#cop21

Dopo COP21: chi è pronto veramente?

segnalato da Barbara G.

Clima: 155 Paesi pronti alla ratifica dell’accordo di Parigi

Il 22 aprile a New York è prevista la cerimonia dell’ONU per la ratifica dell’accordo sul clima di Parigi. Da molti Stati solo un impegno parziale

rinnovabili.it, 18/04/2016

Mancano 4 giorni (è oggi, NdR) alla ratifica in pompa magna dell’accordo sul clima. L’evento, organizzato dall’ONU, avrà luogo il 22 aprile nel palazzo di vetro di New York. La carta resterà aperta alla ratifica per un anno a partire da allora: non tutti i 196 membri della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che hanno partecipato alla COP 21, infatti, si sono impegnati nel processo di ratifica. Per ora sono 155. Trattandosi di un accordo “in forma solenne”, il patto sul clima richiede un procedimento in tre fasi:

  • la negoziazione, che termina con la firma dei plenipotenziari e implica l’adozione del progetto di trattato (passaggio concluso il 12 dicembre con la COP 21)
  • la ratifica, tramite cui le parti manifestano la volontà di obbligarsi in base al trattato
  • il deposito degli strumenti di ratifica, con cui ogni contraente rende noto agli altri il proprio benestare.

La lista delle Parti che hanno manifestato pubblicamente la volontà di aderire il 22 aprile, dunque, è stata divisa così:

(*) Membri che hanno indicato la loro intenzione di firmare l’accordo di Parigi alla cerimonia. Queste informazioni sono soggette a cambiamenti: la lista definitiva sarà resa pubblica solo dopo l’evento.

(**) Membri che hanno indicato la loro intenzione a siglare l’accordo e depositare i loro strumenti di ratifica alla cerimonia del 22 aprile 2016. Queste informazioni sono soggette a modifiche: per l’elenco definitivo bisognerà attendere la conclusione dell’evento.

Nessun asterisco: è stata ricevuta solo una conferma formale.

Come si nota dall’elenco sottostante, solo pochissimi Paesi – Barbados, Belize, Fiji, Maldive, Nauru e Samoa – hanno intenzione di completare l’iter con la consegna degli strumenti di ratifica già il 22 aprile. L’Unione europea per ora ha dato solo conferma formale, al pari di una manciata di Paesi poveri e della Grecia. L’Italia ha comunicato l’intenzione di ratificare, ma non ha fornito gli strumenti.

