidentali il risultato politico sarebbe scontato: una sorta di scontro tra civiltà destinata a radicalizzare fasce sempre più ampie di popolazione mussulmana in tutto il mondo. Anche questo, a ben vedere, è uno degli obiettivi dell’Isis. Coinvolgere gli altri stati islamici è dunque una via obbligata. Ma, va detto chiaro, è pure una via complicatissima. In Iraq gli Stati Uniti non sono finora nemmeno riusciti a ottenere un vero appoggio da parte delle tribù sunnite, hanno speso 500 milioni di dollari per addestrare 60 (sessanta) miliziani siriani in funzione anti stato islamico, e la partecipazione di Emirati Arabi Uniti, Giordania e Arabia Saudita alla coalizione che bombarda i guerrieri è sostanzialmente di facciata. Gli accordi con gli sciiti (che continuano a subire attentati dinamitardi, l’ultimo a Beirut il 12 novembre ha fatto 43 morti) sono poi resi ardui dal loro legame col dittatore siriano Bashar Al Assad, appoggiato da Mosca. È indispensabile, per tentare di mettere assieme il puzzle, che Russia e Stati Uniti finalmente si parlino e trovino una via comune.

Per questo il premier italiano Matteo Renzi ha ragione quando dice che “la battaglia sarà lunga e difficile”. E lo sarà pure per l’Italia visto che il rischio terrorismo nel nostro Paese cresce di giorno in giorno. Roma per l’Isis è un obbiettivo reale. L’esperienza insegna che quello che lo Stato Islamico ha finora dichiarato via internet di volere fare, ha poi tentato di farlo. Spesso, come a Parigi, riuscendoci.

I nostri investigatori e la nostra intelligence, anche in virtù di antiche relazioni con le autorità di una serie di paesi dell’aerea, sono fino a oggi stati particolarmente bravi nel proteggerci. La stragrande maggioranza della comunità musulmana in Italia non vuole poi avere a che fare nulla con i terroristi. Ed è il caso che tutti i partiti politici si rendano conto di come, non per ideologia, ma almeno per convenienza, rafforzare rapporti con i suoi esponenti sia la cosa giusta da fare. Solo chi vive in quel mondo può segnalare i pericoli in essa presenti. Esattamente come è accaduto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta in molte fabbriche italiane dove erano i sindacalisti, gli operai e gli iscritti al Pci a indicare i simpatizzanti dei brigatisti. Oggi si deve seguire la medesima strategia. Ricordando, senza voler lanciare inutili allarmismi, che per 4 volte negli ultimi 5 anni le autorità di paesi dell’Est come la Moldavia hanno scoperto tentativi di vendere materiale radioattivo a gruppi estremisti da parte di organizzazioni criminali. E che, salvo quanto mai opportuni ripensamenti, il Giubileo è alle porte. Come alle porte, o già tra noi, sono gli uomini e le donne dell’Isis.

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Le reclute dell’odio (Quegli assassini della “Scheda S” che crescono nelle banlieue)

di Renzo Guolo – Repubblica.it, 14 novembre 2015 (segnalato da GiuliaPingon)

LA FRANCIA ancora sotto tiro del jihad. Questa volta non più la redazione di un giornale o un ristorante ebraico, comunque simboli direttamente collegabili all’ostilità palese degli islamisti radicali ma bar e locali notturni, considerati dai fanatici luoghi di perdizione e del vizio occidentali. È quella che, dopo l’attacco a un deposito di gas di un “lupo solitario”, avevamo chiamato la jihad della vita quotidiana. La più subdola e pericolosa, perché, nell’intento di generare terrore, colpisce luoghi nei quali non ci si aspetta di essere colpiti dal furore ideologico e la sorveglianza è difficile.