  1. Madagascar*
  2. Lussemburgo*
  3. Lituania*
  4. Liechtenstein*
  5. Libia*
  6. Libano*
  7. Lettonia*
  8. Repubblica democratica popolare del Laos*
  9. Kuwait*
  10. Kiribati*
  11. Kenya*
  12. Giappone
  13. Giamaica*
  14. Italia*
  15. Israele*
  16. Iran (Repubblica Islamica)*
  17. Indonesia*
  18. India
  19. Islanda
  20. Ungheria
  21. Honduras*
  22. Haiti*
  23. Guyana*
  24. Guinea
  25. Guatemala*
  26. Grenada*
  27. Grecia
  28. Ghana
  29. Germania*
  30. Georgia*
  31. Gabon*
  32. Francia*
  33. Finlandia*
  34. Fiji**
  35. Unione europea
  36. Estonia
  37. L’Eritrea*
  38. Repubblica Dominicana*
  39. Dominica*
  40. Djibouti
  41. Danimarca*
  42. Repubblica Democratica del Congo*
  43. Repubblica Democratica Popolare di Corea*
  44. Repubblica Ceca*
  45. Cipro*
  46. Cuba*
  47. Croazia*
  48. Costa d’Avorio*
  49. Costa Rica*
  50. Congo*
  51. Colombia*
  52. Cina*
  53. Chile*
  54. Repubblica Centrafricana*
  55. Canada*
  56. Cameroon*
  57. Cambogia*
  58. Cabo Verde*
  59. Burundi*
  60. Burkina Faso*
  61. Bulgaria*
  62. Brunei Darussalam*
  63. Brasile*
  64. Bosnia Erzegovina*
  65. Bolivia (Stato Plurinazionale)
  66. Belize**
  67. Bielorussia*
  68. Barbados**
  69. Bangladesh*
  70. Bahrain
  71. Bahamas*
  72. Austria*
  73. Australia*
  74. Argentina*
  75. Antigua e Barbuda*
  76. Andorra*
  77. Algeria*
  78. Albania*
  79. Afghanistan*
  80. Malaysia*
  81. Maldive**
  82. Mali*
  83. Malta*
  84. Isole Marshall*
  85. Mauritius*
  86. Messico
  87. Micronesia (Stati Federati di)*
  88. Monaco*
  89. Mongolia
  90. Montenegro*
  91. Marocco*
  92. Mozambico
  93. Myanmar*
  94. Namibia*
  95. Nauru**
  96. Nepal
  97. Nuova Zelanda*
  98. Niger*
  99. Norvegia*
  100. Oman*
  101. Pakistan*
  102. Palau*
  103. Panama*
  104. Papua Nuova Guinea*
  105. Paraguay*
  106. Perù*
  107. Filippine*
  108. Polonia*
  109. Portogallo*
  110. Repubblica di Corea
  111. Romania
  112. Ruanda*
  113. Saint Kitts e Nevis*
  114. Santa Lucia**
  115. Saint Vincent e Grenadine*
  116. Samoa**
  117. San Marino*
  118. Sao Tome e Principe
  119. Senegal*
  120. Serbia*
  121. Sierra Leone*
  122. Singapore*
  123. Slovacchia*
  124. Slovenia*
  125. Isole Salomone*
  126. Somalia*
  127. Sud Africa*
  128. Sudan del Sud*
  129. Spagna*
  130. Sri Lanka*
  131. Stato di Palestina*
  132. Sudan*
  133. Suriname
  134. Swaziland*
  135. Svezia*
  136. Svizzera*
  137. Tajikistan
  138. Tailandia
  139. L’ex Repubblica jugoslava di Macedonia*
  140. Timor Est*
  141. Andare*
  142. Tonga*
  143. Tunisia*
  144. tacchino
  145. Tuvalu**
  146. Uganda*
  147. Emirati Arabi Uniti
  148. Regno Unito*
  149. Repubblica Unita di Tanzania*
  150. Stati Uniti d’America*
  151. Uruguay*
  152. Vanuatu*
  153. Venezuela (Repubblica Bolivariana del)*
  154. Viet Nam*
  155. Zimbabwe*

#cop21: luci ed ombre

segnalato da Barbara G.

Clima: un passo verso la sostenibilità dopo 20 anni d’inerzia. Ma non basta – Il commento di Luca Mercalli

Luca Mercalli (*) – rsi.ch, 13/12/2015

Quasi tutti i paesi che hanno partecipato alla XXI Conferenza sul clima delle Nazioni Unite (COP21) a Parigi hanno sottoscritto sabato il testo dell’accordo sul clima che prevede, tra le altre cose, misure concrete per mantenere il surriscaldamento del pianeta al di sotto dei due gradi centigradi: un passo definito enorme dall’amministrazione Obama, un accordo storico secondo il primo ministro francese Manuel Valls. Di seguito vi proponiamo il commento di un esperto: quello del meteorologo e climatologo italiano Luca Mercalli.

Luca Mercalli

L’elemento che più ha caratterizzato i negoziati del clima a partire dalla conferenza del 1992 a Rio de Janeiro, è stato la lentezza. Lenta l’acquisizione di consapevolezza, lente le poche decisioni, lente le loro applicazioni. Oltre vent’anni persi nell’indugio e nei tentennamenti, con la sola parentesi del Protocollo di Kyoto come provvedimento concreto di riduzione delle emissioni, peraltro realizzato solo parzialmente da alcuni Paesi europei e disatteso da gran parte delle economie sviluppate che avrebbero dovuto rispettarlo. Ora, alla ventunesima conferenza, finalmente l’approvazione di un trattato universale, che coinvolge cioè tutti i Paesi del mondo, sia pure con modalità diverse, e che si dà obiettivi ambiziosi di contenimento dell’aumento termico da qui al 2100 anche al di sotto dei 2 °C.

Certo, è stato emozionante ascoltare il discorso commosso di Laurent Fabius e le parole incoraggianti di François Hollande: alle 19,30 di sabato 12 dicembre 2015, non c’è dubbio che sia stata raggiunta un’intesa epocale, mettere d’accordo 187 di 195 governi su un tema tanto cruciale quanto complesso scientificamente, socialmente ed economicamente, è stata – secondo il segretario delle Nazioni Unite Ban-Ki-Moon – l’impresa diplomatica forse più difficile della storia. Sono quindi giustificati i dieci minuti di applausi liberatori alla chiusura della conferenza, peraltro avvenuta con 24 ore di ritardo, dopo due settimane di febbrile attività, di giorno ma soprattutto di notte!

Ma tutto ciò, se certamente rallegra noi umani, in quanto rappresenta una rilevante svolta politica dopo un’inerzia ventennale, è tuttavia una ben modesta acquisizione per le rigide e ineluttabili leggi fisiche che governano l’atmosfera. Leggi con le quali non è possibile negoziare, nemmeno con l’ “Indaba”, il metodo decisionale partecipato della cultura zulu proposto dal Sud Africa per sbloccare le trattative a Parigi.

Vero che ora abbiamo un pezzo di carta condiviso che sancisce l’intenzione di limitare a meno di 2 °C il riscaldamento globale entro il 2100 rispetto all’era preindustriale, ma per il momento le proposte di riduzione delle emissioni messe sul piatto dai vari Paesi non sono ancora sufficienti, e sommate insieme sono più vicine a 3 °C che a 2 °C. Questo è dunque solo un punto di partenza, che ha bisogno di essere consolidato da scelte molto concrete e rapide in termini di uscita dall’uso dei combustibili fossili, efficienza energetica, abbattimento degli sprechi e diffusione delle fonti rinnovabili, salvaguardia dei suoli, stop alla deforestazione, agricoltura sostenibile, contenimento del consumo di carne. Significa anni di lavoro, miliardi di pannelli solari, di auto elettriche, di turbine eoliche, di coraggiose tassazioni delle emissioni, e soprattutto di tanta educazione verso un nuovo percorso di sostenibilità globale compatibile peraltro con le differenze economiche e sociali di 7,3 miliardi di cittadini. Roba da far tremare i polsi, anche perché il tempo tecnico per piegare la curva climatica dai terribili 5 °C in più a fine secolo nel caso non si facesse nulla, ai meno preoccupanti 2 °C oggetto dell’accordo parigino, è poco, drammaticamente poco: una quindicina d’anni. Non scendo qui nei dettagli tecnici della diplomazia e burocrazia climatica discussi alla Cop21, forse qui sono superflui, e comunque sempre perfezionabili in un futuro speriamo molto prossimo.

Concludo questo ragionamento fatto a caldo sull’onda di speranza che giunge da Parigi con una metafora: per un attimo, fino a venerdì sera, leggendo i commenti a volte meschini di certi Paesi emergenti che ostacolavano il successo della conferenza per meri interessi locali, mi è sembrato di vedere l’umanità viaggiare su un aereo a corto di carburante e in procinto di precipitare, dove, invece di concordare tutti insieme un atterraggio di emergenza, si perde tempo a litigare tra chi ha volato in prima classe e chi è rimasto nella stiva. E’ vero che le responsabilità storiche tra chi ha inquinato di più e chi deve ancora godere dei frutti dello sviluppo sono innegabili, ma ora la priorità è non schiantarsi al suolo. Quello che è stato deciso il 12 dicembre 2015 è senza dubbio un atto di saggezza collettiva, che mentre predispone l’inderogabile salvataggio dell’aeromobile, cercherà anche  di offrire a tutti un buon paracadute sotto forma di finanziamenti e trasferimento tecnologico verso i Paesi meno abbienti e piani di adattamento per le conseguenze di quella parte di riscaldamento che non si potrà più evitare.