Accade non casualmente, nel giorno in cui in Siria viene colpito Jihadi John, nell’Esagono ormai terra della jihad. Lo dicono i numeri dei foreign fighters transalpini e dei simpatizzanti radicali che non hanno voluto o potuto espatriare. Sono circa millecinquecento i giovani francesi riconducibili alla filiera islamista radicale coinvolti nel conflitto siro- iracheno. L’età media è tra i 15 e i 30 anni. Nel totale sono aumentati, nel 2015, dell’84% rispetto all’anno precedente. I convertiti autoctoni sono circa un quarto del totale: il 22% degli uomini, il 27% delle donne. I francesi che si trovavano nelle zone di combattimento all’inizio del 2015 erano 413 fra cui 119 donne. In 261 hanno lasciato la regione: 200 dei quali per tornare in Francia. Alla metà del 2015 erano 126 i caduti in combattimento. Cifre che facevano presupporre quello che è accaduto Le partenze sarebbero verso Siria e Iraq state molte di più se senza l’azione di prevenzione delle forze di sicurezza, che hanno fermato centinaia di persone prima che partissero, e i colloqui “dissuasivi” avviati dalla Dcri, i servizi d’informazione interni, mirati a fare sentire al potenziali jihadisti il fiato sul collo dello Stato. Un panorama ancora più problematico, se lo sguardo si allarga ai titolari di una scheda “S”, sigla che indica quanti sono ritenuti potenzialmente pericolosi per la sicurezza dello Stato: sono oltre cinquemila gli islamisti radicali che ricadono in questa classificazione. Cifra che impedisce una sorveglianza necessariamente indirizzata verso individui il cui grado di pericolosità viene ritenuto elevato. Non è casuale che alcuni degli autori degli attentati che, a partire dal 2012, hanno periodicamente colpito il paese, fossero titolari di una fiche “S”.

Questa terribile istantanea, che fissa numeri da brivido, fa comprendere come il livello di rischio sia enorme in Francia. Da tempo l’Is rivolge particolare attenzione all’Esagono, come ricorda la rivista

Dar Al Islam, edita da Al Hayat e specificamente rivolta al mondo francofono. Il fatto che l’Isis pubblichi una rivista in francese, testimonia l’importanza assegnata nella sua strategia alla penetrazione tra i musulmani francesi e francofoni. Dopo gli attentati a Charlie Hebdo la copertina di un numero della rivista, che ritraeva la Torre Eiffel, era titolata Allah maledica la Francia”. All’interno, oltre un articolo sul dovere di attaccare chi insulta il Profeta, un omaggio al “Soldato del califfato” Koulibaly, con la giustificazione religiosa del suo operato e un pezzo sull’inimicizia storica tra la Francia e l’islam. Alla Francia “crociata” gli jihadisti imputano il ruolo avuto nei conflitti in Afghanistan, Iraq, Siria e Mali. Ma la colpa si estende anche al passato, dal momento che, per gli islamisti radicali, la pesante eredità coloniale di Parigi ha prodotto deculturazione e secolarizzazione, anche nei paesi della Mezzaluna decolonizzati.

Odio e reclutamento prosperano per il diffondersi a livello globale dell’ideologia radicale. Ma nel caso francese si nutre anche di un malessere tutto transalpino. La situazione esplosiva nelle banlieue; la mancata integrazione, in assenza di politiche pubbliche falcidiate dalla crisi del welfare, dei giovani che le popolano. Il difficile rapporto tra i banlieusardes e le forze di polizia nei quartieri difficili, in un contesto nel quale la vita di strada ne fa presto clienti fissi di commissariati e tribunali. Naturalmente, tutto ciò non giustifica in alcun modo lo stragismo sanguinario che colpisce un paese che si vuole brutalmente terrorizzare con la violenza. Con le conseguenze sul piano della deriva xenofoba e delle torsioni della democrazia che si possono immaginare. Sparando sulla folla, gli jihadisti cercano una drammatica semplificazione del campo secondo la logica amico/nemico. Nell’intento di chiamare alle armi sempre più sostenitori in uno scontro che, nonostante la reazione che si profila all’orizzonte, non pare volgere al termine in tempi brevi.

108 comments

  1. una cosa. davvero non si possono sentire quelli che, a ogni livello di governo, cercano di tranquillizzare la popolazione qui in italia con la solfa del “qui da noi il livello di sicurezza è altissimo. i nostri servizi sono in grado di intercettare eventuali cellule fondamentalista e prevenire attentati, anche al capillare controllo del territorio e all’esperienza fatta sul campo al tempo della lotta al terrorismo interno e alla mafia”
    cazzate. perché invece i francesi in passato non avuto modo di confrontarsi col terrorismo? forse ci siamo dimenticati di quanto accadeva in francia ai tempi del FLN algerino o ai tempi del FLM corso? tra l’altro gli attentati di venerdì mi hanno immediatamente ricordato le nuit bleue corse. stesso modus operandi. solo che i corsi badavano bene di riportare a casa la pelle.

    in italia non abbiamo avuto nessun attentato per un motivo molto più semplice: nessuno ci ha nemmeno provato

  2. mi chiedo quanto conti (anche nella percezione generale, e soprattutto in tempi di social) il fatto di non riuscire a capire nulla del loro alfabeto, che per noi è … appunto… arabo.

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