Come dire che nella planata finale sicuramente ci si farà un po’ male, ma non troppo

DossierCaccia ad un accordo sul clima

 (*) Presidente della Società meteorologica italiana

Il lago Oroumieh in Iran ha perso l’80% della sua superficie negli ultimi decenni

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Cop21, cosa dice l’accordo di Parigi, chi vince, cosa dicono gli ambientalisti

di Martino Mazzonis . left.it, 12/12/2015

La conferenza di Parigi ha raggiunto un accordo sul clima. A dispetto della grancassa che sentiremo nelle prossime ore, è un accordo medio, che non contiene alcune cose fondamentali.  Ma è un passo in avanti e non un passo indietro. Ed è la sanzione planetaria che i governi devono lavorare e preoccuparsi per il cambiamento climatico. E farlo in fretta.

I punti salienti dell’accordo, riassunti nell’infografica di France Press, sono:

  • Mantenere il riscaldamento del pianeta sotto i 2 gradi centigradi e puntare all’1,5 prima del 2100
  • Finanziare la lotta al riscaldamento con 100 miliardi resi interamente disponibili da parte dei paesi ricchi entro il 2025. I Paesi sviluppati devono fornire i mezzi, gli altri sono invitati a farlo.
  • Impegno dei paesi ricchi a continuare a ridurre le loro emissioni e impegno dei meno sviluppati ad avere quello come obbiettivo (una vittoria dei più poveri). Riconoscimento dei pericoli e dei rischi per alcuni Paesi in aree particolarmente fragili del pianeta.

Raggiungimento del picco di emissioni planetario entro il 2050, poi riduzione.

Il risultato è una mezza vittoria dell’Europa e di alcuni Paesi più ricchi e una mezza sconfitta per i Paesi emergenti o petroliferi come Arabia Saudita, Cina, India. Questi volevano obbiettivi meno drastici e in passato erano stati alleati con i Paesi del Sud del mondo più poveri (il G77). Stavolta i più poveri e messi a rischio dal cambiamento climatico hanno preferito (e imposto) ai ricchi come Europa e Canada di mettere più soldi sul tavolo in cambio dell’accettazione di obbiettivi più ambiziosi. Questa alleanza è quella che ha prodotto l’accordo – poi se India e Cina ci stanno vuol dire che il testo è atento ai loro bisogni e che anche quei governi sono preoccupati. Poi c’è la vittoria politica di Hollande e Fabius, ma questa è politica interna francese e non è detto che conti. Anche gli Usa vincono: volevano un accordo chiaro, ma non lo volevano vincolante.

L’accordo di Parigi non ha obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni giuridicamente vincolanti – cosa che gli europei chiedevano e gli Usa no, perché Obama sa che un accordo vincolate non sarà ratificato dal Congresso. Il suo successo nel raggiungere gli obbiettivi dipenderà in larga misura dall’efficacia di un nuovo sistema per controllarei progressi di ciascun paese ed aumentare gli obiettivi ogni cinque anni. Il fatto che l’impegno sia stato preso da quasi tutte le delegazioni presenti è comunque un buon risultato, segno che la pressione della società civile (e della realtà che bussa alla porta dei governi) qualche effetto lo ha avuto.

L’obiettivo di limitare il riscaldamento globale “ben al di sotto” di 2 gradi Celsius, e quello cercato di non superare gli 1,5 gradi, potrebbe essere uno sprone e un’indicazione che la strada da seguire è quella anche per le grandi imprese. Un limite grave è che l’accordo entra in vigore nel 2020, anche se si invitano tutti a iniziare prima. L’accordo raggiunto ad oggi – poi c’è la promessa di rivedere e migliorare ogni cinque anni- non limita il riscaldamento a 2 gradi ma a 3. E, come si sapeva da giorni (lo aveva scritto Raffaele Lupoli qui qualche giorno fa), fuori da ogni impegno preso restano traffico marittimo e aereo. Un pessimo affare e un compito per la società civile planetaria: fare enormi pressioni sull’industria aerea. I paesi si devono comunque sbrigare ad agire, spendere e rendere disponibile le risorse promesse ai più poveri. Senza questo e grandi investimenti in tecnologie che consentano il risparmio energetico, restiamo nei guai. Parigi è un mezzo passo in avanti, probabilmente ne serviranno altri. Un fallimento sarebbe stata una catastrofe.

Qui sotto alcuni tweet di figure importanti del movimento ambientalista mondiale o di organizzazioni ambientaliste. Bicchiere mezzo e mezzo. E una chiamata alle pacifiche armi della pressione su tutti i governi della Terra.

Bill McKibben, 350.org: «L’accordo non salva il pianeta, ma salva la possibilità di salvarlo. Lotteremo fino all’ultimo respiro».

Greenpeace: Parigi mette i combustibili fossili dalla parte sbagliata della storia. Ora lotteremo in milioni per metterli fuori mercato.

https://twitter.com/Greenpeace/status/675752758553759744/photo/1?ref_src=twsrc%5Etfw

Tanseem Essop, della delegazione Wwf a Parigi: Anni di duro lavoro alle spalle e anni duri a venire. Un movimento forte, unito e globale porterà il cambiamento».

La ritirata

Parliamo di riscaldamento globale e scioglimento ghiacci.

HaiVolutoLaBici?

“Riscaldamento globale” e “scioglimento dei ghiacciai”: se ne sente spesso parlare nei tg, ma solo chi si occupa in modo professionale di questi argomenti, o chi frequenta in modo assiduo la montagna, ha la reale percezione del problema. Lo scioglimento dei ghiacciai sarà anche un fenomeno naturale in sé, ma un conto è constatare l’arretramento di un fronte nell’arco dei secoli, un conto è vederlo con i propri occhi, nell’arco di pochi anni o al massimo qualche decennio.

Io ho ben presente com’era il ghiacciaio della Marmolada a fine anni ’80, quanto ho cominciato a frequentare la zona in estate, e ho negli occhi quello che ho visto le ultime volte che me lo sono trovato davanti nella sua (ormai scarsa) interezza. Ai tempi d’oro d’estate veniva qui ad allenarsi quello “sborone” di Alberto Tomba (la sera scorazzava a tutta velocità sulla statale con il suo “macchinino”): poteva sciare solo…

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Una rivoluzione ci salverà

segnalato da Barbara G.

Il documentario che ci prepara alla rivoluzione climatica

Il saggio di Naomi Klein è diventato un documentario emozionante e intenso che vuole porre fine al capitalismo, per il benessere del pianeta.

di Tommaso Perrone – lifegate.it

A inizio 2015, la scrittrice e giornalista canadese Naomi Klein ha pubblicato un libro manifesto sui cambiamenti climatici e il capitalismo. Si chiama Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile (This changes everything, in inglese). La sua tesi è che bisogna cambiare radicalmente il modo in cui la popolazione mondiale vive, produce e gestisce le proprie attività economiche, non c’è altro modo di evitare il peggio per il pianeta. Per mesi, Klein è andata in giro per il mondo a presentare il suo lavoro e dimostrare come il sistema capitalista come noi lo conosciamo non è più sostenibile.

Il 2 dicembre esce nelle sale italiane anche il documentario omonimo diretto da Avi Lewis e prodotto, tra gli altri, da Alfonso Cuarón. Una pellicola che cerca di dimostrare come l’avidità e l’indifferenza del genere umano nei confronti del pianeta non siano più accettabili. Per salvare la Terra e contrastare i cambiamenti climatici bisogna agire ora. C’è bisogno dell’impegno coordinato dei governi che diano senso e seguito ai gesti di ogni cittadino.

*****

Naomi Klein: «Vertice clima Cop21 a Parigi, rischio di patto al ribasso»

«C’è il rischio che il terrorismo danneggi la capacità della società civile di far ascoltare la propria voce: molte protese sono state vietate»

di Maurizio Caprara – corriere.it

«C’è il rischio che il terrorismo danneggi la capacità della società civile di far ascoltare la propria voce, di far sentire la propria pressione sui leader che si riuniranno nella conferenza di Parigi sul clima», afferma Naomi Klein. La saggista canadese autrice di libri con vendite superiori al milione di copie lo dice alCorriere mentre si trova nella capitale della Francia ferita dalle stragi compiute da integralisti islamici, la stessa città che da domenica prossima all’11 dicembre ospiterà l’incontro mondiale chiamato Cop21 che verrà raggiunto all’inizio dei lavori da 147 tra capi di Stato e di governo. Nei giorni della conferenza la donna diventata famosa con il volume No logo parteciperà a una proiezione di This changes everything (Questo cambia tutto), film-documentario che dal 2 dicembre si potrà vedere in 52 cinema italiani. Girato dal marito Avi Lewis, è un viaggio per immagini in varie parti del mondo ispirato dal libro di Naomi Klein che all’estero ha per sottotitolo Il capitalismo contro il clima. In Italia, stampato da Rcs libri, si intitola Una rivoluzione ci salverà – Perché il capitalismo non è sostenibile. Pagine e sequenze hanno in comune, in sostanza, una tesi: la prospettiva delle catastrofi possibili con il surriscaldamento del pianeta può consigliare al mondo di rinunciare alle energie inquinanti, di ricorrere soltanto alle fonti rinnovabili, di ridisegnare il sistema economico prevalente riducendo le disuguaglianze sociali.

Dunque quale impatto prevede che avranno sulla conferenza di Parigi le incursioni sanguinose del 13 novembre?
«Di preciso non sappiamo quali saranno. Però so questo: stanno avendo un effetto sulla capacità della società civile di far ascoltare la propria voce. Molte proteste sono state vietate».

A consentirlo è lo stato d’emergenza dichiarato in Francia. Il governo ha proibito le marce sul cambiamento climatico previste per domenica e il 12 dicembre. Da presidente della conferenza, Laurent Fabius ha sottolineato che tanti incontri pubblici saranno confermati.
«Mi pare dicano che le manifestazioni all’aperto saranno vietate. Si svolgeranno incontri, concerti. Riguardo al summit, le questioni non ancora decise sono molte: se le sue decisioni saranno legalmente vincolanti e a quanto ammonteranno i finanziamenti per i Paesi in via di sviluppo, per esempio, sono punti tuttora oggetto di negoziato. La possibilità di esercitare piena pressione sui leader è diminuita».

Pensa che questo ulteriore danno sia stato già prodotto dagli attentati costati la vita a 130 persone?
«Penso che un danno ci sia già. Temo che se venisse stretto un cattivo accordo i Paesi in via di sviluppo avrebbero meno spazio per criticare l’intesa senza essere visti come traditori della solidarietà alla Francia. Le due questioni invece andrebbero tenute distinte. I nostri leader prendono le loro decisioni migliori quando avvertono una pressione dei movimenti sociali e se è in gioco un accordo forte vengono messi sotto pressione da grandi compagnie con molti soldi».

Quali?
«Le aziende dei combustibili fossili hanno pieno accesso ai politici che saranno alla conferenza. Imprese inquinanti lo sponsorizzano. La società civile, che non ha danaro, è frenata. La voce degli affari no, perché quelli non portano alle piazze: portano ai retrobottega. Il movimento non si arrenderà. Troverà le vie più creative per dire che l’accordo deve essere ambizioso e vincolante».

Ad aprire una delle vie sarà lei?
«Il nostro film diventa ancora più importante perché amplifica voci che potrebbero non essere ascoltate. A Parigi verranno le persone danneggiate da un’economia incurante dei limiti posti dalla natura che parlano nel documentario».

In «This changes everything» lei sostiene: «La Grecia è aperta a ogni possibilità: a causa della crisi è possibile vendere il suolo, dalle miniere d’oro agli impianti di trivellazione e non solo. È lo stesso che sta accadendo in Spagna e Italia». Si riferisce, sull’Italia, a qualcosa in particolare?
«Come in Grecia, da voi c’è stata forte pressione per estrarre petrolio da sotto il mare, raddoppiarne la produzione. È l’esempio più drammatico, penso poi ai tagli a sostegni per le energie rinnovabili. Il calo del prezzo del greggio forse abbassa la pressione, l’obiettivo tuttavia era quello».

Nel documentario lei descrive i dolori sofferti dai greci durante la crisi, ma non accenna alle colpe della classe politica greca che aveva innalzato la spesa pubblica improduttiva. Perché?
«In Grecia a pagare il prezzo più alto della crisi non sono i politici: è la gente comune. Un documentario è fatto di brani brevi che non esauriscono tutto dei temi trattati. Comunque è vero che i sacrifici sono stati chiesti alla gente comune, e questo nel film si fa vedere».

Capitalismo assassino

segnalato da Barbara G.

Evo Morales alla Cop21: «Il capitalismo provocherà la scomparsa della vita sul pianeta»

Rafael Correa: «La crescita economica illimitata è indesiderabile e impossibile»

greenreport.it, 01/12/2015

Il presidente della Bolivia, Evo Morales, è intervenuto alla seduta inaugurale della Conferenza delle parti Unfccc di Parigi con una forte denuncia dei fallimenti dei colloqui sul clima degli ultimi e mettendo nuovamente in guardia sul pericolo per il pianeta rappresentato dall’attuale modello di sviluppo e consumo. «Se continuiamo nel cammino tracciato dal capitalismo, siamo condannati a sparire».

Il presidente socialista della Bolivia ha definito la Conferenza di Parigi «storica e unica», ma ha avvertito che questo «Implica responsabilità verso la vita e la Madre Terra, la quale si avvicina pericolosamente al crepuscolo del suo ciclo vitale».

Secondo Morales, «Il sistema capitalista ha scatenato una forza sviluppista e distruttrice in nome della libertà di mercato, che ha avuto significative conseguenze sul pianeta. Il capitalismo ha convertito tutto in merce a beneficio di pochi. Non avvertire con chiarezza le cause dell’origine del cambiamento climatico, sarebbe un atto di tradimento della vita e della Madre Terra. Siamo presenti qui per esprimere le cause del riscaldamento globale a nome dei movimenti sociali del mondo, per consegnare le conclusioni della conferencia mundial sobre el cambio climático celebrata a Cochabamba, con delegati dei cinque continenti»

Morales ha detto ai delegati della COP21: «Dobbiamo ascoltare i popoli, gli scienziati per salvare la vita. Partecipiamo a questo vertice per esprimere la nostra profonda preoccupazione per i drammatici effetti del cambiamento climatico e consegnare il manifesto che abbiamo chiamato “Salvar la Madre Tierra para salvar la vida”. Chiediamo la cessazione dell’irreversibile distruzione del pianeta e ricordiamo che il capitalismo ha sviluppato una forza travolgente e distruttiva della vita, ispirato dalla produzione di beni di consumo che distruggono la natura, con guerre e conquiste. Non possiamo mantenere il silenzio complice, né parlare di prudenza quando siamo alla soglia della distruzione della vita. Negli ultimi due secoli il capitalismo ha convertito tutto in merce. Oggi osserviamo con angustia che centinaia di popoli e culture sono scomparsi e altri stanno scomparendo e che milioni di persone muoiono come conseguenza della fame e delle malattie e che la storia del mondo è piena di massacri, sangue, orrore e ingiustizie».

Morales ha concluso: «L’individualismo, il consumismo sono una piaga che condanna l’umanità a sparire».

In una conferenza stampa a margine della COP21 Morales ha detto: «Possiamo parlare di un grado, due o meno di un grado e della responsabilità condivisa,  di finanziamenti, di trasferimenti condivisi, però se non aggrediamo le cause del riscaldamento globale nessuno risolverà il problema del cambiamento climatico, nessuno avrà risolto il problema».

Il presidente boliviano ha ricordato che «Con meno di un grado muoiono migliaia di persone nel mondo e non si trova acqua nei pozzi», per questo «Bisogna attaccare alla radice il problema, che riguarda il sistema capitalista dei Paesi esageratamente industrializzati. La causa del riscaldamento globale è il sistema capitalista. Un sistema che ha distrutto un modello economico e che non ha risolto nessun problema».

Alla COP21 è intervenuto, anche come presidente de la Comunidad de Estados Latinoamericanos y del Caribe,  un altro esponente della sinistra sudamericana, il presidente dell’Ecuador Rafael Correa, che ha ricordato che «La crescita economica illimitata è indesiderabile e impossibile. E’ indesiderabile perché gli aumenti del PIL per abitante, a partire da un certo limite, non ha relazione con il sentimento di felicità di un popolo, il che è conosciuto come “paradosso di Easterlin”, definito oltre 30 anni fa. Però, soprattutto, la crescita economica illimitata è impossibile. La tecnologia e l’efficienza ampliano i limiti, però on li eliminano. L’effetto consumo domina l’effetto efficienza. Il consumo de energia è amentato a un tasso medio annuo del 2.5% tra gli anni 1971 e 2012. La domanda non è se possiamo continuare a crescere, ma quando si fermerà la crescitra economica nel mondo: una decisione concertata tra gli abitanti della Terra o la reazione del pianeta che convertirà questo sogno di avidità nel peggiore degli incubi».

Correa ha ripreso il tema delle responsabilità comuni ma differenziate tanto caro al G77 + Cina e ha ricordato che «Un abitante dei paesi ricchi emette 38 volte più CO2 di un abitante dei Paesi poveri. Questo non vuol dire che non ci sono effetti ambientali legati alla povertà come l’erosione dei suoli o la mancanza di trattamento dei rifiuti solidi. Inoltre, la differenza dell’efficienza energetica tra i Paesi ricchi e poveri è abissale e si è incrementata da 4,.2 a 5,1 volte tra il 1971 e il 2011. La scienza e la tecnologia sono  rivali del consumo, di conseguenza, più persone le utilizzino meglio è. Questa è l’idea centrale di quella che in Ecuador abbiamo chiamato l’ecnomia sociale della conoscenza. Al contrario, quando un bene diventa scarso o si distrugge mentre viene consumato, come la natura, è allora che bisogna limitare il suo consumo, per evitare quello che Garret Hardin nel suo celebre articolo del 1968 chiamò “la tragedia dei beni comuni”».

Correa chiede quindi un accordo mondiale che dichiari le tecnologie per la mitigazione del cambiamento climatico “beni pubblici” e che ne garantisca il libero accesso. Chiede invece un accordo vincolante per «evitare il consumo gratuito di beni ambientali. Una risposta è rendere vincolante il  Protocollo di Kioto ed ampliaro per compewnsare le Emissioni nette evitare. Le ENE sono le emissioni che potendo essere realizzate non sono emesse, o le emissioni che, esistendo nell’economia di ogni Paese, vengono ridotte. ENE è il concetto esaustivo richiesto per completare Kioto, perché implica compensazioni per le azioni e le astensioni e ingloba tutte le attività economiche che coinvolgono lo sfruttamento, l’uso e l’approvvigionamento di risorse rinnovabili e non rinnovabili. Questi sono incentivi per evitare flussi di emissioni. Però esiste anche un debito ecologiche deve essere pagato e che, soprattutto, non deve continuare ad aumentare».

il presidente dell’Ecuador ha poi sottolineato che «E’ qui che c’è un’indea fondamentale per qualsiasi dibattito slla sostenibilità e la conservazione nei Paesi poveri: non sarà possibile se non produrrà miglioramenti chiari e diretti nel livello di vita della loro popolazione. Papa Francesco, nella sua recente enciclica Laudato Si, ci ricorda che nei Paesi in via di sviluppo ci sono le più importanti riserve della biosfera  e che con quelle si continua ad alimentare lo sviluppo dei paesi più ricchi».

Per Correa è necessario realizzare la Declaración Universal de los Derechos de la Naturaleza, contenuti nella Costituzione dell’Ecuador e «Il principale diritto universale della natura dovrebbe essere quello che possa continuare a esistere, per essere fonte di vita, però anche perché possa offrire i mezzi necessari perché le nostre società possano raggiungere il buen vivir. Da qui un’altra idea per evitare certi fondamentalismi: l’essere umano non è l’unico importante in natura, però continua ad essere il più importante».

Correa ha concluso sottolineando che «La principale risposta per la lotta contro il cambiamento climatico è, quindi, creare la Corte Internazionale di Giustizia Ambientale, la quale dovrebbe sanzionare gli attentati contro i diritti della natura e stabilire gli obblighi riguardo al debito ecologico e al consumo dei beni ambentali. Niente giustifica il fatto che abbiamo tribunali per proteggere gli investimenti, per obbligare a pagare debiti finanziari, però non per proteggere la natura e obbligare a pagare i debiti ambientali. Si tratta solo della perversa logica di “privatizzare i benefici e socializzare le perdite”, pero il pianeta non la regge più. Le nostre proposte si possono riassumere in una frease magica: Giustizia ambientale, però, come diceva Trasimaco più di duemila anni fa nel suo dialogo con Socrate, “la giustizia è solo la convenienza del più forte”».